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“FUORI USA, ONU, TUTTI !”
Chi è, come opera, dove vuole arrivare
una Resistenza irachena che viene da lontano
(NOV.03)
Di ritorno da Bagdad. Il mio vecchio amico
Riyadh Riyadh se la ride:”Così raccontano che siamo zeppi di terroristi
stranieri che s’infiltrano dai confini? che Osama bin Laden e Saddam
combuttano come far fuori gli infedeli? che la nostra resistenza
all’occupazione straniera è frammentata in mille gruppuscoli etnici o
politici, in buona parte spontanei? Sono storielle da barbiere, buone
come quelle che ci vedevano pronti a colpire Londra entro 45 minuti, con
le nostre armi di distruzione di massa…”
Il Dr. Riyadh è un medico con una
coscienza sociale. Al tempo del collasso del sistema nazionale sanitario
pubblico, apre una clinica privata gratuita nel quartiere popolare di Al
Safina. Si tratta di ricucire passanti forati da pallottole sparate da
statunitensi in panico cronico; salvare bambini intossicati da acque
non potabilizzate; ricomporre la pelle a casalinghe che, mancando
l’elettricità (dopo 8 mesi dalla “fine” della guerra!), si sono
distrutte con le bombole di gas; ingessare donne e uomini fratturati
dagli occupanti nel corso di selvagge incursioni notturne; salvare un
po’di vita a chi si è fatto trovare nelle case cannoneggiate e
bombardate a casaccio e a tappeto; salvare gli occhi o gli arti o i
genitali ai bambini che raccattano le luccicanti bombette a grappolo,
lanciate a decine di migliaia proprio a questo scopo.
Riyadh è stato colonnello di artiglieria
in un tratto della guerra con l’Iran
e nella prima guerra del Golfo. Lo visitai
nel corso dei bombardamenti di marzo-aprile, quelli che, secondo Roland
Huguenin, inviato della Croce Rossa da me interpellato, hanno fatto
almeno metà delle 50-60.000 vittime civili irachene, elencate
dall’organizzazione britannica
Bodycount, ma totalmente ignorate dagli statunitensi (non era
mai successo in una guerra). Oggi non ha dubbi su chi opera contro gli
occupanti. “Era tutto
previsto e programmato. Il governo aveva predisposto centinaia di
nascondigli per armi che servono nella guerriglia, tutta roba che
milioni di persone in questo paese erano state addestrate a maneggiare.
Contemporaneamente, erano stati preparati decine di migliaia di
combattenti, nell’esercito, nei fedayin, nelle milizie del Baath, a una
guerriglia di lunga durata, attrezzandoli sul piano logistico, delle
comunicazioni, della mobilità, della sicurezza. Ti posso garantire che
ogni combattente ha almeno venti abitazioni dove rifugiarsi e
mimetizzarsi. Per venirne a capo, gli americani dovrebbero perquisire
tutte le case del paese, catturare e torturare. Lo fanno, e come lo
fanno, lo ha denunciato anche la Croce Rossa e per questo ha pagato.
Questa non è che un’altra, grandissima Intifada. Abbiamo imparato dal
generale Giap e dai palestinesi e siamo di più e meglio armati. Proprio
come gli angloamericani hanno imparato da Barak e Sharon: i
rastrellamenti, le uccisioni a caso, lo sgomento seminato nelle case di
notte, le punizioni collettive con la distruzione delle case, i
prigionieri privati di ogni diritto e torturati, le umiliazioni ai posti
di blocco, insomma il terrorismo endemico. Ma diversamente dall’Intifada,
qui c’è un comando unico, espressione di quel partito che, nel bene e
nel male, ha governato per quarant’anni, ha formato migliaia di quadri,
centinaia di migliaia di militanti, fatto anche cultura nazionale. Siamo
tutti convinti che Al Qaida l’hanno portata loro, come in Bosnia, Kosovo
e Cecenia, per criminalizzare i partigiani. Hanno gli
Awacs, i satelliti spia che
individuano anche i cani del deserto,
Echelon, le spie prezzolate,
figuriamoci se dai confini passano le bande di Al Qaida senza il loro
consenso.”
