MIRADA CUBANA ARCHIVIO


 

 

 

Baia di Guantanamo
di Gaia Passerini

La Baia di Guantanamo è una insenatura di 116 km² situata nella provincia di Guantánamo, nella punta sud-est dell'isola di Cuba, a oltre a 21 km a sud della città omonima.

Il territorio della baia venne affittato nel 1903 come punto di rifornimento per il carbone che alimentava le navi americane ed attualmente ospita una base navale degli Stati Uniti. La legittimità della presenza della base militare è contestata dal governo cubano che considera la baia come un'area occupata da forze straniere.

Cenni storici

La baia prende il nome dal popolo indigeno precolombiano dei Taìno. Cristoforo Colombo giunse nella baia nel 1494, sbarcando alla Punta del Pescatore.

Occupata dai britannici nel XVIII secolo, fu da questi rinominata Cumberland durante il conflitto con la Spagna a margine della guerra di successione austriaca. Nel 1790 un'intera guarnigione britannica vi fu decimata da febbri malariche poco prima di condurre un attacco a Santiago.

Durante la guerra ispano-americana Guantanamo divenne base per la flotta statunitense che vi si riparò nel 1898 a causa di una stagione di eccezionalmente severe condizioni meteorologiche. Le truppe imbarcate furono inviate a terra per espugnare, insieme agli scout cubani le postazioni spagnole. Ottenuto il controllo dell'area, vi si costruì la base, che tuttora vi è ospitata ed il cui nome convenzionale militare è GTMO o "Gitmo".

Finita la guerra, gli Stati Uniti, che avevano conquistato alla Spagna tutta l'isola cubana, siglarono con la neonata repubblica (a capo della quale era il primo presidente Tomás Estrada Palma, cittadino americano) il Cuban-American Treaty del 23 febbraio 1903, con il quale si stabiliva una concessione perpetua sulla baia, che sarebbe restata di demanio cubano, ma assegnata in gestione "uti dominus" agli stranieri. In realtà alla completezza e soprattutto alla perennità del diritto americano si giunse con un accordo di ratifica sottoscritto nel 1934.

Dopo la guerra in Afghanistan, il governo degli Stati Uniti ha aperto un campo di concentramento all'interno della base. Vi sarebbero detenute, secondo stime non ufficiali, oltre 500 persone che il governo americano riterrebbe collegate ad attività terroristiche. Solo per 10 di queste è stato formalizzato un capo d'imputazione con conseguente rinvio a giudizio.

Circa le modalità di funzionamento della parte carceraria della base, si sono levate polemiche circa le condizioni di reclusione e l'effettivo status giuridico-fattuale dei reclusi. Da parte di alcuni osservatori si sostiene infatti che i reclusi non sarebbero classificati dal governo USA come prigionieri di guerra, né come imputati di reati ordinari (il ché potrebbe garantire loro processi e garanzie ordinarie), ma sarebbero invece ristretti come detainees (detenuti) senza dichiarato titolo.

Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha diffuso alcune fotografie dei detenuti nella base militare. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha dichiarato che questi prigionieri sarebbero "combattenti irregolari" cui non si applica "alcuno dei diritti della convenzione di Ginevra". Essi "non saranno considerati come prigionieri di guerra, perché non lo sono", ha precisato.

L'Alto Commissario per i Diritti dell'Uomo dell'ONU, Mary Robinson, ha protestato contro l'atteggiamento degli Stati Uniti. L'ex-presidente della Repubblica d'Irlanda ha insistito sugli "obblighi internazionali, che vanno rispettati". Rispondendo il 21 gennaio alle critiche mosse da altri paesi (alcuni dei quali alleati) contro il trattamento inflitto ai prigionieri, Rumsfeld ha infine affermato che esso sarebbe conforme "nelle parti essenziali" alla Convenzione di Ginevra.

Il 29 giugno 2006, in occasione dell'appello di un detenuto, Salim Ahmed Hamdan, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito la violazione della Convenzione di Ginevra e il Codice di Giustizia Militare statunitense dovuta:

alle modalità di detenzione dei prigionieri all'interno della base di Guantanamo e ai tribunali militari speciali istituiti per giudicarne i detenuti.

La legislazione approvata a dicembre 2005 (legge sul trattamento dei detenuti del 2005) ha revocato il diritto dei detenuti di Guantánamo di presentare istanze di habeas corpus presso corti federali statunitensi contro la loro detenzione o trattamento, permettendo soltanto limitati appelli contro le decisioni dei Tribunali di revisione dello status di "combattente" e delle commissioni militari. È così stato messo in discussione il futuro di circa 200 casi in corso in cui i detenuti avevano presentato ricorso contro la loro detenzione in seguito a una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2004 che aveva decretato il loro diritto a presentare tali ricorsi.

