CUBAOGGI


CARO RANDY

 

 

 

Caro Randy:

 

mi sono molto emozionato con il documentario della regista argentina Carolina Silvestre in cui smonta una ad una le menzogne della democrazia e dei diritti umani del capitalismo sviluppato e globalizzato. 

 

Da alcuni giorni, a partire dal referendum venezuelano del 2 dicembre, cercavo di ricordare tra le centinaia di dichiarazioni scaturite dal mio dovere rivoluzionario, una di quelle in cui definivo concretamente la nostra posizione sugli impegni internazionali di Cuba.   

 

Ho richiesto copia di diverso materiale in cui affrontavo il tema. Il caso ha voluto che uno dei più precisi fosse nella Mesa Redonda. È abbastanza recente, poco meno di sette anni.

 

Siamo coinvolti in un processo elettorale. Considero le idee il punto di partenza della mia vita politica. Questo materiale, che t’invio testualmente, lo intitolerei oggi con le sue parole finali:”La storia dirà chi ha ragione.”

 

Ti prego di trasmetterlo, se possibile, domani, giovedì.

L’hanno motivato alcune parole dell’allora primo ministro canadese, Jean Chrétien, al III Vertice delle Americhe.

 

In quel momento la mia dichiarazione poteva sembrare non importante.

 

Fidel Castro Ruz

13 dicembre 2007

 

 

Un saluto fraterno alla Mesa Redonda,

ringraziando anticipatamente  per la sua sollecita risposta.

 

Fidel Castro

 

 

La storia dirà chi ha ragione

 

Risposta del Comandante in Capo Fidel Castro Ruz al moderatore della tavola rotonda informativa, effettuata il 25 aprile 2001, riguardante dichiarazioni fatte dal primo ministro del Canada, Jean Chrétien, durante il III Vertice delle Americhe.

 

 

Comandante: - Molto bene, e ora abbiate pazienza. Forse questo materiale potrà risultare interessante, se tu mi dai la parola.

 

Mi sembra che valga la pena dedicare alcuni minuti a questo argomento.

 

Adesso parlerai della sede?

 

Randy Alonso: - Della sede del III Vertice e delle dichiaraazioni che ha fatto il Primo Ministro del Canada... Ci sono state varie dichiarazioni del Primo Ministro, ci sono state anche dichiarazioni del Ministro degli Esteri.

 

Comandante: - È vero, io ne ho scelto una, perché quello che conosco meglio tra i due è il Primo Ministro ed è con lui che ho più familiarità.

Ebbene, perché il popolo possa capire di che cosa si tratta vado a leggere quanto segue:

 

“Quebec (Canada), addì 19 aprile 2001 (EFE). - Il Primo Ministro canadese, Jean Chrétien, giustificò oggi l’esclusione di Cuba dal III Vertice delle Americhe, per la mancanza di segni del regime cubano in tema di diritti umani, nonostante ‘avessi passato ore cercando di convincere’ Fidel Castro a cambiare politica.

 

“Al suo arrivo al centro di convenzioni del Quebec, dove si celebrò il Vertice questo fine settimana, a Chrétien venne chiesto se avesse cambiato la sua posizione nei confronti dell’ inclusione di Cuba nel processo dei Vertici delle Americhe, giacché nelle precedenti riunioni a Miami e a Santiago aveva sollecitato la presenza del regime di Castro.

 

“‘Non ho cambiato opinione’ ha risposto Chrétien.

 

“Il Primo Ministro canadese si mostrò seccato, quando gli si chiese se Cuba non era presente a Quebec per la risposta negativa che aveva dato Washington.

 

“Allo stesso modo, quando venne incalzato da un giornalista affinché indicasse quale altro paese del continente si era opposto alla partecipazione di Castro nel III Vertice delle Americhe, Chrétien gli rispose cosí: ‘chietetelo a loro’.

 

“Il Primo Ministro canadese aggiunse che aveva passato ‘ore e ore cercando di persuadere Castro’ perché firmasse alcune convenzioni sui diritti umani, senza però ottenere nessun segno  da parte del regime dell’Avana.

 

“‘Ho passato ore con lui (Fidel Castro) cercando di convincerlo a firmare alcune risoluzioni delle Nazioni Unite’ insistè Chrétien.”

 

Ho meditato molto su queste cose dette dal signor Chrétien. Non aveva alcuna necessità di emettere una valutazione pubblica precipitosa ed improvvisata di quell’incontro.

 

Ho lavorato cercando dati e ricostruendo, con la maggior obiettività possibile, quello di cui abbiamo conversato lì e l’atmosfera nella quale si portarono a termine i nostri interscambi.