Ma quanti potranno essere i guerriglieri?
Il comando USA svarieggia tra 5000 e 50.000 combattenti. Se si prende
per buona l’opinione corrente tra gli iracheni, per i quali a combattere
sono buona parte della Guardia Repubblicana, i fedayin di Saddam e i
miliziani Baath, si dovrebbe pensare a qualcosa nell’ordine di almeno
centomila combattenti “puri”. Più i “fiancheggiatori”. Imprendibili
proprio perché pesci nel mare della solidarietà popolare. Un recente
rapporto segreto della CIA, compilato dal responsabile in Iraq,
trapelato sul Guardian,
afferma che le truppe della coalizione stanno perdendo il controllo
dell’intero territorio nazionale. I partigiani veri catturati sarebbero
poche decine in otto mesi, le altre migliaia, solo “sospetti”
rastrellati nelle retate. Molte città sono del tutto
off limits per gli USA. Aggiunge che urge preparare piani
d’emergenza per un rapido disimpegno dal paese e per l’accelerazione
del passaggio del potere apparente a una qualche rappresentanza che
possa avere il riconoscimento dell’ONU e di almeno una parte della
popolazione irachena.
Cosa succederà? Riyadh fa le sue
previsioni. “Qui cercheranno di installare una dittatura di destra,
finta indipendente che, sponsorizzata dall’ ONU, continuerebbe le
privatizzazioni e la svendita del patrimonio nazionale. E’ per questo
che non ci sta bene che si invochi l’ONU come rimedio all’occupazione.
L’ONU è quella che ci ha fatto sterminare con l’embargo e lascia le mani
libere a Israele. Passeremmo dal colonialismo a un nuovo
neocolonialismo. Quanto agli americani, si ritireranno in quei sei siti
già indicati, nelle zone petrolifere, costruiranno munitissime basi e si
asserraglieranno a difesa del petrolio. Ma anche lì resteranno sotto
tiro, come oggi. Alla fine si dovranno rassegnare a farci decidere
liberamente, se Saddam, non Saddam, Saddam con altri. In ogni caso tutte
le forze politiche che collaborano alla liberazione avranno voce in
capitolo nel nuovo Iraq”. Qualche settimana dopo, il comandante della
coalizione, Gen. Sanchez, ammetteva, contro il suo presidente che aveva
preso a rumoreggiare su Al Qaida dappertutto, che erano il partito Baath
e il Rais a dirigere la rivolta.
Il primo novembre si diffonde il quinto
messaggio di Saddam. Segue una normale giornata di guerra, di quelle che
hanno fatto balzare la conta dei morti ufficiali USA oltre i 400 in otto
mesi, più dei primi tre anni di Vietnam. Ordigni lungo le strade contro
convogli statunitensi, bombardamento con mortai e razzi del quartier
generale USA nel palazzo presidenziale sul Tigri, di cui non viene mai
fornito dettaglio, statunitensi uccisi a Mosul , nell’estremo nord, e a
Khaldiyah, strage di civili davanti alla prigione di Abu Ghraib, alle
fiamme il municipio del sindaco collaborazionista, militari USA feriti
dal lancio di granate, inglesi feriti a Bassora, oleodotti sabotati.
Corredo militare a tre giorni di protesta civile, con uno sciopero
generale che, almeno alla vista di chi percorre le strade delle maggiori
città, è totale. C’è un’interessante storia che circola qui sul numero
vero dei caduti USA. Dana Mazen, il giornalista palestinese fulminato da
un carro statunitense, aveva confidato a colleghi e famigliari in
Giordania, di aver visto e filmato il seppellimento di cadaveri
americani nel deserto a est di Bagdad. Il giorno dopo il suo assassinio
in pieno giorno, da 20 metri, con una grande scritta “PRESS” sul
giubbotto, Mazen sarebbe dovuto rientrare a casa sua in Giordania e
preparare il megascoop. Sarebbero quei soldati che, immigrati da poco da
Ecuador, Guatemala, Messico e arruolatisi nella speranza della
green card di soggiorno,
possono sparire senza che famigliari occhiuti vengano a chiedere grandi
spiegazioni. E’ un sospetto che si ripete a ogni guerra USA.
