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 “RIFLETTERE IL FUTURO"
Quaderno di Analisi, Riflessioni e Strumenti di Azione Aprile 2007

“LA “NUOVA”AMERICA LATINA DEL XXI°SECOLO il governo, la sinistra, la cooperazione”

 

 

INTRODUZIONE
di Andrea Genovali – Presidente Associazione Puntocritico

 

Come associazione Puntocritico abbiamo sempre cercato di approfondire le analisi e lo studio dell’America Latina. Oggi proseguiamo su questa strada (NO di analisi e) approfondimenti dando vita a questo quaderno “Riflettere il Futuro”. Lo facciamo mettendo a confronto idee e punti di vista diversi sui temi politici e sugli (degli) strumenti di azione per interagire, non solo politicamente, con le nuove realtà latinoamericane.  Non è un caso, a nostro avviso, se oggi l’America Latina rappresenta la punta più avanzata di un’idea di cambiamento possibile per la sinistra mondiale di fronte ai tragici risultati del capitalismo e delle politiche neoliberiste. A livello internazionale constatiamo oggi che molti stati cercano di costruire una multipolarità che non vuole più piegarsi al cosiddetto “consenso di Washington” e al dominio unilaterale della super potenza statunitense. La multipolarità che, lentamente, ma concretamente, sta nascendo vede nella Cina, nell’India, nella Russia, nell’Unione africana, nell’Amercia latina… i maggiori protagonisti, con le loro difficoltà e contraddizioni, ma tutti con la consapevolezza che quella è una strada realmente percorribile per assicurare i maggiori vantaggi ai propri popoli, sia in termini economici, che sociali e per assicurare loro una pace vera e duratura.

Dal momento che ogni accadimento non avviene per caso, è importante comprendere come la rinascita del continente latinoamericano si sia potuta verificare. Gli interventi, preziosi, dei nostri interlocutori ci permetteranno di capire come la sinistra italiana si ponga di fronte a questo scenario ricchissimo di potenzialità, sia dal punto di vista politico-ideale, sia dal punto di vista del che fare concretamente per sostenere questi processi e, contemporaneamente, a nostro avviso, essere sostenuti, nella pratica politica e democratica, da quei progetti.

 

Una delle idee di fondo di questo nuovo processo latinoamericano è senza dubbio l’acquisizione dell’idea del governo del paese come strumento, non per la gestione ordinaria, o comunque all’interno delle cosiddette compatibilità di sistema, ma per realizzare le condizioni politiche, economiche e sociali atte a costruire società diverse.

  Non ci sfugge, ovviamente, che le realtà dei paesi latinoamericani sono molto articolate e variegate. Volerle riassumere tutte in un unico schema sarebbe, prima che sbagliato, sciocco. Non si possono paragonare, infatti, il Venezuela con il Cile, il Brasile con la Bolivia, l’Argentina con Cuba o l’Uruguay con l’Ecuador solo per citarne alcuni. I processi in atto sono fra loro diversi, e spesso anche molto distanti, ma in tutti i casi il tentativo, più o meno radicale o più o meno moderato, è di cercare di costruire una società dove i popoli possano recuperare la propria indipendenza e autonomia rispetto alle politiche neoliberiste, militariste e imperialiste degli Stati Uniti, in primo luogo.

 

Un processo in atto, questo, il cui inizio può essere ricondotto alla implosione dell’esperienza del socialismo sovietico e alla caduta del Muro di Berlino. Un fatto di enormi proporzioni che ha permesso ai popoli latinoamericani di dare vita, e sostanza, a nuove energie di cambiamento, non più costrette dentro gli schemi angusti della “guerra fredda”.

Un processo non facile, né indolore, che nacque, appunto, sulle macerie ancora fumanti di quel muro tedesco nel 1990 ad opera del PT di Lula che seppe, insieme a tutta la sinistra latinoamericana, comprendere la gravità del momento e, superando enormi schemi e barriere ideologiche, riunirsi attorno ad un tavolo e dare vita al Foro di S. Paolo dove, dai guerriglieri alla sinistra cattolica di base, furono in grado di parlarsi, ascoltarsi e dialogare per capire, senza nessun senso di superiorità da parte di nessuno, come fare per uscire da questo enorme disastro. Un dialogo che ancor oggi prosegue.

 

Da questo processo e dai vasti e grandi movimenti sociali sorti in questi anni in America latina è emersa, a nostro avviso, la “nuova” America latina. Un superamento, dunque, in positivo per la sinistra latinoamericana di quel disfacimento di valori e di relazioni commerciali che fu la fine del blocco sovietico. Tutto ciò a differenza del destino della sinistra europea che dalla caduta di quel muro non è stata, almeno finora, in grado di riprendere un cammino comune e nella direzione del socialismo.

 

Questo Quaderno, allora, cerca di far ragionare la sinistra italiana non tanto su un ipotetico modello latinoamericano - perché non potranno più esistere modelli validi per tutti e in ogni luogo - , ma su un metodo di lavoro che l’America latina ci propone come strumento di “ri-nascita” anche per la sinistra italiana ed europea.

 

Una riflessione per concludere. Nel 1990 la sola Cuba, in America latina, aveva un governo di sinistra. In soli 17 anni la sinistra, e il centrosinistra latinoamericano sono riusciti a cambiare profondamente il volto di questo continente. Un cambiamento nel quale, pur nelle diverse opzioni spesso inconciliabili, è chiaro quale sia il nemico da battere: il neoliberismo imperialista degli Usa. Oggi sono una decina i governi di sinistra e progressisti nel continente che affondano le radici in quell’esperienza che abbiamo sopra delineato. Ogni paese con la propria storia, con i bisogni del proprio popolo, con i rapporti di forza storicamente dati fra i partiti e le forze sociali, ma tutti con la consapevolezza che è nell’autonomia e nell’idipendenza che si possono costruire futuri di pace e serenità per i proprio popoli.

 

In Europa non esiste niente di paragonabile. Non si riesce a discutere, ad ascoltarsi, a condividere luoghi aperti e inclusivi. In Europa è l’opzione discriminante a prevalere, non l’inclusività. Inoltre, il governo è percepito come gestione dell’attuale e non come tentativo di democratizzazione profonda della società. Ancora una volta, l’America latina ci consegna un metodo di lavoro. Adesso tocca a noi italiani, ed europei, saper essere all’altezza della situazione storica e cercare di dare il nostro contributo al cambiamento sociale  e alla democratizzazione sempre più partecipata delle nostre società.


 

 

 

Contributo Patrizia Sentinelli

Vice Ministro Affari Esteri con delega alla Cooperazione

 

Il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio chiede nuove politiche di cooperazione integrate e partecipative, che sappiano incoraggiare iniziative locali rispettose delle popolazioni e dell’ambiente.

Lo scarto tra i propositi e i risultati raggiunti indica la necessità di un cambio di passo e il delinearsi di politiche di cooperazione che sappiano coniugare migliore qualità degli interventi e maggiori quantità di risorse economiche destinate all’APS come avvenuto nella finanziaria 2007.

 

Occorre coniugare il rafforzamento delle azioni di cooperazione con la definizione di un nuovo assetto multilaterale all’interno di un quadro internazionale più equo e solidale, ma anche con un rinnovato protagonismo dell’iniziativa del nostro Paese capace di proporre nuovi ambiti e settori di intervento.

 

Questa premessa riguarda anche i nostri rapporti con l’America Latina dove, anche nei paesi a medio reddito continuano ad esistere grandi sacche di povertà ma dove nel contempo si registrano una grande vivacità e interessanti esperienze partecipative che fanno guardare con ancor maggiore interesse all’intera area.

 

I legami tra l’Italia e l’America Latina, anche in forza della consistente Comunità italiana, sono particolarmente intensi e, oltre ai tradizionali rapporti economici ed industriali sviluppati nel passato, coinvolgono al momento attuale molte aree che interessano più da vicino la Cooperazione allo sviluppo.

      

I dati della Fao sulla povertà e sul mancato accesso a beni comuni come acqua, terra ed energia che dovrebbero essere garantiti a tutti, evidenziano sia il fallimento delle politiche economiche degli ultimi 20 anni sia delle stesse politiche di aiuto allo sviluppo.

 

 Per questo acquista una grande importanza nell’ambito del nostro Paese, il disegno di legge delega sulla cooperazione che il CdM ha approvato definitivamente lo scorso 5 aprile. Con questa iniziativa si  intende rispondere ai cambiamenti che hanno segnato il mondo, incidendo sul ruolo della cooperazione allo sviluppo, rispetto al 1987 anno di approvazione della legge 49 attualmente in vigore.

Oggi i temi sono diversi e più gravi e il disegno di legge delega punta ad affrontare, con l’obiettivo di scioglierli, quattro nodi: quello di dare una vera unitarietà all’indirizzo politico sulla cooperazione, in capo al ministro degli Esteri, e alla riunificazione dei fondi, oggi dispersi tra diversi ministeri; quello di snellire le procedure e di rendere l’azione pubblica più efficace e incisiva rispetto alle reali necessità con l’istituzione di un’Agenzia pubblica per la cooperazione; la fine della sovrapposizione con le attività commerciali superando il cosiddetto aiuto legato con l’impiego il più possibile di beni e servizi prodotti nei Paesi e nelle aree in cui si realizza la cooperazione; il pieno riconoscimento del ruolo di tutti gli attori della cooperazione, vecchi e nuovi.

 

La grande povertà urbana e rurale, la difesa delle risorse naturali, la carenza di servizi sanitari pubblici e dell’istruzione di base, la lotta al narcotraffico ed un determinato intervento per combattere la violenza sui minori e sulle donne, sono, oggi, le priorità che dovrebbero riguardare l’intervento dell’intera comunità internazionale in America Latina.

 

E’ noto che circa un quarto degli abitanti dell’America Latina vive con meno di due dollari al giorno; il 10% con meno di un dollaro. Malgrado le immense ricchezze naturali, un’aspettativa di vita relativamente alta (71 anni) un basso tasso di analfabetismo e un trend di crescita economica in aumento, nei vari Paesi, permangono sacche di povertà e profonde disuguaglianze tra le varie fasce della popolazione.

 

La popolazione urbana del subcontinente è circa tre quarti del totale, facendo dell’America Latina l’area in via di sviluppo con la minor quota di popolazione rurale e, di conseguenza, con la maggior presenza di povertà urbana.