 

Vista la necessità di precisare, per la delicatezza dei temi trattati, ho qui con me una dichiarazione scritta, che ora vado a leggere:

 

Appena iniziò la riunione, d’ improvviso, mise sopra la tavola una piccola lista di nomi che, evidentemente, aveva appena ricevuto. Indovinai quasi subito di che cosa si trattava. Era la cosa abituale che,  faceva una personalità politica di qualche paese alleato degli Stati Uniti o qualche politico nordamericano ogni volta che veniva a visitarci: il Dipartimento di Stato consegnava loro una lista di persone processate o condannate per attività controrivoluzionarie. Le liste iniziavano sempre con le persone che risultavano avere maggior importanza e interesse per i servizi segreti o per il governo degli Stati Uniti. Chiedeva l’indulto o la scarcerazione degli stessi. Era una tattica del governo degli Stati Uniti che non cambiava mai, utilizzata per fare pressione in favore dei loro amici, approfittando di qualunque visita di amicizia a Cuba. Siccome nel nostro paese si suole esercitare la maggior tolleranza possibile, solamente in casi eccezionali le autorità procedono all’arresto e all’ ulteriore processo dei colpevoli, quando le loro azioni provocatorie sono gravi e totalmente inammissibili.

 

Il Primo Ministro canadese mi ricordò come, in occasione della visita del Papa, un numero di condannati per cause controrivoluzionarie avevano avuto l’indulto e egli si era impegnato a sollecitare lo stesso per coloro che erano inclusi nella lista.

 

In realtà il Papa non toccò mai questo tema nella conversazione fatta con me, e lo aveva fatto attraverso il suo Segretario di Stato in un’altra riunione con il Ministro degli Esteri.

 

Senza aspettare una risposta, il Primo Ministro immediatamente propose che Cuba sottoscrivesse il Patto delle Nazioni Unite sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, giacché Cuba in questa materia aveva fatto lo stesso o di più di qualunque altro paese del mondo. Era senza dubbio una frase adulatrice e una forma più abile e opportuna di proporre qualcosa.

 

Ricordo che subito dopo menzionò l’accordo di libero commercio tra Canada, Messico e Stati Uniti, e i progetti di farlo con il resto dell’America Latina, dicendo che Cuba poteva dare un importante contributo.

 

E per ultimo si riferì al trattato contro le mine antiuomo, lamentandosi che Cuba non lo avesse firmato e sollecitando che lo sottoscrivesse. Erano questi i quattro punti con cui ebbe inizio la conversazione.  Tutti sembravano molto semplici però tutti e quattro erano molto complicati.

 

Gli chiesi se era un’ abitudine dei politici canadesi cominciare dal più difficile, e aggiunsi, in tono scherzoso, che se non riuscivamo a superare tali prove, avremmo danneggiato la visita.

 

Mi sembra di ricordare, che la riunione durò all’incirca due ore, in tono cordiale, rispettoso, però franco. Debbo confessare che usai la maggior parte del tempo perché era necessario spiegare con determinata chiarezza la ragione delle nostre posizioni nei confronti dei quattro punti trattati, in special modo su tre di essi.

 

Impossibile ripetere qui ognuno di questi argomenti. Farò solo una brevissima sintesi, con le risposte essenziali.

 

Gli dissi che io non potevo decidere personalmente e d’ immediato o impegnarmi su qualunque di queste questioni, né tantomeno creare false speranze sulle decisioni che avremmo adottato. Gli dissi che la molto pubblicizzata questione dei supposti prigionieri di coscienza era una vecchia storia dopo quasi quaranta anni di ogni tipo di nefandezze e crimini da parte del governo degli Stati Uniti contro Cuba. Li elencai in modo ampio e dettagliato confrontandoli con l’onesta condotta e l’etica della nostra Rivoluzione nonostante il diluvio d’ infamie e calunnie contro Cuba. L’ipocrisia e la doppia morale della politica condotta contro di essa. Le circostanze che ci avevano costretto a tenere persone in prigione. Che solo a Girón avevamo fatto prigionieri 1200 invasori, e che la stessa Rivoluzione, sin dai primi anni, aveva messo in libertà coloro che, servendo gli interessi di una potenza straniera durante quattro decenni, avevano cercato di distruggerla. Che ora il tema di quelli che per questo motivo stavano in prigione era costantemente utilizzato per incalzare Cuba, il paese che soffriva l’ostilità e l’aggressione esterna. Le gravi minacce che ancora stavamo affrontando, come le azioni terroriste organizzate e pagate dagli Stati Uniti.

 

In un certo momento, mi disse che il suo desiderio era superare questa situazione perché potessimo ritornare alla grande famiglia. Gli dissi che noi eravamo latinoamericani, e gli chiesi se la questione era che ritornassimo alla grande famiglia o che la grande famiglia ritornasse a noi. Terminai il punto rispondendogli che egli aveva con sé una lista di persone che erano mercenari  al servizio degli Stati Uniti e pagati dagli Stati Uniti, e che in complicità con gli Stati Uniti cercavano di distruggere la Rivoluzione. Aggiunsi che come amico dovevo dire che questa lista era umiliante per Cuba. Si sforzò di  spiegare che questa non era la sua intenzione, e che forse aveva presentato la lista troppo presto.

