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Mar del
Plata: l’America Latina non è più il cortile di casa
Va fatta subito chiarezza su di un punto: tra i 33 convitati
dall’anfitrione argentino Nestor Kirchner, il meno liberale di tutti era
proprio lo statunitense George W. Bush. Questi ha provato per l’ennesima
volta ad imporre un trattato di libero commercio, l’ALCA, che liberale
lo è solo a senso unico.
I paesi dell’America Latina, nell’ultimo quarto di secolo, prostrati da
debito estero e dittature militari filostatunitensi, hanno già concesso
tutto il concedibile. Le loro economie sono già aperte e privatizzate e
sono da decenni terreno di caccia delle multinazionali straniere. I
rapporti di produzione e sindacali sono regrediti ad un medioevo
selvaggio che ha moltiplicato il numero dei poveri e degli indigenti.
Sono dati sotto gli occhi di tutti. Nonostante ciò per l’America Latina
tante concessioni sarebbero giustificate in cambio dell’apertura
dell’enorme mercato statunitense per i propri prodotti.
Tutti i latinoamericani (Argentina post-default compresa), continuano
diligentemente a pagare un debito estero iniquo ed asfissiante. Di
nuovo: basta studiare i dati macroeconomici per convincersi
dell’inefficienza del neoliberismo che non solo produce miseria, ma
anche retrocessioni nello sviluppo visto che i prodotti latinoamericani
a maggiore valore aggiunto e tecnologicamente avanzati, sono proprio
quelli che soffrono di più. Tutti i latinoamericani hanno già concesso
agli Stati Uniti molto oltre il logico, l’utile, l’equo, l’umano. Lo
hanno fatto nella speranza di vedere aprirsi almeno una porticina sullo
sterminato mercato statunitense per i prodotti latinoamericani. Ma
George Bush e i suoi ad aprire non ci pensano per niente. Sacerdoti
della fede neoliberale non sono così ingenui da applicarla
pedissequamente per loro stessi.
Così non è Hugo Chávez per estremismo o Nestor Kirchner per freddezza a
far saltare il tavolo di un accordo che se fosse minimamente equo
porterebbe effettivi benefici anche all’economia latinoamericana. È
George Bush a far saltare quel tavolo marcando il proprio stesso
fallimento, nella convinzione imperiale che tutto gli sia dovuto e nulla
debba concedere in cambio. È George Bush l’estremista. Sono gli altri a
dovere eliminare completamente le barriere doganali, ma gli Stati Uniti
non sono disposti in cambio a ridurre i loro dazi. Sono gli altri a
dovere distruggere e privatizzare ma gli Stati Uniti in cambio non sono
disposti a diminuire neanche di un centesimo lo spropositato
assistenzialismo con il quale drogano il mercato in settori come
l’agricoltura e l’industria. Contadini boliviani che guadagnano 30
dollari al mese producono un grano o un riso o un mais più caro e fuori
mercato rispetto agli ultrassistiti omologhi statunitensi che ne
guadagnano 3.000. È qui che salta il tavolo. Gli Stati Uniti continuano
a pretendere di imporre leggi a paesi stranieri, ma non sono disposti a
nulla concedere. Ne ha pagato le spese perfino il Canada, stritolato
dall’accordo di libero scambio non meno del Messico. L'ALCA quindi è
saltato per l'incapacità culturale degli Stati Uniti di raggiungere un
accordo che fosse conveniente per entrambi i contraenti.
Per George W. Bush quello di Mar del Plata è dunque un fallimento di
portata storica, e non importa se la stampa italiana tergiversa
sull'appoggio degli ascari Fox o Uribe, messicano e colombiano
rispettivamente. Fallisce per la prima volta la strategia imperiale
dell’imposizione. La dura realtà per Bush non sta solo nel disprezzo
unanime della società civile mondiale manifestatosi con rigogliosa
bellezza anche a Mar del Plata. La dura realtà per Bush è che oggi ci
sono in America molti dirigenti politici che non sono disposti a firmare
qualunque cosa in cambio dell’opportunità di una foto con l’inquilino
della Casa Bianca e qualche piatto di lenticchie sotto forma di
tangenti.
Oggi in America Latina non c’è più un isolato idealista facilmente
isolabile o assassinabile. Oggi ci sono molti dirigenti
latinoamericanisti e progressisti che hanno ben chiaro non soltanto il
mandato popolare ma anche il concetto d’interesse nazionale. Oggi per la
prima volta si profilano nel continente dei solidi portatori di
interesse –stakeholders direbbero gli anglofili- che possono far valere
la non convergenza di questi rispetto a quelli della potenza imperiale.
