CULTURA CUBANA


A EST DELL'AVANA
 

 

 

Roberto Goracci nasce a Roma nel 1966.

Dopo aver interrotto gli studi di giurisprudenza è stato skipper, cuoco, soldato semplice e agente di viaggio fino al 1995, l’anno in cui ha deciso di lasciare tutto per andare a Cuba.

Tornato in Italia nel 1999, si dedica ora alla scrittura e ha aperto un ristorante caraibico vicino a Roma.

 

Playa Esmeralda

C’era una volta una spiaggia, una stretta striscia di sabbia bianca fra l’azzurro dell’oceano e il verde intenso degli alberi di uva caleta. La gente la chiamava Estero Ciego (laguna cieca) per via della piccola laguna circondata dalle mangrovie, che si sviluppava a pochi metri dal mare, alle spalle della spiaggia.
Era un paesaggio semplice e selvaggio che parlava con il respiro dell’aliseo e il fruscio delicato delle onde sulla sabbia.
Poi arrivarono gli ’80. Gli anni in cui Cuba cominciò lentamente ad arrendersi al turismo.
Quando costruirono il primo albergo, a Estero Ciego furono piantate delle belle palme da cocco, per avvicinarsi al modello di spiaggia da cartolina. Le palme da cocco non sono originarie di Cuba. Cubana è la Palma Real, simbolo del paese, altissima, con il suo elegante tronco bianco e affusolato ma senza cocchi e per questo, forse, non abbastanza esotica per i depliant dei tour operator.
Con la costruzione del secondo albergo qualche genio del turismo pensò che anche il nome della spiaggia non fosse abbastanza attraente, Estero Ciego non suonava bene, quel ciego ricordava troppo un handicap fisico. Fu scelto quindi un nome falso come Manuel Fantoni, ma di sicuro effetto: Playa Esmeralda.
Quando si avviò la costruzione di un terzo hotel, a cinque stelle, sembrò che la esile spiaggia neobattezzata non sarebbe stata in grado di accogliere il numero crescente di turisti. Come fare?
Un giorno, a qualche centinaio di metri dalla riva, apparve la soluzione: una draga. O meglio, un immenso ammasso di ferraglia ossidata da cui partivano, in tutte le direzioni, lunghi bighi orlati di cavi penzolanti. Questa sorta di aracnide rugginoso era collegato alla spiaggia da una conduttura metallica, rivestita a tratti regolari da fasce arancioni di materiale espanso che ne assicuravano la galleggiabilità. Somigliava a un lungo bruco gibboso che sputava sulla riva un potente getto di acqua mista a sabbia bianca, rocce coralline e conchiglie. In tre giorni la battigia avanzò di trenta metri.
Della vecchia Estero Ciego non rimane più nulla. Ora, la nuova Playa Esmeralda ha tutte le carte, anzi le cartoline, in regola. Peccato che, dopo l’ultimo «intervento», l’unica forma di vita rimasta a sguazzare nelle sue acque cristalline sia il bagnante europeo.
C’era una volta un campesino di nome Mongo Viña, che viveva in un Conuco isolato in mezzo alla vegetazione, sulle rive di Bahia de Naranjo. Allevava maiali e galline, coltivava yucca e curava i suoi alberi di platano e ogni tanto, con la sua piccola barchetta, andava a pescare nella baia.