 

Non tutto fu drammatico. Ci furono scherzi e barzellette intercalate. Questa parte, riferita con una certa estensione, può dare l’idea di quanto intensa fu la prima ora di conversazione.

 

In relazione alla sua enfasi sulla famiglia emisferica, gli dissi che la cosa mi rallegrava molto, però che io pensavo anche nella famiglia universale:  Europa, Asia e Africa.

 

Rispetto al punto due, riguardante il Patto delle Nazioni Unite sul tema dei Diritti Economici, Sociali e Culturali, non vacillai nel dirgli che noi potevamo sottoscrivere tutti gli articoli eccetto due, l’8 ed il 13. Questo perché il primo sarebbe potuto andare bene per un paese capitalista come Canada, Stati Uniti ed altri dell’America Latina, poiché in alcuni governavano gli imprenditori e gli oligarchi e in altri le grandi multinazionali. Lì dividevano, frazionavano e, quando era possibile, corrompevano e alienavano i lavoratori che potevano fare molto poco di fronte al potere politico dei padroni. Si trattava di sistemi economici diversi dal nostro.

 

In relazione a questo articolo del Patto, dove si dice che ogni persona ha il diritto di fondare sindacati e afiliarsi a quelli che scelga, seguendo solo lo statuto della relativa organizzazione, per promuovere e proteggere i suoi  interessi economici e sociali, in un paese socialista come Cuba, dove i lavoratori manovali e intelettuali sono tutti organizzati nei loro rispettivi sindacati e solidamente uniti come classe rivoluzionaria che condivide il potere con il resto del popolo, i contadini, le donne, gli studenti, i vicini e la cittadinanza in generale, tale precetto servirebbe come arma e pretesto all’imperialismo per cercare di dividere e frammentare i lavoratori, creare sindacati artificiali, e ridurre la loro forza e influenza politica e sociale. Negli Stati Uniti e in molti paesi dell’Europa e in altre regioni, la strategia dell’imperialismo è quella di dividere, indebolire e corrompere il movimento sindacale per ridurlo in condizioni di non potersi assolutamente difendere di fronte ai padroni. A Cuba, il proposito sarebbe fondamentalmente sovversivo e destabilizzatore, scalzare il potere politico, ridurre la straordinaria forza e influenza dei nostri lavoratori, e corrodere l’eroica resitenza dell’unico Stato socialista dell’Occidente di fronte alla superpotenza egemonica.

 

Non si potrebbe sottoscrivere nemmeno l’altro precetto, poiché aprirebbe le porte alla privatizzazione dell’insegnamento, che nel passato ha dato luogo a dolorose differenze e a irritanti privilegi e ingiustizie, inclusa la discriminazione razziale che i nostri bambini non conosceranno mai. Un paese che riuscì a sradicare in un solo anno l’analfabetismo, raggiunse livelli di nove classi come media , e che conta su uno straordinario e massivo gruppo di professori e di maestri e su il più sano ed esitoso sistema di educazione del mondo, non ha bisogno di impegnarsi nei confronti di  tale precetto.

 

A Chrétien dissi che l’America Latina era da quasi 200 anni che cercava di vincere l’analfabetismo ed ancora non ci era riuscita.

 

Chrétien propose che sottoscrivessimo il Patto e che facessimo la riserva relativa  ai due articoli. Gli rispondemmo che dopo risulta che si parla di inadempimenti del Patto e nessuno conosce o si ricorda delle riserve con cui si sottoscrisse.  Non si puòs cherzare con queste cose!

 

Rispetto al trattato delle mine antiuomo non si parlò molto in questa riunione. Anticipai che non lo avremmo firmato. Che avevamo persino una base militare degli Stati Uniti nel nostro territorio, e che la fascia compresa tra il limite della stessa ed il resto del territorio era l’unico punto in cui erano installate; per questa ragione le mine costituivano per noi un’arma di difesa alla quale non avremmo commesso l’errore di rnunciare; aggiunsi che noi non avevamo armi nucleari, bombe o missili intelligenti, né altri mezzi più sofisticati come quelli che possiedono gli Stati Uniti; terminai dicendo che sopra il nostro paese pendeva una minaccia reale, e per questa ragione non pensavamo di firmarlo.

 

Più tardi abbordò di nuovo il tema da un angolo che io non avrei potuto sospettare in quel momento. Concludendo questo primo incontro affermò, con evidente soddisfazione e sincerità, che questa era stata una discussione eccellente. La sintesi delle cose essenziali trattate nella nostra prima riunione, può dare l’impressione che questa sia stata aspra. Niente di più lontano dalla realtà. Regnò sempre un’atmosfera calda e amichevole.

