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IL COSTANZO
FURIOSO
COMUNISTI SALDI O
SALDI COMUNISTI ?
LA BATTAGLIA DI
BAGDAD
29/10/03
“Cretino”! (una volta),
“paranoico”! (quattro volte),
“sciagurato”! (due volte), “energumeno”! (sei volte), “Demente”! (una
volta), “sciocco”! (una volta), “primitivo”! (due volte),“delirante”!
(due volte), “ubriaco”! (una volta), “infame!” (una volta), “esempio
pittoresco di rozzezza”! (una volta”), “libero sparatore di cazzate”!
(due volte), “losco individuo”! (una volta), “corrotto”! (una volta),
“agente provocatore”! (una volta). Tutto questo in appena sei paginette
strette. Il luminare sabaudo ha perso le staffe e me ne dolgo. Anche
perché chi fa del ragionare a olimpici livelli il suo mestiere e il suo
lascito ai posteri, dovrebbe ad ogni costo evitare di eccitarsi,
soprattutto in termini di tale menadico furore. Avrete capito che per la
terza volta la luce delle alpi piemontesi, filtrata e potenziata a
qualche migliaio di megawatt dal luminare di Torino, si è riversata con
grande potenza e simultanea dolcezza su un indegno come me. Mi corre
l’obbligo, morale prima ancora che politico, di estendere a tutti voi,
che barcollate tastoni nell’oscurità, la limpidezza abbagliante delle
sue peregrinazioni nell’empireo della dialettica. Con, a fianco, alcune
mie umili, ma serene notarelle, atte a sottolineare i momenti più
splendenti di questo viaggio attraverso le stanze recondite di questa
turris eburnea svettante,
come tutti a Torino ammirano, oltre la Mole Antonelliana.
Un solo
appunto, doloroso, ma affettuosissimo. No, illustre Professor Costanzo
Preve, un filosofo della sua levatura non deve assolutamente perdere le
staffe, altrimenti dà segno di essere stato colpito e di trovarsi con le
spalle al muro. L’insulto, il bombardamento di insulti, lei mi insegna,
è sempre evidenza di debolezza, di totale mancanza di argomenti. E
questo, perdio!, non è mica la sua condizione. Mi rendo comunque conto
che le definizioni di cui lei mi gratifica – e che, provenendo da una
mente tanto raffinata, da bassezze che sarebbero in bocca altrui, in lei
divengono sofisticate argomentazioni – rappresentano un salto di
qualità, anzi, come direbbe lei, un’”innovazione”, rispetto alla
majeutica socratica. Nel suo saggio rappresentano gli argomenti forti,
quelli incontrovertibili, il distillato massimo del suo pensiero. Perciò
non posso che inchinarmici. Inoltre, se qualcuno ha definito le sue
interpretazioni di Marx, per puro gusto distruttivo, banalotte e
strumentali, questa vigorosa e perentoria affermazione di concetti-base,
come elencati nella mia apertura, espressi con commovente afflato
emotivo, la restituiscono indubbiamente alla migliore tradizione del
pensiero antagonista, del movimento operaio, come incarnato da Stalin e
Beria e da tanti compagni della gloriosa Terza Internazionale. Ma anche
di una evoluzione del pensiero democratico, tollerante, antirazzista e
libertario che si è andata dipanando da McCarthy alla radiosa Condoleeza
Rice, fino alla scientifica analisi del popolo palestinese, incarnata in
Ariel Sharon: “scarafaggi, topi, serpenti”. Quella di cui lei mi ha
detto privo, “l’etica della comunicazione”, è sicuramente praticata al
massimo livello, oggi, solo da lei.
Ho infatti
cianciato approssimativamente di una gigantesca operazione di
infiltrazione nazifascista nello schieramento della sinistra
anticapitalista, antimperialista, di classe, come mi era parso di
ravvisarla nel nuovo “soggetto antiamericanista oltre l’idiota (termine
suo, calzante) e putrescente dicotomia “destra/sinistra”, da lei ,
novello Virgilio, guidato, attraverso il guado infernale di pochi
miliardi di retrò del socialismo tra il Rio della Plata e l’Eufrate,
verso il paradiso del “nuovo umanesimo universalista e la contemplazione
della “nuova trinità Preve-Mazzei-Pasquinelli”.
