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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

BOLIVARIANI 

 

 

 

11/7/03

 

Si chiamava “Chez Geraldine”, o qualcosa del genere, ed era un bistrò d’angolo a Saint Denis, appena fuori Parigi. Era una serata placida e sorridente, mancava solo il bassottarello Nando il cui represso istinto cacciatore, coi piccioni che svettavano tra le guglie o razzolavano nella ghiaia, avrebbe raggiunto il parossismo. Della frustrazione, perché non li piglia mai, neanche quando gli abbaia dietro per mezz’ora. “Chez Geraldine” è Francia da organetto, da Modigliani, Sartre e fuorusciti, tricolori e strade al ballo. Quattro tavolini sotto un ciuffo di tigli grandi quasi come, ma antichi quanto, quel torrione che si rizza sulla cattedrale e su suoi contrafforti decorati a santi volanti e crocefissi inebetiti, come d’uso nel romanico. Medioevo agonizzante che, attonito, si sveglia da nebbiosi e silvani incubi mero- e carolingi, al riapparire di Aristotele e Pitagora, Saffo e Omero, restituiteci dagli arabi insieme allo sfolgorìo laico delle mille e una notte di Baghdad. Ci metteremo però, noialtri, un po’ di secoli, prima che i geni greci ci accompagnino fino a Poliziano e poi a Diderot e all’”Incorruttibile”, grande tra i grandi, Robespierre. Una zavorra, una palla di piombo al piede con incisa la croce, un castigo da fato greco che continuerà a farci strisciare nella polvere, fino alla nuova rivoluzione, quella d’ottobre, e poi tornerà e ritornerà a buttarci sotto, sotto la ferula di papi uno peggio dell’altro, uno più losco e feroce dell’altro, impiantati proprio nel cuore della nostra terra, storia, vita, a rilanciare da qui il millenario inganno giudaico-cristiano, quello del più astuto e spietato del poteri.

Da “Chez Geraldine” il tramonto filtra serpenti luminosi tra i tigli, animati da una baraonda di moscerini i cui sincronismi di danza, al paragone con il diluvio di sculettamenti antisesso della Tv, sono la perfezione di un platonico mondo delle idee. Reggono il confronto solo gli inimitabili squadroni di settantenni agli halligalli delle nostre feste. Sto qua a gambe stese, accanto al monsieur in nero con papillon e feltro, col suo demi-litre rouge, appena balzato dallo schermo di  un cineforum con Jean Gabin. Mi svolazzano attorno con grazia di mosse e sorrisi due mademoiselles che bilanciano piatti, bicchieri e ammiccamenti parigini. Per venire qui, al Primo Incontro Europeo di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana, ho dato buca a tre tra circoli del partito e comitati contro la guerra e mi sento colpevole. E’ difficile che dia “pacchi”. Come non rispondere a chi, moralmente e politicamente bombardando il Quartier Generale, ha la civiltà e il coraggio di invitare a dibattere il più politicalli scorrett su piazza? Tanto più che qui si tratta di un pronunciamento di massa: mai avuto tanti inviti a iniziative come da quando, per colpe comuniste, hanno cacciato Nando e me da “Liberazione”, quotidiano comunista. Ma il seminario bolivariano è una buona giustificazione, tanto più che me lo porterò ai dibattiti in Italia.

Chez Geraldine” è rannicchiato ai piedi di una montagna di pietra grigia, con quei colombi in cima che svolazzano via compassati quando rintronano le campane. E’ la “Basilica dei Re”, il monumento più denso di storia – di cadaveri storici – che esista in Francia: nel caleidoscopo di fuochi colorati che precipitano dalle vetrate gotiche, ad animare volte e navate, absidi e colonnati, tralucono marmi sagomati che paiono cerei volti e corpi e vesti di appena defunti.