Amnesty International, nel Rapporto 2006 riporta che:

      I Tribunali di revisione dello status di combattente (CSRT) istituiti dal governo nel 2004, hanno reso noto, nel marzo 2004, che il 93% dei 554 detenuti esaminati erano da considerarsi a tutti gli effetti “combattenti nemici”. I detenuti non avevano un rappresentante legale e molti di loro hanno rinunciato a partecipare alle udienze dei CSRT, che potevano avvalersi di prove segrete e di testimonianze estorte sotto tortura.

     nell'agosto 2005, un imprecisato numero di reclusi ha ripreso lo sciopero della fame già iniziato a giugno per protestare contro la perdurante mancanza di accesso a una corte indipendente e contro le dure condizioni di detenzione, che sarebbero state caratterizzate anche da violenze e pestaggi. Più di 200 detenuti (cifra contestata dal Dipartimento della Difesa) avrebbero partecipato almeno a una fase della protesta. Diversi detenuti hanno denunciato di essere stati vittime di aggressioni fisiche e verbali e venivano alimentati a forza: alcuni hanno riportato lesioni causate dall'inserimento brutale di cannule e tubi nel naso. Il governo ha negato qualsiasi maltrattamento. A fine anno lo sciopero della fame era ancora in corso.

             a novembre 2005 tre esperti in diritti umani delle Nazioni Unite hanno declinato l'offerta di visitare la base di Guantánamo presentata dal governo degli Stati Uniti, poiché quest’ultimo aveva posto restrizioni contrastanti con quanto normalmente stabilito dagli standard internazionali sulle ispezioni di questo tipo.

Per quanto desti scandalo la prigione, i detenuti sembrano preferirla a quelle dei propri paesi. Due ex-detenuti tunisini hanno chiesto aiuto a Human Rights Watch per le torture ricevuti in patria. Un prigioniero algerino ha fatto ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti invocando il suo diritto a non essere scarcerato, temendo torture nel suo paese d'origine[1] .



I prigionieri incappucciati nelle gabbie di Guantanamo
Centosessanta celle, quattro torri fari accesi tutta la notte per sorveglianza

di RUI FERREIRA


GUANTANAMO - Nelle loro celle che assomigliano pericolosamente a gabbie per animali, i prigionieri della guerra dell'Afghanistan confinati a Guantanamo si trovano letteralmente alla mercé dei venti. "Se arriva un uragano questa gente si bagnerà, si bagnerà molto", dice senza nascondere un sorriso tra le labbra il tenente colonnello Bill Costello, portavoce del centro di detenzione XRay, situato a mezzo miglio appena dalla frontiera con Cuba.
Il nome dell'accampamento che ospita già 158 prigionieri è in sé già un'ironia. Le celle misurano due metri per due e si trovano praticamente all'aria aperta. Hanno un tetto di compensato e pavimento di cemento, ma invece di pareti sono avvolte da due file di fil di ferro che le danno l'aspetto di una gabbia.

Siccome non ci sono pareti, le guardie hanno una visione completa di ciò che fanno i detenuti, come se si trattasse, per l'appunto, di una macchina a raggi X. "È una collocazione provvisoria finché non sarà terminata la prigione che dobbiamo costruire", spiega Costello. Il problema è che non c'è una data in vista per il completamento di questa costruzione, che d'altronde non è stata nemmeno iniziata. Una volta cominciati i lavori, le prime 300 unità non sarebbero pronti prima di 55 giorni.
La Base Navale di Guantanamo, sulla costa sud-occidentale di Cuba, è sotto amministrazione statunitense dal 1903. Quando arrivò al potere nel 1959, Fidel Castro denunciò l'accordo, bloccò l'accesso alla base, tagliò la fornitura di acqua potabile e la circondò di mine e di una recinzione rafforzata. Da allora, il recupero della base è diventata nel discorso ufficiale cubano una questione di sovranità.

I militari non potrebbero aver scelto un posto migliore per costruire il campo XRay. Vicino alla frontiera con Cuba si trova la zona più arida e asciutta di tutta la base. Lì la temperatura a metà della mattina raggiunge facilmente i 40 gradi centigradi. La brezza c'è appena.
Ci sono 160 celle, una baracca per la polizia militare che li guarda, quattro torri di controllo, una piccola infermeria da campo, circa 30 latrine portatili e due recinzioni attorno a tutto il perimetro. La sera, vengono accese 16 potenti fasci di luce che non sono spenti per tutta la notte. Sono tanto forti che danno l'idea che il sole non tramonti mai nell'accampamento XRay.