Mi sono
illuso di contrastare la sua perentoria negazione della scomparsa di
ogni sinistra e mi pareva addirittura strumentale la sua identificazione
di tale categoria politica nelle sedicenti sinistre attuali d’Europa, da
D’Alema a Schroeder a Blair e financo a Gennaro Migliore (responsabile
Esteri del PRC), raccontandole quanto avevo visto, certamente in termini
minoritari, agitarsi nell’insoddisfatto popolo della sinistra
manifestante, anche rivoluzionaria, italiana e, allargando lo sguardo,
lottare fino alla morte, alle tantissime morti, in America Latina,
Palestina, Russia, Iraq, Africa, fosse sotto bandiere rosse, le più
numerose, o verdi, o arancioni. Avevo applicato categorie arcaiche e
confuse nell’ individuare tratti fascistizzanti e, comunque, di
autentica destra, nelle forze e nei personaggi che governano a
Washington, Roma, America Centrale, Colombia, perdendo di vista l’unica
ed esclusiva identità nazifascista, come è solo rappresentata da camicie
bruno-nere, labari e aquile romane negli angusti anfratti delle
“Edizioni del Veltro” del compagno Claudio Mutti, di residuali
pubblicazioni come “Orion”, “Rinascita Nazionale”, “Italicum”, “A.R.”
del compagno Franco Freda, oppure di qualche periferica birreria di
Monaco e bistrò lepenista a Marsiglia. Insomma, mi ero lasciato
ubriacare (sacrosanto l’appellativo di “ubriaco”) da quella che, con
acutezza tagliente lei, esimio Professore, definisce la “concezione
paranoico-complottista della Storia” e, sempre nelle parole del suo
stile da cenacolo Della Casa, avevo usato il termine fascismo “ a cazzo
di cane”.
Prima ancora
del suo argomentare, ahimè a volte inaccessibile al mio modesto e
maldestro tentativo di capire (vede quanto sono debole in italiano,
oltrechè in inglese, francese, tedesco, pur avendo speso, ovviamente
sprecati, anni di professione giornalistica in quei paesi), a
convincermi è stata la constatazione della portata e diffusione
planetaria del suo pensiero, rispetto alla modesta fortuna di audience e
di rispetto riservata a oscuri personaggi come Michael Chossudovsky,
presuntuoso cattedratico di Ottawa e creatore del centro di ricerche
sui crimini di Stato “Global research”, o come il vociferante e un po’
fissato linguista del MIT, Noam Chomsky, con tutto il loro seguito di
sproloquianti dietrologi. E’ vero, mi ero lasciato trascinare
dall’arida e squallidamente statistica serie di constatazioni circa
presunte voragini nella versione bushiana degli attentati dell’11
settembre; dalle ovviamente fortuite speculazioni preventive in borsa
sui titoli (guidati dal numero Tre della CIA) che quegli attentati
avrebbero gonfiato o sminuzzato; dai tecnici che, incompetenti,
affermarono che solo con cariche esplosive in precedenza piazzate, le
torri avrebbero potuto simmetricamente implodere; da esperti aeronautici
che, accecati dalla presunzione, constatarono che mai più chi si era
addestrato su piccoli aerei Chessna avrebbe potuto pilotare subito i
mastodontici ed eletronici Boeing 747; dalle tendenziose immagini di un
Bush che, saputo della carneficina, ha continuato a scherzare con i
bimbi di un’elementare in Florida; dalle rivelazioni di giornalacci
comunisti (come quelli contro Berlusconi) e investigatori (comunisti)
del Congresso, secondo cui i servizi avevano raccontato a Bush per filo
e per segno quello che sarebbe successo, già mesi prima; dalle
falsificazioni operate da camere di commercio che attribuivano ai Bush e
ai Bin Laden ventennali e strettissime associazioni aziendali, bancarie,
industrialmilitari e di intelligence, fino al connubio nel petrolio e
nella Banca BCCI (Bank of Commerce and Credit International), condannata
per riciclaggio e finanziamento, grazie a compravendite Israele-Iran
durante la guerra Iraq-Iran, dei Contras (idioti che si consideravano di
destra) in Nicaragua (idiota che si considerava di sinistra); dal buco
di sei metri nel Pentagono fatto da un Boeing 757, largo 39 metri e
altro 12, che non aveva lasciato sul posto se non un pezzetto di
alluminio; nonché dalla tonnellata di falsi e deliri tratti da avventizi
dell’indagine da documenti ufficiali e che pretendevano di ridicolizzare
la teoria di uno sceicco, per quanto miliardario, che dalle grotte
dell’Afghanistan aveva lanciato i suoi cavernicoli contro i più
colossali e difesi simboli della potenza statunitense. Bene ha fatto,
mio eletto filosofo, a ignorare quella montagna di documenti fuorvianti
e che avrebbero potuto minare alla base la nuova, salvifica teoria
dell’universalismo islamico dalla parte dei deboli di ogni dove. Basta
un’accelerata della sua dialettica per superarla in curva e lasciarla
sepolta da una nube di polvere.
