Il Secolo dei Pogolotti
Questo brano è tratto
da un libro presentato lo scorso anno in occasione dell’anniversario
della fondazione del Quartiere Pogolotti, il primo quartiere operaio in
America, creato da un italiano, Dino Pogolotti, che ha anche fondato una
famiglia di rilevante importanza per la cultura internazionale.
Suo figlio Marcelo è
stato il più grande pittore futurista di Cuba e un noto scrittore che
lavorò molto tempo in Francia e in Italia.
La nipote di Dino,
figlia di Marcelo e autrice di questo brano è un’intellettuale
straordinaria, scrittrice e saggista nota in tutta l’America Latina.
Il libro si
intitolava “Da Giaveno a Pogolotti: un piemontese all’Avana” ed è nato
grazie a uno scambio culturale tra l’Università di Torino e quella
dell’Avana e vi hanno partecipato molte voci al disopra di meschini veti
e blocchi voluti da pochi politici ciechi.
Quest’anno, il 21,
alle sei del pomeriggio, si inaugurerà l’esposizione di pittura di
Susanna Viale, ottima pittrice piemontese nella Casa Comunitaria di
Marianao e nella Bilblioteca Municipale “Enrique José Varona”.
La mostra si intitola
“L’espressività umana e l’incontro con il sociale”.
Il 23 - 24 - 2 5-
Teatro Rassegna di Torino presenterà l’opera teatrale “Radici profonde:
il secolo dei Pogolotti” e sarà sicuramente un grande successo.
Lo spettacolo si
terrà nel Parco Finlay. Inoltre verrà firmato un accordo per il
restauro di una delle prime case del quartiere operaio, che diverrà la
Casa Museo dell’Emigrazione Piemontese a Cuba.
Una delegazione
guidata dal Rettore dell’Università di Torino, Dott. Elio Pelizzetti è
presente ai festeggiamenti con la professoressa Mariangela Marengo,
responsabile di Unicuba, dirigenti della Regione e personaggi della vita
politica del Piemonte.
Questo importante
progetto culturale coordinato a Cuba dalla professoressa Acela Caner,
nota scrittrice, è iniziato due anni fa con la mostra di pittura
futurista nel museo delle Belle Arti dell’Avana delle opere di Marcelo
Pogolotti.
...Da Giaveno a
Pogolotti
Poco tempo dopo il
mio arrivo a Cuba, quando avevo già imparato lo spagnolo, mi piaceva
riposare dei miei giochi seduta nel parco su una panchina assieme a un
vecchio negro, un ex operaio di un tabacchificio. Lui raccontava molte
storie, ma ritornava sempre ad evocare Dino, mio nonno. Succedeva lo
stesso quando andavo a passeggiare per l’Avana Vecchia, il mio quartiere
di allora.
In ogni luogo dove
c’era un gruppo di persone riunite, quando si diceva il mio cognome
qualcuno subito parlava di Dino. L’immagine del costruttore del primo
quartiere operaio era divenuta leggenda popolare. Mi piaceva anche
ascoltare il poeta José Z. Tallet, il primo che incorporò al verso i
ritmi mulatti e che fu il suo segretario. In alcune occasioni,
raccontava, stanco di occuparsi di aridi documenti d’affari, Dino
prendeva un libro di Ovidio e traduceva a voce alta, a prima vista.
In un periodo più
recente incontrai nel fondo di uno scatolone una lettera anonima
indirizzata a mia nonna Grace. Qualcuno aveva denunciato le visite di
Dino alla casa di un’altra donna dove lui trascorreva le lunghe ore di
siesta. Per questo nella zona più intima della mia vita familiare il suo
nome si occultava dietro una cortina di silenzio.
Tante immagini
contrastanti destavano la mia curiosità. Conservo un ricordo sfumato del
cimitero di Giaveno dove riposano i suo resti. Là trascorrevo le vacanze
tra i due grandi raccolti: la mietitura e la vendemmia. Dovetti partire
precipitatamente il I º settembre del 1939 perchè la guerra stava per
scoppiare alle porte della Polonia.