 

Questo fenomeno di “urbanizzazione” della povertà è da alcuni anni al centro dell’attenzione internazionale (è del 1996 la prima conferenza mondiale sugli insediamenti umani) ed ha portato, nel 1999, alla nascita della “Cities Alliance for Cities Without Slums”, su iniziativa di Banca Mondiale ed Habitat; si tratta di un organismo multilaterale che si propone, in coerenza con gli obiettivi del Millennio, di migliorare entro il 2020 le condizioni di vita di 100 milioni di abitanti delle aree degradate urbane in tutto il mondo.

 

Il fatto che a fronte di dati che segnano una crescita economica non vi sia stato un contestuale miglioramento dei numerosi problemi sociali che affliggono l’America Latina pone la necessità di un cambio radicale dell’attuale “modello di sviluppo”.

 

In questo senso l’Italia guarda con interesse alla nuova stagione politica che ha visto emergere in questi anni in molti Paesi dell’America Latina nuovi rappresentanti eletti che hanno fatto di questa critica un punto fondamentale della loro iniziativa politica.

 

Le iniziative italiane di cooperazione allo sviluppo in America Latina sono ispirate all’esigenza di promuovere un progresso economico, ma soprattutto della condizione sociale della popolazione,  in un area legata al nostro Paese da importanti vincoli etnici e culturali.

 

Gli interventi e i programmi italiani, per un impegno di circa 60 milioni di euro nello scorso anno, sono numerosissimi ed è impossibile citarli tutti; essi riguardano lo sviluppo economico, la lotta alla disoccupazione, il settore sanitario e la protezione delle madri e dei minori, la distribuzione e il trattamento delle acque, la tutela ambientale, lo sviluppo delle risorse umane della piccola imprenditoria, il sostegno al tessuto agroalimentare.

         

Riveste sicuramente importanza il Programma regionale contro il traffico di minori per sfruttamento, in corso anche in Repubblica Dominicana e che ho avuto modo di monitorare anche nel corso del mio ultimo recente viaggio in Centro America, attraverso il quale si è favorita la messa a punto di metodologie intergovernative di contrasto dei fenomeni peggiori di criminalità a danno dei minori. In questo settore, un particolare risalto, viene dato, infatti,  alla collaborazione con le Istituzioni dei Paesi interessati quali gli Istituti per la Protezione del Minore, le Forze di Polizia e i Ministeri degli Interni.

 

Per il futuro, in America Latina verrà dedicata grande importanza alla tutela ambientale, all’accesso all’acqua e all’agricoltura, come abbiamo già iniziato a fare in un recente viaggio in Bolivia dove la nostra cooperazione completerà un’importante diga con lo scopo di fornire acqua potabile e a scopo irriguo nella valle di Cochabamba e dove si sosterranno le coltivazioni di caffè, ma anche con una nuova attenzione ai programmi delle istituzioni bancarie multilaterali con l’obiettivo di favorire e sviluppare programmi di microcredito.

 

Quello sulla formazione e nel settore culturale sono altri interventi fondamentali nelle economie dei PVS poiché il loro obiettivo è l’investimento nel capitale umano, cioè l’insieme delle conoscenze, delle capacità, delle competenze e delle prerogative delle persone, che facilità la creazione del benessere individuale, sociale ed economico.

 

La Cooperazione italiana investe di grande importanza la preservazione del patrimonio culturale, soprattutto se si opera in aree dove è importante rafforzare la consapevolezza del valore che la cultura rappresenta per la conservazione dell’ identità e dello sviluppo dei territori.

 

La protezione e la valorizzazione del patrimonio non è oggi un’operazione di tipo “conservativo” ma uno strumento privilegiato per avviare dei veri e propri meccanismi di autopromozione e protagonismo delle comunità locali. La valorizzazione delle tradizioni e dei saperi locali, si configura, infatti, come una strada privilegiata per migliorare il benessere delle popolazioni dei paesi partners di solito molto attente alla difesa del loro territorio e dei beni comuni: acqua, terra, energia. Non esistono soluzioni magiche per la lotta contro la povertà e i più gravi problemi di tante aree della terra; i conflitti, la corruzione, il mancato accesso alle risorse naturali e all’istruzione, il degrado dell’ambiente sono una pesante zavorra che gettano i Paesi in un circolo vizioso fatto di povertà, fame e miseria. E’compito anche della cooperazione italiana concorrere a spezzare questa spirale negativa attraverso politiche di aiuto mirate e sostenute dalla volontà comune dei Governi e delle istituzioni internazionali, ma soprattutto attraverso processi partecipativi delle popolazioni direttamente coinvolte, fattore questo che può diventare l’aspetto qualificante della nuova cooperazione Italiana.


 

Contributo di Donato Di Santo
Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri, con delega per i paesi dell'America latina e Caraibi

Rivolgo un caro saluto e un augurio di buon lavoro a tutti i relatori, organizzatori e partecipanti all'incontro su "America latina, un continente in movimento”. Mi dispiace non poter essere con voi: l’avrei fatto, come sempre, molto volentieri. Purtroppo il lavoro del governo, come sapete, è stato interrotto e quindi non mi è possibile partecipare in rappresentanza del Ministero degli Affari Esteri. Approfitto, comunque, di questo saluto per svolgere brevi riflessioni che spero possano essere di vostro interesse.

Spesso, in Italia, sulle problematiche che riguardano l'America latina, si riscontra un forte e diffuso interesse in tanti settori della società civile, dei movimenti, degli Enti locali, del mondo della cultura, dell'Università. Molto meno, e negli ultimi anni in modo particolare, da parte delle istituzioni nazionali e del governo.

E' partendo da questa constatazione che va considerata e valutata la decisione del governo italiano presieduto da Romano Prodi di riattivare l'attenzione, le attività, i rapporti con l'America latina e i Caraibi. La mia nomina, nove mesi fa, a Sottosegretario per gli Affari Esteri discende da questa decisione e non da criteri o equilibri "politici". Nei limiti delle mie possibilità e capacità ho cercato di corrispondere appieno a questo "mandato".

In questi primi mesi abbiamo già svolto missioni politiche in quindici paesi latinoamericani e caraibici. Nel luglio scorso, il primo paese (primo non casualmente ma per decisione politica) è stata la Bolivia, dove ho avuto l'onore di essere ricevuto dal Presidente Morales e dove, pochi giorni fa, si è recata la Viceministra Patrizia Sentinelli con l'obiettivo di sviluppare ulteriormente la nostra cooperazione bilaterale.

Abbiamo riattivato rapporti e progetti fermi da anni, lanciando nuove iniziative politiche, istituzionali, economiche e di cooperazione, cercando di essere al passo con i tempi e con i cambiamenti in corso, e di cui voi discuterete oggi. Ci stavamo preparando perché l'Italia fosse protagonista attiva e propositiva nel Vertice Unione europea-America latina e Caraibi, che si terrà il prossimo anno a Lima. Ci stavamo attrezzando affinché la cooperazione decentrata, quella degli enti locali, del terzo settore, della società civile, fermo restando la piena e totale autonomia di questi soggetti, potesse vedere nel governo un punto di riferimento positivo, non un "grande assente" come è stato per troppo tempo. Proprio per questo, pochi mesi fa, abbiamo deciso di partecipare direttamente alle attività in Brasile (riguardanti centinaia di progetti di cooperazione decentrata e, si potrebbe dire, popolare) di una delegazione di molti Comuni e Provincie, e di sei importanti Regioni italiane, guidata da Mercedes Bresso, Presidente del Piemonte. E' stata una decisione molto apprezzata e che ha dato subito un primo risultato: dopo meno di due mesi da quella visita si è tenuta a Roma la prima Commissione economica mista Italia-Brasile, prevista da un accordo bilaterale di dieci (!) anni fa e mai realizzata. nSappiamo bene che, nel contesto del mondo globalizzato, a livello bilaterale molte cose non si possono risolvere e quindi ci stiamo sforzando affinché la nostra presenza -di paese fondatore- nell'Unione europea, inizi anche ad essere sinonimo di nuova attenzione alle problematiche commerciali e agricole espresse dai paesi e dalle organizzazioni regionali (Mercosud, Comunità andina, Centroamerica, Caraibi, oltre che da Cile e Messico) dell'America latina. Di questo stavamo discutendo con moltissimi dei paesi dell'area, favorendo un processo che offra - e non sarà facile - anche una sponda europea ai loro legittimi programmi di integrazione. Di questo hanno approfonditamente discusso il Ministro degli esteri D'Alema con i Presidenti Lula e Michelle Bachelet, nei recenti incontri che abbiamo svolto nelle due capitali di Cile e Brasile.

Sul piano più strettamente politico, tra le tante cose che si potrebbero ricordare, vi segnalo la forte ripresa di attenzione dell'Italia, non solo del  Governo ma anche di tante espressioni della nostra società civile, verso la situazione colombiana e gli sforzi per favorire un rilancio dei negoziati di pace, a partire da un sostegno al difficilissimo lavoro in atto per uno scambio umanitario con le FARC, e da una attiva opera di facilitatori nel dialogo governo-ELN (a questo proposito ricordo che, per la prima volta, lo scorso novembre l'Italia è stata invitata – e ha partecipato - agli incontri in corso a L'Avana).

Va ricordata la vicenda del voto per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite: il nostro è stato l'unico paese europeo a non aver votato contro il Venezuela, favorendo una soluzione che fosse decisa dai latinoamericani e non spaccasse l'America latina.

E va segnalato che uno dei miei primi atti, pochi giorni dopo la nomina, fu la richiesta formale al nostro Ministero della Giustizia, di aprire un fascicolo riguardante il caso Di Celmo, il giovane italiano ucciso in un attentato terroristico a Cuba. Non va dimenticato, inoltre, che se esiste una "Italia in America latina" (e finalmente è rappresentata ufficialmente anche nel Parlamento nazionale), esiste sempre più una "America latina in Italia", e sono le centinaia di migliaia di immigrati che lavorano nelle nostre fabbriche, nelle nostre campagne e, soprattutto, nelle nostre case. Dobbiamo uscire dalla logica di vedere questo fenomeno solo da un punto di vista di ordine pubblico o di assistenza sociale e valutarlo per quello che è: una grande opportunità, una storica opportunità, per sviluppare la conoscenza reciproca e per favorire il progresso nei loro paesi di origine. Su queste cose stavamo dialogando con le stesse associazioni degli immigrati e con molti dei governi latinoamericani. Per ultimo, poche settimane fa, con il nuovo governo dell'Ecuador, dove mi sono recato per l'insediamento del Presidente Rafael Correa. Abbiamo avviato un lavoro che avrebbe dovuto portare alla formalizzazione di un accordo tra i due paesi.