Avevo scelto di evitare i grandi alberghi
dei giornalisti, Palestine, Sheraton, Al Mansur, zeppi di militari,
collaborazionisti, dirigenti delle società USA appaltatrici della
ricostruzione. E anche di spie. Visto quanto succede a giornalisti e
televisioni che, ignorando le censure del comando alleato, mostrano e
raccontano la realtà di un’occupazione brutale e di un’efficiente
resistenza, con tanto di cadaveri angloamericani, come Al Jazira e Al
Arabiya ( inviati imprigionati dagli americani, il lavoro delle
emittenti bandito dal collaborazionista Consiglio di governo), quegli
hotel erano da evitare. Così ero andato a stare con la famiglia di
Riyadh, oltre a lui e la moglie, tre figlie e il figlio Abdelrahman.
Quella notte verso le due, ci sveglia un gran fracasso: porte
sfondate, legni spezzati, clangore di metalli, urla sconnesse. E subito
– io dormo nel soggiorno – a tutti una torcia in faccia e qualche colpo,
spinta, calcio, schiaffo sul resto del corpo. Sono sei o sette, bardati
come robocop, e ci schiacciano faccia a terra. Non parlano arabo.
Portano le donne, tutte in silenzio, e le allineano accovacciate accanto
a noi maschi. Passano e ripassano sopra i corpi, pestandoli con cura.
Nel buio luccicano canne puntate contro di noi. Alcuni si spostano nel
resto della casa per la “perquisizione”. Alla fine, troviamo un
televisore spaccato, la radio buttata a terra, gli armadi sventrati, due
ritratti tirati giù, tutte le porte rotte, una finestra sfondata e
mancano tutti i contanti che Ibtisad, la moglie, teneva nella cassapanca
della biancheria. Ci vengono legate le mani dietro la schiena, con un
filo di nailon che taglia la pelle, tra continue urla di star giù. Agli
uomini infilano un sacchetto di tela in testa. Quando da lì sotto
bofonchio in inglese che sono press
e italiano, uno mi urla cosa stessi facendo tra quei
filthy dogs, luridi cani. Mi
tirano fuori e mi spingono sul blindato. Tutta la strada brulica di
mezzi e soldati. Decine di abitanti, perlopiù in pigiama, stanno in
ginocchio con il cappuccio sulla testa e le mani legate, ma una persona
è stesa in una pozza di sangue con un telo sul corpo. Avevamo sentito
spari. La cosa si trascina fino a una stazione di polizia dove, dopo una
serie di domande di prammatica, controllati gli accrediti, vengo
lasciato andare. Un ufficiale statunitense mi viene a esaminare e poi a
mandar via, non senza il previo ammonimento di lasciare l’Iraq entro 48
ore. Lo lascerò dopo 72 ore, ma sarò sempre seguito da un angelo
custode. Quando torno da Riyadh, Abdelrahman non c’è più. Portato via a
spintoni, calci, urlacci, con il sacchetto in testa. Ai genitori la
polizia ripete tuttoggi che “non risulta alcun Abdelrahman tra i
detenuti”. Del resto la Croce Rossa Internazionale non c’è più e non può
quindi più rompere le scatole agli occupanti per sapere nomi e
condizioni dei catturati.