Non si curi,
peraltro, luminare antonelliano, del suo trovarsi affiancato in questa
verità ai Bush, ai Berlusconi, ai Blair, al “bambolotto” Ferrara, anche
a Sofri che lei detesta, a tutti i media da Repubblica a Liberazione.
L’eretto non si fa certo menomare dal camminare con lo zoppo! E non si
lasci neppure turbare dalla constatazione, scientifica secondo alcuni
fissati anticlericali d’antan, che un inganno lungo 2000 anni ha tenuto
qualche miliardo di cristiani incatenati a un potere totale. E neanche
dal falso dietrologico che non sia stato Valpreda a massacrare un po’ di
gente a Piazza Fontana, non gli anarco-insurrezionalisti a seminare
ordigni, non le brigate rosse a uccidere Moro, non Affatigato ad
abbattere il DC9 di Ustica, ma la P2 –CIA e la mafia-CIA a ordire il
Nuovo Ordine Italiano. Giustamente, poi, Grande tra i pensatori
d’Italia, lei ridicolizza il mio sospetto che Adriano Sofri, non sia
passato di travaglio di ricerca in travaglio di ricerca per giungere
dalla rivoluzione dei proletari al genocidio di Sharon. Mi ero lasciato
fuorviare sia dall’incomprensione della granitica verità che solo lo
stupido non cambia idea, oltrechè da alcune bagattelle come, che so, il
connubio umano e societario che aveva legato Sofri per tutti gli anni
‘70 , in varie, importanti imprese editoriali e non, con Robert
Cunningham, agente CIA e figlio del capostazione CIA e rappresentante
del Partito Repubblicano in Italia. Cita, il filosofo torinese,
giustamente irridendo, quanto sia stato antiscientifico da parte del
Sofri lottacontinuista dare del fascista a Fanfani e inventarsi il “fanfascismo”.
Concordo col vate: era una stupida campagna condotta alla vigilia delle
elezioni presidenziali per demonizzare l’uomo della politica araba (come
Moro e Mattei, cui andò peggio) e sostenere il rivale Giovanni Leone,
uomo degli USA, uomo della Lockheed. Che vinse.
Concordo: è
tutto una “concezione paranoico-complottista della Storia”. Si tratta,
come dice lei con insuperabile profondità, della “trasposizione in
categorie (pseudo)marxiste di una concezione monoteistica ed
antropomorfica di tipo religioso”, tipica degli “sciagurati”.
Lei,
umanistico universalista, ha un ulteriore merito: ha ridimensionato e
riportato al suo livello di “esperienze bambinesche”, come le chiama,
quello che, nel mio “furore teologico” (ma non vede un po’ troppa
religione in giro? Sarà un problemino suo?) per la “questione sacrale
della dicotomia (idiota) destra/sinistra”, diventa il mio minestrone di
poveri, categoria che lei ritiene resa ormai “irriconoscibile”. Come ho
potuto, Professore mio (mi permetta la licenza confidenziale),
sistematizzare a sinistra i 14 proletari falcidiati a Derry, Irlanda del
Nord, nella Domenica di Sangue, e a destra i fucilatori e il Premier che
li ha incaricati; a sinistra una resistenza irachena che rivuole la sua
sovranità e il suo stato sociale, ineguagliato se non da Cuba, e a
destra i terminator e chi li ha mandati; a sinistra una popolazione
combattente palestinese e a destra la sua borghesia nazional-compradora
(come uscirà dall’ossimoro?) e, a destrissima, i metodi nazisti del
democratico governo israeliano; a sinistra il patriota socialdemocratico
e unitario Milosevic, e a destra i suoi carcerieri e disintegratori del
suo paese, insieme ai buonisti cerchiobottisti del “né-né”; a sinistra
chi combatte per la liberazione e a destra chi combatte per il dominio;
a sinistra chi sbatte la porta in faccia a FMI, BM e Nato, a destra chi
marcia per bilanci partecipativi, tobin tax, e contro un WTO che è come
un dito nell’occhio USA; a sinistra chi s’impunta sulla distribuzione
della ricchezza a vantaggio di chi la produce e a destra chi mette
insieme squadristi, agrari, radicali e negazionisti, revisionisti e
antimperialisti, ricchi e poveri, oppressori e oppressi, seguaci di
Evola e di Spartaco, in una tradizione populista post-destra/sinistra
che da sempre costituisce l’estremo rimedio della carogna capitalista?