 

Infine, se il governo non fosse dimissionario, avrei invitato tutti i presenti  a collaborare alla preparazione della III Conferenza Nazionale italiana sull’America Latina, il cui percorso avremmo avviato nelle prossime settimane e che si sarebbe concluso a Roma, a metà ottobre.

Molte altre cose potrei aggiungere ma non voglio tediarvi. Vi auguro nuovamente un buon lavoro in questa giornata di dibattito e spero di poter condividere, in un prossimo futuro, una occasione analoga con voi.

* MESSAGGIO ALL’INCONTRO SU “AMERICA LATINA, CONTINENTE IN MOVIMENTO”* Padova febbraio 2007 organizzato da Puntocritico e altre associazioni


Contributo di on. Iacopo Venier,
resp. Esteri PdCI; Segr. Comm. Esteri Camera deputati

 

La sinistra latinoamericana è una sinistra viva, capace di interpretare le aspirazioni profonde dei lavoratori e più in generale dei popoli di quel continente.


E’ una sinistra all’offensiva capace di lottare e spesso vincere nei propri paesi.
Ma soprattutto è una sinistra che non si ferma alle sue piattaforme nazionali ma si sta dando gli strumenti per agire a livello mondiale con l’ambizione di modificare le dinamiche globali ed il corso stesso della storia.

Per noi che da tempo abbiamo abbandonato ogni idea eurocentrica tutto ciò non è una sorpresa.
Altri invece purtroppo insistono con intollerabili atteggiamenti paternalistici o peggio praticano addirittura metodi di pesante intromissione nelle dinamiche della sinistra latino americana.
Si tratta di fatti gravissimi messi in atto da forze che farebbero bene, per il loro stesso futuro, ad accettare l’idea che alle volte si deve anche ascoltare; che bisogna rispettare chi ha fatto e fa più di te; che alle volte bisogna anche imparare da chi ha quella forza politica e morale che tu hai abbandonato. Non è il nostro caso ovviamente.

L’America che ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa neo liberismo, globalizzazione finanziaria, che conosce bene le politiche di aggiustamento strutturale, del debito, del FMI e della Banca mondiale.
E’ l’America che contrasta l’ALCA e che deve rispondere ai colpi di stato, alle minacce militari, alle interferenze politiche ed economiche messe in capo dagli USA.


E’ però anche l’America che può impedire proprio agli USA di continuare quell’enorme appropriazione di risorse nel cortile di casa che è fondamentale per la strategia Bush di dominio globale.  
Le parole chimera della destra mondiale sono flessibilità e innovazione. A queste parole la sinistra dell’America Latina risponde con la coppia resistenza e progetto. Questa coppia è la coppia fondamentale attorno a cui si può articolare la sola politica possibile a sinistra in questa fase caratterizzata dalla più importante offensiva violenta e globale da destra dall’inizio del secolo scorso. In America latina la coppia resistenza e progetto significa che tutti, proprio tutti, hanno insieme individuato l’avversario principale da battere. La resistenza agli USA ed al loro progetto di appropriazione del Continente è il cemento che tiene insieme le forze più diverse, è il cardine di una strategia che man mano è divenuta vittoriosa. Questa base comune, questa analisi condivisa è ciò che manca alla sinistra europea è ciò che le impedisce di avere una strategia comune, una unità non tattica.


La resistenza in America Latina ha inoltre una base teorica ed una storia. Il pensiero di Josè Martì e di Simon Bolivar, le lotte per l’indipendenza e poi contro le nuove oppressioni, il cammino tragico attraverso l’epoca delle dittature, le straordinarie vittorie rivoluzionarie, come le attuali altrettanto straordinarie vittorie politiche ed elettorali trovano una loro coerenza e nessuno si abbandona in revisionismi sciocchi in abiure autolesioniste come capita qui da noi.  La storia della sinistra, la storia dei comunisti, è colma di pagine eroiche ma anche di errori e tragedie ma ciò non significa che questa non sia la storia della più straordinaria impresa di emancipazione umana. Di questa storia tutti noi siamo indegnamente eredi ed al contempo se non vogliamo perderci ci è chiaro che in questa storia, in questo bagaglio prezioso e pesante, si trovano le mappe per proseguire il nostro cammino. 


Il tema della resistenza si innesta con il tema della sovranità e cioè con l’idea che siano i popoli a dover decidere del proprio destino a dover darsi le forme del proprio modello di sviluppo. E non è quindi un paradosso che gli scritti di Gramsci sul tema siano oggi motivo di studio proprio in America Latina mentre Cuba resta il paradigma politico di tutto ciò poiché la sua sola esistenza dimostra ogni giorno che un altro sviluppo è possibile, che altre priorità sono possibili, che altre politiche sono praticabili.
La sovranità non è però pensata più solo a livello nazionale. Per rispondere alla sfida dell’ALCA l’altra America sta facendo crescere forme di integrazione regionale fondamentali basti pensare alla proposta di Lula di dare natura politica al Mercosur. Anche qui si ritrova la lezione dei grandi teorici dell’indipendentismo latinoamericano che avevano sempre pensato alla unità del sub continente. Noi in Europa invece, lasciamo che sia il killer dell’Europa Berlusconi a ricordare Spinelli, e ci dividiamo anche a sinistra sulla necessità di difendere ed allargare quel poco di unità politica che abbiamo acquisito.

La sinistra latinoamericana inoltre non si chiude nelle proprie piccole famiglie. Ha un luogo, il Foro di San Paolo, che è divenuto il crogiuolo dove si sta fondendo una nuova identità politica comune. Mentre in Europa c’è chi impedisce addirittura ai parlamentari della sinistra di riunirsi insieme in occasione dei Fori Sociali, ed tra le forze della sinistra di trasformazione assistiamo a divisioni vere e unificazioni forzate senza una reale base politica in quel continente un metodo nuovo ha consentito al Foro di far interagire tutte le forze politiche della sinistra : dall’internazionale socialista, a Cuba, dalle forze guerrigliere, alla nuova sinistra.


La sinistra latinoamericana non confonde i piani e per questo ha una relazione fortissima e seria con i movimenti. Il Foro di San Paolo è un foro di partiti e nessuno si sognerebbe di dire che l’analisi la fanno i movimenti e che serve una prassi senza teoria. I Partiti si assumono tutta la loro responsabilità ma ciò non è in contraddizione con il pieno sostegno anche allo sviluppo dei movimenti.


La sinistra latino americana è una sinistra di trasformazione. E’ cioè una sinistra che accetta la sfida del governo, che organizza attorno a sé alleanze politiche e sociali, che quando vince cambia sul serio lo stato di cose presenti. Cambiare le cose significa per esempio sperimentare nuove forme di partecipazione e democrazia come sta avvenendo in Venezuela, in Bolivia, in Ecuador, in Brasile solo per fare pochi esempi, chiedersi con chi si è davvero in debito come fanno gli argentini e decidere poi di non pagare più gli strozzini del Nord, significa sviluppare nuovi software per rompere il monopolio mondiale come si propone di fare Cuba.


La sinistra latino americana infine ha una strategia mondiale. L’esplodere dello scambio SUD-SUD, ad es. tra Brasile e Cina ma non solo, oppure solo per ricordare un altro esempio, la posizione che i paesi latinoamericani hanno tenuto sulla guerra in Iraq sono fatti enormi che rendono il continente protagonista globale. Per questo, noi che ci battiamo per il multilateralismo, perché pensiamo che l’Europa può essere attore di Pace se saprà cambiare le ragioni di scambio globale.

 
Detto tutto questo solo alcune parole su di noi, su questa sinistra europea ed italiana che si sente tanto forte da dare lezione agli altri ma non è in grado di cambiare se stessa se non per perdersi in unificazioni senza identità ed in mutazioni senza storia.


Questa nostra sinistra deve divenire meno provinciale e forse usare con più parsimonia la parola globalizzazione per avere più tempo per guardare davvero cosa si muove nel mondo.
Noi, pur piccoli, vogliamo provarci.

 


 

Proposte e profili per una nuova stagione italo-americana

di Francesca D’Ulisse – resp. America Latina D.S.

 

Definire importanti le relazione tra l’Italia e l’America latina, e più in generale tra l’Europa e l’America latina, è ormai un dato acquisito. Definirle naturale e necessarie, come da tempo credono i Democratici di Sinistra, testimonia di un profilo che presuppone nuovi e più articolati strumenti di analisi e una reale e concreta volontà politica di rendere quelle relazioni, appunto, strategiche per il futuro del nostro paese. Se è vero che l’America latina guarda all’Europa e, all’interno del continente, a quei paesi che per storia, tradizioni, demografia e cultura sono più simili (Spagna, Portogallo ed Italia tra tutti) è altrettanto evidente che, già nei suoi primi mesi, il Governo di Romano Prodi ha guardato ai diversi paesi del continente in modo diverso dal passato, restituendo loro il posto che meritano: essere, al pari di altri, uno degli assi naturalmente strategici della nostra politica estera.

 

Un “continente in movimento”, quello latinoamericano, dove trasformazioni, cambiamenti e sperimentazioni sono le cifre di una classe dirigente e di una società civile che guarda al futuro, nonostante tutto, con una straordinaria fiducia. L’America latina sente di essere in credito con la globalizzazione e ritiene, a ragione, di poter avere un ruolo da protagonista nel nuovo secolo. Queste sensazioni sono accompagnata dalla consapevolezza di stare vivendo una congiuntura politica ed economica, interna ed internazionale, straordinaria e forse irripetibile e di non voler sprecare, come spesso è successo, questa occasione storica.

 

In una situazione di questo tipo, il ruolo che spetta ai partiti dell’Unione è quello di accompagnare e dare linfa all’azione dell’esecutivo intensificando la conoscenza, le relazioni, le collaborazioni e l’intercambio con i partiti politici, i sindacati ed i movimenti sociali latinoamericani. In altri termini, favorire il dialogo con le “sinistre latinoamericane”, tante quanti sono i paesi del continente ed anche di più, superando, per ciò stesso, la distinzione tra sinistra radicale e sinistra riformista che sa tanto di politica di casa nostra.