Prima di ripartire, ero stato a Nasiriah,
dove sarebbe successa la tragedia italiana. Un influente imam, Mahmud al
Baker, scita moderato del giro dell’Ayatollah Al Hakim, ucciso a Najaf
con l’autobomba di agosto insieme a 80 persone (e uno dei sei comunicati
fin qui diffusi da Saddam nega ogni responsabilità per quell’attentato,
come, dopo, anche per quello alla Croce Rossa Internazionale), non mi
aveva parlato granchè bene di carabinieri e militari italiani. “Qui si
muore di dissenteria e gli italiani, che si dicono venuti per
ricostruire, in tutti questi mesi non hanno neanche aggiustato
l’impianto di depurazione. Non fanno niente, niente. Rastrellano,
trattengono qualcuno, pattugliano, minacciano con le armi, sono
nervosissimi e perciò pericolosi. La gente non li ama. Appena arrivati
hanno sparato su una piccola folla di ex-soldati, impiegati e funzionari
che chiedevano la paga negata da aprile. Hanno ammazzato una persona e
ferito un’altra. Un’altra volta hanno assaltato la sede di un piccolo
partito (il Partito Comunista Operaio Iracheno. N.d.r.), hanno bastonato
tutti, hanno devastato gli uffici e, senza alcuna accusa, si sono
portati via i dirigenti. Portatori di pace?” Le parole di Al Baker
avrebbero trovato una conferma nel saccheggio della caserma italiana
davanti alle telecamere. Nel costume arabo, esprime disprezzo e
ostilità.
Chiunque abbia frequentato questo paese
negli anni passati, non si meraviglia di una resistenza che, dalla zona
sunnita di Bagdad- Samarra-Tikrit-Ramadi- Kirkuk-Mosul, si è ormai
estesa all’intero territorio nazionale e comprende tutte le etnie, anche
se in misura minore gli sciti di Najaf e Kerbala, città sante. La media
è di una cinquantina di attacchi al giorno, taciuti quando avvengono
lontano dalle telecamere, di cinque militari alleati uccisi – quelli
comunicati - e di almeno 15 feriti. Scott Ritter, capo-ispettore ONU e
spia pentita ha dichiarato che fin dal ’96 aveva scoperto centri di
addestramento alla guerriglia, con particolare cura per la confezione di
ordigni esplosivi contro mezzi corazzati e le imboscate con RPG e
bazooka. Quelli di noi che erano stati qui prima, sapevano che da anni
si erano predisposti piani per la guerra di popolo di lunga durata.
Forte di un partito con un milione di militanti, lo Stato aveva
addestrato la popolazione, ogni segmento con il suo compito:
combattimento, santuario, rifugio, rifornimenti alimentari, custodia di
arsenali, trasporti, comunicazioni, intelligence. Donne, uomini, vecchi,
ragazzi.
A proposito della quale intelligence un
colonnello Brian Mcpherson, che mi era venuto a liberare da quel posto
di polizia, mi dice chiaro e tondo:”Non abbiamo chances di sopraffarli.
Qui ci vorrebbero informazioni e informatori. Ma la nostra intelligence
è altamente sofisticata, intercetta tutto, non i messaggi che passano di
mano in mano, le katiuscia tirate dagli asini che fregano anche
Echelon. La loro
intelligence è capillare: hanno gente dappertutto, negli alberghi,
nell’amministrazione provvisoria, nei taxi, nei locali, nei mercati. E
le nostre spie sono alla mercè delle loro rappresaglie. L’ha detto
Saddam: colpire soprattutto i collaborazionisti. E’ ovvio, fa più paura
una società irachena che si autonomizza, che non tutte le nostre
divisioni”. Il Col. Mcpherson non irradia euforia, quella è riservata
per le telecamere dei media occidentali. “Ci colpiscono come e quando
vogliono. Sono motivati e noi no. Non va bene, non va per niente bene”,
borbotta mentre sto salendo su un taxi. E sono i pensieri che esprimono
le facce dei soldati che vedi ai posti di blocco, in qualche caffè,
quando non è il momento della ferocia nelle rappresaglie sulle famiglie.
Un morale sotto i piedi. Quello che ha già portato sottoterra 17 suicidi
e ha fatto disertare oltre 40 soldati. Perlopiù latinos, quelli che
vengono sepolti di nascosto. L’atto finale era stato la consegna di armi
a tutta la popolazione attiva, sei mesi prima dell’aggressione.