Questi portatori di interesse coincidono almeno in parte con la società
civile, i movimenti sociali, e le classi popolari.
Non è credibile che George W. torni a quel tavolo domani con la testa
cosparsa di cenere. Ma qualcuno dovrà farlo per lui e accettare di
trattare da pari a pari almeno con il blocco regionale del Mercosur che
con il Venezuela ed una Cuba mai così poco isolata, insieme valgono i
due terzi dell’economia latinoamericana. Oppure Washington (come fa da
200 anni) sceglierà ancora una volta la via dell’abuso, degli omicidi
mirati, della delegittimazione, del gioco sporco, delle invasioni
militari, del compromesso con le aristocrazie sulle quali si sono
appoggiati per imporre al continente le dittature militari che sono
costate quasi un milione di morti. È un cammino che diventa difficile,
come il fallimento del colpo di stato dell’11 aprile 2002 a Caracas ha
dimostrato. Nonostante tale evidenza, a Washington qualcuno sta
organizzando non soltanto gli omicidi di Fidel Castro o di Hugo Chávez,
ma anche quelli di Kirchner, Lula e perfino di Tabaré Vázquez o Nicanor
Duarte se fosse necessario. Allo stesso modo è nel mirino da sempre Evo
Morales, che il quattro dicembre, se non lo ammazzeranno e non ci
saranno brogli, diventerà il primo presidente socialista e non bianco
della storia della Bolivia, e il messicano López Obrador, solido
candidato delle sinistre nelle elezioni del prossimo anno.
Di fronte a un trionfo così importante sulla strada della costruzione
dell’Unità Latinoamericana –che o sarà antiimperialista o non sarà-
passa in secondo piano perfino la straordinaria mobilitazione popolare
del controvertice. Gli europei accettano con difficoltà di non avere il
monopolio della coscienza politica nel pianeta. Ma forse la primavera di
Mar del Plata segna davvero un passaggio di consegne. Come afferma da
sempre Hugo Chávez, non può non essere il Sud del mondo a prendere per
mano il pianeta nel cammino verso la liberazione. E il Sud, per prendere
in mano il proprio destino, rifiuta l’ALCA e cammina verso l’ALBA
(Alternativa Bolivariana per le Americhe), il primo accordo che si basa
sulla solidarietà e la cooperazione e non sulla competizione sleale e i
patti leonini.
La grande stampa italiana si è distinta come sempre per disinformazione,
occultando il valore della sconfitta storica statunitense scegliendo
l’aspetto da questa considerato folcloristico della presenza di Diego
Armando Maradona. Quotidiani come la Repubblica vi si accaniscono. Per
l’ineffabile Omero Ciai, che normalmente scrive di America Latina dalla
sua casa di Miami, Maradona avrebbe grugnito ripetutamente solo due
parole: “assassino”, “monnezza”, quest’ultima chissà perché in
napoletano e non in castigliano. Per fortuna via Internet sono
disponibili le registrazioni degli interventi di Maradona a smentire la
pessima stampa finto progressista italiana.
Questa, come non ha perdonato a Maradona di aver rotto il monopolio
storico del Nord nel calcio, vincendo da uomo del Sud con la maglia del
Napoli, così non gli ha perdonato di essere sopravvissuto al pozzo della
droga nella quale aveva contribuito a gettarlo. Cocainome, gravemente
obeso, plurinfartuato, Maradona doveva morire ma è stato salvato dalla
medicina cubana, altra colpa imperdonabile.
Non solo non è morto il ragazzo di Villa Fiorito, una delle più tristi
Villa Miseria del Gran Buenos Aires, ma è uscito fuori dal tunnel, è
rinato ed è cosciente di sé e del suo posto nel mondo come uomo e come
latinoamericano. La sua militanza politica lo testimonia. Come non
perdona Maradona, così la stampa italiana continua a non perdonare Hugo
Chávez. E qui dovrebbero essere i lettori italiani a non perdonare una
stampa che da sette anni rifiuta di spiegare ai propri lettori la realtà
venezuelana per rifugiarsi nel dileggio e nell’offesa verso quello che è
oramai un grande dirigente popolare e mondiale.
Quest’informazione indecente non spiega e non perdona Chávez, perché non
vuole spiegare né perdonare questo universo latinoamericano, contadino,
operaio, indigeno, cittadino, che viene da lontano e si organizza
pacificamente come un esercito di formiche, e che non sussurra più ma
oramai grida consegne sulle quali l’Europa sorride sprezzante senza mai
capire. Consegne come Unità Latinoamericana e Socialismo.
Gennaro
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