 

Queste nuove forze politiche, in molti casi ormai mature forze di governo uscite da elezioni democratiche, si misurano quotidianamente con le contraddizioni della globalizzazione neoliberista, sono animate dai principi della giustizia sociale e del progresso, sono consapevoli che l’11 settembre ha determinato la necessità di creare un nuovo sistema di relazioni internazionali, fondato sul rispetto e sulla pace, e che questo sistema non sia gestibile in modo unilaterale ma attraverso organismi internazionali sovranazionali.

 

Se valgono queste considerazioni, non è difficile tracciare i temi sui quali tessere relazioni e incrementare proficue collaborazioni. Crediamo fortemente che non esista tema dell’agenda politica internazionale in cui l’America latina non sia in grado di avere un ruolo strategico. Pensiamo, tra i tanti esempi possibili, al tema energetico. Se noto che l’America latina è un enorme giacimento di materie prime e di combustibili, quel che forse non è altrettanto conosciuto è che la ricerca di fonti alternative e rinnovabili di energia, che siano in grado di coniugare sviluppo economico e sostenibilità ambientale, è ormai una eccellenza di alcuni paesi del continente. Se teniamo in considerazione, invece, la ricerca di una migliore e più equa gestione delle stesse risorse naturali, crediamo che questa vada valutata non tanto come il tratto distintivo di una nuova politica economica latinoamericana ma come il segnale di mutati rapporti di forza e di rinnovate consapevolezze nell’ambito delle relazioni tra paesi.

 

“La democrazia energetica” del continente latinoamericano è il frutto di questa nuova coscienza di poter ridefinire i termini di un sistema fondato sull’esclusione sociale per trasformarlo in una rete continentale di inclusione sociale. Su questo stesso fronte, pensiamo all’enorme rivoluzione dei diritti conquistati con la pratica politica (e non con la violenza) dalla maggioranza indigena di alcuni paesi del continente e a come una sperimentazione di integrazione e di inclusione sociale (a volte riconoscimento della stessa esistenza in vita) possa costituire un modello da seguire in un pianeta sempre più multiculturale e multirazziale e dove a breve il meticciato sarà la cifra di tanti paesi del pianeta. Ancora, pensiamo alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di stato sociale che garantiscano, insieme ai noti tassi di crescita del continente, una più equa distribuzione e che cancellino, ora e per sempre, il triste primato di continente più disuguale del pianeta, modelli sui quali i governi di centro-sinistra latinoamericani stanno ipotecando il loro futuro e quello dei loro popoli.

 

La circostanze elencate, unite ad un atteggiamento di curiosità e di rispetto, sono una occasione straordinaria che sarebbe inopportuno far passare invano o posticipare. Quel che il recente viaggio del Presidente Bush in America latina ha palesato non è tanto una scontata e prevedibile insofferenza nei confronti del governo nordamericano, sfociata in episodi di teppismo che vanno sempre condannati, quanto piuttosto il fatto che non si cancellano 6 anni di indifferenza con 8 giorni di tour in cinque paesi, che non si va in America latina per sfidare Hugo Chavez ma per comprendere il perché un ex parà sia diventato l’icona di alcune delle sinistre a cui abbiamo fatto riferimento, che non si può praticare una politica di “muro” contro gli immigrati ed invocare la fratellanza panamericana “dall’Alaska alla terra del fuoco” dei beni e dei servizi. Orfana degli Stati Uniti, con un rinnovato orgoglio e una nuova consapevolezza, l’America latina è alla ricerca di alleati. Su più fronti e con “geometrie variabili”. Relazioni economiche con l’Estremo oriente, Cina innanzitutto. Asse sud-sud con l’Africa. Collaborazione globale, a 360 gradi speriamo, con l’Europa.

 

Geometrie variabili che si riflettono anche nei processi di integrazione regionale, soprattutto se pensiamo all’America del sud. Sta in questa abile ed alchimistica ricerca di un equilibrio tra i diversi paesi, già integrati in blocchi sub-regionali, e di superamento delle asimmetrie esistenti che si trova la chiave per la creazione di un blocco regionale forte ed integrato che sia capace sempre più di parlare con una sola voce nell’ambito delle diverse organizzazioni internazionali. In altri termini, siamo di fronte non soltanto ad un felice compromesso tra i differenti modelli di integrazione sub-regionale esistenti quanto piuttosto alla ricerca di una risposta nuova alla crisi del sistema globalizzato neoliberista.

Geometrie variabili e convergenze sui grandi temi che riguardano il futuro del pianeta: è a questa “nuova America latina” che come partito dell’Unione guardiamo e con cui auspicano di tessere intese sempre più fraterne, in un sistema di relazioni che, durante gli anni, abbiamo sempre provato a tener vivo, proficuo e stimolante.


La Cooperazione – fra Società –come strumento di diplomazia attiva fra i Popoli
di Stefano Fedeli – resp Cooperazione Internazionale PdCI

 

Per chiarire il concetto di Cooperazione fra Società parto da due  punti  importanti: il primo contributo allo sviluppo di un nuovo equilibrio mondiale che permetta di raggiungere la pace, la libertà, la giustizia sociale e  fra i cittadini del mondo.
l’altro l’educazione interculturale alla cooperazione allo sviluppo  quale ambito di elaborazione al cui interno sono incluse l’educazione alla pace, i diritti umani e la solidarietà.

Le due questioni le collochiamo all’interno della convinzione  che la cooperazione fra Società ( intese come complessità sociale-culturale-economica-produttiva ) costituisca una vera e propria diplomazia attiva e dei popoli; anch’essa intesa nella sua complessità, da contrapporre all’attuale sistema relazioni fra Stati, sostanzialmente unipolare. Nei due punti sono di fatto racchiusi principi forti e qualificanti di una strategia diversa di Stare al mondo e di concepire le relazioni fra chi lo abita e lo vive.

Parto dalla concezione di una cooperazione, caratterizzata da una progettualità condivisa e dall’agire con e non per, in una relazione di assoluta reciprocità !

E’ particolarmente significativo far riferimento  all’America latina ( AL ), poiché  è in questo continente che si stanno sperimentando  esperienze  di governo finalmente diverse e  fuori dall’ombra incombente  degli USA E’ qui che la cosi detta Società civile, è riuscita, più che in altri posti a pensare prima ed a costruire poi un percorso di analisi e pratiche sociali e politiche che hanno determinato l’affermarsi di coalizioni progressiste che stanno  dando una vera ed originale identità a tanti paesi. Dove, in passato, si è sperimentata l’applicazione spregiudicata del modello di “ sviluppo “ dominante: su tutti la recente catastrofe Argentina.

L’AL perché i suoi popoli, dopo secoli  di sfruttamento selvaggio, realizzato da dittature feroci asservite ai  diversi poteri economici e politici dell’onnipotente vicino del nord – gli USA – oggi rialzano la testa. Le forze progressiste di tutti i paesi, a partire in particolare dal 1990 ( anno del primo incontro del Foro di Sao Paolo convocato dal PT del Presidente Lula ) sono riuscite, quasi totalmente, a riunirsi intorno ad una idea di un progetto continentale.

Un grande attivo  laboratorio dove pensare e costruire i processi di progresso.

Ne ometto la lista completa ma mi preme sottolineare  che senza un punto di riferimento costante com’è stata Cuba, nel corso degli ultimi decenni, forse sarebbe stata un’altra storia. L’aver resistito nel mantenere vivo il “sogno della diversità “ come Cuba è riuscita a fare ha , probabilmente aiutato in tutti i sensi questo processo.  Se lo confrontiamo con quanto accade in Europa  è molto e molto rilavante al punto tale che immaginare oggi di costruire un simile processo nel nostro amato vecchio continente è impresa complicata ancorchè assolutamente necessaria! Noi europei dobbiamo certo guardare anche ad occidente, a tutti i popoli, ma prima di tutto, dobbiamo ascoltare e, soprattutto dobbiamo comprendere. I governi  progressisti latino americani  hanno tutti una propria specifica caratteristica. Non è ne utile ne possibile ricondurli ad un unica identità politica: diverse sono le condizioni ed i rapporti di forza che li hanno generati. Sino ad arrivare all’interessante e complesso progetto del Presidente Morales in Bolivia, caratterizzato anche dalla sua fondante e complessa identità indigena. Ciò che interessa e conta è il metodo che hanno usato, non tanto e non solo il segno politico che hanno assunto.

Questo processo di trasformazione in atto è tanto più rilevante se si considera che si sta svolgendo in una contingenza geopolitica particolarmente complessa e delicata. Da un lato gli USA ed il loro sistema di alleanze, che stanno incassando le perdite politiche e militari di scelte fondate esclusivamente sull’uso della forza. Dall’altro il resto del mondo, che sembra in grado di uscire da schemi puramente ideologici proponendo sistemi politici, economici e sociali possibili ed in fase di consolidamento. Sarebbe un grave errore considerare le trasformazioni in atto, pur con tante luci ed ombre, un fatto meramente contingente. Come sarebbe un grave errore non impegnarsi a capirle ed a capire  come potranno influire sul riassetto che dovrà necessariamente rideterminarsi nelle varie aree di conflitto o di crisi. Non va sottovalutato, infine, che sono anche il frutto di una spinta dal basso da parte dei vari segmenti delle società locali, impegnate per lungo tempo in un’attività di analisi e pratiche sociali e politiche intense e difficili Ciò che conta è come il processo si è costruito,  e come si è  affermato.