 

Mi sembrò di percepire con chiarezza - anche se no lo disse, però potei percepirlo da quanto  disse il signor Chrétien  -, che di fronte ad  un vicino così forte con il quale condivide 8 644 km di frontiera, aveva timore per il futuro del suo paese. Consapevole delle due forti culture e tradizioni differenti ben radicate, gli preoccupava il rischio che significa per l’unita dello Stato che qualunque ambizione, un errore, o una scossa del vicino, possa distruggere il paese. Per questo enorme e ricco territorio, popolato da solo 32 milioni di abitanti, dove tra le altre risorse - come disse lo stesso Chrétien - si trova la quarta parte delle riserve di acqua potabile del mondo, forse anche  più che per la propria Cuba, gli Stati Uniti sono una grande preoccupazione.

 

In  quello che  fu forse il momento più interessante della conversazione, e nel quale Chrétien espose la sua idea più intelligente, capace di provocare perfino in un interlocutore abbastanza distante dalla sua ideologia un sentimento di solidarietà, fu quando raccontò che egli si era opposto all’idea di un accordo di libero commercio unicamente con gli Stai Uniti. Bisognava trovare per lo meno un terzo paese, e apparve il Messico, con il quale in molte occasioni ha condiviso posizioni di fronte alle manipolazioni degli Stati Uniti. nel 2005 sarebbero stati 34 e magari 35 paesi (evidentemente alludendo a Cuba), perché ci fosse un equilibrio con gli Stati Uniti.

 

In un’occasione mi disse che il Canada era un paese molto geloso della propria indipendenza nei confronti degli Stati Uniti, che era di grande importanza mantenere l’ indipendenza dagli Stati Uniti, e che la sua politica era quella di mantenere rapporti stretti e amichevoli con questo paese, però molto indipendenti. Affermò orgoglioso che ora il Canada era in concorrenza con Silicon Valley di California, dove si produceva tutta l’alta tecnologia.

 

La seconda riunione con Chrétien e la sua delegazione ebbe luogo la sera. Ci fu una cena e un più ampio interscambio. In determinate occasioni, menzionando il piano di attentato contro di me nell’ Isola Margarita, organizzato dalla famosa Fondazione, indicò che spesso questa era la causa di grandi difficoltà, perché quando accadde l’incidente degli aerei, fu per creare quel problema agli Stati Uniti che si dichiarò pronto per fare un passo positivo nei confronti di Cuba. Gli parlai della Legge di Aggiustamento Cubano, delle sue assurde e irrazionali conseguenze.

 

Parlammo anche della Legge Helms-Burton. Mi disse che rispetto a questa legge gli Stati Uniti si trovavano isolati. Che lui, personalmente, fu il primo a fare una dichiarazione quando venne approvata, e che, trovandosi riunito con i Primi Ministri dei Caraibi, fecero insieme la prima dichiarazione contro la Helms-Burton.

 

Rispetto all’incidente degli aerei nell’anno 1996, utilizzato come pretesto per approvare la legge Helms-Burton, gli dissi che nel numero del The New Yorker del 26 gennaio 1998 c’era quasi tutta la storia dell’incidente.

 

Chiedendomi quale era la nostra posizione riguardo l’ALCA, gli dissi che bisognava aver pazienza, perché era necessario sapere che cosa sarebbe successo in America Latina con questo accordo di libero commercio, quali sarebbero state le conseguenze non soltanto per i nostri paesi ma anche per il resto del mondo, e quali sarebbero state le trappole per imporre un accordo multilaterale di investimenti, questioni che ci preoccupavano molto. Gli dissi che era necessario studiare a fondo queste questioni. Gli parlai su aspetti concreti della nostra economia, delle misure adottate per affrontare il periodo speciale, sull’ impossibilità di prescindere delle tariffe doganali per molti paesi dell’America Latina e dei Caraibi, alcuni dei quali ricevevano per questa via fino all’ 80%delle entrate al budget. Al domandargli se al Canada pregiudicava in qualche modo l’integrazione dell’Europa e la nascita dell’Euro, mi rispose di no, che l’82% del suo commercio era con gli Stati Uniti. Ci disse che avevano  miliardo di dollari giornalieri di commercio con gli Stati Uniti.

 

Da parte mia, gli espressi francamente la mia opinione: ai paesi dell’America Latina converrebbe l’integrazione dell’Europa e che l’Europa entrasse in concorrenza con gli Stati Uniti per i mercati e gli investimenti in America Latina. E’ meglio che ci siano due, tre, quattro potenze economiche forti perché l’economia mondiale non dipenda solo da un potente paese e da una sola moneta.

