CULTURA CUBANA


CUBA MAGICA
 

 

 

  ARMANDO IL SANTERO

 

Capitolo Primo

Sono venuto a Cuba soltanto per lui questa volta. Niente spiagge di Oriente. Niente donne. Niente viaggi per le strade dissestate dell’isola. Niente traduzioni da fare. Niente di niente.

Mi sono messo in testa di capire qualcosa di più della santería e magari di scrivere un libro che parli di un argomento così affascinante. Già perché in Italia tutti scrivono di vudu e di Haiti, ci girano film stupendi come Il serpente e l’arcobaleno e a dire il vero anche cose meno memorabili come le pellicole sugli zombies... Ma di Cuba in pochi parlano. E allora mi sono detto che si trattava di andare al cuore del problema e scrivere qualcosa di serio. Che poi serio, via non esageriamo. Quando si parla di Cuba le cose davvero sul serio non si devono mai prenderle. Tutto è relativo per il cubano. Tutto è mas o meno. Pure la religione. Niente di escatologico, dunque. Niente punizioni divine. La santería è proprio il contrario di quello che per un cattolico occidentale significa religione.

Prima di divagare dicevo che sono venuto per lui questa volta. Per Armando, il santéro. Un mulatto corpulento, chiacchierone e gran bevitore di rum come la maggior parte dei cubani. Lui è cugino di Alejandro, il ragazzo cubano che traduco per un piccolo editore italiano, e anche di mia moglie. Di cognome fa Torreguitart per parte di padre e Aguirre per parte di madre. I cubani abbondano con i cognomi, tanto non costano niente. Vive in una casa coloniale di Luyanó, un quartiere di periferia fatto di strade polverose e poco asfaltate, mura scalcinate e gigantesche ceibas che si affacciano ai lati della via. Lui sa tutto della santería. Non fa altro. Non lavora. Vive con le offerte della gente che viene a consulto. E farsi divinare il futuro nelle conchiglie può costare un quarto di pollo o una coppia d’uova, secondo le possibilità del cliente. Una messa spirituale può valere anche una cena completa o una bottiglia di rum di quello buono. Se poi c’è di mezzo un turista è tutto diverso. Allora le tariffe sono in dollari e aumentano di brutto. Mi pare pure giusto.

Alejandro mi ha portato da Armando con il vecchio sidecar. Ne avremo per tutta la giornata. Sempre che a lui non venga a noia prima. Si stancano presto questi cubani. Non sono troppo abituati a lavorare.

“Vengo a prenderti stasera” mi fa Alejandro prima di allontanarsi.

“Bene. Non prima delle cinque” rispondo.

E salgo le scale con il taccuino stretto in mano e la penna nel taschino. Niente computer a Cuba. L’ho lasciato in Italia. A Cuba si torna all’antico e gli appunti si prendono con carta e matita.

Armando mi saluta cordiale. Sta facendo il caffè, come abitudine.

“Ne vuoi una tazza?” mi chiede.

“Certo” rispondo.

Prima di cominciare qualsiasi cosa va preso un caffè. Questa è una cosa che accomuna italiani e cubani. Una delle tante. Come l’amore per le donne, il romanticismo e quel machismo così duro a morire…

Armando si siede sul divano della sala. Un sofà di colore verde, con le molle rotte che cigola a ogni movimento del corpo. Io sprofondo sulla poltrona poco distante e osservo la casa. È proprio come la ricordavo. Non è cambiata affatto. Piccola e un po’ sporca. Avrebbe bisogno di una buona mano di calce sulle pareti e di una donna che la tenesse in ordine. Armando è scapolo. Dice che la sua religione gli impedisce di sposarsi. Tutto intorno pochi soprammobili, all’ingresso l’immancabile altare per i santi con le candele, il rum, i sigari, rami di palma e fiori, bicchieri d’acqua e cibo. Poco distante il fantoccio rosso e nero di Elegguá. Comincia a parlare. Io lo ascolto con attenzione.

“Per capire a fondo la santería bisogna entrare nel modo di vivere cubano. Noi diciamo che de la prisa no se saca más que el cansancio, quindi non devi aver fretta di capire. Tante cose le spiega solo l’esperienza, la pratica quotidiana. Ma tu sei fortunato perché sei mezzo cubano e un po’ camajan. Vero?”.

Sorride. Ci conosciamo da tempo con il vecchio Armando. Lo so che come tutti i cubani mi prende un po’ in giro perché in fondo in fondo mi considera uno yuma, uno straniero che non riuscirà mai a capire la sua isola e le sue tradizioni. Però mi adula. Non lo dà a vedere. Mi chiama camajan perché sa che agli stranieri fa piacere essere chiamati così. È un po’ come se ti dicessero: “Non sei cubano però non sei un fesso”. Una patente di cubanía adottiva, in pratica. 

Termina il suo caffè e va avanti.

“Tanto per cominciare dobbiamo distinguere due aree importanti della santería: la lucumí (di derivazione yoruba) e la conga (bantú) e poi non ci dobbiamo mai dimenticare che, se è vero che Cuba è la più bianca delle isole del Caribe, è altrettanto vero che l’influenza africana sul modo di pensare della popolazione bianca è enorme. Nessuno può dire di conoscere Cuba e il popolo cubano se non sa niente della sua parte nera. Come non si conosce Cuba se non si ha un’idea della lingua yoruba e bantú che ancora si usa nelle messe spirituali e nelle evocazioni”.

“Fin qui niente di nuovo” dico io.

Sono impaziente di arrivare al nocciolo della questione. Alle cose per le quali sono venuto ancora una volta nella terra di Fidel Castro, in questo ultimo baluardo comunista che mi sta tanto a cuore.

“Tu hai fretta. Troppa fretta. Sei proprio un europeo. Correte e non vi fermate mai. Te l’ho già detto che dalla fretta si ricava solo stanchezza. E allora ascoltami e non interrompere. Ti dirò tutto quel che vuoi sapere”.

“Non aspetto altro”.

“Ma ogni cosa a suo tempo, però”.

“Come sarebbe a dire?”.

“Che sono stanco e devo bere qualcosa, altrimenti non riesco a parlare. Qui all’angolo c’è una caffetteria dove vendono del rum. Vammi a prendere una bottiglia e poi cominciamo”.

Quando torno con la bottiglia stretta in mano lui sta sfogliando le pagine ingiallite di un vecchio libro. C’è una donna nera in copertina e la rilegatura in brossura è di colore verde.

“Qui c’è tutta la nostra dottrina e molte cose sono proibite a chi non è iniziato. Ti dirò le cose essenziali, ma devi farne buon uso”.

“Promesso”.

“Allora parleremo de el monte”.

“Cosa c’entra il monte con la santería?” domando.

“El monte non è il monte” mi zittisce Armando.

“Adesso ascolta e fai silenzio” conclude.

Io mi verso un bicchiere di rum, un Mulata cinque anni, l’unico che ho trovato in quel cesso di caffetteria sotto casa di Armando. Ne verso anche a lui e la storia comincia.

Pagine 160 euro 14,30.


MURSIA EDITORE

 

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