Come ho potuto? Era la fallacia di chi nel ’68, che lei, esimio, dice di
aver “conosciuto”, levava bandiere rosse per la rivoluzione e la
dittatura del proletariato, ci crepava pure, tuonava contro il
revisionismo di quella che lei definisce “sinistra putrescente” e che
poi, in effetti, si è putrefatta, respingeva nelle fogne i topi che si
avvicinavano, e non aveva capito che era tutto solo “un momento di
modernizzazione del costume” (le “scopate” del suo ultimo saggio).
Lei,
tranciando con la sua Durlindana dialettica le nebbie dei miei
pregiudizi bambineschi, mi ha fatto capire che cacciare spioni,
stragisti fascisti , pensatori confusi, allevatori di serpi nel proprio
seno, pubblicisti nazi-new age serve solo a rafforzare l’unico, vero
nemico: gli USA, compagni che, illudendosi di essere di sinistra vanno
ogni mese in centomila a Washington a farsi carcerare e brutalizzare, e
chicanos e neri compresi.
Mia cara e
illustre Autorità accademica umanista universale e universalista, sono
solo, come lei dice, un “bambino che usa le parolacce perché in questo
modo sta al centro dell’attenzione”, un “cretino”, uno “sciagurato
energumeno”. Ora però, con la luce che emana morbida e calda dalle sue
parole, troverò la svolta per lasciarmi alle spalle tutti i cretini,
energumeni, ubriachi, sciagurati, infami e paranoici che nei deserti e
nelle bidonville, nelle piazze e nelle trincee, mi avevano trascinato
verso gli abissi della “concezione paranoico-complottista della Storia”.
Glielo giuro. E mi perdoni se, stavolta, diversamente da quella
precedente, non ho proposto ampie citazioni del suo scritto. Allora
l’avevo fatto perché la gente capisse cosa stavo, da vero sprovveduto,
confutando. Oggi non avevo nulla da confutare. Del resto, salvo le sue
inconfutabili contumelie, non c’era niente di nuovo. Nemmeno, mi
consenta, rispetto al grande Guglielmo Giannini, l’ineguagliabile “Uomo
Qualunque”, forse un suo maestro? Ma, soprattutto, non si incollerisca.
Le fa male, molto male.
(Per suo puro diletto
intellettuale, a riprova di quali deviazioni il complottismo comporti, e
perché a lei sia riservata la stessa ilare serenità che il suo elaborato
ha regalato a me, le suggerisco alcune interessanti letture:
www.nytimes.com/2003/10/26/national, www.globalresearch.ca/articles/CHO310B.html
e, sempre lì, Michel Chossudovsky “War and Globalisation – The truth
behind September 11,2003”.E anche, interessantissimo:
italy.indymedia.org//news/2003/10/401477.php. Riverisco.)
COMUNISTI
SALDI, O SALDI COMUNISTI ?
Lutrario
Guido è un ragazzo minuto, nervoso, un po’ anziano e pelatino, di modi
soffici e persuasivi, che, personaggio-guida del giro Disobbedienti di
Roma, si potrebbe definire un Casarini dal volto umano e, con Wilma
Mazza, vociferante e irosa pasionaria del movimento e padrona
dell’emittente disobbediente Radio Sherwood di Padova, il Trio Lescano
della musica new-global italiana diretta dal maestro (pseudo)cattivo
Tony Negri. Sono quelli, per intenderci, che per vedere il bosco Impero
non vedono il taglialegna Imperialismo USA. Lutrario Guido, dirigente
senza elezioni di un gruppo di forse 500 militanti più qualche migliaio
di credenti semplici, costituisce insieme al parimenti mai votato
Casarini, (quando tentò di farsi votare dalla gente, Casarini rimediò il
classico prefisso telefonico) la leadership carismatica veneto-romana
del più chiassoso e virulento aparat
nonviolento della scena politica italiana. Ora, Lutrario Guido,
essendogli apparso in sogno una vetrina con la scritta “Saldi di
comunisti”, ha diffuso e scritto un “documento” intitolato “Movimento o
partito?”, nel quale sollecita i Giovani Comunisti, organizzazione
giovanile di Rifondazione Comunista, a sciogliersi per confluire nella
sua società di Disobbedienti, in apnea di consensi numerici e, ancor
più, sociali. Incurante, peraltro, del fatto, che il fior fiore
dirigenziale dei G.C. tale scelta aveva già fatto, esibendosi e
presentandosi come Disobbedienti al pubblico, e solo in camera caritatis
partitica come anche
Giovani Comunisti, mentre gli altri restavano dov’erano, anche perché
gli pareva incongruo stare con un piede in un partito comunista e con
l’altro in un contenitore anti-partito e anticomunista.