Qualcuno, fuori, pensava che quelle armi avrebbero dovuto costituire una
resistenza ad oltranza contro l’invasore, in uno scenario da crepuscolo
degli dei. Accadde invece quella che fu chiamata la “sorprendente
liquefazione delle armate di Saddam”, dopo l’ultima, strenua difesa di
Nasiriah, e ancora “la capitolazione e il tradimento dei generali di
Saddam”. Sbagliato nell’uno e nell’altro caso.
Nidal (non è il suo nome) è un giornalista
palestinese, in Iraq dalla rivoluzione del ’68, già altissimo dirigente
del partito Baath (“Arabo socialista della Rinascita”), responsabile del
sostegno alla resistenza palestinese. Finora è scampato sia al
famigerato mazzo di carte dei biscazzieri di Washington, sia alla
cattura. Ha sistemato moglie e tre figli in Giordania e sospetto sia
coinvolto nella lotta. Da lui le informazioni più precise e affidabili.
“Sapevamo tutti di un’ora X in cui avremmo dovuto cessare ogni
resistenza e passare alla clandestinità, rapportarci ai compagni delle
nostre cellule, inserirci nella divisione territoriale in cinque settori
e in quella cittadina in quartieri, rioni, gruppi di case. C’era chi era
destinato al combattimento e chi alla mobilitazione civile. Su tutto il
paese era stata prevista una rete logistica, di arsenali segreti e
centri di supporto. Quell’ora X fu proclamata dal governo quando gli
invasori stavano tra Kerbala e Bagdad. Ai dirigenti civili e militari
più anziani, a quelli con problemi famigliari, o che comunque non se la
sentivano, era stato ordinato di rifugiarsi all’estero, o di consegnarsi
all’occupante. Dovevamo optare per una situazione che ci avrebbe ridato
un vantaggio strategico, un rapporto di forze favorevole, sotto un
comando centrale, con disponibilità di mezzi, controllo del territorio,
e organizzazione capillare e disciplinata. Ha funzionato benissimo.”
Alla domanda se, una volta passato il
potere formale dagli occupanti a una qualche struttura governativa
autoctona, l’appoggio della popolazione alla Resistenza potrebbe
scemare, Nidal risponde: “Non siamo mica
majnun, allocchi. Non cambierà nulla. La direzione della
Resistenza, che è saldamente in mano al partito, con il concorso di
molti comunisti della “Tendenza patriottica” (in contrapposizione al
partito ufficiale, PCI, che si è prestato a collaborare con gli USA
entrando nel governo-fantoccio del bancarottiere Chalabi e del
narcotrafficante Talabani. N.d.r.), dei nasseriani, socialisti,
nazionalisti vari e dei tanti volontari venuti prima e durante
l’invasione, non per nulla colpisce ogni pur minimo tentativo di
costruzione di un apparato collaborazionista: gli stessi membri del
Consiglio Provvisorio, poliziotti, uomini d’affari. Tutti gli iracheni,
anche le formazioni scite più disposte a tollerare per ora l’occupazione
(si riferisce allo SCIRI pro-iraniano e al raggruppamento intorno
all’ayatollah Al Sistani, mentre gli sciti di Muktada Al Sadr praticano
un’efficace resistenza civile. N.d.r), non accetteranno niente che non
sia il ritorno a una totale sovranità e indipendenza. I quisling qui non
passano, come non passarono quando gli inglesi si affidarono a Nuri Said
(Nuri Said era Primo Ministro nel governo neocoloniale della Monarchia
insediata e difesa dal Regno Unito, giustiziato insieme a re Feisal II
nella rivoluzione del 1958. N.d.r.).”