Non è questo il luogo per elencare i ritardi, le contraddizioni, i limiti della costruzione dell’Europa della giustizia, dell’equità e, soprattutto della Pace. Per ricordare quanto sia ancora politicamente fragile e ancora non  in grado di distinguere la fedeltà dei popoli europei alla democrazia con il diritto/dovere di costruire un sistema in grado di essere parte attiva ed efficace nella costruzione di un mondo multipolare che possa modificare  prima e contrastare poi gli effetti delle politiche neoliberiste e neoimperialiste. Il nostro Paese, nella sua complessità sociale-economica e nella sua articolata sensibilità politica, deve mantenere alta l’attenzione e la curiosità verso quanto accade dall’altra parte dell’Oceano.Con l’AL dobbiamo, in un rapporto di assoluta reciprocità, ridefinire, attualizzandole, le priorità della nostra politica adeguando gli strumenti di Cooperazione ( lavoro condiviso ) per poter contribuire al rafforzamento dei processi di trasformazione.  Non è certo questo il momento di ridimensionare la nostra presenza, ma invece lo è per rilanciarla. Certo con obbiettivi  quantità e qualità di risorse complessive più mirate verso le attuali necessità delle Comunità locali. Risorse che devono essere individuate nella ricchezza di esperienze delle nostre complesse Comunità locali, intese come sistemi di sviluppo  in grado di interagire concretamente con gli altri contesti simili. C’è una larghissima parte della società italiana che desidera, vuole e può essere parte attiva del rafforzamento dei processi di trasformazione in atto. Che  vuole e può essere utile a costruire  pace, sviluppo sociale-economico-umano-ambientale sostenibile. Non un’altra lettura (  diciamo così riformista , peraltro, a mio parere, impossibile  del modello di sviluppo dominante )  ma per altro progetto! Certo è che la scarsità delle nostre risorse economiche incide in maniera rilevante; ma sappiamo anche che gli stanziamenti dipendono dal valore delle priorità stabilite

 

La Cooperazione allo sviluppo, sia quella Italiana che europea, negli ultimi 10 anni almeno, si barcamena con estrema difficoltà fra due grandi questioni -  Sviluppo ed Emergenza -  fra loro antagoniste ma che si collocano all’interno dello stesso contesto di  relazioni fra i popoli e fra i paesi nei quali vivono. Mi limiterò a richiamare l’attenzione sul fatto che le recenti grandi  “ emergenze “ sono in gran parte, conseguenza di politiche precise poste in essere dai poteri dominanti il mondo in qui viviamo: su tutti gli interventi militari devastanti in Medio Oriente. Sorvolando per mere ragioni di tempo e spazio sulle emergenze naturali in gran parte conseguenza dello sfruttamento bieco dell’ambiente e delle risorse naturali.

 

Nell’area mediorientale c’è stato un tempo lunghissimo di pace e prosperità;  esistevano forme di economia e convivenza che consentivano un rapporto possibile fra esseri umani ed ambiente nel quale vivevano e si sviluppavano. Oggi siamo consapevoli, che in generale le enormi ricchezze usate e gestite da pochi hanno determinato e continuano a determinare squilibri, sociali-politici, economici maggiori: fra i poveri, sempre più numerosi e più poveri  ed, i ricchi sempre di meno e sempre più ricchi. L’emergenza, nei tempi moderni, è sempre più determinata da decisioni ed azioni di politica più in generale, ovvero da un’idea di sviluppo centrata sulle esigenze di chi detiene il potere politico ed economico dominante !

Si sottovaluta quanto, nella cultura dominante, emergenza corrisponda a sviluppo sino al punto di investire in essa una quantità di risorse economiche, sottratte allo sviluppo, che sono cresciute esponenzialmente nel corso degli ultimi anni. Da aggiungere anche che le missioni militari, “ umanitarie e non “, vengono finanziate, in prevalenza, con fondi sottratti alla cooperazione allo sviluppo.

Ne deriva che le organizzazioni nazionali ed internazionali deputate alla regolazione delle relazioni fra Società siano depotenziate o impegnate esclusivamente a tentare di dirimere controversie e gestire crisi. Peraltro con scarsi poteri e, forse poca credibilità.

Mi riferisco agli organismi non governativi, le ONG, in parte riconvertiti in strumenti di interventi umanitari  post-crisi ( ricostruzione ecc )  e l’ONU prigioniera dei veti dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. 

 

Appartengo, per scelta, alla cultura della Società che non governa, ovvero quella che spesso viene definita, semplicisticamente,  Società civile.

A quel mondo che non vincola il proprio pensare, progettare ed agire all’esercizio del “ governo della cosa pubblica “ .Quella società, assolutamente maggioritaria, che lega il proprio sentire, pensare, progettare ed agire alle esigenze ed ai bisogni concreti.

 

La solidarietà attiva, basata su principio di reciprocità, che spesso corrisponde a vere e proprie pratiche di autogoverno delle Comunità locali! Solidarietà, dunque: ovvero quella spinta/sentimento che ci rende  sensibili ai problemi di “ coloro che meno hanno “.

Nelle politiche attuali ciò si traduce nel dover tentare di farsi parzialmente e marginalmente carico di  quanti vivono e manifestano una condizione più drammatica della nostra .

 

Ma il punto, per cosi dire di analisi ineludibile, sono le cause e non gli effetti !

Essere solidali nel contrastare e combattere le cause  degli squilibri vuol dire condividere l’analisi e  cooperare a sviluppare una  progettualità che ci consenta di stabilire una conseguenza logica fra cause, effetti  ed azioni.Solidarietà attiva, progettuale, concreta e costruttiva !Invece  la Cooperazione fra i Popoli è intesa sempre e solo come qualcosa di più e di diverso da affrontare, peggio, risolvere con le elemosine. Quando non la si considera un pozzo senza fondo;non come opportunità di confronto prima e di azione poi fra soggetti diversi ma che vivono problematiche simili. Il senso e l’urgenza della necessità assoluta oggi più di ieri, di Cooperare nel rispetto mutuo, del condividere a tutti i livelli le riflessioni, le analisi, e l’agire partendo prima di tutto dalla reciproca conoscenza  risiedono in queste brevi considerazioni.Convinti che la globalizzazione dell’economia sta producendo, progressivamente, la globalizzazione dei bisogni connessi alla globalizzazione degli effetti.

 

E’ attraverso il confronto delle dinamiche di sviluppo delle esperienze acquisite di governo di Comunità complesse che si può riuscire e proporre modelli possibili ed equilibrati; favorire quell’interculturalità indispensabile a perfezionare le nostre azioni anche adeguandole a contesti diversi.Preferisco sottolineare l’importanza del Decentramento della Cooperazione piuttosto che parlare di Cooperazione decentrata.  Qui passa il concetto che NON  decide il Governo centrale per tutti e poi decentra ,quanto invece quello che i territori e le Comunità locali siano non solo agenti ma soprattutto protagonisti, nei sistemi di relazione che sono capaci di costruire con altre Comunità, fisicamente lontane ma terribilmente vicine in quanto a bisogni.Le Comunità locali e gli Enti locali, che a partire dalle loro specificità e vocazioni economiche e culturali cercano e costruiscono, anche attraverso le ONG, rapporti attivi  con Comunità di altri continenti dove impiegare, come contributo  le loro sensibilità, le loro esperienze e loro risorse.  Favorendo l’impiego, coordinandole,   dell’insieme delle risorse del proprio territorio che nella quotidianità ne assicurano il funzionamento.

La cooperazione fra i popoli,  può e deve essere uno strumento decisivo di azione comune per la pace, contro la guerra ed il terrorismo; per la democrazia, contro l’esclusione sociale. Per un altro sviluppo contro lo sfruttamento dell’essere umano e dell’ambiente in cui vive e lavora.Un progetto per un altro mondo possibile, che indubbiamente in America latina non è solo un sogno ma ora è una realtà ed una enorme opportunità per tutti noi.


 

Pinguini, ombre e okupas.

Leonardo Sacchetti, giornalista L’Unità

 

Dette così, queste tre parole possono dir poco. Nella realtà dell’America Latina di questo XXI secolo, dietro di loro ci sono alcuni tra i movimenti urbani più originali degli ultimi anni. Parliamo di quanto è accaduto nell’ultimo anno nella capitali di Cile, Messico e Argentina. I tre colossi, insieme al Brasile e all’astro nascente venezuelano, del sub-continente americano.

 

Spesso, in quanto ad attenzione politica e a cooperazione decentrata e governativa, gli sforzi europei hanno privilegiato maggiormente le aree rurali dell’America Latina. Ma la realtà continentale è ormai segnata dall’urbanizzazione selvaggia e le grandi città sono diventate, nel bene e nel male, i centri nevralgici di questi sommovimenti. È in metropoli come Santiago, Città del Messico o Buenos Aires che l’America Latina segna le più evidenti novità per l’agenda politica. Come detto: nel bene e nel male, tra i picchi di miseria e violenza delle perifiere e gli ottimi livelli organizzativi di gruppi di cittadini in cui si mischiano varie tematiche politiche. Le città, con le loro periferie, sono il cuore dei nuovi movimenti latinoamericani.

Ma sono gli stessi pinguini cileni, le ombre messicane e gli okupas argentini a non dimenticarsi dei marginati, dei problemi della selva. E a dare una lezione politica anche a noi europei.

 

I PINGUINI

A fine maggio del 2006, il Cile ha visto sfilare oltre 600mila studenti che protestavano contro la lentezza con cui i vari governi hanno cercato di modificare l’ultima beffa lasciata dal regime di Pinochet: la Legge organica costituzionale per l’insegnamento (Loce). Protestavano contro l’assenza di sovvenzioni per gli istituti considerati di “serie B”, contro quei generali e graduati delle forze armate trasformati in docenti senza alcun esame, contro la maternità considerata come fattore inconciliabile con lo studio (e dunque: espulsione per le ragazze-madri), contro il divieto a “promuovere i diritti umani” nelle classi e la possibilità di espellere uno studente a metà dell’anno “per ragioni economiche”.

Dopo due settimane di occupazioni di scuole, lo slogan delle migliaia di studenti (come si sono autodefiniti gli studenti in lotta), era solo uno: contro la Loce e il sistema ingiusto voluto da Pinochet per la scuola.

Tutto quel che gli studenti, i “pinguini” (“Perché piccoli, tanti e tenaci”, come raccontano loro stessi), fanno passa dal web, dai blog tra i vari licei e dai siti aperti a tempo di record dagli stessi ragazzi tra i 14 e 18 anni che frequentano gli istituti medi superiori del Paese. E così, un po’ come era già successo in Francia per i contratti precari, anche a Santiago i blog e Internet hanno anticipato l’emersione della protesta.

 

LE OMBRE

In Messico, e soprattutto nella sua capitale, la campagna elettorale per le presidenziali del luglio 2006 (vinte dal conservatore Felipe Calderon e fortemente contestate dal candidato della sinistra, Andrés Manuel Lopez Obrador) hanno visto emergere una nuova forma di organizzazione politica: quella dei gruppi di abitanti di singoli quartieri, organizzatisi intorno a poche ma contundenti richieste politiche. Solo le “ombre” di Città del Messico, quei cittadini dimenticati dai partiti ma che hanno trovato nel clima nuovo sorto dalla gestione del “sindaco” della capitale (proprio Lopez Obrador) un terreno dove crescere.