Lutrario
Guido, un po’ più irsuto, lo avevo conosciuto in un viaggio in Chiapas,
alcuni anni fa, quando lui e i suoi amici si chiamavano soltanto “Ya
Basta” e “Centri sociali del Nord-Est”. Virgulti della piccola e media
borghesia romano-veneta, più qualche residuale fricchettone e una
spruzzata di borgatari, avevano invaso il Chiapas per portare agli
indios della Realidad il progetto di una turbina ad acqua che avrebbe
fornito corrente alla comunità. Gli indios, pazienti, ci accolsero con
fazzoletto zapatista d’ordinanza sulla faccia, si fecero fotografare e
intervistare e non dissero nulla di sconveniente quando videro per
l’ennesima volta gli ospiti rovistare tra le sponde di un ruscelletto
per stabilire come e dove installare il prodigio tecnologico (che verrà
inaugurato ancora varie volte, prima che un mulinello venisse posato
tra le acque e accendesse qualche lampadina).
Mancammo il
sospirato incontro con il Sub. Marcos, disegnato da un esperto dell’età
evolutiva nei panni di Zorro, rintanato nella foresta Lacandona (?),
doveva essere intento, dopo aver spento, con la sua insurrezione del
1.gennaio 1994, i numerosi fuochi endemici di guerriglia che ardevano da
decenni, a preparare quella lunga marcia a Città del Messico che lo
avrebbe portato dal neo-presidente amerikano Fox, davanti al quale,
ottenuta una leggina a protezione delle piume dei copricapo indios,
depose le armi e proclamò la nonviolenza zapatista universale e il
totale disinteresse dei “ribelli” per il potere. Disinteresse che a
molti di noi parve parente stretto di quello che Marcos, riferimento
intergalattico dei no-global, riservava a tutti i movimenti di lotta
latinoamericani, armati o pacifici, dai piqueteros argentini, agli
insorti di Chavez, a Cuba assediata e vincente, ai guerriglieri indios
e ai movimenti di lotta operai e contadini che sempre più scuotono il
Messico e tutto il cortile di casa degli USA, ma anche alla tragedia
palestinese, allo squartamento della Jugoslavia, alla polverizzazione
dell’Afganistan. Borbottò qualcosa sull’ Iraq, ma solo perché lì l’ONU
aveva nicchiato. Si rispense subito e non mandò neanche un fazzoletto
zapatista al vertice WTO di Cancun Finimmo poi in un villaggio,
Taniperlas, che le autorità ci avevano inibito bloccandoci i pulmini.
Affrontammo 40 km di marcia sotto 45° a piedi, molti collassarono, ma
poi riapparvero miracolosamente i pulmini e ci portarono fin là. Là
porgemmo fiori e sorrisi alle donne cattoliche e zapatiste di una
manesca comunità inquinata dagli evangelici USA, facemmo cordoni a loro
protezione per mezz’ora e ripartimmo, vedendo tra nuvole di polvere gli
uni avventarsi sulle altre. Per questa nostra azione rivoluzionaria, il
governo messicano ci bandì per qualche tempo dal paese. Ma molti e
elogiativi furono gli echi sulla stampa italiana, del resto curiosamente
sempre assai ospitale verso le imprese disobbedienti, con tanto di
telecamere e taccuini tempestivamente sul posto. Sai, quando fai
caciara, ma te ne fotti del Potere…
Ritrovai
questi dinamici globetrotter due anni dopo dall’altra parte del mondo, a
stringere legami con l’altro loro polo di riferimento: l’opposizione
serba. Rimasti in puntiglioso silenzio durante le stragi ed espulsioni
di mezza popolazione serba da Croazia e Bosnia (e, più tardi, dal Kosovo),
divennero rumorosissimi allorché la Nato si avventò sulla Jugoslavia per
l’ultimo banchetto. Inventarono la sofisticata linea politica cui diedi
una fortunata denominazione: “il partito del né-né”, né con la Nato né
con Milosevic. La cosa costò nulla alla Nato e, ovviamente, parecchio
alla Jugoslavia, ai serbi e a Milosevic, al punto che tutti costoro sono
scomparsi dal palcoscenico. Alcuni compagni che recavano una bandiera
jugoslava al corteo di Aviano furono centrosocialmente bastonati e
derubati della bandiera. E’un vizio recentemente ribadito a Venezia con
il pestaggio di compagni di Rifondazione che protestavano contro la
glorificazione di “martiri del comunismo” da parte di un prosindaco loro
amico. In una sosta nel viaggio di ritorno da Aviano incrociai Lutrario
Guido e gli feci presente la sconvenienza del comportamento del Casarini
e squadristi associati. Lui si inalberò, nella misura della sua statura
e, meno affabile del solito, inveì che un “Grande Compagno come Luca non
va diffamato!” A Belgrado i nordestini, benedetti da un Don Vitaliano,