"Le guardie devono avere una visione totale e assoluta di quello che fanno i detenuti", dice il colonnello Terry Caricco, capo dell'accampamento. I militari autorizzano la stampa ad avvicinarsi a circa 200 metri dal posto e controllano costantemente i loro movimenti all'interno della base, l'uso di binocoli è indispensabile per vederli. Le regole per i giornalisti sono così severe che ai fotografi è vietato usare obiettivi che superino i 200 millimetri. È perché non si possa identificarli, secondo la spiegazione dei portavoce militari. Lo stesso succede con l'arrivo alla base da Kandahar. La stampa può assistere allo sbarco da una collina adiacente alla pista principale dell'aeroporto, ma non si può fotografare in maniera assoluta. Di fatto, le uniche fotografie dei prigionieri che scendono dagli aerei è possibile scattarle grazie a Fidel Castro, che ha dato accesso alla stampa internazionale a un osservatorio dalla parte cubana in una collina adiacente alla pista. I portavoce dei militari ammettono in privato che è una situazione ridicola, ma spiegano che il comandante della base, il generale Michael Lehnert, ha deciso che non si possono fotografare gli arrivi. E gli ordini sono ordini.

Sabato scorso, il C141 della forza aerea ha toccato terra nell'aeroporto della base alle 2.09 del pomeriggio. Cinque minuti più tardi si è fermato davanti a un gruppo di ufficiali della base e di personale di terra all'inizio di una delle piste. Con i motori ancora accesi, quattro camionette con a bordo fanti di marina armati di mitragliette di grosso calibro hanno circondato il velivolo, mentre attorno si spiegavano circa 30 agenti antisommossa, armati da caschi con la visiera di plastica, scudi e manganelli elettrici.
Una immensa struttura metallica di colore blu, con tazze e lavelli rudimentali, è stato ciò che è sceso per primo dall'enorme pancia dell'aereo. "Sono bagni portatili", ha detto Costello. "Nei voli normali hanno le porte, ma le hanno tolte per questo viaggio".

I prigionieri sono scesi 25 minuti più tardi, uno a uno, scortati da due uomini della polizia militare con casco e guanti di gomma gialli. Ma hanno potuto appena vedere, sentire o annusare l'ambiente nel quale si trovavano, giacché sono arrivati con occhi bendati, con tappi nelle orecchie, una maschera che copriva loro il naso e la bocca e quello che sembra essere un pesante cappotto di colore blu sopra la solita tuta arancione dei prigionieri negli Stati Uniti. Inoltre calzavano pesanti guanti e semplici scarpe di tela con suola di plastica, anche queste di colore arancione, e calze blu. Erano tutti ammanettati piedi e mani alla cintura.
Quando arrivano all'accampamento, i prigionieri sono sottomessi a un controllo che dura circa due ore, durante le quali restano rannicchiati come sono arrivati, vale a dire ammanettati, con gli occhi bendati e le orecchie tappate. Passano un controllo medico, gli si scatta una foto, si prendono le impronte digitali e li si consegna gli unici oggetti personali che hanno il permesso di tenere con sé.
Se sono arrivati con la tuta arancione, made in Messico, gli consegnano anche un paio di ciabatte fabbricate nella Repubblica Popolare Cinese, due secchi americani, tre asciugamani di provenienza sconosciuta, un dentifricio, una spazzola senza manico per evitare che questo possa servire da arma offensiva, una saponetta e uno shampoo.

Questo ultimo articolo richiama l'attenzione. Prima di lasciare l'Afghanistan, i militari hanno tagliato loro la barba e rapato la testa, il che rende lo shampoo un articolo superfluo all'interno delle piccole celle. Ma il generale non si è scomposto quando gli si è fatto notare l'incongruenza. "Stiamo valutando se permettere loro di lasciarsi crescere la barba e i capelli", dice. Il taglio dei capelli è stata fatto soltanto per motivi igienici, ma una volta nella base potrebbe non essere motivato, ha aggiunto. "Per noi la barba non è un problema. Nelle forze armate abbiamo molti bravi soldati musulmani per i quali abbiamo stabilito delle norme per l'uso della barba che la loro religione esige e non abbiamo avuto problemi", ha tenuto a precisare Lehnert. Tuttavia, non hanno ancora deciso come procedere quanto ai riti religiosi. Per il momento, su una delle torri è stato collocato un cartello che indica ai reclusi la direzione verso cui devono girarsi per pregare cinque volte al giorno verso la Mecca.
Ma contrariamente a quanto promesso non è stato ancora consegnato loro il Corano. Secondo una fonte che conosce bene il problema, sembra che nessuno a Washington abbia deciso ancora quale delle cinque versioni conosciute del Corano è adatta ai prigionieri della base navale di Guantanamo. Martedì è arrivato qui un cappellano musulmano della marina, ma in principio aiuterà soltanto le guardie a gestire i prigionieri. Non è chiaro se avrà un contatto diretto con loro.