Ogni barrio aveva e ha il suo comitato che, a differenza di quanto spesso succede nelle città europee, non è “contro” ma “pro” qualcosa. Ci sono i gruppi organizzati di Ciudad Neza (una metropoli nella metropoli) che lottano per l’acqua potabile “quantomeno in ogni strada”. Quelli di Indios Verdes, che lottano per un nuovo sistema di trasporto pubblico che, togliendo i bus dalle strade, punti tutto su treni e metrò (anche a scapito di terreni coltivati). Poi c’è tutto il sottobosco studentesco che ha sostituito lo zoccolo duro del zapatismo. Non a caso, lo stesso Subcomandante Marcos si è quasi “trasferito” nella capitale, mettendo in secondo piano la sua attività nella Selva Lacandona in Chiapas.

 

GLI OKUPAS

L’Argentina stenta a risollevarsi dalla bancarotta nazionale del 2001. Ma alcune cose, in questi sei anni, sono cambiate. Spinti dalla necessità e dall’esigenza di uno stipendio, migliaia di porteños (gli abitanti di Buenos Aires) si sono auto-organizzati.

Si va dalle realtà sorte nelle villas miserias (le baraccopoli argentine), dove migliaia di disperati cercano di sopravvivere in attesa non di un nuovo miracolo ma di una prima possibilità. Non è un caso che in villas come quelle nei pressi della stazione di Libertadores, accanto agli argentini si trovino emigrati dalla Bolivia o dal Paraguay. La disoccupazione, seguita alla crisi del 2001, che ha allontanato gli uomini dal lavoro, ha anche prodotto il fenomeno delle donne a capo dell’organizzazione delle comunità. Sono loro (spesso con i mariti fuggiti o alcolizzati o – più semplicemente – arresisi) ad aver trasformato delle discariche in luoghi dove sopravvivere, dove non morire di fame e, in alcuni casi, dove aprire delle scuole.

Ci sono anche argentini che non hanno abbandonato la città e che hanno deciso di occupare le stesse fabbriche dove fino a poco prima lavoravano. Ecco allora l’esperienza delle centinaia di insediamenti industriali presi in gestione dagli operai: occupazioni come quelle che andavano in scena nell’Italia degli anni ’50. uomini e donne che, pur di non perdere il lavoro, se ne sono inventati uno simile. E il paradosso – o, se volete, l’originalità – sta nel fatto che molte di queste fabbriche occupate erano di proprietà dello stato. Alcune continuano a servire i pasti all’Esercito, altre producono siringhe per gli ospedali pubblici. Un cortocircuito industriale che, dopo sei anni, continua a reggersi sull’organizzazione e sulla tenacia di questi obreros-okupas.


 

La nuova America Latina

di Alessandro Grandi, giornalista Peacereporter

 

E' vero, ormai è difficile pure nasconderlo: l'America Latina negli ultimi anni è cambiata. In meglio o in peggio non sta ad un umile cronista deciderlo, certo è che l'aria di cambiamento ha investito quasi tutte le nazioni dell'area.

Una data su tutte ha aperto le porte al cambiamento: il 1° gennaio 1994. In quel giorno, in Messico (più precisamente in Chiapas, stato meridionale al confine con il Guatemala), l'Ezln (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), sotto il comando del Subcomandante Insurgente Marcos, scese per le strade e nel giro di poche ore occupò diversi municipi della regione, rivendicando i diritti delle popolazioni indigene discendenti dei Maya.

 

Fino a quel momento gli indios del Messico erano stati praticamente ignorati dai media nazionali e internazionali e la loro condizione era conosciuta solo dagli "operatori del settore". Su di loro e sulle loro terre le grandi multinazionali straniere, appoggiate dai poteri forti della politica, avevano (in parte continuano a farlo ancora oggi) per decenni fatto il bello e cattivo tempo. In più esercito regolare e i paramilitari rendevano la loro esistenza quasi impossibile.

Nel corso del tempo, però, le azioni degli zapatisti e dei loro sostenitori hanno trovato appoggio internazionale divenendo una realtà conosciuta e creando  una sorta di coscienza nazionale "nuova".

Ma non è solo il Messico a vivere una nuova fase storica. L'esempio più clamoroso degli ultimi anni, infatti, riguarda Bolivia e Venezuela.

 

La Bolivia (insieme a Haiti) è considerata il paese più povero del continente americano. Gran parte della popolazione, infatti, vive con meno di un dollaro Usa al giorno. Potenzialmente, però, la Bolivia sarebbe una nazione ricchissima, grazie alle enormi risorse naturali presenti nel suo territorio. Gas e petrolio, così come l'acqua, però, sono state svendute dai governi conservatori e filostatunitensi alle multinazionali straniere che si sono arricchite in modo spropositato lasciando ai boliviani solo le briciole. Tutto questo fino a che un giovane sindacalista cocalero (i coltivatori della pianta della coca), Evo Morales, di origini Aymara, vince le elezioni presidenziali e inaugura una nuova fase storica per il Paese, spazzando via i vecchi burocrati che in più di un'occasione erano stati costretti a commettere abusi per tenere calma la popolazione. Inizia, il presidente indio, con il collocare il Paese nell'asse Venezuela-Cuba per sviluppare un nuovo modo di governare.

 

Morales è amico di Fidel Castro e Hugo Chavez da loro prende esempio e a loro chiede sostegno. Non solo. Il presidente boliviano nazionalizza gas e petrolio, facendo storcere il naso a diverse nazioni (Francia e Spagna su tutte) che avevano interessi economici miliardari in Bolivia. Dall'altra parte, Morales, ha regalato il sorriso alla popolazione che dopo anni di sfruttamento straniero ha visto le risorse del paese tornare nelle mani del governo boliviano.

 

Morales ha anche stabilito un record: portare una foglia di coca alla ribalta mondiale. Sì perché durante una riunione all'Onu, il leader indigeno, ha spiegato davanti all'assemblea le proprietà terapeutiche della pianta della coca, l'uso tradizionale fatto dalla popolazione boliviana e l'enorme differenza fra la foglia di coca e la cocaina. E non si è nemmeno fatto mancare la polemica con gli Usa che tanta coca comprano per produrre Coca Cola e tanti danni fanno per demonizzare le piantagioni in America Latina, lasciando aperti ancora molti interrogativi sullo strapotere Usa nel sud del continente.

 

Anche il Venezuela ha aperto una nuova fase storica. Dal 1999, infatti, Hugo Chavez è il suo presidente. Fiero oppositore degli Usa, Chavez, non perde occasione per raccontare i danni causati dagli americani in sudamerica, i tentativi di golpe ai quali è stato sottoposto (a suo avviso orchestrati da Washington) e le continue pressioni Usa sull'area. E' lui, forse il vero esempio dell'America Latina che cambia. Senza macchia (siamo sicuri?) e senza paura, Chavez ha da poco, in pratica, fatto rientrare l'industria petrolifera nell'orbita del controllo statale. Il Venezuela occupa, infatti, un posto sul podio dei paesi produttori di petrolio e fa parte dell'Opec, l'organizzazione che comprende i maggiori Paesi produttori di greggio del mondo. Il petrolio è stato anche un ottimo collante per i rapporti fra Chavez e molti presidenti dell'area mediorientale, uno su tutti il leader iraniani Ahmadinejad.

 

E non si possono certo dimenticare i cambiamenti avvenuti in Argentina, Brasile, Uruguay e Cile. Le ferite causate dalle dittature militari degli anni 70 e 80 sono ancora aperte e bruciano ma l'Argentina ha dimostrato, soprattutto grazie alle decisioni del presidente Kirchner, di essere capace di reagire e voler continuare la propria storia sulla strada della democrazia. E che dire del Brasile dove il "presidente operaio" Luis Ignacio Lula da Silva, è stato l'artefice di clamorose decisioni a favore della parte di popolazione più indigente anche se a dire il vero ancora molto c'è da fare sotto il punto di vista della sicurezza sociale e dell'occupazione. In Uruguay, passata la tempesta politica,degli anni ottanta e novanta, il presidente Tabare Vasquez, lavora in silenzio per far tornare competitivo il Paese. E poi il Cile della socialista Bachelet, uscito dalla tremenda dittatura di Pinochet, che è il paese dell'area latinoamericana che spende più quattrini per gli armamenti ma che dal punto di vista dei diritti umani ha fatto passi da gigante.

 

Un capitolo a parte deve essere dedicato a Cuba. Con l'uscita di scena di Fidel Castro e l'avvento del periodo di transizione (sarà transizione?) del fratello Raul qualcosa potrebbe davvero cambiare. In materia economica, ad esempio, è risaputo che il 'piccolo Castro' sia più vicino al pensiero di un'economia di mercato alla "cinese". E Raul si è dimostrato favorevole e disponibile anche verso gli Usa, proponendo di riaprire il dialogo ormai interrotto da troppo tempo. Con un obiettivo: porre fine al blocco economico imposto da Washington che da quattro decenni stritola l'isola.

Ma è dalla comunità internazionale che arrivano le richieste di cambiamento a Cuba. Da più parti sono arrivati inviti a rispettare maggiormente i diritti umani e le libertà personali. Su questi aspetti nella paradisiaca isola caraibica c'è ancora molto da lavorare.

 

In sostanza l'America Latina sta cambiando. Politicamente ogni nazione ha da qualche anno una sua identità nuova, forte e riconosciuta. Economicamente i paesi che erano considerati più poveri si stanno rialzando e con la firma su diversi accordi si stanno alleando. Un solo nodo resta ancora da sciogliere: quello del rispetto dei diritti umani. Sono ancora troppi gli oppositori politici, i giornalisti e gli scrittori in carcere per reati d'opinione. In più sono ancora molti i casi in cui  i governi più conservatori della regione reprimono con la forza le manifestazioni dei lavoratori, degli studenti, delle donne. Sciolto questo nodo il cambiamento non sarà definitivo ma sarà a buon punto.