Sono le tombe di tutti i re di Francia, dal Dagoberto selvatico, primo re dei Franchi a metà Seicento, al friabile e putrescente Luigi XVIII della sepolcrale restaurazione. 1200 anni di monarchia, di dominio, di “diritto divino, patria, famiglia”, di cultura alta e vita di merda. 1200 anni di rivolte per libertà, fraternità, uguaglianza, giunte all’apice nel 1789, ribadite 128 anni dopo in quella che per sempre sarà Leningrado. E giustamente, proprio qui, l’incontro  all’insegna della migliore rivoluzione in atto: affinchè quei catafalchi nella Basilique Royal – e i beccamorti che li vorrebbero di ritorno -sappiano che cos’è la nemesi.

 

All’incontro di solidarietà con i bolivariani del Venezuela, trincea avanzata, politica, sociale e ideologica, della guerra contro l’imperialismo, eravamo una cinquantina. Circoli bolivariani spuntati qua e là in Europa, tra emigrati e compagni solidali con il grande tentativo di Hugo Chavez e di un gruppo dirigente, tra i più saggi e coraggiosi del nostro tempo, di rivoltare la frittata, abbattere feudalesimo e capitalismo, costruire con il popolo, e col pensiero a  Bolivar, Fidel, Gramsci, Fidel, la nuova società, quella dove il 10% della nazione, borghesia bianca, ottusa, corrotta come una carogna di topo, farà la particina che le spetta e non ruberà più l’80% del paese a tutti gli altri. Insomma fare il socialismo, anche se lo chiamano in modo diverso. Di RC, in veste ufficiale, c’era solo un ragazzo di Venezia che in tre giorni e venti dibattiti non ha mai aperto bocca, se non per obiettare a me, quando osservai a un propagandista ATTAC del commercio equo e solidale, che di ben altro Cuba e il Venezuela avevano bisogno. Piccato, ribattè che Cuba era assai presente sui banchetti di quel commercio in Italia. Forse era attanagliato da dubbi  gennaromiglioriane: “ma saranno no-global, che ne pensa il Movimento dei movimenti, non dovremmo sospettare di quell’origine militare di Chavez, oddio addirittura paracadutista, perfino golpista?” (non fu un golpe, nel ’92, fu il rifiuto di Chavez e di altri ufficiali di sparare su chi chiedeva di non morire di fame nei tuguri,  all’ombra dei ladroni del petrolio e del commercio, imbolsiti dalle scorpacciate di dollari yankee).

Abbiamo appreso qualcosa di più di una rivoluzione che, altro che Lula, è da capogiro e da capovolgimento di tutto. E ci siamo organizzati per sostenerla e farcene sostenere qui da noi.

 

Chavez è una mosca bianca nel mondo e, per ora, nel nostro giornale, grazie anche a un’ intelligente e informata inviata, nel mezzo di uragani di tafani velenosi. Per il resto “Liberazione” è allineata e coperta e sta a proprio agio nel salotto dove si stilano gli elenchi dei “buoni” e dei “cattivi”. Noi ora facciamo fronte con tutti quelli che vogliono abbattere Berlusconi e il regime della mafia e dei fascistizzanti. Non c’è niente di bolivariano, o di ottobrino in questa scelta. C’è il prendersi sotto braccio per resistere alla spinta nel precipizio. Giusto, inevitabile. Ma dobbiamo pur chiederci quanto cammino si possa fare assieme a chi gareggia per apparire più affidabile e garante di privatizzata pace sociale sia agli USA dell’imperialismo planeticida, sia ai suoi cloni in Confindustria. E a che condizioni. Finora se n’è parlato poco e di paletti non ne ho mica visti piantati tanti, a partire dal nostro diritto di interloquire sul nostro giornale, pure una condizione possibile e necessaria per far misurare ai compagni il nostro passo nella marcia dei tanti e diversi. Giornale riequilibrato e decensurizzato, diciamo pure democratizzato, almeno questo in cambio del pasto nudo con i rospacci D’Alema-Rutelli.