I prigionieri ricevono tre pasti al giorno, almeno uno di questi caldo, confezionati secondo i precetti religiosi musulmani. Passano la giornata quasi sempre sdraiati, quando vogliono recarsi alle latrine o alle docce devono chiedere permesso e sono scortati da due soldati. Il portavoce della base non ha voluto confermare se restano ammanettati anche quando fanno la doccia. "Questo riguarda la sicurezza e non posso fare commenti in proposito", ha detto. La proporzione tra le donne e gli uomini soldato che stanno a guardia dei prigionieri è di uno a dieci. I soldati tentano di evitare il contato visivo con il prigioniero. Anche quando gli parlano non lo guardano negli occhi. Ma alcune volte è impossibile evitarlo. E quello che incontrano fa raggelare il sangue. "Fa spavento. Soltanto pensare che vogliono uscire dalle celle e sgozzarci, è veramente terribile", dice la soldatessa Jodi Smith di 22 anni.

Le donne non hanno avuto alcun addestramento particolare a causa della loro condizione, ma una fonte militare ha detto che devono riferire ogni incidente con i prigionieri di natura sessuale. "Chiaramente, in casi d'insulti o aggressioni riceveranno una risposta adeguata, la stessa che se lo facessero a un uomo", ha riferito la fonte.
Una delle soldatesse ha detto durante un incontro con i giornalisti che questa settimana uno dei prigionieri ha fatto un gesto di resistenza quando lei ha dovuto condurlo alle latrine.
"Non ha ottenuto molto. Il mio collega lo ha afferrato con più fermezza e mi ha detto di fare loro stesso. Lo abbiamo portato in due. Se non gli è piaciuto, a me non importa", ha spiegato.
In generale, le guardie e i prigionieri hanno un rapporto molto freddo e distante. È un comunicare in tono di comando, con un linguaggio che non ammette discussioni, spiega il tenente Angel Lugo, responsabile dell'unità medica del campo.
"Non possono scambiare alcuna parola, né dire loro dove si trovano", ha aggiunto l'ufficiale, originario di Porto Rico. Tuttavia, i prigionieri non lo ignorano del tutto. Quando sono arrivati a Guantanamo, le autorità hanno permesso loro di spedire una cartolina ai familiari, indicando che si trovavano in una base navale degli Stati Uniti nella baia di Guantanamo. "Se sanno o no dove si trova Cuba, non lo so, né m'importa", dice Costello.

Rui Ferreira, giornalista del Miami Herald, ha scritto questo reportage in esclusiva per Repubblica - Traduzione di Guiomar Parada

(25 gennaio 2002)

 

Il rapporto dell'organizzazione umanitaria fa luce sull'impatto della detenzione illimitata sui prigionieri e sulle loro famiglie
"Nel carcere Usa diritti violati" Guantanamo vista da Amnesty

di VITTORIO MARTONE


NEL 2006 la prigione di Guantanamo compie cinque anni. Il carcere speciale a giurisdizione americana sull'isola di Cuba, in cui sono detenuti senza legittimo processo i sospettati di terrorismo internazionale, è noto al mondo per le violenze che quotidianamente vengono compiute nei confronti dei prigionieri. Nel rapporto "Guantanamo: vite fatte a pezzi", Amnesty International contribuisce a fare luce sulla condizione dei prigionieri analizzandola da più punti di vista. Lo studio valuta anche le conseguenze della detenzione illimitata sulla salute psicologica dei prigionieri e delle loro famiglie. Inoltre viene messa in evidenza una realtà in cui si ripetono con grande frequenza i tentativi di suicidio e gli scioperi della fame portati avanti quasi fino alla morte. E Amnesty sottolinea la condizione assurda di nove persone che, pur non essendo più ritenute "combattenti nemici", continuano a essere trattenute nel carcere di massima sicurezza.

Nello studio vengono raccolte le testimonianze di diversi ex prigionieri, che affermano di aver subito diverse forme di torture e di maltrattamenti. Secondo Amnesty le vessazioni sui detenuti andrebbero dall'isolamento prolungato all'esposizione al freddo fino alle violenze fisiche.

Il rapporto dell'organizzazione per i diritti umani sottolinea la frequenza con cui si ripetono gli scioperi della fame, con cui spesso i prigionieri uniscono alla protesta il tentativo di uccidersi. In molti casi il personale del carcere interviene interrompendo gli scioperi con l'alimentazione forzata. All'inizio del dicembre 2005 i casi di sciopero della fame sono stati 33 e sono aumentati fino a 46 entro la fine dell'anno. La protesta civile dei detenuti viene genericamente sminuita dalle autorità carcerarie. "E' in linea con le abitudini di Al Qaeda - afferma il tenente Jeremy Martin - e riflette il tentativo dei detenuti di attirare l'attenzione dei media ed esercitare pressione sul governo americano".