strinsero forte e duratura amicizia con Otpor, una versatile formazione
che strombazzava dalla radio del circuito CIA “B-92”, aggrediva operai
in corteo, schierò bande di squadristi per scorribande nelle città e
l’incendio del Parlamento, in quel 5 ottobre della cosiddetta (da
“sinistra”) “rivoluzione democratica” di Belgrado, ma, fino alla caduta
di Milosevic, esibiva nel suo logo un pugno nero alla parigina. Uno
sdoppiamento ripraticato oggi da non pochi, tra filosofi torinesi ed
elmetti da scontro scenico umbri. Risultò subito che questi
ragazzi-bene della Serbia si erano attivati, non solo per il
rovesciamento del governo jugoslavo, ma per un programma politico che
prevedeva la cessione agli “investitori” stranieri del patrimonio
nazionale, della forza- lavoro serba (definita di “modico costo”) e del
welfare. Protezioni sociali fin lì garantite da un “dittatore”
ripetutamente eletto e che, peraltro, se la doveva vedere con 16 partiti
nemici su 18 e con il 92% dei media avversi, tutti, compreso Otpor,
largamente finanziati da Washington. All’uopo, i quadri di Otpor erano
stati addestrati da un generale della CIA a Budapest e a Sofia. Lo
dissero loro, lo provarono la BBC, il New York Times, il “Diario” di De
Aglio e il sottoscritto, che per questo fu castigato dal suo giornale al
quale Otpor risultava “compagno di strada del movimento no-global” (la
resa dei conti definitiva verrà poi con Cuba). Otpor venne a
banchettare, convegnare e trasmettere in Italia e lo stesso fecero
dall’altra parte i compagni italiani.
Seguirono,
nella storia di questo segmento del “popolo di Seattle”, tutta una serie
di tumulti, spesso concordati con la polizia, come da loro ammesso, una
caterva di botte a compagni di organizzazioni antirazziste, di sinistra,
antagoniste varie, che osavano invadere il territorio loro sovrano, un
discreto stipendio al sub-sub nazionale, impegnatissimo nella difesa
degli immigrati, da parte del ministro autore di una odiosa legge
anti-immigrati, nerborute scalate al controllo del Movimento dei
movimenti. Un episodio emblematico e che più di altri mi colpì fu quello
che vide Ya Basta lanciare contro l’Intifada palestinese, il 9 novembre
2001, manifestazione nazionale per la Palestina, una dura reprimenda per
aver chiesto anche il popolo palestinese uno Stato come tutti gli altri,
con la conseguente dissociazione dalla manifestazione di solidarietà.
Forse, quella volta, si accorsero dell’errore, perché rimasero soli come
pitbull sotto Sirchia. E allora ripararono avventandosi in massa sulla
Palestina, ne trassero un video nel quale si vedevano più casarini che
kefieh e presero a collocare poster di lanciasassi nei loro ambienti. Fu
moto breve, forse un altro errore uguale e contrario. Tant’è vero che se
ora chiedi a un Disobbediente cosa ne è della Palestina, o magari
dell’Iraq, ti risponderà di farla finita con questi nazionalismi e di
occuparti del WTO (mai di FMI, Banca Mondiale, Nato, o Bush, che hanno
l’attenuante di essere del tutto amerikani), tanto lì è facile
rivendicare vittorie conseguite piuttosto dai paesi poveri guidati da
Cina, Sudafrica, Brasile e Venezuela. E’ che gli espulsi ai
Disobbedienti piacciono in quanto individui in barca. Come nazioni sono
detestabili. Tutto questa festa di colori, esodi, moltitudini,
muncipalismi e imperi, bilanci partecipativi ha fatto sì che il
movimento e perfino partiti vezzeggianti seppure schifati – ma mai
votati – se ne siano andati da un’altra parte e abbiano lasciato
l’ideale municipalista e antistatalista alla riserva teorica dei
Disobbedienti, in ciò ormai soli, seppure colmati di comprensione da
Bossi e da Bush, che se ne servono per disintegrare possibili blocchi di
contrasto antimperialista. Da questa profonda solitudine, si sprigiona
il grido di Lutrario Guido. Si chiede, Guido, “a che serve Rifondazione
Comunista?” E la domanda, in verità, potrebbe avere un qualche
fondamento, alla luce di certe ombre che avanzano alle spalle di un D’Alema-Amato-Rutelli
in congiunzione elittica con gli unici che annoverano tra di loro ancora
dei comunisti. Vedremo chi avrà più filo… Ma, stia pur certo Lutrario, a
tutto pensano i comunisti, con la loro storia di oltre un secolo di
battaglie contro il padrone e i suoi collateralisti, fuorché rintanarsi
nei buchi dell’autogestione spinellara e birraiola, compatita dal potere
finchè vi si rimane invischiati,. Si chiede qual è il “contributo in