 

Conversammo anche della tecnologia canadese in materia di energia nucleare e della possibilità che, nel futuro, il nostro paese possa acquistare reattori canadesi, anche se per il momento non è la migliore opzione per noi, né la più economica per la rapida crescita della generazione elettrica di cui abbiamo bisogno con una certa urgenza.

 

Gli parlai anche dei messsicani che stanno morendo nella frontiera con gli Stati Uniti, dove ormai muoiono ogni anno molte più persone di quelle che morirono durante quasi 30 anni di  esistenza del muro di Berlino.

 

Nel nostro interscambio di opinioni pochi furono gli argomenti importanti che non vennero trattati.

 

Nell’atmosfera propizia che si era creata e prendendo in considerazione la partecipazione del Canada nei fatti politici di Haiti, ormai in processo di normalizzazione, e per la sua presenza in quel paese, gli dissi che Haiti era un vicino prossimo e uno dei paesi più poveri del mondo, con indici terribili di salute, incluso l’AIDS, che minacciavano con una catastrofe umana, e gli domandai perché non davamo un esempio di cooperazione ed elaboravamo un programma di salute per Haiti. Cuba avrebbe inviato il personale medico e il Canada avrebbe fornito le medicine e le apparecchiature necessarie.

 

Mi chiese se io avevo discusso di questo con il Presidente di Haiti. Gli risposi che non potevo proporglielo se non coordinava prima con il governo canadese, dicendogli che la mia convinzione era che avrebbero accettato.

 

Mi parlò del suo interesse speciale per un paese di lingua francese, poiché una parte importante della popolazione del Canada parla questa lingua, e per tanto aveva interesse in programmi per Haiti. Avrebbe analizzato la proposta. Gli comunicai che avrei parlato con il governo haitiano.

 

Sembra che la suddetta idea gli abbia suggerito d’immediato un’altra. Mi disse che aveva una proposta da fare su un programma congiunto: un programma congiunto con Angola e Mozambico per eliminare le mine antiuomo. Aggiunse che noi potevamo mettere il personale e loro i soldi. Questi paesi avevano già firmato l’accordo. Gli si indicò che, da parte nostra, questo lavoro potevano farlo solo i militari. Rispose che noi cubani, avevamo il personale esperto e loro avrebbero somministrato i soldi per il programma, poiché avevano già approvato il budget.

 

Disse che vari paesi avevano investito fondi per la pulizia dei campi minati, tra cui il Giappone, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca e altri, e siccome noi avevamo esperti in questo settore pensava che i cubani avrebbero potuto realizzare questo lavoro.

 

E’ chiaro che non si accorse di quanto potesse essere offensivo quello che stava proponendo. Una collaborazione umanitaria nella quale Canada e altri paesi ricchi mettevano i soldi e noi i rischi di mutilazioni e perdite di vite dei nostri soldati. Forse non lo pensò mai, o non era cosciente di quello che ci stava proponendo, però sentii la forte impressione che ci volevano assoldare come mercenari.

 

Per brevi secondi sentii una sensazione di oltraggio, ricordando il disinteressato spirito di sacrificio, la storia pulita e nobile del nostro popolo che stava affrontando un’intensa guerra economica e il periodo speciale disposto a morire per le proprie idee. Qualcuno pretendeva trarre vantaggio di questa situazione tentandoci con missioni di questo tipo?

 

Considerando le caratteristiche del mio interlocutore, e il tono amabile, franco, fiducioso, e persino l’humor con cui -ricordo- si svilupparono i nostri scambi, penso che quello che disse e la forma in cui lo disse non furono un atto cosciente di quello che obiettivamente si poteva interpretare dalle sue parole.

 

Gli spiegai che in Angola era ancora difficile  sminare perché c’erano le bande armate dagli Stati Uniti e dal Sud Africa; che tutte queste mine erano state consegnate dagli Stati Uniti e dal Sud Africa dell’apartheid a Savimbi, e che questo poteva costare mutilazioni e perdite di vite umane. Come giustificare la partecipazione cubana davanti al nostro popolo?

 

Con la maggior equanimità gli proposi quello che io qualificai come soluzione ragionevole: eravamo disposti ad addestrare tutto il personale necessario di Angola e del Mozambico o di qualunque altro paese colpito da problemi di questo tipo per realizzare questo compito nei propri territori.

 

Questo tema occupò quasi l’ultima parte del secondo incontro, sebbene continuò per vari minuti nello stesso tono di amicizia e cortesia.

 

Il poco gradevole punto era stato toccato dalla nostra parte in modo sereno e  ragionevole, ascoltato e all’apparenza capito e accettato dalla delegazione canadese.

 

Le basi dei due programmi importanti di cooperazione con paesi terzi erano state accordate in principio, su esse si avrebbe continuato a lavorare.