Con una piccola
valigia incrociai la frontiera tra Bardonecchia e Modane; le luci di
Parigi si intravedevano dietro le tendine blu. Era solo un punto di
transito per raggiungere più in là una terra sconosciuta.
Il suo cognome
impresso sul mio passaporto non mi diceva nulla. Quando attraccammo al
molo dell’Avana, dopo numerose peripezie mi presentarono José Pinot
detto Giaveno, vestito sempre impeccabilmente e prudente nell’esprimere
le sue emozioni. L’elegante siluette di Luis restava nell’ombra. Basilio
e i suoi figli li avevo già conosciuti prima, in Italia.
Senza rendermene
conto io stavo ripetendo l’avventura di tanti emigranti, ma in
circostanze molto differenti. Io scappavo dalla grande catastrofe nella
quale morivano alcuni dei miei compagni di gioco. Loro giungevano
calamitati dalla grande avventura americana, con una visione rutilante
di un territorio tutto da conquistare, dove tutto era possibile.
Molti anni dopo in un
viaggio di studio presi diverse volte, nella Gare de Lion, il celebre
treno Parigi - Roma pieno di emigranti stagionali che ritornavano nei
loro paesi del profondo sud italiano. Seduta sulla valigia dividevo con
loro i mandarini, il pane e salame e la bottiglia di vino che passava di
mano in mano. La conversazione occupava la notte interminabile.
Stupefatti mi chiedevano di un’America dove l’oro riluceva dappertutto.
In alcune lettere conservate da mia cugina Maria Luisa, a Giaveno, si
legge che anche Dino e José sentirono la chiamata di questa visione
affascinante. Cuba per loro era un paese nuovo, dove tutto era ancora da
fare.
In effetti poco dopo
la fine della guerra di indipendenza la popolazione cubana era
decimata e i campi ridotti in maniera penosa. La febbre gialla e
l’abbandono sanitario si sommavano alle conseguenze della concentrazione
imposta da Valeriano Wayler, Capitano Generale dell’Isola. Costui aveva
imposto il trasferimento obbligatorio dei contadini nelle città: privati
della casa, dei vestiti e degli alimenti morivano vittime della fame e
assieme a loro soffrivano gli abitanti delle città che non avevano più
accesso ai prodotti delle campagne. La miseria era tanta che nel momento
dell’intervento militare degli Stati Uniti le terre si vendevano a
qualsiasi prezzo. Dino acquistò le sue e si lanciò in grandi progetti di
urbanizzazione. Fomentò nuovi quartieri, costruì a Marianao la base
delle sue operazioni, l’acquedotto, il cinema, il negozi di viveri che
esiste ancora oggi. Installò una fornace per produrre materiali per la
costruzione. Prima di morire voleva costruire una fabbrica di mobili, la
più grande dell’America Latina. Sognava chissà di lasciare la sua
impronta in questa parte del mondo. Quando una legge del Congresso diede
corso legale all’idea di fondare un quartiere operaio, Dino disponeva di
tutte le risorse necessarie per farlo. Irruppe così nella vita pubblica
e seguì personalmente nei dettagli l’esecuzione del progetto e ottenne
un’enorme popolarità. Il suo nome divenne una leggenda.
Altri come Dino
vennero beneficiati dal buon prezzo delle terre. Le grandi imprese
nordamericane comprarono immensi latifondi nelle zone rurali del paese.
Il destino di Cuba sembrava irrimediabilmente vincolato allo sviluppo
dell’industria dello zucchero. Diverse baie favorivano l’esportazione
verso i grandi mercati del mondo e in particolare verso il più vicino,
quello degli Stati Uniti. La tradizione di una cultura operaia era ben
consolidata e la disoccupazione e la povertà davano una mano d’opera
economica. Vennero costruite gigantesche fabbriche di zucchero.