avanti sul piano dell’elaborazione teorica e quindi dell’innovazione
delle pratiche che i giovani comunisti hanno portato tra i
disobbedienti, quale il contributo che la loro tradizione di provenienza
ha portato nel movimento?” E ha ragione a rispondersi implicitamente:
zero, se pensa a coloro che hanno calzato sulla falce e sul martello la
tutina dei Disobbedienti, o la camicia nera di Otpor. Ma se invece si
riferisce ai giovani e comunisti che lottano con quelli nel mondo che,
come Ebe de Bonafini a Porto Alegre, a voraci ONG e a ambigui
nonviolenti partecipazionisti del campanile sbattono la porta in faccia
e vanno a fare la rivoluzione, Lutrario si è picconato i piedi. Vedi,
Guido, per psicologi e antropologi l’infanzia è giustamente l’età in cui
si disobbedisce e si ruba la marmellata; da ragazzi, poi, ci si ribella
e si marina la scuola. Se si riesce a crescere ancora – non è da tutti –
si diventa rivoluzionari e si cambia il mondo.
Dai, ancora
uno sforzo, chè ce la fate, prima che vi cadano tutti i capelli. Quanto
ai saldi, quella vetrina ti aveva preso per il culo.
LA
BATTAGLIA DI BAGDAD
Mi chiedono
in rete di scrivere qualcosa che riguarda il ruolo dei comunisti oggi in
Iraq.
Non è facile
avere informazioni precise e dettagliate, date la condizioni di
clandestinità, almeno di coloro che si battono nella resistenza armata
contro l’occupante. Di ufficialmente nota è soltanto l’esistenza e
l’attività del cosiddetto Partito Comunista Iracheno, insediatosi a
Bagdad nello stesso giorno dell’arrivo degli aggressori statunitensi e
subito dotati, dall’autorità della coalizione, di una sede, un giornale
e la più ampia possibilità di fare politica alla luce del sole. Questa
benevolenza delle forze imperialiste è stata prontamente ricambiata
dalla disponibilità del PCI a entrare nel Consiglio di governo
provvisorio, la struttura fantoccio che, sotto strettissimo controllo
USA, pretende di dare copertura istituzionale al saccheggio, alle
devastazioni, alle brutalità dell’esercito di occupazione coloniale.
Collaborazionisti che, per sovrapprezzo, emanano a catena comunicati in
cui attaccano la resistenza armata e le attribuiscono efferati fini di
divisione etnico-religioso-tribale, proprio quei fini di balcanizzazione
che si sono posti i nuovi colonizzatori.
In Iraq,
soprattutto nella provincia di Nassirieh, antica roccaforte dei
comunisti iracheni nella prima metà del secolo scorso, si è costituito
invece il Partito Comunista Operaio Iracheno (PCOI), che, pur non
partecipando, almeno secondo le proprie dichiarazioni, alla resistenza
armata, lotta contro l’occupante con mobilitazioni di massa intese,
oltre a respingere l’occupazione, a strappare diritti e salvaguardie per
la popolazione, tentando un avvio di lotte sindacali e esigendo la
ricostruzione degli elementi infrastrutturali indispensabili alla vita,
acqua, energia, rifornimenti, carburanti, sanità, salari, tutte cose che
gli occupanti continuano a negare.
Una terza
forza comunista lotta invece nella clandestinità e fa parte della
Resistenza riunita fin dal primo giorno di occupazione nel Fronte di
Liberazione Iracheno. Si tratta della formazione chiamata “Tendenza
Patriottica”, già in esilio con altre forze progressiste a Damasco, a
partire dal 1979, che a Parigi, nel febbraio scorso, ha tenuto il
congresso costitutivo della Coalizione Nazionale Irachena, e i cui
militanti, insieme a quelli di altri partiti socialisti e nazionalisti,
sono rientrati in gran numero nei mesi precedenti l’aggressione, per
partecipare con altre migliaia di volontari arabi, alla difesa del
paese. La loro presenza tra le file della guerriglia è stata ammessa sia
dalle autorità USA, sia dalla stampa. La resistenza è indubbiamente
guidata dal Partito Baath, un partito che ha governato, per periodi
insieme a comunisti e Partito Democratico Kurdo, il paese fin dalla
rivoluzione del 1968 e lo ha collocato stabilmente nel campo dei paesi
non allineati e nel fronte antimperialista e anticapitalista (al di là
delle facezie su “Saddam, uomo degli americani”, che si vanno narrando a
destra e a sinistra allo scopo di far apparire Saddam Hussein come un
miserabile doppiogiochista e rinnegato). Questo partito contava un
milione di militanti e sei milioni di aderenti e permeava di sé, nel
bene e nel male, tutte le strutture della società e dello Stato.