Con lo sviluppo turistico della zona circostante Playa Esmeralda, Mongo Viña fu «invitato» a sloggiare dal suo paradiso, troppo vicino ai nuovi alberghi. Tutta l’area di Bahia Naranjo e Playa Esmeralda è stata convertita in parco naturale e viene amministrata dalla Albatros che è un’impresa turistica dipendente dal ministero delle Forze Armate Rivoluzionarie e che possiede varie installazioni alberghiere a Cuba. Io lavoro per la Albatros e quindi sono un dipendente del minfar, come è scritto sul mio permesso di lavoro.
Nella casa di Mongo Viña, oggi ci vivo io. L’alternativa che mi proponeva la Albatros era una comoda stanza d’albergo, ma con Hush, non ho potuto neanche prenderla in considerazione.
La casa è stata mantenuta come quando ci abitava Mongo Viña e accanto a questa, nel tentativo di trasformare il posto in un’attrattiva turistica, è sorto un ristorante tipico. Troppo tipico. Cinque o sei tavoli di legno sotto un tetto di paglia. La cucina è costituita da due fornelli a gas, unti e anneriti, e da un sudicio lavandino. Per rendere l’ambiente ancor più caratteristico si continuano ad allevare galline, tacchini, pavoni e maiali.
Li accudisce Alberto, un campesino magro con una barba nera foltissima come quella di Camilo Cienfuegos. Arriva tutte le mattine alle sette, assieme al personale del ristorante, con il suo carretto tirato da un ronzino più magro di lui. Alberto deve essere uno dei pochi sfuggiti alla campaña alfabetizadora perché non sa leggere né scrivere, ma è una persona sincera e un gran lavoratore. Possiede due buoi, qualche cavallo e coltiva la terra. È molto più ricco di tanti laureati.
«Per farlo correre gliele devi dare forte», mi disse Alberto la prima volta che montai il suo cavallo. Io stavo in groppa, senza sella, speronandolo invano con i talloni nudi mentre quello continuava tranquillamente a biascicare biada. Alberto prese un ramo di mangrovia e con un grido agghiacciante sibilò una tremenda scudisciata sulla chiappa del povero cavallo che partì in impennata come quello di Zorro. Percorsi duecento metri abbrancato al collo dell’equino che sfrecciava senza tema tra la macchia tropicale. Poi si piantò di colpo. Scivolai lungo il suo collo come su un binario e caddi a terra di schiena. Rimasi immobile qualche secondo temendo di aver fatto la fine di Christopher Reeve, ma invece, dolorante, mi rialzai e riportai indietro il cavallo per le briglie. Non ho mai più cavalcato senza sellaAlle quattro del pomeriggio Alberto e il personale del ristorante tornano alle loro case. A vigilare su animali, pentolame e un eventuale sbarco americano rimane solo una guardia armata con un fucile sovietico obsoleto, da utilizzare forse come una clava a giudicare dall’aspetto ossidato.
La dimora di Mongo Viña è il tipico bohio del campesino cubano: la base è di cemento mentre le pareti sono costituite da sottili assi giustapposte di durissimo legno di palma; il tetto è formato da uno spesso strato di foglie di palma secche che, anche sotto i temporali più forti, non ha mai fatto passare una goccia d’acqua.
All’interno un paio di stanze da letto che definire spartane è un complimento, un bagno e una zona cucina, costituita da un lavandino e un traballante frigorifero russo.
La casa e il ristorante sorgono in una radura tra la fitta macchia, circondate da alcune palme da cocco sotto cui zampettano spensieratamente galliformi e suini.
Seguendo per pochi metri un viottolo che si infila tra le mangrovie, si scende fino a un moletto che si protende sulle acque calme di un’insenatura profonda e frastagliata: Bahia de Naranjo. Da qui vedo bene il delfinario che sorge in mezzo alla baia e in uno squarcio tra le mangrovie si distingue la Marina.
La mia casa... quando la vidi per la prima volta rimasi folgorato: era molto vicina a quello che avevo sempre sognato.
Hush correva in cerchio latracchiando, si infilava tra i banani sgambettando fragorosamente sulle grandi foglie secche, scendeva sul molo, si tuffava, poi nuotando approdava tra le mangrovie divincolandosi nel dedalo di rami e foglie fino a ritrovare l’uscita, bagnato, con la lingua a penzoloni e il sorriso del cane felice.
Un po’ meno felice fu Alberto quando Hush azzannò due galline uccidendole. Dovetti risarcirlo, pagandogli cinque dollari a gallina. Era il triplo del prezzo normale e un chiaro messaggio: metti la museruola al tuo cane. Con il mio cane feci un discorso usando anche le mani e i piedi e da quel giorno convisse con pavoni, tacchini e galli senza ulteriori problemi.
Con qualche lavoretto ho tentato di rendere la casa non dico lussuosa, ma almeno simpatica. Sono riuscito anche a rimediare un televisore, ma riceve soltanto TeleRebelde, che trasmette esclusivamente lunghissime telecronache di beisbol o interminabili monologhi di Fidel CastroSi sono rivelati utilissimi invece i due condizionatori che mi sono portato in barca da Saint Martin. Li ho installati nelle camere così danno un po’ di sollievo durante l’ora degli jen-jen, i microscopici insetti che due volte al giorno, all’alba e al tramonto, salgono a sciami dalle mangrovie sottostanti. Sono praticamente invisibili a occhio nudo, ma ti si appiccicano addosso a decine mordendo la pelle ferocemente. Non sentono né repellenti né bestemmie. A chi non è abituato possono lasciare sulla pelle dei vistosi punti rossi che permangono per alcuni giorni. Le uniche difese sono un potente ventilatore o l’aria condizionata. Fortunatamente l’attacco degli jen-jen dura solo un’oretta. Poi quando arriva il buio se ne vanno per lasciare il posto alle zanzare.
Altri visitatori abituali della casa sono dei ragni scuri e pelosi, grossi come un lp in vinile, provvisti di due micidiali uncini neri posti sul ventre con i quali possono infliggere ferite dolorosissime e in qualche caso letali. Eliminarli non è semplice. Sono sempre scalzo, quindi non è il caso di schiacciarli con il tallone, tirargli qualcosa tipo una scarpa è rischioso, potrei mancarli e forse, date le loro dimensioni, potrebbero rilanciarmela addosso. L’unico rimedio è un lungo bastone, che tengo per questo scopo accanto alla porta d’ingresso, da impugnare come una stecca da biliardo per colpire il ragno sulla testa.
Quando piove s’intrufolano i rospi, che accompagno gentilmente alla porta con qualche calcetto, mentre una rana staziona fissa nello sciacquone del bagno.
Verso sera entra qualche pipistrello che, troppo fiducioso del suo radar, viene regolarmente colpito dalle pale del ventilatore sul soffitto e se ne rivà un po’ rintronato.
Un’altra specie indesiderata che penetra in casa nelle ore diurne è il turista.
La mattina Hush vuole uscire presto per fare i suoi bisogni quindi mi sveglio, gli apro la porta e mi rimetto a dormire.
Talvolta branchi di turisti, vedendo la porta aperta, entrano con disinvolta curiosità pensando di visitare la tipica «Casa del Campesino».
Quando mi alzo di nuovo per andare in bagno mi trovo di fronte una comitiva di vecchie coppie canadesi che passeggiano per il «salotto» guardando incuriositi i cd e i libri in italiano allineati su mezzi tronchi di legno appesi alle pareti.
Nudo, ho i capelli dritti, gli occhi pesti e la fava a mezzogiorno come un satiro. Non devo offrire un bello spettacolo. Il reciproco imbarazzo gela l’atmosfera per un momento, poi i matusa se ne vanno in silenzio, a passi piccoli e svelti. Io rimango lì, in piedi, ancora troppo rincoglionito per dire qualsiasi cosa.
Fortunatamente i turisti sono una rarità, il posto è suggestivo, ma piuttosto isolato e poco conosciuto. Inoltre il ristorante è caro e si mangia abbastanza male.