All’espansione del capitale si aggiungeva l’euforia di una modernità
trionfante. La crescita vertiginosa durò sino alla fine della prima
guerra mondiale. La guerra aveva elevato sino alla stratosfera i prezzi
nel mercato mondiale. Fu una breve danza dei milioni, poi giunsero le
ripercussioni e il crack del 1929.
I fratelli di Dino,
José, Basilio e Luis orientarono il proprio lavoro in forme distinte
nello sviluppo dell’industria dello zucchero. La grande epopea fu il
disegno e l’installazione delle macchine necessarie per l’edificazione
delle gigantesche centrali. La canna entrava nelle fauci della centrale
per essere triturata. Le caldaie depuravano il succo, poi avveniva la
cristallizzazione per la consegna del prodotto terminato. Dopo l’euforia
sopravvenne la routine. Ogni anno si doveva procedere alle riparazioni,
sostituire le macchine e i pezzi rovinati dalla corrosione e dalle alte
temperature con elementi nuovi. Nelle riunioni familiari i nomi di
Cunagua, Jaronú, Delicias ritornavano una e un’altra volta con un sapore
nostalgico. José abbandonava il suo silenzio abituale per raccontare
aneddoti sui vecchi proprietari terrieri e per ricordare i suoi viaggi
nei campi resi poveri e i suoi soggiorni in alberghi piccoli e tristi
in piccoli villaggi sonnolenti.
Lo spirito
imprenditoriale spingeva Dino in maniera smisurata. Poco tempo dopo il
suo arrivo a Cuba, si installò nell’immensa residenza dall’antica tenuta
Larrazabál, divenuta poi un Convento del Buon Pastore. Dino desiderava
dividere con i fratelli l’avventura americana e costruì a suo gusto una
sua residenza. Una pianta a forma di L si apriva nel verde panorama di
alberi da frutta, di piante decorative e dell’orto. All’altro estremo
una mucca riposava nella sua stalla. Nel centro geografico dell’area una
rustica costruzione disegnata da mia nonna si faceva notare, costruita
con pietre grezze e conchiglie. Al pianterreno della casa si succedevano
due sale da pranzo, una di protocollo e una più intima, un salone da
biliardo, un ampio vestibolo, l’ufficio, il saloncino con il bel
camino, la grande sala poliedrica circondata da finestre aperte in tutte
le direzioni della brezza. Di sopra le abitazioni occupavano uno spazio
equivalente e ancora più in alto, da un belvedere, si potevano osservare
i confini di tutta la provincia.
Non so quando o
perchè Dino vendette la sua grande casa a José.. Con l’andare del tempo
la famiglia si era dispersa. Sin dal principio alcuni fratelli erano
emigrati in California. Luís morì giovane; Basilio si installò in una
residenza vicina. Frank, il più giovane, dopo alcuni intenti poco
fruttuosi di aprirsi una strada, nell’epoca della depressione, andò a
lavorare in Illinois per la International Harvester. Dino, il fondatore,
era morto molto tempo prima. Il silenzio regnava nelle stanze vuote.
José però si
afferrava a quel luogo con la volontà di preservare i resti di una
famiglia così diminuita.
Ogni domenica si
partecipava al pranzo rituale. La cerimonia si ripeteva sempre allo
stesso modo: circondati dai cani nel portale che si affacciava sul verde
giardino si sorseggiava un bicchierino di vermut. Attorno alla gran
tavola della sala da pranzo la gerarchia era ben precisata. I piatti si
servivano alla russa. Per Natale si faceva venire una giamaicana che
assieme a mia nonna inglese imparò a preparare il plum – pudding. In un
ambito così limitato la conversazione tra loro era complicata e a scala
ridotta c’era una vera Torre di Babele. José parlava inglese e spagnolo;
francese di nascita Elise, sua moglie, parlava la sua lingua madre e
l’inglese. Elise passò gran parte della sua esistenza a Cuba senza
“farsi contaminare” da una sola parola di castigliano. Figlia un
nordamericano, sua figlia Babette parlava inglese e spagnolo. Mio padre
parlava bene le tre lingue ma mia madre, di origine russa- ebrea
maltrattava lo spagnolo e non capiva una parola di inglese. Io mi
muovevo senza difficoltà tra francese e spagnolo, ma il mio caso poco
importava. I bambini non potevano intervenire nelle conversazioni degli
adulti. Poi nella grande sala si beveva il caffè. Gli uomini – mio padre
e mio zio – sceglievano accuratamente dalla cassa odorosa un buon
sigaro. Io scappavo nel giardino.
