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Resistenza fino alla
vittoria
01.09.2003
Tommaso di
Francesco, del Manifesto, è stato tra tutti l’inviato e commentatore che
più correttamente ha raccontato guerra e frantumazione della Jugoslavia,
con tutte le infamie del caso giustamente attribuite alla Nato e ai suoi
ascari tagliagole dell’UCK kosovaro. Dribblati con acume di marxista
tutti i luoghi comuni della propaganda di guerra, Tommaso è tuttavia
inciampato su due stereotipi della disinformazione imperialista (e
velinara), purtroppo sui più insidiosi e tossici: la inesistente
“dittatura” del “nazionalista” Milosevic e la “pulizia etnica” che i
serbi avrebbero condotto contro le minoranze jugoslave, in particolare
contro gli albanesi del Kosovo. La storia e le indagini di ONU e
investigatori indipendenti hanno fatto giustizia di queste falsità:
Milosevic né era un dittatore, né seguiva politiche nazionaliste, anzi,
né Belgrado aveva mai condotto operazioni di pulizia etnica. Semmai i
serbi le avevano subite: in Croazia, Bosnia e Kosovo. Lo stesso si può
dire di un giornalista di Liberazione, Giancarlo Lanutti, tra i pochi
che non riecheggiano, a differenza di altri autorevoli interventi su
quel giornale, le fandonie e i veleni della disinformazione israeliana e
dei suoi succubi. Lasciato il segno con termini come “criminali”,
“delitti”, “suicidi disperati”, riservati ai combattenti palestinesi che
si sacrificano colpendo, come suole nelle guerriglie, il nemico dove più
gli fa male (immaginate cosa avrebbero fatto i partigiani se comunità
tedesche fossero venute a colonizzare l’Italia sotto la protezione delle
armi naziste), brindato inizialmente alla farsa della road-map e a
protagonisti-fantocci come Abu Mazen e la spia CIA Dahlan, ignorata
sistematicamente la sinistra palestinese, Lanutti è passato ad occuparsi
di Iraq.
E subito ha
gravemente sbagliato. Su due punti: ha attribuito all’organizzazione
criptostatunitense Al Qaida l’intenzione di mettere alle corde gli USA
(riferendosi agli attentati di Najaf e all’ONU); “non esclude” che
proprio nella situazione creata dalla guerra possa essersi determinata
quella saldatura fra al Qaeda (va scritto al Qaida) e i seguaci in
chiave antiamericana. Non contento, cita un affiliato dello SCIRI
filorianiano (cui apparteneva l’ayatollah Mohammed Al Hakim ucciso dalle
autobombe) per ribadire il concetto: “Al Qaida non può in Iraq agire da
sola, a fornirgli aiuto potrebbero essere proprio i fedelissimi di
Saddam”.
E qui siamo
all’apice della subalternità alle mistificazioni messe in circolo dai
disinformatori della banda Bush-Blair: Al Qaida riconosciuta (e
nobilitata!) come antagonista mondiale degli USA, anziché, come tutti i
commentatori e analisti seri hanno documentato, strumento
ultraventennale delle provocazioni e destabilizzazioni imperialiste
(Afghanistan, Bosnia, Kosovo, Indonesia, Filippine, Kashmir, Algeria,
perfino gli israeliani hanno tentato di creare una cellula di “Al Qaida”
nella resistenza palestinese); le resistenza irachena perfidamente
collegata al terrorismo (ribadisco: statunitense) di Al Qaida. Con
questi due colpi, si è fatto un enorme favore all’imperialismo e alla
sua strategia genocida: come già con i combattenti palestinesi, si è
creato il corto circuito, dettato dallaCIA e dal Mossad, tra lotta di
liberazione nazionale e indiscriminato terrorismo Al Qaida; in seconda
battuta, si è accreditata la squadra di dinamitardi Al Qaida,
teleguidata dalla CIA in ogni sua manifestazione, come autentica forza
di rivolta e opposizione alla “civiltà occidentale”. Non ci potrebbe
essere nulla di più debilitante per uno schieramento genuinamente
antimperialista.
Ho voluto
insistere su questi veri e propri tonfi dell’informazione di sinistra,
dovuti a ignoranza, pigrizia, timidezza, forse opportunismo da salotto
buono della politica o da alleanze spurie, perché è qui che casca
l’asino. In difesa della resistenza palestinese, irachena, di tutti i
popoli, in difesa della nostra capacità di decodificare gli inganni
padronali e imperialisti, abbiamo il dovere di esigere dagli informatori
e comunicatori, che si dicono dalla nostra parte, un impegno
professionale e politico più avveduto, libero e documentato. Tanto per
dire: non si può continuare a definire “dissidenti”, “opposizione”,
“minoranze”, i terroristi cubani, corrotti e comprati dal nemico yankee
perché aiutino a riportare la propria patria alle condizioni politiche,
sociali e morali del vero dittatore Batista, proconsole di mafia e USA.