Amnesty mette in evidenza anche la frequenza dei tentativi di suicidio. Su tutti il caso emblematico del pachistano Jamal Al Dossari, che fino ad oggi ha effettuato nove tentativi di togliersi la vita. Nell'ultimo di questi Dossari ha riportato gravi conseguenze per la sua salute che gli impediranno in futuro di avere una vita normale. Molto spesso le varie testimonianze dei casi di violenza o di grave disagio fisico e mentale riescono a uscire dal carcere solo tramite il racconto degli avvocati dei detenuti.  Nel rapporto Amnesty viene reso noto il caso di nove detenuti non più accusati di essere dei "combattenti nemici" eppure ancora trattenuti a Guantanamo. Per sei di questi, provenienti dalla Cina e dall'Arabia Saudita, si prospetta il rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani una volta tornati nei propri paesi. Il governo statunitense al momento ha adottato come unica soluzione del loro caso il prolungamento ingiustificato della detenzione.

Oltre a fornire le testimonianze della vita nel carcere, lo studio dell'organizzazione fa poi luce sulla condizione psicologica dei prigionieri, spostati da un luogo di detenzione all'altro senza un processo e senza alcuna idea del proprio destino. Per molti di loro, una volta ottenuta la libertà, la condizione di alienazione è tale da portarli spesso a finire nuovamente in carcere per piccoli crimini. Molto spesso la loro salute è del tutto compromessa assieme anche alla loro reputazione, sulla quale pesa a vita, come sottolinea la madre dell'ex detenuto Rasul Kudaev, "il marchio di terrorista internazionale".

Per le famiglie dei detenuti si parla poi di una condizione mentale terribile. Quasi sempre privi di notizie sulla sorte dei loro familiari "spariti", i parenti dei prigionieri sono sempre in bilico nel seguire le notizie, spesso contraddittorie, diffuse dai media. Una situazione che, secondo gli esperti, può causare gravi disturbi psicologici. Particolare è il caso del bambino inglese Anas Al Banna, che per avere notizie sul padre rinchiuso a Guantanamo ha scritto al premier britannico Tony Blair, senza mai ricevere risposta.

Per molti dei prigionieri di Guantanamo si protrae dunque una situazione di detenzione illegittima, in una zona esclusa dalla tutela del diritto internazionale e senza alcun contatto con il mondo esterno. Il rapporto Amnesty si conclude con la speranza che la "disgrazia morale" e "l'abisso emotivo" in cui vivono i detenuti si possa concludere quanto prima e che Guantanamo non abbia un altro anno di vita.

(8 febbraio 2006)

 

CAMP 6, UNA PRIGIONE DI VELLUTO E CATENACCI

Il primo colpo d'occhio lascia disorientati: un elegante tavolino da caffé, un tappeto persiano, una confortevole poltrona di velluto azzurro che ricorda la First Class di un volo intercontinentale. Visioni insolite, che spuntano all'improvviso in un mondo per il resto fatto di cemento e sbarre. Ma basta un secondo sguardo per notare la cavigliera incatenata al pavimento, la telecamera alla parete, il bottone d'allarme. E la stanza ovattata torna a essere quello che è: il luogo usato per gli interrogatori, un angolo della 'nuova' Guantanamo. Sembra preistoria l'epoca di Camp X-Ray e delle celle all' aperto che, all'inizio del 2002, accolsero i primi prigionieri arrivati dall'Afghanistan nella base navale a Cuba. Il vecchio campo di detenzione è ora un luogo fantasma invaso dalle erbacce. Le baracche di legno marcio dove avvenivano i primi interrogatori sono silenziose e cariche di inquietanti memorie di un passato che ha solo 5 anni.