Ritrovo anche Fatma, già dirigente della
disciolta Federazione delle donne irachene e promotrice della loro
alfabetizzazione ed emancipazione laica , ora cacciata dalla vecchia
sede, occupata da un ONG collaborazionista, ribadisce anche che agli
iracheni non basterà che se ne vadano gli occupanti. Non vogliono
neppure i caschi blù dell’ONU. Ed è quello all’ONU, che provocò la
morte anche di Viera De Mello, rappresentante di Kofi Annan e intimo
dell’amministrazione Bush, anche l’unico attentato, tra quelli contro
civili, che non vengono negati dal comando della Resistenza (i suoi
bollettini di guerra escono regolarmente ad Amman e vengono ripresi dal
sito
www.uruknet.it). “Non abbiamo bisogno dell’ONU – dice Fatma – che
verrebbe solo per dare una verniciata democratica alla
neocolonizzazione. E poi, per aver attuato per 13 anni un embargo
genocida contro il nostro popolo, l’ONU ha perso ogni credibilità tra
gli iracheni. Qui non c’è una borghesia compradora, disposta a
collaborare, per quanto gli americani si sforzino di promuovere elementi
criminali a classe dirigente. Qui ci sono un ceto medio e una classe
lavoratrice che hanno costruito il paese e si ricordano delle conquiste
sociali e nazionali conseguite. E’ questa alleanza che tornerà a vincere
in tutto il mondo arabo”. E il terrorismo, fa gioco all’Iraq il
terrorismo? Fatma, come altri miei interlocutori, si arrabbia sul serio.
Due nipotini le sono finiti sepolti sotto la macerie della loro casa a
Al Mansur. Uno solo ritrovato. “Mettiamo in chiaro che non c’è
terrorista come Bush, o come Sharon e Blair. In Occidente dovreste saper
distinguere tra un attentato alla Croce Rossa, ai civili, o a una folla
musulmana a Najaf , provocazioni dei servizi sionisti e americani, e le
legittime azioni di guerriglia contro gli occupanti e i rinnegati che li
servono“.
Nei bazar, nei caffè, nelle moschee
circolano i volantini con l’ultimo
messaggio di Saddam. Segno di
un’organizzazione clandestina che funziona.
Come quando colpisce l’elicottero al
seguito del sottosegretario Wolfowitz
o l’albergo in cui dorme, o quando una
pioggia di missili si abbatte sul compound dove per poche ore sosta il
ministro della difesa britannico, Jack Straw, o quando Viera De Mello
scende nella hall dell’edificio dell’ONU, o quando decolla un velivolo
dall’aeroporto.
E’ una Bagdad dall’aspetto di
day after, popolata da gente
con il volto scavato da penurie annose e ormai indicibili, ma sempre
vivissima, civile, gentile con l’ospite. Tra strade chiuse, macerie non
rimosse, colonne di carri che scorrazzano, pronti a sparare al minimo
attacco di nervosismo su chiunque gli passi davanti, detonazioni
incessanti e immense colonne di fumo nero, posti di blocco con soldati
nevrastenici e brutali, muri sharoniani intorno a interi blocchi di case
e a città particolarmente riottose, il tessuto di questa società
tartassata da assedi e aggressioni regge in spregio a tutto. “Neanche
l’acqua hanno saputo ripristinare, che è la garanzia della vita e della
salute, e l’elettricità viene poche ore al giorno, quando viene. Le
scuole sono o distrutte o chiuse: vogliono riportare una società evoluta
all’analfabetismo. Ma qui nessuno cede,
insh’allah”, mi dice uno
studente dell’università di Al Munsariah, che l’istruzione allora
pubblica aveva portato vicino alla seconda laurea in lingue, dopo
quella in ingegneria. Le razioni alimentari con cui lo Stato aveva
sopperito all’affamamento angloamericano e che sono durate fino a tutto
luglio, sono state ridotte a quasi niente. Al posto del vecchio,
amatissimo preside della facoltà, hanno imposto un ceffo, tale Prof.
Munser, laureato in Iowa, venuto sul carrozzone dei collaborazionisti di
Ahmed Chalabi, trainato dagli affusti americani. “Appena lo hanno
insediato, due missili hanno sventrato il muro di cinta dell’università
e noi tutti siamo entrati in sciopero”, ricorda sornione.