 

Ho osservato bene il carattere e la personalità del Primo Ministro canadese. E’ un uomo con il quale è un piacere conversare, è dotato di un buon senso dell’umorismo, con il quale si può avere un interscambio interessante su svariati temi. Si preoccupa per determinati problemi del mondo attuale e si entusiasma con i progetti di sua preferenza; conosce molte personalità politiche, sa usare la sua esperienza e gli piace contare aneddoti per lo più interessanti e opportuni. Mi sembrò sinceramente patriottico. E’ molto leale al suo paese e sente orgoglio per il medesimo. Un credente fanatico del modo capitalista di produzione, quasi fosse una religione monoteista, e dell’idea ingenua che questa è l’unica soluzione per tutti i paesi, in qualunque continente, epoca, clima o regione del mondo. Si educò in questa filosofia. Non sono sicuro che con questa filosofia possa capire perfettamente le realtà del mondo d’oggi.

 

Connobbi Trudeau, un eccezionale statista, di grande modestia e di grande umiltà, di pensiero profondo e uomo di pace; sono sicuro che comprese molto bene il mondo e comprese molto bene anche Cuba.

 

Poi ci furono altre attività.  Partecipai ad un ricevimento di Chrétien nel giardino dell’ambasciata del Canada. Era allegro, conversatore, di buon animo. Presto si sarebbe riunito con Clinton. Lo accompagnai fino all’aereoporto. Quando eravamo quasi arrivati a Boyeros, gli chiesi di trasmettere a Clinton un saluto e che non esistevano, da parte nostra, sentimenti di ostilità nei suoi confronti. Parole ben misurate. Più che altro, una cortesia con chi ci visitava. Pagai caro questo. Tempo dopo ricevetti da Chrétien una lettera di propria mano raccontandomi che aveva trasmesso a Clinton il mio desiderio di avere migliori la relazioni con lui.  Non era esattamente ciò che gli dissi. Non è nel mio stile; non si concilia con il mio atteggiamento di tutta la vita. Poteva sembrare una ridicola preghiera al potente Presidente degli Stati Uniti. Mi misi a scrivere una lettera, anch’ io di propria mano, a Chrétien dicendogli che questo non era stato il mio messaggio. L’ affare risultava imbarazzante. Non era facile conciliare il disgusto con i termini precisi con i quali io dovevo redigere questa lettera, e in certo qual modo il chiarimento diventava, al tempo stesso, una specie di critica al nostro amico. Quasi avevo raggiunto lo scopo, però alla fine abbandonai l’idea, conservai la bozza della lettera, che forse è posibile trovare in qualche vecchio quaderno, e mi dimenticai del fatto fino ad oggi. Non potei nemmeno rispondere al suo delicato gesto di scrivermi di propria mano. Può darsi che abbia creduto che io ero un maleducato incorreggibile.

 

Passarono i mesi e non avevo alcuna notizia del progetto haitiano, che da parte nostra attendeva solo una breve risposta. Venne l’uragano Georges. Distrusse Santo Domingo e colpì la vicina Haiti, protetta solo dalle montagne dominicane di  3 000 metri di altezza, vicine alle frontiere di questo paese, che servirono quali barriere rompivento, e proseguì poi verso Cuba.

 

Quando ancora soffiavano le ultime raffiche dell’uragano Georges a nord dell’occidente del paese, la notte piovosa del 28 settembre, in un discorso che pronunciai durante la chiusura del V Congresso dei Comitati di Difesa della Rivoluzione, dissi:

 

“Domando alla comunità internazionale: Volete aiutare questo paese, che ha sofferto invasioni ed interventi militari fino a poco tempo fa? Volete salvare vite umane? Volete dare una prova di spirito umanitario? Adesso parliamo dello spirito umanitario e parliamo dei diritti dell’essere umano.

 

“ (...) Sappiamo come si possono salvare 25 000 persone ad Haiti tutti gli anni. Si sa che ogni anno muoiono 135 bambini da 0 a 5 anni ogni 1000 nati vivi”.

 

(...)

 

“ Partendo dalla premessa che il governo e il popolo di Haiti accetteranno con gratitudine un’importante e vitale aiuto in questo campo, proponiamo che paesi come il Canada, che ha strette relazioni con Haiti, o un paese come la Francia, che ha strette relazioni storiche e culturali con Haiti, o i paesi dell’Unione Europea che si stanno integrando e che ormai hanno l’euro, o il Giappone, fornissero le medicine, noi siamo disposti a inviare i medici per questo programma, tutti i medici di cui hanno bisogno, persino se fosse necessario inviare tutti i laureati di un anno, un intero corso.  (...)

 

“Haiti non ha bisogno di soldati, non ha bisogno di invasioni di soldati; quello di cui ha bisogno sono invasioni di medici per cominciare, quello di cui ha bisogno, inoltre, sono invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.”