La Guantanamo di oggi non è quella dei detenuti in tuta arancione circondati dal filo spinato, ma è rappresentata da due blocchi di cemento con aria condizionata e poltrone di velluto per gli interrogatori, battezzati Camp 5 e 6 e realizzati da Kellogg, Brown and Root, il colosso delle costruzioni del gruppo Halliburton. La trasformazione di Guantanamo da prigione provvisoria a centro di detenzione dall'aspetto permanente, è stata completata lo scorso dicembre con l'apertura di Camp 6, un carcere da 160 posti costato 37 milioni di dollari. A poche settimane dall'inaugurazione, il Pentagono ha concesso all'Ansa una vista alla nuova struttura e al resto del villaggio di catenacci costruito dagli Usa a Cuba, dove oggi sono detenuti 395 presunti esponenti di Al Qaida e dei taleban. Il 66% dei prigionieri - due su tre - adesso sono rinchiusi a Camp 5 e 6, in strutture che ricordano le prigioni federali americane (non a caso sono ispirate rispettivamente a un carcere dell'Iowa e alla prigione di Lenawee, in Michigan). Un altro piccolo contingente si trova ancora nei più vecchi campi 1 e 4, mentre i 2 e 3 sono ormai vuoti. Degli 800 detenuti arrivati a Guantanamo in 5 anni, metà sono stati trasferiti nei loro paesi o rilasciati e altri 85 sono già stati dichiarati pronti a lasciare la base. Per i 300 che resteranno, si profila un futuro da sepolti vivi.

"Camp 6 era stato pensato come prigione di media sicurezza - spiega l'ufficiale che comanda la prigione, che non vuol vedere il proprio nome sui giornali -, ma dopo una rivolta lo scorso maggio e tre suicidi coordinati a giugno, ci siamo resi conto che non esistono terroristi di media sicurezza". Il carcere è stato rafforzato in fretta e ora anche i 160 detenuti di Camp 6, come gli 80 dell'adiacente numero 5, vivono in regime da 'supermax', le strutture di massima sicurezza americane. Da qualche parte nelle due prigioni, del resto, ci sono personaggi che fino al settembre 2006 erano chiusi in celle della Cia di cui l'America negava anche l'esistenza: lo stratega dell'11 settembre Khalid Sheikh Mohammed, il suo braccio destro Ramzi Binalshibh, il terrorista asiatico Hambali e altri 11 presunti leader di Al Qaida, che presto compariranno per la prima volta di fronte a una corte a Guantanamo per valutare il loro status di 'combattenti nemici'. "Contiamo che avvenga entro un paio di mesi", spiega all'Ansa il capitano di Marina Gary Haben, che coordina i tribunali di revisione, mentre il numero uno a Guantanamo, l'ammiraglio Henry Harris, racconta che i 14 terroristi "si comportano bene e rispettano tutti le regole".

 Visto il loro comportamento, a Mohammed e agli altri del gruppo toccano i vantaggi previsti per chi obbedisce alla disciplina decisa dal Pentagono, a partire dalla possibilità di indossare comodi indumenti bianchi o color canapa, invece che le tute arancioni dei 'disobbedienti'. Biancheria di ricambio, preziosi rotoli extra di carta igienica, tappeto e copricapo da preghiera, carte da gioco e pacchi di sale sono altri premi, insieme alla possibilità di accedere ai 5.000 libri in 19 lingue di cui dispone la biblioteca di Guantanamo. Anche sul piano dell'alimentazione, la vita di Mohammed e degli altri deve essere migliorata non poco da quando erano chiusi nelle celle segrete della Cia. "La qualità del cibo che ricevono è la stessa che hanno i militari", spiega orgogliosa e sorridente Sam Scott, una coreana che comande le enormi cucine di Camp America, da dove escono sia i pasti per i soldati, sia le cinque varianti previste dal menu offerto ai detenuti. Tutti cibi cucinati in stile halal, per rispettare le tradizioni musulmane. Ma in cambio il Pentagono,
la Cia, l'Fbi e i servizi segreti di mezzo mondo continuano a 'spremere' i detenuti. "Stiamo ancora raccogliendo informazioni importanti qui a Guantanamo, anche da chi si trova qui già da cinque anni", spiega l'ammiraglio Harris. Resta difficile stabilire se nella stanza con la poltrona vellutata si usino sempre e solo guanti, altrettanto di velluto.

DA DETENUTI UN VOLTO A NUOVI LEADER AL QAIDA

Sono figure con un nome ma senza volto, nuovi leader che hanno scalato i ranghi dei taleban e di Al Qaida e sono ora alla guida dei guerriglieri che preparano l'offensiva di primavera in Afghanistan contro le forze della Nato e il governo di Kabul. Ma il vantaggio di essere invisibili sta forse per finire: nelle celle di Guantanamo, alcuni loro vecchi compagni d'addestramento hanno accettato di mettersi al lavoro con i disegnatori dell'Fbi per realizzare gli identikit dei nuovi capi.

A rivelare l'esistenza di un'operazione d'intelligence, che sembra uscire da un film poliziesco piu' che da un ambiente militare, e' l'ammiraglio Harry B. Harris, l'ufficiale al quale il Pentagono da un anno ha affidato il comando di Guantanamo. ''Anche se molti detenuti si trovano qui da 5 anni, e in alcuni casi proprio perche' sono qui da cinque anni e solo ora stanno cominciando a parlare, stiamo raccogliendo informazioni importanti da loro'', spiega Harris in un'intervista all'Ansa nella base navale americana a Cuba, nell'ambito di una visita concessa dal Pentagono nella prigione piu' contestata del mondo.