Nell’anno prima dell’aggressione, il governo aveva distribuito a questi
sei milioni armi leggere e li aveva addestrati alla resistenza
clandestina, in previsione di un piano di immersione nella clandestinità
che avrebbe dovuto essere attuato non appena si profilasse il rischio
che le forze irachene, milizie, fedajin ed esercito, venissero
totalmente annichilite dalla superpotenza tecnologica statunitense. Così
è stato fatto, a smentita della teoria, ugualmente diffamatoria, di
forze armate irachene che si sarebbero squagliate alle porte di Bagdad.
Da un rapporto di forza totalmente sfavorevole alla resistenza armata, a
un rapporto, come si vede oggi, interamente favorevole alla guerriglia,
dove nulla può la sofisticata tecnologia e il soverchiante numero dei
militari angloamericani. Insieme al Partito Baath lottano nella
resistenza i comunisti di cui sopra, formazioni nazionaliste, i
nasseriani. Tutti i movimenti antimperialisti fuorché Al Qaida, che
invece viene artatamente inserita tra le forze di resistenza allo scopo
di criminalizzarle e iniettare nell’opinione pubblica la sostituzione
dei termini guerriglieri con “terroristi” e di imperialismo colonialista
con “guerra al terrorismo”. Quanto è stato realizzato, con tragico
successo anche a sinistra, relativamente alla Palestina.
Conviene
ricordare il quadro storico in cui è avvenuta la scissione del PCI e la
sua uscita dal governo di coalizione con il Baath e con i Democratici
Kurdi. Perseguitati durante la dittatura del generale Aref che, con un
colpo di stato istigato dalla CIA, aveva rovesciato il governo
progressista uscito dalla rivoluzione anticolonialista del 1958,
baathisti, comunisti e democratici kurdi hanno governato insieme dal
1968 al 1979, periodo durante il quale al Kurdistan iracheno erano stati
concessi la prima autonomia e il primo autogoverno di tutta la sua
storia svoltasi in quattro paesi, Iraq, Turchia, Siria e Iran. Nel 1980,
all’inizio della guerra tra Iraq e Iran, Leonid Brezhnev, segretario del
Partito Comunista Sovietico, decide di rinnegare un ventennale trattato
di amicizia e mutua difesa tra URSS e l’Iraq laico e socialista e di
schierarsi, per convenienza geopolitica, con l’Iran di Khomeini. Mosca
ordina al PCI di seguire la sua scelta e combattere con gli iraniani
contro il proprio paese. Il diktat spacca in due il partito. Una fazione
obbedisce e raggiunge le schiere iraniane. Molti dirigenti verranno
catturati dalle forze irachene, processati e 127 verranno giustiziati
(dati ufficiali del PCI oggi). Costoro diventeranno, nella litografia
Occidentale “milioni di comunisti trucidati da Saddam”. L’altra corrente
rifiuta l’ordine moscovita. Gli viene richiesto di aderire al Baath, o
di andare in esilio. Una parte fa la prima scelta, un’altra si
autoesilia a Damasco. Sono queste due fazioni comuniste che oggi si
trovano, insieme ad altre forze patriottiche, a combattere per
l’indipendenza e la sovranità dell’Iraq.
Ricordiamoci
della guerra di liberazione algerina, della battaglia di Algeri come
indimenticabilmente raccontata da Gillo Pontecorvo e incisa nei cuori
delle masse progressiste del mondo come esempio di lotta di un popolo
per la sua liberazione dai residui di un infame colonialismo. Fu la
sinistra mondiale, con l’iniziale deprecabile eccezione dei comunisti
francesi, interamente al fianco di quei combattenti, donne, uomini,
bambini. E sicuramente la sua solidarietà contribuì a quella liberazione
e a un passo avanti decisivo della storia umana. Fu così per tante lotte
di liberazione. Guai, ora, a cedere al perfido inganno della democrazia
da esportare e del terrorismo di chi resiste!
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