 


 

 

Un’altra rivoluzione è possibile: Incontri nella Nuova Latinoamerica

Fulvio Grimaldi, giornalista

 

Caracas: parte dal Mercal il “Socialismo del XXI secolo

E’ giorno di Mercal. Veramente il Mercal è dappertutto, ogni giorno, nei quartieri, nei villaggi, tra una hacienda e l’altra per gli immensi llanos della terra ripresa e riattivata. Ma questo è un Mercal speciale, ogni prima domenica del mese, a Caracas in Avenida Bolivar, lì dove si raccolgono quelle milionate di magliette rosse ad ascoltare in profundidad, amor y alegria il comandante Hugo. E non sono di meno quelli che vi si riuniscono oggi, per il Mercal del mese, sintesi, epitome e apoteosi di tutti i Mercal. Con i Mercal, un po’ ispirati al “paniere” cubano, come tante altre cose che fanno rivoluzione, si è data una mazzata non da poco alla proprietà privata di quelli che ora si chiamano, attenuando, “beni comuni”. Se non altro dell’alimentazione, quella che, in un futuro  minimamente decente, dovrebbe fare lo stesso passo dell’acqua in Bolivia, dove, a forza di botte, a volte servono anche quelle, la gente di Cochabamba e El Alto l’ha ripresa dalla grinfie di Suez. Il Mercal è quella cesoia che taglia gli artigli a coloro che sulla fame della gente ci fanno la cresta, che dai produttori di generi alimentari e di altra prima necessità cavano il pizzo, solo perché gli impongono un magazzino, una rete di distribuzione monopolizzata, orripilanti spot pubblicitari, insomma il famigerato marketing. “Niente marketing” ha annunciato Hugo Chavez e la speculazione commerciale si è dovuta rintanare in quelle nicchie nelle quali, prima, a stento sopravviveva un minimo di mercato non drogato dai superprofitti oligarchici, perlopiù multinazionali. Nel Mercal arrivano burro, olio, carne, noccioline, riso, soya, zucchero, papaya, cavoli, e poi giacconi, pantaloni, gonne, maglie, scarpe e poi occhiali, portamonete, penne, mobili, forbici, libri, libri, libri, pentole, stoviglie, insomma tutto, senza il passaggio capitalista per le forche caudine della sedicente “intermediazione”, direttamente dal produttore, perlopiù oggi organizzato in cooperativa bolivariana, al consumatore, che dunque torna a essere da caricatura consumistica cittadino utente titolare di diritti. Si chiama, estesa nel tempo e nello spazio, “sovranità alimentare”. Al prezzo giusto, cioè dal 30 al 70% sotto quello delle boutique, dei negozi, dei supermercati, tutti lì, semivuoti, con un palmo di naso.

Parla sempre di alegria, questo presidente, e il karma deve funzionare a guardare questo sterminato flusso di famiglie multicolori, di una società che è forse oggi la più integrata e sinergica del mondo, a parte quelle coorti di pallidissimi creoli rintanati dietro ai loro fili spinati ed elettrificati nelle ville di Altamira: erano larve che si cibavano di una grande e forte corpo, forte, ma supino, Il corpo si è scosso e le larve sono precipitate nei loro bunker ad arrovellarsi su quando la complice manona del Grande Padrino del Nord verrà a rianimarle. Campa cavallo, se è vero che quelle migliaia che qui al Mercal di Avenida Bolivar hanno capito, una volta per tutte, come possono e devono funzionare le cose. Sono allegri per questo, un’altra economia è possibile e gli fa portare a casa quel vestitino, quell’orologio, quelle carote, quel caffè per il quale, prima, avrebbero dovuto metterci qualche centinaio di giri anoressici intorno a vetrine scintillanti. Qui, sotto le tettoie di tela e sui banchi di legno, sono le arance, le insalate, le enciclopedie a scintillare. E non solo, agevolata l’iniziativa sociale nella produzione-distribuzione, lo Stato si fa servizio al cittadino offrendo in diretta, senza travagli burocratici e saltando barriere di ignoranza, l’esame ocultistico, l’analisi del sangue, le prove per la patente, l’iscrizione ad un’anagrafe elettorale che, pour cause, i furbetti dell’oligarchia avevano sempre nascosto nei cespugli della giungla amministrativa. Qui il lestofante texano, due volte truccato da presidente dalla “più grande democrazia del mondo”, non ha più nulla da insegnare.

 

 

Quito: indigene, combattenti, donne

Blanca Chancosa, col suo foulard bianco arrotolato sulla faccia color terra di ferro e i suoi grembiuli a cipolla trafitti da bagliori colorati, di stampo indio-castigliano, l’avevamo conosciuta a Caracas, protagonista del Festival Mondiale della Gioventù. Anima e testa del movimento indigeno, e non solo di quello femminile che sta facendo saltare una secolare scorza di doppia repressione, etnico-politica e di genere, ci aveva indirizzato alle donne dell’Ecuarunari, ala andina della grande Conaie (Confederacion de Pueblos de la Nacionalidad Indigena de Ecuador), il movimento indigeno protagonista delle grandiose eversioni anticolonialiste ed antioligarchiche, fino alla crisi del tradimento di Lucio Gutierrez, falso indio cripto-biancoyankee. Un’autentica avanguardia politica e sociale dell’America Latina. E’ in vetta a una vertiginosa scalinata che porta a uno dei sette colli di Quito, dentro a una scuola in corso di recupero “spontaneo”, che si svolge l’assemblea delle donne Quetchua, ultimi germogli degli Inca e, oggi, i più fecondi, dopo una gelata durata cinque secoli.

Il tema è la scuola, l’alfabetizzazione, ma prima, per tutti, ospiti stranieri compresi, la ciotola di riso col sugo di ovino e le zucchine bollite. Sono le donne che, uscite da un buio assoluto, fattesi luce da sole, da quasi dieci anni sono le protagoniste di una rinascita che ha visto venire e rapidamente sparire dieci presidenti, travolti da una forza di popolo che le donne hanno raddoppiato e dotato di superiore tenuta. Il tradimento del cialtrone Gutierrez, che si voleva aquila ed era un pollo spennacchiato delle multinazionali petrolifere ibero-brasiliano-italo-statunitensi, aveva tagliato le gambe al movimento, pareva averlo messo ai margini. Ma non resta ai margini a lungo chi ha sviluppato conoscenza buona e coscienza giusta. Le donne si alternano nelle richieste, nelle proposte, nel suggerimento del metodo. Sono cariche dello specifico femminile, come non potrebbe esserlo la più accesa delle conventicole ultrà nostrane, ma superano quest’ultime, ci sembra, per complessità e globalità della percezione delle contraddizioni: capitalismo=razzismo=maschilismo, in quest’ordine. E in quest,’ordine vedono la lotta:”Prima dobbiamo debellare il neoliberismo, matrice di tutte le frammentazioni e opposizioni in seno al popolo, poi ce la vedremo con i nostri uomini. Questa è la fase dell’unità”, ribadisce Blanca. E dunque, per prima cosa, via la base Usa di Manta, neoplasia imperial-terrorista nel cuore del paese, come ha promesso Rafael Correa, appena strepitoso vincitore all’80%  del referendum sulla costituente per un Ecuador da “Socialismo del XXI Secolo”.

Sono poche quelle che non hanno perso un pezzo del proprio contesto di sangue nella fuga da un paese tanto ricco, quanto ladrone, con l’80% sotto il livello della povertà, proprio quegli 8 su 10 ecuadoriani  che hanno fatto trionfare la costituente bolivariana. Otto su dieci, sopravvissuti a ignoranza, esclusione e fame, alla morte in mare di quei 108 “clandestini” annegati  al largo delle Galapagos, mentre vogavano verso chi li avrebbe mandati a farsi macellare nelle sue guerre antiproletarie permanenti. Queste donne consapevoli, affettuose e orgogliose, che mettono lettura e scrittura a priorità assoluta, hanno una mappa con mille punti rossi: le scuole – materne, asili, elementari, medie, superiori – che pretenderanno Rafael costruisca e la Costituente imponga come principio primo della vita nazionale. Mai più ignorare chi sei, da dove vieni, dove vuoi andare, chi ti vuole fermare.

Bisogni primari: nutrire il corpo, per disporre di tutte le sue forze; nutrire la mente, per indirizzare queste forze nella direzione giusta, verso l’obiettivo necessario. Questi raccontati sono appena due colori di un’iride che li contiene tutti, salvo il nero dell’oblio e della morte e che sta chiudendo un arcobaleno che va dalla Terra del Fuoco al cuore dei Carabi. Là dove tutto è incominciato oltre mezzo secolo fa, là dove si guarda ancora per scorgere la luce quando a volte sembra che faccia notte. E gli insegnanti cubani sono già qui, sulle Ande e tra i pozzi funesti dell’Amazzonia, a rispondere alle donne di Blanca. Con loro i medici cubani, perché anche qui non vi sia più bambino che non abbia chi gli ausculti il cuore. Si chiama “L’Asse del bene” e lo racconterò nel prossimo documentario. C’è da imparare per tutti.     


 

 

Verso la Seconda Indipendenza dell'America Latina
di Sergio Marinoni, Presidente Associazione Nazionale d’Amicizia Italia-Cuba

 

Uno degli avvenimenti più importanti dell'inizio di questo terzo millennio è stata la comparsa sulla scena della politica mondiale di un nuovo attore: l'America Latina.

Questa parte del continente americano - che si estende dal Río Bravo (al confine tra Messico e Stati Uniti) fino alla Terra del Fuoco (nella parte più meridionale dell'Argentina) e che comprende anche tutte le isole caraibiche – viene definita con questo nome per comodità, ma il termine è inesatto perché non tiene conto delle componenti indie, nere, mulatte, meticce e di una piccola parte di origine asiatica che conformano l'insieme della popolazione. In ogni caso, la definizione America Latina è comunemente accettata poiché questa parte del continente americano è stata per diversi secoli praticamente tutta sotto il dominio ispano-portoghese.

 

Attualmente l'America Latina, dopo secoli di oppressione e di sfruttamento coloniali e neocoloniali, è la regione del mondo dove con maggior forza sono stati accelerati i processi di cambiamento politico, economico e sociale, facendo finire nella polvere gli ipotetici sogni della “fine della storia” che alcuni ideologi dell’imperialismo e del capitalismo neoliberista hanno prospettato nel momento della caduta del socialismo europeo, agli inizi degli anni ’90.

E questi cambiamenti, volti alla ricerca dell'unità tra le nazioni latino-americane e a preservare una loro identità, non sono sorti dal nulla, ma hanno le loro radici nel pensiero e nell'azione di due grandi uomini latino-americani vissuti nel secolo XIX, il venezuelano Simón Bolívar e il cubano José Martí.

Il più innovatore nella proposta istituzionale è stato Simón Bolívar. Il Libertador, come veniva chiamato, nei primi decenni dell'800 aveva proposto e cercato di mettere in pratica la formazione di una Confederazione di Stati Latino-americani come soluzione costituzionale per il consolidamento dell’indipendenza e a garanzia del suo sviluppo.