La 'freschezza' delle rivelazioni che possono offrire uomini isolati dal mondo in molti casi dall'inizio del 2002, e' oggetto di legittime perplessita'. Secondo l'ammiraglio, Guantanamo resta pero' un serbatoio di informazioni strategiche per la lotta al terrorismo, non solo in Afghanistan. ''So che ci sono differenze di giudizio - afferma Harris - sul valore del materiale d'intelligence che raccogliamo oggi, dopo cosi' tanto tempo. Ma posso garantire che stiamo ottenendo informazioni utili e interessanti anche per i nostri alleati in Europa''.

Altre fonti militari di Guantanamo si spingono oltre e aggiungono che dalla prigione sono partite ''informazioni importanti per ricostruire la presenza di membri di Al Qaida in Europa''. E tra i servizi d'intelligence che sono venuti ripetutamente ad attingere a questo serbatoio, sottolineano le stesse fonti, ''ci sono anche quelli italiani''. Gli esponenti che oggi comandano le unita' dei taleban che continuano a imperversare in Afghanistan, o i nuovi capi di Al Qaida emersi dalla decimazione della leadership storica dell' organizzazione di Osama bin Laden, anni fa erano in molti casi compagni d'armi nei campi di addestramento afghani di vari detenuti ora chiusi a Guantanamo.

E' per questo, racconta l'ammiraglio Harris, che gli uomini dell'intelligence Usa e dei paesi della forza Isaf, sempre piu' spesso scoprono nei villaggi afghani nuovi nomi di capi della guerriglia e chiedono se tra i 395 detenuti nella base a Cuba ci sia chi li conosce. ''Non ci sono fotografie che li ritraggono - spiega Harris -, ma molto spesso sono personaggi che hanno conosciuto quelli che sono a Guantanamo. Per questo i disegnatori delle forze dell'ordine stanno lavorando con i detenuti che collaborano e presto avremo immagini da mandare ai nostri militari in Afghanistan, utili per catturare o uccidere questi individui''.

 Il capitano di Marina Gary Haben, che comanda i tribunali per la revisione dei casi dei prigionieri, rafforza il concetto: ''Anche dopo 5 anni, i detenuti qui possono rivelarsi d'un tratto di grande importanza per l'intelligence, per effetto di eventi che accadono nel mondo su cui possono avere conoscenze'' Ma l'ammiraglio Harris e i suoi ufficiali sanno che non basteranno gli identikit, per placare l'impazienza che buona parte del mondo ha ormai per Guantanamo.

''Sono d'accordo con chi dice che prima si chiude questo posto, meglio e' - afferma Harris -, ma questo deve avvenire quando Guantanamo non e' piu' necessaria. Oggi sfortunatamente a mio avviso lo e', perche' abbiamo qui circa 300 detenuti, su un totale di meno di 400, che sono seriamente dediti alla loro causa, sono troppo pericolosi per essere rilasciati o non hanno detto quello che sanno. Non possiamo assumerci la responsabilita' di lasciarli andare''. Il Pentagono, sottolinea l'ammiraglio, ha gia' ''corso i propri rischi'', facendo partire da Guantanamo in questi anni circa meta' dei detenuti che vi sono arrivati (377 su meno di 800). Una ventina di loro, pari al 10%, sono ricomparsi sul campo di battaglia, specie in Afghanistan.

''Voglio enfatizzare - dice Harris - come sia senza precedenti nella storia militare moderna che una Nazione in guerra rimetta in liberta' individui designati come combattenti nemici''. Nello stesso tempo, buona parte di quelli rimasti - tra cui i presunti strateghi dell'11 settembre - non possono tornare a piede libero. ''Nell'immediato futuro - afferma l'ammiraglio - c'e' la necessita' assoluta di avere Guantanamo o un posto come Guantanamo da qualche parte. Dove possa essere questo 'da qualche parte', non lo so dire. Ma se chiudessimo domani, dovremmo decidere dopodomani cosa fare con i detenuti che sono qui''. Ai critici, specie in Europa, Harris risponde con una richiesta: ''Che siate d'accordo o meno con l'esistenza di questo luogo o con la legittimita' di tenere combattenti nemici detenuti per un lungo tempo senza processo, quantomeno riconoscete il fatto che lo stiamo facendo in modo umano. Io la notte dormo bene, da questo punto di vista, perche' ritengo che stiamo facendo bene il nostro lavoro''.

