AVVENIMENTI
Il mondo nel 2025, secondo la CIA
di
Samir Amin
La lettura dell’ultimo rapporto della CIA su «Il
mondo nel 2025» non fornisce molte informazioni che un osservatore
ordinario dell’economia e della politica avrebbe ignorato. Essa ci
permette però di conoscere meglio il modo di pensare della classe
dirigente statunitense e di identificarne i limiti. Le mie
conclusioni dopo la lettura del documento sono riassunte nei punti
seguenti:
1. La capacità di previsione di Washington stupisce
per la sua debolezza; si ha l’impressione che i rapporti della CIA
siano sempre «in ritardo» rispetto agli avvenimenti, mai in
anticipo;
2. Questa classe dirigente ignora il ruolo che i
«popoli» giocano talvolta nella storia; essa ci dà l’impressione che
le sue opinioni e le sue scelte contino da sole e che i popoli le
seguano sempre, adattandosi, senza mai riuscire a metterle in
discussione e ancora meno a imporre alternative diverse;
3. Nessuno degli «esperti» la cui opinione viene
presa in considerazione immagina possibile (e ancor meno
«accettabile») un modo di gestione dell’economia diverso rispetto a
quello di cui l’economia tradizionale riconosce il supposto
carattere «scientifico» (l’economia capitalista «liberale» e
«mondializzata»), e non ci sarebbe dunque alternativa credibile (e
possibile) al «capitalismo liberale»;
4. L’impressione che si ricava da questa lettura è
che, oltretutto, l’establishment statunitense conserva solidi
pregiudizi, soprattutto verso i popoli dell’Africa e dell’America
Latina.
Il rapporto precedente “Il mondo nel 2015” non aveva
previsto che il modello di finanziarizzazione del capitalismo degli
oligopoli doveva necessariamente condurre a un crollo, come è
successo nel 2008, ed era stato previsto e descritto anni prima
dagli analisti (François Morin, John Bellamy Foster oltre a me),
critiche che gli esperti dello establishment statunitense non
lessero mai. Allo stesso modo, il fallimento militare in Afghanistan
non era stato immaginato ed è dunque solo in quest’ultimo rapporto
che è stata considerata l’idea di un parziale abbandono della
strategia di Washington di controllo militare del pianeta,
evidentemente a seguito del suo fallimento!
Ancora oggi quindi (in prospettiva del 2025) il
rapporto afferma senza esitazione «che un crollo della
mondializzazione» resta impensabile. La nostra ipotesi è al
contrario che ci sia una forte probabilità di «de-globalizzazione»
attraverso la costituzione di regionalizzazioni robuste e slegate
(nel senso che i rapporti che queste regioni intenderanno allacciare
tra loro non comprometteranno la loro autonomia). «L’egemonia»
degli Stati Uniti è ormai percepita come «intaccata». In generale
«l’egemonia» degli Stati Uniti, il cui declino è visibile da molti
anni, ritenuta tuttavia «definitiva» nel rapporto precedente, è
ormai percepita come «intaccata», ma sempre robusta.
È consuetudine che le classi dirigenti non immaginino
la possibile fine di un sistema che assicura il perpetuarsi del loro
dominio. Le «rivoluzioni» sono perciò sempre, per loro, non solo
delle «catastrofi» ma anche degli incidenti imprevedibili,
inaspettati e «irrazionali».
Questa miopia fatale impedisce loro di uscire dal
quadro di una pretesa «real-politik»(molto poco realista in realtà!)
il cui percorso è delineato esclusivamente dagli effetti dei
calcoli, delle alleanze e dei conflitti riguardanti le sole classi
dirigenti. La geopolitica e la geostrategia sono allora strettamente
racchiuse nell’orizzonte delle possibilità conformi a questi giochi.
I ragionamenti sviluppati dagli analisti della CIA sulle differenti
opzioni possibili per la classe dominante statunitense (e dei suoi
alleati subalterni europei e giapponesi), in risposta a quelli dei
loro avversari (i paesi emergenti, in primo luogo la Cina) e alle
oscillazioni caotiche possibili degli altri, sono certamente
fondati.
Resta il fatto che il ventaglio di obiettivi e di
strategie messe in campo dagli Stati, le nazioni e i popoli alla
periferia del sistema mondiale (si tratta dei paesi emergenti o di
quelli che sono marginalizzati) è gravemente ristretto dal
pregiudizio «liberale». La contraddizione fondamentale con la quale
devono confrontarsi le classi dirigenti dei paesi in questione è
ignorata. Che queste classi siano «pro-capitaliste», nel senso ampio
del termine, non è discutibile, ma evidente. È chiaro che i loro
progetti capitalistici non possano spiegarsi se non nella misura in
cui le strategie intraprese costringano allora, e con successo, i
centri imperialisti a fare marcia indietro. Il rapporto sottostima
largamente questa contraddizione per accontentarsi di quello che
ancora oggi pare corretto, cioè che i poteri in carica (in Cina, in
India, in Brasile, in Russia e altrove) non mettono in causa
(ancora?) i pilastri dell?assetto internazionale. Questo perché
nella fase precedente del dispiegamento della mondializzazione,
quella che è stata qualificata come «belle époque» (1980-2008), i
paesi emergenti erano effettivamente arrivati a «trarre profitto»
dal loro inserimento nella mondializzazione in atto. Ma questa fase
è ormai conclusa e le classi dirigenti dei paesi coinvolti dovranno
constatarlo e, pertanto, adottare delle strategie sempre meno
«complementari» a quelle sviluppate dagli oligopoli dei centri
imperialisti, e di fatto sempre più conflittuali con essi. Un
fattore decisivo, ignorato dagli analisti della CIA, accelererà
probabilmente tale evoluzione: la difficoltà di conciliare una
crescita «capitalista» forte con risposte accettabili ai problemi
sociali associati ad essa, con la quale si scontrano i poteri in
carica nelle periferie del sistema.
Nessuna distinzione tra le classi dirigenti e quelle
delle periferie. Gli esperti della CIA non fanno distinzione tra le
classi dirigenti del centro imperialista e quelle delle periferie,
dal momento che sono tutte «pro-capitaliste». Tuttavia, a mio
avviso, questa distinzione è importante. Le classi dirigenti della
triade imperialista. I servitori fedeli degli oligopoli non sono
effettivamente «minacciati», almeno nell’immediato futuro. Esse si
occuperanno della gestione della crisi, fornendo se necessario
qualche concessione alle rivendicazioni sociali.
Al contrario le classi dirigenti delle periferie si
trovano in una posizione più scomoda. I limiti di quello che può
produrre la via capitalista sono tali che la loro relazione con le
classi popolari resti ambigua. Delle evoluzioni nei rapporti di
forza sociali, favorevoli per gradi diversi alle classi popolari,
sono possibili e anche probabili. La convergenza tra il conflitto
che oppone l’imperialismo alle nazioni e ai popoli periferici da un
lato e quella che oppone il capitalismo alla prospettiva socialista
dall’altro è all’origine della posizione difficile delle classi
dirigenti pro-capitaliste al potere nel Sud del mondo. Senza
cogliere la natura di questa fondamentale contraddizione, gli
esperti dell’establishment statunitense hanno considerato che
l’opzione del «capitalismo di stato» (della Cina e della Russia) non
sia valida e condurrà necessariamente prima o poi al capitalismo
liberale. L’altra possibilità, che a loro sfugge, è che il
capitalismo di stato evolva «a sinistra», sotto la pressione
vincente delle classi popolari. L’immaginario di Washington non va
oltre il pregiudizio.
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