José Martí, nella seconda metà dello stesso secolo, ha ripreso il pensiero di Bolívar sull’unità latino-americana e lo ha arricchito accentuando nel suo progetto l’antimperialismo e mettendo in rilievo il carattere popolare della sua concezione repubblicana. Martí ha definito "Nuestra América" la parte centro-sud del continente per differenziarla dal "nord brutale che ci disprezza". Ovviamente non si riferiva al popolo statunitense, del quale aveva una grande stima, ma ai suoi governanti e al tipo di sistema.

 

A partire dal trionfo della Rivoluzione cubana, dal suo consolidamento, dalla sua resistenza e dalla sua crescita in questi ormai quasi cinquant'anni, si è incominciato a intravedere la possibilità reale di emancipazione e di progresso per i paesi latino-americani e caraibici. La Rivoluzione Bolivariana in Venezuela e, successivamente, la vittoria del Movimento al Socialismo in Bolivia hanno dato ulteriore impulso a questa prospettiva.

 

Per mezzo di organismi regionali nei quali gli Stati Uniti non sono presenti, come il Vertice dei Paesi Ibero-Americani, il Vertice dei Presidenti della Comunità Sudamericana delle Nazioni, il MERCOSUR (Mercato Comune del Sud), il CARICOM (Mercato Comune dei Caraibi), l'ALADI  (Associazione Latino-americana di Integrazione), l'ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe) e i TCP (Trattati di Commercio tra i Popoli), è stato iniziato un percorso attraverso il quale raggiungere la completa integrazione del continente latino-americano.

 

Soprattutto l'ALBA propone un’integrazione diversa, basata sulla solidarietà e sulla cooperazione tra i popoli latino-americani, e focalizza la sua attenzione sulla lotta contro la povertà e contro l’esclusione sociale. Mette in discussione l’apologia e il culto del libero commercio e difende l’elaborazione di un’agenda economica e sociale concepita e diretta dagli Stati sovrani, senza l’influenza dei poteri stranieri delle multinazionali e dei Governi neoliberisti.

Quello che l'ALBA intende creare è un vero blocco centro-sud-americano a livello politico, economico, sociale e culturale, proponendo un processo di integrazione a velocità differenti, in modo che ogni paese possa assumere gli impegni che è in grado di prendere.

 

Il ruolo dell'Europa, di fronte a questa nuova realtà che si sta producendo, è quello di sviluppare una propria politica indipendente da quella degli Stati Uniti, che non vedono di buon occhio il sorgere di questa "seconda indipendenza" latino-americana. Troppo spesso i paesi europei – e purtroppo occorre sottolineare con l'Italia in prima fila – hanno condotto nei confronti dell'America Latina una politica servile e subordinata ai dettami nordamericani.

Cuba è uno degli esempi, forse il più eclatante, di come la disinformazione - pilotata da stanziamenti di decine di milioni di dollari all'anno del Governo statunitense, l'ultimo nel 2006 è stato di 80 milioni di dollari – porti persone, anche in buona fede, a recepire situazioni che nulla hanno a che vedere con la realtà. Anche la sinistra italiana dovrebbe fare una seria riflessione su questo argomento.

E' necessario, pertanto, mettersi in relazione con i paesi latino-americani per promuovere una vera cooperazione. Questo deve avvenire su basi di reciproco rispetto e senza ingerenze nelle loro politiche interne, lasciando da parte quel senso di superiorità che gli Stati europei hanno sempre avuto nei confronti dei paesi del Terzo Mondo, paesi che per centinaia di anni sono stati saccheggiati prima dalle monarchie e poi dalle multinazionali del Vecchio Continente. Nei loro confronti l'Europa ha un debito inestimabile per le rapine e per i massacri compiuti nel corso dei secoli.

La realizzazione del sogno bolivariano e martiano della costruzione di un grande Stato formato da tutte le nazioni dell'America Latina sarà utile per l'equilibrio del mondo e servirà da contrappeso alle intenzioni di dominio, di sfruttamento e di oppressione dell'imperialismo nordamericano.


 

Alternativa Bolivariana per le Americhe: motore d’integrazione su basi socialiste.
di Marco Zoboli, Associazione Puntocritico

Il continente ispanoamericano evolve verso nuove frontiere. L’ondata antimperialista capitanata dalla Rivoluzione Bolivariana del Venezuela che ha raccolto il testimone tutt’altro che passivo della rivoluzione socialista di Cuba, pervade il continente, seminando trasformazioni sociali e politiche che, partendo dalla peculiarità oggettiva di ogni singola realtà, accomuna le esperienze di nuova democrazia sotto l’insegna dell’antimperialismo, del riscatto della sovranità nazionale e della ricerca di un comune processo d’integrazione continentale.

Chavez non ha semplicemente raccolto un testimone dal selciato, al contrario lo ha impugnato a un’altezza leggermente diversa rispetto la morsa ferma e costante del socialismo cubano. La simbiosi che unisce l’esperienza cubana a quella bolivariana va oltre l’aspetto meramente tattico; è una vera e propria unione d’intenti: tattici e strategici. L’Alternativa Bolivariana per le Americhe e i Caraibi è uno strumento politico-socio-economico finalizzato a traghettare il continente dall’orbita d’influenza statunitense ad una propria, endogena. E’ lo strumento che l’asse Cuba - Venezuela ha sfoderato per condurre l’America Latina verso un’integrazione politica su basi socialiste.

 

A distanza di tre anni dalla nascita, il processo d’integrazione è avanzato velocemente coinvolgendo oltre al citato asse, la Bolivia di Morales e del suo Movimento Al Socialismo, il Nicaragua neosandinista, alcune piccole repubbliche caraibiche (l’isola di Dominica, l’isola di San Vicente e Granadine, l’isola di Antigua e Barbuda) e ci si attende a breve l’adesione dell’Ecuador che ha recentemente voltato pagina con l’elezione di Rafael Correa, uscito in questi giorni vincitore da un braccio di ferro con l’opposizione parlamentare per l’insediamento di un’Assemblea Costituente che dovrà entro un anno riscrivere la Costituzione della Repubblica. Il referendum popolare che doveva approvare la nascita dell’Assemblea Costituente è stato stravinto con l’82% dei suffragi in questi giorni; la famiglia cresce.

Altri paesi diretti da governi di sinistra come il Brasile, Argentina, Uruguay e (anche se con posizioni un po’ più distante) il Cile, seppure non si riconoscono nel progetto dell’ALBA non lo ostacolano nella sostanza, partecipando senza pregiudiziali a progetti integrazionisti comuni sia in seno al Mercosur (nel quale è entrato recentemente il Venezuela come membro permanente) sia esterni a esso ma non per questo meno rilevanti, mi riferisco al progetto di Telesur (emittente televisiva continentale voluta da Chavez per controbilanciare l’egemonia della disinformazione dei media in mano alla oligarchia) e Bancosur (Banca regionale promossa per sovvenzionare progetti d’infrastrutture, imprese miste statali…, nel quale dovrebbero confluire parte delle riserve monetarie dei paesi partecipanti che al momento sono Venezuela, Bolivia, Argentina, Uruguay, Ecuador e da notizia del 16 aprile anche il Brasile).

 

Contemporaneamente, sul piano energetico il Venezuela all’interno e all’esterno dell’ALBA infittisce le sue relazioni, allaccia rapporti e cooperazioni bilaterali, fonda società miste di capitali statali di natura estrattiva, di commercializzazione e di distribuzione. Petrocaribe, Petrosur, Petroamerica sono gli strumenti per condurre il continente a una propria sovranità sulle risorse energetiche, alla propria autosufficienza; il gasdotto del sud è un progetto colossale che allaccerà il Venezuela all’estremo sud dell’Argentina con diramazioni verso la Bolivia e ai paesi che richiedono di farne parte.

 

Sul piano delle nazionalizzazioni delle risorse energetiche ci sono sviluppi: il 1° di maggio del 2006 la Bolivia ha nazionalizzato le sue risorse gasifere, espropriando i giacimenti con l’intervento diretto dell’esercito (Decreto Supremo Eroi del Chaco) a favore di YPFB (Giacimenti Petroliferi Fiscali Boliviani), a un anno di distanza, il 1° di maggio venturo è prevista una manifestazione congiunta tra esercito e società civile in Venezuela che culminerà con l’occupazione dei giacimenti della falda dell’Orinoco; occupazione tutt’altro che simbolica dato che darà il via alla nazionalizzazione degli impianti estrattivi che passeranno sotto il controllo della  PDVSA (Compagnia statale venezuelana).

Sul sociale è Cuba a fare la parte del leone, le “Missioni” sanitarie ormai sono presenti in vari paesi, la “Missione Milagro” per le cure oftamologiche ha oramai raggiunto buona parte di Nuestra America, seminando risultati eccezionali: sono più di un milione e mezzo i latinoamericani che ne hanno usufruito. La campagna di alfabetizzazione “Yo si puedo”, è stata esportata con successo in Bolivia sperimentata per la prima volta oltre che in lingua spagnola anche in idiomi indios (Aymara e Quechua) e ora sta approdando in Nicaragua e in zone del Salvador amministrate dal Farabundo Martì (FMLN).

 

Il continente procede verso l’integrazione a più velocità, ci sono realtà più avanzate che procedono più velocemente di altre, ma nessuna delle esperienze di nuova democrazia si estranea dal processo in corso.

L’affossamento dell’ALCA e la sua sostituzione con Trattati di Libero Commercio bilaterali sottoscritti dalle residue colonie rimaste (Colombia, Perù, Paraguay); ha diffatto reso esecutivo lo sfratto del capitalismo nordamericano dal subcontinente.

Dell’imperialismo statunitense rimangono le minacce  militari, tra cui il famigerato Plan Colombia, le basi disseminate per il continente (Manta in Ecuador e quella in costruzione in Paraguay) e le pressioni sempre più arroganti ma sempre meno credibili.

 L’America Latina ha voltato pagina, molti analisti rifiutano di vedere ciò che è palese per tutti, una certa sinistra italiana sembra daltonica, vede tutto nero o tutto bianco; certo il rosso non lo distingue in una fase in cui le trasformazioni in atto nel nostro paese partono dal negazionismo di un’opzione socialista. L’America Latina col suo presente e il suo futuro mette in discussione le analisi alla base della nascita del PD. In Venezuela entro pochi mesi nascerà un partito di governo unico, si chiamerà PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela), non la sommatoria degli attuali partiti ma la trasformazione degli stessi verso un soggetto che sia all’altezza dei compiti che la rivoluzione bolivariana richiede. Sono lontani i tempi in cui l’America accettò caravelle da uno sconosciuto.