Però vorrei che qualcuno mi dicesse come si farà a convivere tra noi e il resto del mondo che, da Bush all’emiro del Kuwait, da Previti a Pannella, da Fassino a Bertinotti, lubrifica i cingoli dell’imperialismo  e ogni tanto ne muove di suoi. Come si farà a solidarizzare a 360 gradi con chiunque tra questi cingoli cerca di infilare sabbia e bastoni. Loro, colonizzatori di selvaggi non meno dei missionari apripista dei conquistadores, oggi organizzazioni non governative, stanno con una rivolta piccoloborghese e bazarista in Iran, affamata di capitali e poteri, futuri compradores. Si esaltano sui destini occidentali in arrivo ovunque li vogliano o no, insieme a sedicenti comunisti senza classe, sospinti dalle trombe suonate a Washington, ma indifferenti all’avversione e lontananza degli operai e contadini di quel paese, che, anzi, si sono visti soli e abbandonati quando hanno voluto festeggiare il 1. maggio. Loro stanno all’ombra del revanscismo anglosassone, con chi allo Zimbabwe di Mugabe infligge i diritti umani dei rapinatori latifondisti bianchi e vuole negare una definiva decolonizzazione e defeudalizzazione. Con chi in Palestina finge negoziati di pace è sono negoziati che, partiti dai piedi, sono arrivati alla gola del popolo titolare di quella terra, solo e unicamente per disarmarlo e vincerlo sfraiato. Noi stiamo con chi al genocidio insiste a rispondere con la lotta. Loro stanno con chi in Iraq si offre come copertura a sinistra  dell’invasore stragista e, dicendosi comunista, semina discredito, diffamazione, sabotaggio, collaborazionismo sulla lotta di un popolo martoriato e assediato da vent’anni. Un popolo incredibilmente forte e coraggioso. che sta dimostrando di essere tutto quanto in piedi, in armi, in piazza, sotto la guida di chi, a dispetto delle male-dizioni di un Occidente frustrato, emule di quelle contro Stalin, Milosevic, Robespierre, Nasser e tutti i resistenti ai dominii, organizza e guida il riscatto. Loro stanno con chi s’inventa un Tibet paradisiaco stuprato dai comunisti e procede, con i pupi CIA della New Age e di Pannella, a restaurare la dittatura medievale e schiavista di una banda di monaci pedofili. Stanno con i terroristi, stragisti di civili, della succursale CIA, detta Al Qaida, in Cecenia  che promuovono a partigiani e guerriglieri dell’indipendenza, non voluta dalla stragrande maggioranza della popolazione, ma intensamente voluta dagli sciacalli del petrolio, della kosovarizzazione, della criminalità narcotrafficante. Criminalità stragista di civili da promuovere a proconsole delle marche imperiali, come con Lucky Luciano nell’Italia “liberata” e a Cuba “democratica”, o con Thaci in Kosovo e Diukanovic in Montenegro. Sempre a Cuba, stanno con mercenari terroristi, addestrati al sabotaggio e alle bombe dai macellatori e divoratori di popoli e risorse. Conferiscono l’aureola di dissidenti, oppositori, democratici e minoranze a questo tentacolo  della piovra a stelle e striscie, foderato in un anno di 300 milioni di dollari da un istituto para-CIA, lo stesso che ha foraggiato l’eversione jugoslava. Intellettuali dissidenti ? Becchini al soldo del nemico che vorrebbero abbattere la pietra tombale sopra una delle ultime fiammelle di “altro mondo possibile” che sopravvivono nell’uragano della notte dei morti viventi. Una fiammella che, da sola, ha tenuto in vita la brace della rivoluzione nel continente e nel mondo. Tentennando col capo incanutito, liftato da nuovismi e innovazioni, tra un nè-né e l’altro, si sono addirittura schierati con la criminalità organizzata che si è impadronita dei resti sanguinanti e uranizzati della Jugoslavia, promuovendo i manutengoli Otpor a reparto d’urto dell’esercito no-global e sposandosi con quei Disobbedienti devoluzionisti e criptoleghisti che dei becchini benpagati di Otpor hanno fatto la loro rappresentanza in terra balcanica. E’ di ieri la conferma che Otpor, gli epuratori a botte e fucilate della Jugoslavia dei sindacati e del no a Nato e turbocapitalismo, ha ricevuto dalla vetrina CIA, National Endowment for Democracy”, 450.000 dollari solo tra il 200 e il 2001, anni del golpe e della vendita di Milosevic. Ma nessuno ha pagato per un errore che teppisti fascisti ha presentato come compagni. Ha pagato chi li ha smascherati.

