100$ PER UN AMORE


5.MORON
 

 

 

La piccola Suzuky, divorava la striscia d'asfalto disuguale che stavo macinando tra L'Avana e Ciego de Avila. Con una moderata velocità costante, sorpassavo camion inventati dalla fantasia e dalla disperazione, spesso costruiti, adattando un vagone ferroviario su di una vecchia motrice di trattore.

Lungo il paesaggio monotono, scorgevo il lontananza, case uguali tra loro, edificate con pochi mattoni uniti a fantasmagorici materiali, avanzati da chissà quale destino. Sterili palmizi si facevano largo tra la folta vegetazione tropicale cercando una loro identità.

Sulla strada, erano appostati ad ogni crocicchio, gruppi di persone in attesa di veder arrivare, arrancando tra una nuvola di fumo nero, la guagua che li avrebbe riportati là, da dove se ne erano venuti. Alle rare autovetture che transitavano, chiedevano un passaggio al fine di evitare, così, la lunga attesa che li avrebbe visti salire su di un pullman stracarico di persone e cose che, se aveva la fortuna di non guastarsi prima, li avrebbe ricondotti a destinazione, per pochi pesos cubani.

Si distinguevano contadini che pedalavano pesanti biciclette, rientrare a casa dopo una lunga giornata di lavoro, passata su campi riarsi da un impietoso sole che cuoceva terra e sudore delle persone.

Il cielo si era rannuvolato d'improvviso, come spesso accade ai tropici, oscurando il globo luminoso e creando delle ampie zone d'ombra sopra il paesaggio circostante, dove gli unici padroni erano gli avvoltoi che svolazzavano in circolo. Ero preoccupato per il cambiamento repentino che non lasciava presagire nulla di buono. L'unica autovettura che avessi trovato al noleggio dell'aeroporto dell'Avana, era sprovvista di capote.

Le prime gocce di pioggia iniziarono a bagnare la mie testa poco dopo, seguite da una vera e propria mitragliata d'acqua. Come tutte le strade dell'isola, era difficile trovare un riparo. Le rarissime stazioni di servizio, erano distanti tra loro diversi chilometri e, tranne rare eccezioni, non esistevano punti di ristoro dove potersi riparare dal maltempo. Continuai ad avanzare dal momento che non v'erano alternative, nella speranza di vedere in lontananza, qualche possibile riparo. I tergicristalli dell'auto, si ruppero poco dopo, aggravando la già precaria visibilità.

Nonostante tutto, ero felice.

Avevo telefonato a Fidelia il giorno prima, assicurandomi senza destare sospetti, che sarebbe rimasta a casa per i prossimi giorni. Poi, ero volato all'Avana portando, oltre ad un voluminoso bagaglio fatto interamente di regali, anche il mio cuore strabocchevole d'amore. Pierluigi aveva aumentato il suo credito, integrando con un altro assegno, il prestito già concessomi per mettermi nella condizione di realizzare l'idea che aveva avuto e, delle quale, si sentiva orgoglioso.

La pioggia non mi spaventava anche se, ormai, ero bagnato fino al collo e mancavano ancora duecento chilometri a Ciego de Avila da dove, poi, avrei dirottato su Moron.

Durante il volo, mi aveva tenuto compagnia, l'immaginazione che mi aveva fatto sognare tutte le cose che avrei vissuto al mia arrivo a casa di Fidelia. Mi sforzavo, soprattutto, di visualizzare la faccia sorpresa dal mio inaspettato arrivo. Desideravo lei con tutte le mie forze e questo pensiero, alimentava tutto l'amore che provavo per Cuba.

La notte era scesa. La potevo riconoscere dal fascio di luce proiettato dagli asfittici fari dell'auto che frugavano, indiscreti, il buio. Aveva smesso di piovere sulle mie ossa inzuppate quando giunsi a Ciego de Avila. Ero stanco ed infreddolito e mancava ancora un ora di viaggio per giungere da Fidelia. Decisi che sarebbe stato più opportuno presentarmi il giorno dopo quando, con il conforto della luce del sole e ben riposato, avrei fatto la mia teatrale apparizione davanti casa sua. Scorsi l'insegna di un piccolo albergo, dove decisi di passare un'anonima notte.