 

Novembre del 1998. Sono trascorsi sette mesi e non ci sono notizie di Chrétien sui temi trattati. Visita Cuba il ministro della Sanità del Canada, Alan Rock.  Ci incontriamo. Aveva appena ricevuto in Canada la dottoressa Nkosazana Dlamini-Zuma, ministro della Sanità di Sudafrica.  Era molto impressionato da quello che ella gli raccontò sul lavoro dei medici cubani nei villaggi del Sud Africa.

 

Gli spiego in dettaglio il programma di cooperazione congiunta che avevamo proposto. Percepii in lui un uomo sensibile e capace che comprendeva le possibilità e l’importanza di tale programma. Gli chiesi di accelerare le gestioni riferite al programma di cooperazione congiunta in Haiti, e una risposta del Canada a quello che avevo proposto al suo paese non solo personalmente al  Primo Ministro ma anche pubblicamente. Si impegnò a presentare un progetto al Primo Ministro e al Gabinetto.

 

Il 4 dicembre Cuba invia per conto proprio la prima brigata di emergenza per assistere le vittime dell’uragano Geroges. Le brigate mediche continuarono a susseguirsi nelle settimane seguenti fino a raggiungere la cifra di 12 ed un totale di 388 cooperanti cubani, ed ancora i nostri amici canadesi non avevano dato segno di vita. Il programma medico che avevamo proposto da realizzare congiuntamente con il Canada era in corso con lo sforzo di Cuba, del governo di Haiti e con l’appoggio delle Organizzazioni Non Governative.

 

A fine di febbraio, il ministro degli Esteri  di Cuba informò di aver saputo per via extraufficiale che il governo del Canada avrebbe donato 300 000 dollari per il programma medico di Haiti, notizia che, com’ è logico, ci causò grande soddisfazione.  Il 4 marzo erano trascorsi ormai più di dieci mesi senza una risposta ufficiale del Canada.  Lo stesso giorno, tuttavia, arrivò una notizia veramente sorprendente. Il ministro degli Esteri del Canada, il signor Lloyd Axworthy, inviò una lettera al ministro degli Esteri di Cuba, Roberto Robaina, che tra le altre cose comunica:

 

“ (...) sono stato informato di una legge recentemente approvata dall’Assemblea Nazionale  cubana, il 16 febbraio del 1999, intitolata “Legge per la Protezione dell’Indipendenza Nazionale e dell’Economia di Cuba”, che è diretta a frenare l’aumento della delinquenza e delle attività sovversive.”

 

(...)

 

“Ho chiesto ai miei funzionari di fare un’analisi delle recenti misure adottate da Cuba, inclusa la prossima condanna dei membri del Gruppo di Lavoro della Dissidenza Interna, allo scopo di determinare il suo impatto nella gamma di attività che abbiamo intrapreso in virtù della Dichiarazione Congiunta bilaterale.  Fintanto non sarà conclusa questa valutazione, ho sollecitato ai miei funzionari di astenersi di realizzare nuove iniziative congiunte. Scriverò ai miei colleghi del Gabinetto per metterli al corrente di questa situazione perché possano riflettere sui loro programmi di cooperazione bilaterale con Cuba. Nel periodo immediato, ho sospeso  l’analisi congiunta da parte del mio dipartimento, del CIDA (Agenzia dello Sviluppo Internazionale del Canada) e del Health Canada riguardo la richiesta di Cuba per portare a vie di fatto la cooperazione medica di un terzo paese in Haiti.”

 

(...)

 

“I giorni futuri saranno importanti per analizzare se Cuba sceglierà la politica dell’avvicinamento e integrazione alla comunità globale, o se continuerà la direzione incerta dei giorni recenti. Spero che Lei sia capace di offrire un segnale che possa contribuire a chiarire le intenzioni di Cuba. In particolare, tale segnale sarebbe di grande utilità per garantire che i recenti fatti non si trasformino in una preoccupazione senza fondamenti nella Commissione dei Diritti Umani a Ginevra.”

 

Casualità? Pretesto per giustificare forti pressioni dei suoi vicini del sud? Totale insensibilità di fronte alla tragedia haitiana? Non voglio fare affermazione alcuna. Però, come si può spiegare che trascorrano dieci mesi e durante questo tempo, quando non erano ancora successi i fatti che motivarono una decisione così drastica e una lettera così insolente, non ci sia stata una risposta ufficiale?

 

Anche se non desidero offendere nessuno, neanche l’illustre autore della lettera, è impossibile non indicare il tono arrogante, prepotente, d’ingerenza e vendicativo con cui è stata redatta questa lettera.