Cosa pretenderemo e come ci distingueremo da alleati come D’Alema, socio preferito da Berlusconi, inciucista, massone, opusdeista, e Fassino, che promette eterna fedeltà e amicizia a Israele, sopra le macerie insanguinate e fumanti di un popolo oggetto di olocausto da 60 anni, cui però sarebbe carino riservare un 9% della sua terra, ma solo alla metà non espulsa rimastavi abbarbicata. In tutto il mondo un arco che va dai vertici di RC fino ai neofascisti di Alleanza Nazionale si dispone, con l’arma di distruzione di massa della democrazia, dei diritti umani e della nonviolenza, a rinchiudere in una Guantanamo planetaria i popoli irriducibili, quelli dei sassi e dei Kalachnikov, gli Stati che, con la casa assediata e assaltata da ogni lato, impongono alla famiglia un minimo di metodo per resistere uniti e non farsi comprare o frantumare. E’ lo stesso arco che ancora accredita la menzogna di un terrorismo, islamico o qualsivoglia, che non sia invece partorito, organizzato e praticato dalle cosiddette Grandi Democrazie, come alibi per l’oppressione e la conquista, a partire dalle nostre stragi di Stato fino all’11 settembre di New York e Washington. Grave, gravissima la nostra indisponibilità a disturbare il manovratore con le mille prove storiche ed attuali dei suoi itinerari delittuosi. Guerra e terrorismo hanno gli stessi genitori, diciamolo finalmente, come con coraggio e prove inoppugnabili fanno tanti negli stessi Stati Uniti e altrove. Se la banda di Washington e i suoi ascari e sicofanti non vengono delegittimati di fronte al mondo, con la rivelazione della loro natura ed attività criminali, si perpetua l ‘equivoco più paralizzante che il potere abbia  inventato dopo il decalogo di Mosè.

L’altro giorno, nella mattina dopo un dibattito, vedevo stagliata contro il cielo l’antica torre Matilda di Viareggio, fortificazione lucchese contro i briganti del mare. Tra i merli, due colombi che occhieggiavano verso rumori e bagliori. Mi ha fulminato la domanda: dove andranno a morire i colombi? Non se ne è mai visto in giro uno deceduto per morte naturale, semmai qualche vittima dell’impatto con lo sviluppo carozzato e contaminante. Non so il luogo dove vanno a morire i colombi. Forse spariscono semplicemente nell’etere, appesi a un raggio di sole. Loro, quelli di prima, invece non sanno dove vanno a morire donne, uomini e bambini di Iraq, di Palestina, di Bolivia, di Colombia, dove sono andati a morire nelle 60 invasioni e guerre civili i 30 milioni di uccisi dall’imperialismo. Non lo sanno e non lo vogliono sapere poiché è dai loro diritti umani che sono stati ammazzati.  Noi dovremmo ricordarcene perché sono segnali di senso unico. Ci siamo abituati al sistema Caritas: piangiamo le vittime, inviamo aiuti, esprimiamo solidarietà, facciamo associazioni di soccorso e non cambiamo di un acca il destino di chi non finisce nell’etere appeso a un raggio di sole, ma in sale di tortura, in segrete senza porte, in terre senza nome, in cimiteri senza lapidi. Quand’è che avremo la lucidità e il coraggio di tornare a stare con chi lotta, di inviare aiuti, di esprimere solidarietà, di fare associazioni di soccorso per coloro che combattono, costi quel che costi, perché è nel combattere e nel morire in piedi, non nella compassione, che si seminano gli alberi da cui trarre i paletti che dovranno tanto neutralizzare i nemici, quanto imporre il percorso ai compagni di strada e indicare, contro ogni disarmo unilaterale fatto passare per evoluzione democratica, la via verso la liberazione e il comunismo.

 

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