Venendo
invece direttamente ai patrioti iracheni, personalmente dubito, in
attesa di riscontri, che le autobombe contro ONU e lo SCIRI, pur
vergognosamente collaborazionisti, siano di una Resistenza che al di là
di ogni dubbio fa capo a Saddam Hussein e alla dirigenza del Baath, dei
comunisti della Tendenza Patriottica (scissi dal PC iracheno nel 1979,
quando Mosca ordinò al partito di schierarsi con l’invasore iraniano) e
delle altre formazioni nazionaliste e progressiste riunite nella
Coalizione Nazionale Irachena (riunitasi a congresso a Parigi nel
febbraio di quest’anno) e rientrata in patria per contribuire alla lotta
contro l’invasore. Per chi conosce il popolo iracheno, risulta chiaro
che un attentato di tale portata contro l’ONU non sarebbe stato
condiviso, alla luce del fatto che, pur nella subalternità istituzionale
dell’ONU agli USA, questa organizzazione, con gli ispettori dell’ultima
fase che tentavano in ogni modo di contraddire le false accuse di
Washington e con protagonisti onesti come Denis Halliday e Hans Von
Sponeck, dimessisi dai rispettivi incarichi di dirigenti degli aiuti
alimentari in protesta contro il genocidio angloamericano, non
rappresentava certo il nemico principale. Quanto alla strage di sciti a
Najaf, scontato il collaborazionismo (ed espansionismo iraniano) di Al
Hakim e dello SCIRI, suscitare in questa fase un conflitto interno tra
comunità irachene, quando Saddam, in numerosi comunicati, aveva
insistito sull’urgenza dell’unità di tutte le forze patriottiche,
religiose e laiche, di ogni etnia, del resto già attuata sul campo,
nonché caratterizzare in senso terroristico la lotta nazionale, poteva
solo favorire il disegno di criminalizzazione dei partigiani e di
libanizzazione dell’Iraq, da sempre nei piani degli occupanti: un
suicidio per la Resistenza. Un disegno delittuosamente favorito dal
sedicente PC iracheno, vera copertura a sinistra dell’occupazione,
quando, entrato nel Consiglio di Governo nominato dal Gauleiter Paul
Bremer, insieme agli anticomunisti e narcotrafficanti curdi di Jalal
Talabani e ai manutengoli CIA dell’ex-Consiglio Nazionale Iracheno di
Londra, ha preso a diffamare la lotta armata, attribuendole assurdi
obiettivi di conflittualità settaria ed etnica.
So, per
informazioni direttamente ricevute a Bagdad, durante l’aggressione, dai
responsabili iracheni, che il presunto disfacimento della Guardia
Repubblicana e delle milizie partigiane a partire dall’occupazione del
centro del paese non era che l’attuazione di un progetto pianificato con
largo anticipo, volto a impedire la totale distruzione delle forze
irachene a opera della macchina tecnologica angloamericana e a
preservare la loro integrità in vista di una guerra di liberazione di
lunga durata, nella quale i rapporti di forza si sarebbero spostati a
proprio favore. Proprio come succede adesso, con una guerriglia a
direzione centralizzata, ad altissima efficienza e sofisticazione, sia
contro le truppe d’occupazione e le forze paramilitari e amministrative
del collaborazionismo, sia contro le infrastrutture petrolifere che
impediscono agli USA di trarre profitto dalla distruzione della
sovranità del popolo iracheno. E’ in atto una grandiosa Intifada,
centralmente diretta da Mossul al Nord a Bassora nell’estremo Sud,
radicata in una popolazione che conferma una volta di più, al di là
delle mire integraliste scite, limitata a settori minoritari, la sua
adesione al cinquantennale progetto di emancipazione nazionale
anticolonialista e che oggi è integrata dall’affluire di migliaia di
volontari arabi. Ne deriva una crisi profonda ed evidente per i regimi
genocidi (i costi stratosferici in termini umani e materiali, il
disincanto e la rabbia delle opinioni pubbliche, il disvelamento della
loro natura criminale) che si sono imbarcati in un’avventura di cui non
hanno saputo minimamente calcolare le conseguenze, la capacità di
risposta politica, culturale e militare di un popolo ideologicamente
maturo, che non per nulla il governo caduto aveva preparato a una guerra
di liberazione di lunga durata, armando oltre sei milioni di cittadini e
addestrando alla guerra partigiana un milione di militanti del Baath.
Dal 1917 al
1958, anno della rivoluzione, gli iracheni hanno saputo incalzare gli
occupanti coloniali britannici con un ininterrotto seguito di rivolte,
fino alla definitiva liberazione. Erano scimitarre e carabine contro il
primo esercito del mondo. Oggi hanno armi migliori e, alle spalle, una
riconquistata dignità, un’emancipazione sociale e politica tra le più
avanzate del Terzo Mondo e la consapevolezza del proprio ruolo nella
storia della lotta di liberazione dei popoli. I partigiani iracheni,
come quelli palestinesi, lottano anche per noi. Già hanno inchiodato
l’imperialismo in una palude da cui non potrà che uscire sconfitto e
che, intanto, gli ha reso più problematiche altre avventure della guerra
preventiva e permanente. Meritano tutto il nostro sostegno, anzitutto
con la battaglia per la verità.
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