Siamo a due isolati dal quartiere
generale USA, nel palazzo presidenziale, dove si è riunita una folla
enorme, almeno duemila persone, che festeggiano l’ennesimo bombardamento
con mortai del compound nemico innalzando, come succede sempre, ritratti
di Saddam e gridando slogan contro gli occupanti. E’ un evento che si
ripete dopo ogni azione di guerriglia. All’arrivo sferragliante dei
carri e dei blindati, la folla si disperde. Restano parecchi ragazzini
che scagliano pezzi di asfalto divelti, o di macerie che non mancano
mai. E sembra di stare a Ramallah. Forse siamo a Ramallah e quelli di
Ramallah stanno qui…
L’episodio più sanguinoso, epitome del
modo di ricostruire l’Iraq e coltivarne la democrazia e il consenso, mi
capita il 31 ottobre alla periferia nord di Bagdad, la zona della
prigione di Abu Ghraib. Centinaia di persone sono radunate davanti al
grande carcere. Nel campo all’aeroporto è invece rinchiuso l’ex-primo
ministro Tariq Aziz, in totale isolamento dall’esterno, dopo che la
fastidiosissima CRI era riuscita a farsene arrivare un paio di
biglietti: “Sto bene, vi amo”. E’ una mezza sommossa, tra chi chiede
all’amministrazione militare il rilascio del proprio caro, chi esige una
paga, chi un lavoro, chi l’acqua, chi la luce, chi
solo la dipartita dello
straniero. Mi trovo a un banchetto lì vicino, a bere il
ciai con un venditore di
noccioline e chincaglierie. Una radio riferisce dell’ennesimo oleodotto
saltato a Kirkuk. “Sa cosa le dico, qui in Iraq si combatte la battaglia
per la salvezza dell’umanità. Già gli abbiamo bloccato la guerra a Siria
e Iran. Ora loro, specialisti del terrorismo, cercano di confondere
resistenza e terrorismo in modo che tutto il mondo ci consideri
terroristi e ci odi.”
Ed è il momento in cui scoppia l’inferno.
Ci rintaniamo in un portone. La folla fugge in tutte le direzioni, con
dietro raffiche lunghissime di mitragliatori, qualche colpo più secco.
Persone inciampano, cadono, forse colpite. Tutto parte dagli
humvee e dagli
Abrahms che gli statunitensi
schierano davanti alla prigione. Abu Ghraib, il suo mercatino non
lontano dal carcere, annegano nel sangue. Quando le armi si tacciono,
saranno 17 civili uccisi, almeno 80 feriti, una carneficina. Si
trascinano corpi inerti, altri che si lamentano vengono caricati su
automobili. Polvere da sparo e terra battuta sconvolta dal tumulto
creano una specie di foschia. Vediamo sfocato e, finita la sparatoria,
nell’improvviso silenzio di sospensione, tutto sembra una
rappresentazione di fuggevoli ombre cinesi. Qualcuna tira pietre. La
realtà ci ripiomba addosso con un ragazzo che viene depositato davanti
al negozietto con la gamba attaccata per pochi centimetri e carne
tritata che se ne spande sul selciato. Corrono, gridano di nuovo,
portano stuoie, asciugamani, acqua, cotone. Uno si toglie la cinta e la
stringe sotto l’inguine. In un pulmino veniamo portati via in sette,
compreso il ferito. Silenzio. Le facce sono indurite come pietre. E
sudano. C’è anche una donna, ampia, tutta nera che, piano piano, si dà
da fare attorno al ferito. Se ne adagia la testa nel grembo, perché non
sia sballottata. Il ragazzo percepisce che sono straniero,
sahafi, giornalista. Quando,
all’ospedale, lo tirano giù su una tavola, alza un poco il braccio zuppo
di sangue e mi fa la “V”. Ci sono pochi iracheni che, osservati dai
giornalisti, non sorridano e facciano lo stesso.
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