I 14 SUPERTERRORISTI CHIUSI A CAMP 5 E 6

Camp 5 e il nuovissimo Camp 6, le strutture di massima sicurezza dove sono stati trasferiti due terzi di tutti i detenuti di Guantanamo, ospitano tra gli altri anche 14 cosiddetti 'detenuti di alto valore', trasferiti nella base a Cuba lo scorso settembre da prigioni segrete della Cia sparse nel mondo. Ecco chi sono:

1 - KHALID SHEIKH MOHAMMED: Definito dall'amministrazione Bush "uno dei più famigerati terroristi della Storia", è reo confesso di essere stato lo stratega dell'attacco all'America dell'11 settembre 2001. Si è laureato negli Usa nel 1986 ed è stato la mente di molteplici progetti, compreso il cosiddetto 'Bojinka' del 1994, che prevedeva di far esplodere in volo 10 aerei americani sul Pacifico: un piano a cui si sarebbero ispirati i presunti terroristi arrestati lo scorso agosto a Londra, accusati di aver pensato stragi con esplosivi liquidi.

2 - RAMZI BINALSHIBH (o Bin al-Shibh): Uno yemenita che guidava la cosiddetta 'cellula di Amburgo', che realizzò le stragi di cinque anni fa. Fu catturato nel 2003 con Mohammed. Con lo stratega dell'attacco, secondo gli Usa aveva messo a punto dopo l'11 settembre anche un progetto di attentato che prevedeva di dirottare un aereo e lanciarlo contro l'aeroporto londinese di Heathrow. Al momento della cattura, secondo l'accusa aveva reclutato quattro sauditi per la nuova strage.

3 - ABU ZUBAYDAH: Uno dei principali leader di Al Qaida fino alla cattura e il responsabile del reclutamento e dei campi di addestramento in Afghanistan. Nel novembre 2001, secondo gli Usa, fu lui a far fuggire dal paese 70 combattenti dell' organizzazione, tra cui Abu Musab al Zarqawi.

4 - HAMBALI (vero nome: Riduan bin Isamuddin): Indonesiano, era il capo nel sudest asiatico di Jemaah Islamiya, ritenuta strettamente legata ad Al Qaida. Tra le accuse contro di lui, quella di aver organizzato l'attentato di Bali del 2002 (oltre 200 vittime).

5 - AMMAR AL-BALUCHI: operativo di Al Qaida in Pakistan, è nipote di Mohammed e cugino di Ramzi Yousef, l'autore del primo attacco al World Trade Center del 1993. Ha addestrato terroristi inviati negli Usa.

6 - WALID BIN ATTASH (o Khallad Bin Attash): Membro di una famiglia saudita molto legata a Osama bin Laden, è stato tra i responsabili di Al Qaida in Arabia Saudita.

7 - ABD AL-RAHIM AL NASHIRI: E' stato il capo operativo di Al Qaida nella penisola Arabica fino alla sua cattura, nel 2002. E' ritenuto l'artefice dell'attentato alla nave da guerra americana 'Cole' nello Yemen, nel 2000 (17 morti).

8 - MUSTAFA AHMAD AL-HAWSAWI: Uno dei due 'cassieri' dell'11 settembre, inviò i soldi ai dirottatori dagli Emirati Arabi Uniti e gestì tutti gli aspetti finanziari dell'operazione.

9 - AHMED KHALFAN GHAILANI: E' accusato di essere stato il 'falsario capo' di Al Qaida, che procurava passaporti e visti falsi ai membri dell'organizzazione.

10 - ZUBAIR (vero nome Mohd Farik bin Amin): Uno dei collaboratori di Hambali, doveva compiere un attentato suicida a Los Angeles. Catturato nel 2003.

11 - LILLIE (vero nome Mihammed Nazir Bin Lep): Un altro dei luogotenenti di Hambali, a lui spettava l'organizzazione della presunta 'seconda ondata' di attacchi aerei suicidi contro gli Usa, che aveva Los Angeles nel mirino.

12 - MAJID KHAN: Pachistano cresciuto negli Usa, ha lavorato per Mohammed per compiere sopralluoghi per attentati. Nel 2003 avrebbe ordinato a un pachistano residente degli Usa, Uzair Paracha, di impersonarlo per potersi dileguare. Paracha è stato condannato a 30 anni di carcere.

13 - ABU FARAJ AL LIBI: Ex comandante militare di Al Qaida in Afghanistan. Rispondeva direttamente a bin Laden e ad Ayman al Zawahri ed è ritenuto il pianificatore di attentati contro il presidente pachistano Pervez Musharraf.

 14 - GOULED HASSAN DOURAD: Capo della al-Ittihad al-Islami, un' organizzazione somala legata ad Al Qaida.

 

 

 

 

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