Alla metà del XXº
secolo la grande casa divenne ancora più solitaria. Elise morì e Babette
venne assassinata da un poliziotto della dittatura di Batista. José si
manteneva dritto come un albero isolato nel mezzo di una pianura. Non
conobbe malattie, ebbe solo la malaria che aveva preso poco tempo dopo
il suo arrivo a Cuba. Il cuore però cominciò a mancargli. Il saloncino
del caminetto dove nei pochissimi giorni di inverno restavamo a guardare
la legna accesa che crepitava – una vera pazzia in un paese tropicale –
divenne una stanza d’ospedale. José riposava sotto la tenda a ossigeno e
le infermiere rimanevano giorno e notte al suo capezzale. Non c’erano
carenze materiali ma, installata nella casa cercai di infrangere
l’implacabile muro della solitudine. Prima di andare a dormire con la
lanterna in una mano e il revolver nell’altra verificavo che le numerose
porte fossero ben chiuse. Alla sua morte ci toccò far distruggere la
gran casa già insostenibile. Come ne “Il viaggio alla semente” di
Carpentier vedemmo scomparire porte e finestre, colonne e inferriate.
Esistono ancora
alcune residenze che l’emigrante Dino conobbe nella sua prima scoperta
di Cuba. Erano tenute dove le famiglie ricche cercavano rifugio nei mesi
di intenso calore. Rapidamente l’invenzione dell’automobile cominciò ad
accorciare le distanze, la spiaggia e gli sports marini monopolizzarono
le vacanze e gli scambi sociali.
L’aristocrazia
dell’Avana iniziò un’espansione verso ovest, vicino al mare. Prima fu il
Vedado, più tardi Miramar poi il Contry e il Biltmore, attualmente
chiamati Cubanacan e Siboney.
Questi successivi
trasferimenti erano una difesa dall’inevitabile invasione degli
esclusi. Attorno alla grande casa l’accerchiamento proletario si stava
serrando a ritmo accelerato. Lo avevamo dimenticato. Assai vicino alla
residenza familiare, il quartiere Pogolotti debordava dalle sue
frontiere originali: la povertà si manifestava da ogni lato e molti
cercavano di scappare dai campi miserabili per cercare rifugio nella
città che li condannava alla più estrema precarietà.
Il giardino della
casona era circondato da alte palme reali allineate con precisione
geometrica. Vicino all’entrata si innalzava la “ceiba”.
Alla base mostrava la
nascita di due poderose radici. Le sue radici più piccole invadevano
tutto, coprendo distanze insospettabili, scavavano sotto le fondamenta
dell’universo costruito dall’uomo, come se la natura volesse recuperare
i propri diritti conculcati. Senza saperlo - io lo appresi leggendo
Fernando Ortiz e Lidia Cabrera – vivevamo in una terra sacra, in un vero
pantheon di dei venuti dall’Africa.