In un paese capitalista avrebbe già chiuso, ma qui, con i lavoratori a dieci dollari al mese, si possono permettere di mantenerlo «in attività» anche se non si vedono clienti per giorni interi.
Forse per questo motivo è il posto preferito dai capi della Albatros per pranzi e riunioni più o meno ufficiali, con investitori stranieri, dirigenti del partito e alti gerarchi militari in visita. Preparano un puerco asado e passano ore a confabulare a bassa voce, fumando sigari di un metro e vuotando qualche bottiglia di ron. Un paio di volte è venuto anche Raul Castro e per questo penso che mi tengano sotto controllo e, forse, mi hanno pure piazzato qualche microfono in casa.
Anche io talvolta invito a cena qualche jefe. L’ospite più frequente è Garcia.
Dirige tutte le attività turistiche del Parco Naturale Bahia de Naranjo: il delfinario, il Conuco e la Marina dove è ormeggiato il mio catamarano. È a lui che mi devo rivolgere per qualsiasi problema.
Ho notato che, spesso, i dirigenti delle imprese cubane (specialmente di quelle legate al Ministero delle Forze Armate) non sono designati in base alla loro esperienza tecnica nel settore, ma piuttosto su segnalazioni del partito o dei vertici militari, secondo il loro livello di «affidabilità» e di fedeltà alla Rivoluzione. Il più delle volte, quindi, questi jefes non sanno assolutamente nulla di turismo o di marketing e non parlano alcuna lingua utile, se non, raramente, il russo.
Garcia non fa eccezione. Ex militare, buoni rapporti con il partito, si muove

Hush fa le sabbiature

 a Bahia de Naranjo come un signorotto nel suo feudo. Decide tutto. Anche chi posso invitare a casa mia a bere un aperitivo. Infatti non mi è permesso portare a casa ragazze cubane (solo straniere) o persone che, secondo la Albatros, siano poco raccomandabili. Talvolta Garcia si assenta per frequentare qualche «corso di aggiornamento»: inglese o marketing. Lui ne farebbe volentieri a meno, ma i corsi sono obbligatori per i dirigenti e così il pomeriggio spesso mi ritrovo nel suo ufficio per fargli i compiti: «Are you italian?» «No, I am cuban!» «Bravo».
Una giornata al timone
Quando Garcia non c’è, la soluzione di ogni problema è rimandata al suo ritorno. Senza di lui, nessuno vuole prendersi la responsabilità di una decisione perché non avrebbe nessun elogio e, in caso di errore, molti guai.


Da buon jefe ha sistemato tutti i suo amici e parenti: la segretaria è la moglie; il magazziniere, incarico ambitissimo, è suo cognato; il figlio sta imparando il mestiere di addestratore di delfini e altri suoi amici occupano gli incarichi più importanti del parco naturale.
Da buon cubano, è un gran bevitore di ron. Nelle nostre riunioni di lavoro non manca mai una bottiglia sul tavolo.
Da buon membro del partito, sguazza nelle chiacchiere ideologiche e retoriche ma, al momento giusto, sa anche parlare di affari in maniera pratica e diretta. L’unico problema è che, dopo il terzo bicchiere colmo di ron, si lascia andare a grandi concessioni. Poi, il giorno dopo, finge di essersi già scordato tutto. Ma non è uno stronzo e quando ho un problema serio cerca di aiutarmi come può.

Il mio amico delfino. In fondo, è anche grazie a lui che ora sono qui

 


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