 

Quello che più mi dispiacque non furono le misure punitive e le minacce contro Cuba - a questi castighi siamo abituati da più di 42 anni - , ma il fatto che dei 300 000 dollari, che non so nemmeno se si trattava di dollari statunitensi o canadesi-     0,64 centesimo di dollaro nordamericano al cambio di ieri 24 aprile 2001, giacché non ho avuto tempo per controllare quale era il cambio il 15 marzo di quell’anno - non arriveranno mai ai malati haitiani. Non avrei mai immaginato che ci avrebbero castigato al costo di migliaia di vite di bambini haitiani che avrebbero potuto salvarsi, giacché in questo paese, in quello stesso  momento, stavano morendo non meno di 25 000 per anno, la maggior parte  di queste morti avrebbero potuto evitarsi con semplici vaccini che si sarebbero potuti comperare con quei dollari, fossero nordamericani o canadesi. Senza dubbio, qualcuno commise un grande errore.

 

Come qualcosa di elementarmente logico, io avevo creduto all’informazione extraufficiale che mi comunicarono dal Ministero degli Esteri. Non potrei nemmeno affermare, in questo istante, se fu o non fu certo.

 

Ormai non c’è niente da lamentare. Ad Haiti lavorano oggi 469 medici e lavoratori della Sanità cubani. In due anni e cinque mesi, fino al mese di aprile, sono passati per Haiti 861 collaboratori senza ricevere dal popolo haitiano un solo centesimo per il loro servizio. Attendono 5 072 000 dei 7 803 230 abitanti che ha il paese; il 62 % della popolazione haitiana. Hanno salvato molte migliaia di vite umane e hanno alleviato il dolore o ristabilito la salute ad altre centinaia di milgliaia..

 

Quest’anno si è iniziata, con la consegna di tutti i vaccini da parte del Giappone con la partecipazione dell’UNICEF, la prima fase della campagna massiva di vaccinazione contro otto malattie immunoprevenibili, dove Cuba assume l’esecuzione del programma con il personale di sanità che si trova in questo paese, i quali saliranno a 600 nel corso di quest’anno. Inoltre, sappiamo che nel futuro, e con lo sforzo combinato di Francia, Giappone, Cuba e Haiti, si svolgerà una nuova campagna di vaccinazione, attualmente in preparazione,  che in cinque anni darà a questo paese estremamente povero del Terzo Mondo un livello immunitario del 95 %.

 

Con la vittoria ottenuta da Brasile e Sud Africa sui prezzi inaccessibili delle medicine contro l’AIDS, penso che non è lontano il giorno in cui gli haitiani potranno proteggersi  anche contro questo terribile flagello mediante l’appoggio di governi disposti a cooperare con risorse finanziarie , con le istituzioni delle Nazioni Unite e con le Organizzazioni Non Governative.

 

Haiti non è l’unico paese con il quale il popolo cubano sta cooperando in programmi di salute sotto lo stesso principio. Sono ormai 15. In questi programmi collaborano 61 Organizzazioni Non Governative con la partecipazione di più di 2272 lavoratori cubani della sanità, tra cui 1775 medici.

 

Ormai nessuno potrà sabotare la cooperazione di Cuba con altri paesi del Terzo Mondo. Fatti e non parole. Azione rapida e non aspettare le calende greche quando ci sono esseri umani di paesi poveri che stanno morendo tutti i giorni ad ogni ora. Alla formazione dei medici con spirito di sacrificio, solidali e abnegati, il nostro piccolo paese presta ugualmente uno speciale appoggio. Avanzare è possibile, sconfiggere calamità e alleviare la tragedia umana che si abbatte su centinaia di migliaia di persone, non sono mete irraggiungibili.

 

Oggi ringrazio le conversazioni che ho avuto con Chrétien. Sono servite per provare che le iniziative sono possibili ed anche le cooperazioni congiunte con la partecipazione di due, tre, molti paesi. Dimostra anche che le ore che spendemmo sia lui che io non furono inutili, e io ho seguito i suoi consigli lavorando con maggior ardore per i diritti umani, per salvare vite cercando di disattivare gigantesche mine antiuomo che stanno portando il nostro mondo al limite di gigantesche esplosioni.

 

Piccoli esempi di quello che qualunque piccolo paese può offrire, sono oggi più importanti che grandi patti che i potenti trasformano in lettera morta e in grandi atti di demagogia e in pose pubblicitarie per soddisfare vanità e ambizioni personali.

 

Sono sicuro che Trudeau non avrebbe mai detto che spese 4 ore dando  consigli a qualcuno che non li aveva chiesti, né avrebbe cercato giustificazioni per escludere da una riunione vertice un paese degno, che non ha nemmeno mai sollecitato la sua inclusione, per firmare un accordo che non avrebbe mai firmato.

 

La storia dirà chi ha ragione (Applausi). 

 

    

 

 

 

 

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