Ogni mattina vicino
al cancello apparivano le offerte: qualche gallina morta con un nastro
colorato, monetine di rame, mele rosse, caschi di banane. La notte
proteggeva e occultava la religione dei discriminati, perchè negri,
poveri e ignoranti, ma come le radici della ceiba le credenze sotterrate
invadevano l’insieme della società cubana. A volte, mi raccontava
Benjamin, il vecchio giardiniere che aveva seguito i giochi infantili
di mio padre, una costosa Cadillac ultimo modello si fermava vicino alla
palma dell’entrata e un autista in uniforme apriva la portiera perchè la
signora potesse deporre con le su stesse mani il simbolo tangibile della
promessa compiuta. Per tradizione orale e negli appunti di un notes di
un babalao, a Pogolotti si conservava, vivente e attuante, proliferante
la memoria degli dei tratti dall’Africa dai negri incatenati nelle stive
delle navi, vittime della violenza più atroce, privati dei loro beni.
Conservano solo il ricordo dei loro dei, le leggende furono
consolazione, rifugio e scudo per difenderli da un’identità fratturata.
Lo spagnolo galiziano
Benjamin non aveva il coraggio di mutilare la forza espansiva
dell’albero sacro. Tra le fasce privilegiate e anche tra le medie la
pratica del cattolicesimo costituiva con frequenza un’espressione
formale. Si rispettavano alcuni sacramenti e l’immagine del Sacro Cuore
di Gesù si incontrava in molte case, ma in qualche angolo nascosto,
occultato come la nonna negra, c’era un altro altare che si adorava con
maggiore devozione. I nomi degli dei pagani si mascheravano con gli
attributi della Vergine della Carità, della Vergine di Regla, di Nostra
Signora della Mercede, di Santa Barbara, dell’apocrifo San Lazzaro... Il
mio mondo, senza dubbio, era un altro. Nato a Cuba, mio padre si sentì
sempre vincolata a quest’isola. Sin dall’infanzia andò in Italia e negli
Stati Uniti dove frequentò le medie. Iniziò la carriera di ingegnere nel
Politecnico di Rennselaer Troy, nello Stato di New York. Alla morte di
sua madre decise di seguire la sua vocazione pittorica. L’eredità del
padre si era volatilizzata, Doveva affrontare la miseria. Di ritorno a
Cuba si unì ai giovani artisti che erano vincolati alle rotture
avanguardiste e come alcuni dei suoi contemporanei più inquieti andò a
Parigi, a Montparnasse dove esistevano le tendenze artistiche e
ideologiche più differenti. Tornava sempre a Torino dove lo accoglieva
la zia Margherita, Mañatin per lui e Mammamitine per me, solitaria
ancora di una famiglia dispersa. Lì conobbe gruppi di antifascisti e si
vincolò ai futuristi piemontesi. A Troy aveva scoperto le condizioni di
vita degli operai. Partecipò a Parigi alle manifestazioni che
accompagnavano il Fronte Popolare.
Accettò la sfida di
vincolare il linguaggio dell’avanguardia a una pittura di ispirazione
sociale. Quando divenne cieco e scoppiò la seconda guerra mondiale
ritornò a Cuba. Nonostante tutto non era uno sconfitto, era disposto a
lottare e si interessò alla creazione letteraria. In un gioco di piani
ordinati la scrittrice Nancy Morejon, premio nazionale di letteratura,
evoca il quartiere Pogolotti assieme alle immagini fabbrili e dei
quadri del pittore.
Le visite domenicali
alla grande casa erano solo una parentesi nelle nostre vite che
trascorrevano in una calda e rumorosa quotidianità nell’Avana vecchia.
Le riunioni con scrittori e artisti, condivise con i sopravvissuti della
guerra civile spagnola e con gli ebrei riscattati dall’olocausto. Per
alcuni l’Avana era un rifugio in tempi di attesa; altri cercavano a Cuba
un’ultima opportunità per costruire sulle cicatrici del passato una
nuova esistenza. Mio padre però, educato con una rigida disciplina,
rifiutava i disordini della boheme ed aveva simpatia per le
conversazioni attorno ai tavolini di un caffè. Il nucleo di base degli
intimi di sempre si legava ai passanti casuali. Il dialogo, nei suoi
meandri, toccava i temi più diversi, dai fatti più attuali ai problemi
sostanziali di filosofia. A volte un giovane speleologo raccontava le
sue avventure nelle caverne inesplorate Un maestro parlava della miseria
e dell’abbandono. Io mi limitavo all’osservazione silenziosa e
cominciavo a tessere i miei progetti personali.
Nell’adolescenza
l’agitata vita studentesca mi aveva assorbito completamente. Il
quartiere di Pogolotti restava nella mia memoria come un riferimento
distante, associato alle imprese di un nonno sconosciuto e alla
bandierina di una linea di autobus che passavano di là. La casualità mi
fece giungere sino alle sue frontiere quando un impegno giornalistico mi
condusse ad intervistare Lidia Cabrara. La nota scrittrice, studiosa di
un mondo magico di origine afro - cubana aveva trovato nel quartiere una
complessa rete di informatori, fonti vive per le sue ricerche. I bei
mobili coloniali del sua sala li aveva trovati nei suoi frequenti viaggi
esplorativi nell’Isola. L’atmosfera suggeriva un tempo fermato ai
margini della storia. Poi passarono gli anni, convulsi nella vertigine
di fatti incessanti e nella continuità di compiti urgenti. Quaranta anni
più tardi il caso mi portò un’altra volta al Quartiere. Jessica, la
cugina californiana, era venuta a Cuba per conoscermi. Assieme a lei
ricostruii i ricordi di una famiglia con quel poco che sapevo. In quel
riscatto di un passato già remoto, la visita a Pogolotti si imponeva
come una necessità. Avemmo uno scambio intenso con il gruppo di
trasformazione e demmo un appuntamento ai pochissimi sopravvissuti della
tappa della fondazione, ma l’immagine di una nordamericana un poco
eccentrica nel vestire e nella pettinatura, armata di macchina
fotografica, video e altri apparecchi li inibì. Ottenemmo poco da quelle
memorie corrose dall’età. Chiesi se conoscevano una vecchia ballata
popolare che cominciava dicendo “A Pogolotti me ne vado...” ma non
ricordavano niente.
Il crollo della
casona annunciava la fine di un’epoca. La dittatura di Batista si
inaspriva esercitando la violenza; si stava combattendo sulla Sierra
Maestra. Poco prima l’infruttuoso assalto al palazzo presidenziale aveva
lasciato una lunga scia di morte. Alcuni per me erano solo nomi
sconosciuti, altri però erano stati esseri umani di carne e ossa,
compagni di università palpitanti di vita. All’Avana la cospirazione si
estendeva, le bombe scoppiavano in ogni luogo. All’alba si trovavano
cadaveri terribilmente torturati. La famiglia si dissolse: Mary, la
figlia di Frank, si installò in Francia, Maria Luisa era tornata nella
casa di suoi. Molto lontano i californiani continuavano per la loro
strada.
L’avventura di Dino
era finita. Ma il quartiere stava là e continuava a crescere. “Cuore” di
Edmondo de Amicis mi aveva accompagnato nel primo viaggio all’Avana.
Alcuni racconti mi interessavano poco, ma ritornai sempre a quello
“Dagli Appennini alle Ande”, perchè un senso di sradicamento mi faceva
identificare con il protagonista. Poco a poco cambiai la pelle. Il paese
mi aveva conquistata anche se, senza dubbio, mi rimangono nel fondo
della memoria i giochi con la neve in Corso Vittorio, adesso Corso Stati
Uniti, le perfette proporzioni della piazza dove si trova il cavallo di
bronzo, il sapore dei fichi maturi, le camminate in cerca di funghi...
Giaveno non è già più un villaggio e le automobili percorrono le strade
asfaltate. Ci sono molti edifici di appartamenti, ma, ben protette dalle
grandi mura, ci sono ancora le case che mi accolsero durante l’infanzia.
Tra Giaveno e Pogolotti, in mezzo ai soprassalti della storia sono
trascorse le nostre vite.
Graziella Pogolotti (traduzione di Gioia Minuti)
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