Il gallo di Moron, campeggiava all'entrata della piccola ma linda cittadina. Si trattava di una scultura di metallo che riproduceva un galletto stilizzato preso come simbolo della città. Gli abitanti del luogo ridevano della posizione in cui era stato posta la statua in quanto, dicevano, che il gallo indicava con il suo becco, il capoluogo della provincia, Ciego de Avila, ma con il culo, il paese che avrebbe dovuto rappresentare.

Il sole era già alto nel cielo, facendo risplendere il paesaggio pulito dalla pioggia del giorno prima. Chiesi ad un ragazzo dove si trovasse la Calle quatro, quella tra l'Avenida de Tarafa y Serafina, dov'era la casa di Fidelia.

A Cuba, tutte le strade erano numerate ma, per decifrarne la posizione, bisognava cercarne anche gli incroci che ne identificavano l'esatta ubicazione. Questo, in un piccolo paese dove tutti conoscono tutti, non era di grande difficoltà ma, in una città come L'Avana, tutti problemi legati a questo sistema di segnalazione stradale, emergevano impietosamente. Il ragazzo si offerse di accompagnarmi, sperando di ricevere in cambio un paio di dollari che non mi chiese. All'imbocco della Calle, scese dall'auto, soddisfatto della piccola mancia che gli avevo elargito e mi salutò con gratitudine.

La strada, piuttosto centrale, divideva in due un agglomerato di piccole casette di legni con i tetti di lamiera arrugginita. Si assomigliavano tutte fra loro: due piani di miseria ed insetti divisi tra un minuscolo patio, un ingresso utilizzato anche come cucina, una piccola camera, un bagnetto senza servizi ed una scala che conduceva al piano superiore dov'era sistemata pretenziosamente la camera matrimoniale. Fuori, ogni veranda aveva  la sua sedia a dondolo, privilegio di comodità destinata al capofamiglia e agli ospiti di riguardo.

Imboccando la strada alla ricerca del numero civico, notai il fatto che ogni sedia a dondolo era occupata da persone che, dondolandosi, parlavano fra loro oppure erano intenti a fare qualche piccolo lavoretto o a leggere il Granma. Era un giorno come tanti altri a Moron così come in tutti i piccoli paesi dell'entroterra cubano, esenti dai clamori del turismo occidentale.

Quando vidi Fidelia, lei ancora non si era accorta del mio arrivo. Stava rannicchiata sulla sedia, dondolandosi con gli occhi chiusi e la cuffietta del walkman ben piazzata sulla testa. Le treccine erano meno lucide e non indossava che una stinta vestaglietta abbastanza lisa. Non portava tacchi a spillo ma, posate per terra al fianco della sedia, scorsi un paio di scolorite  ciabatte da mare. Arrestai la Suzuki davanti al piccolo patio mentre i vicini seguivano la scena con attenzione e curiosità.

Seguì un urlo e Fidelia corse dentro casa sbattendosi rovinosamente sulla porta di ingresso. Rimasi stupito dalla reazione. Avevo sognato che mi sarebbe corsa incontro per buttarmi le braccia al collo e per darmi un lungo bacio ed invece, nulla di tutto ciò: solo un grido e la fuga in casa. Ero smarrito quando la porta si riaprì delicatamente facendone uscire una donna dall'aria dignitosa che sapeva di buono.

"Buenos Dias, Claudio. Yo soy Fanny Maria, la mama de Fidelia. Desculpame, para nosotros esta es una sorpresa muy grande. Tenerte aquì ahora...ès imposible" disse veramente sincera. "Encantado -feci- y Fidelia?".

La donna aprì il portoncino, scivolando dentro la casa facendomi cenno di seguirla.

Fidelia era in un cantone con le mani sul viso e stava piangendo.

"Amore mio" le dissi avvicinandomi impercettibilmente.

Lei corse da me, abbracciandomi come avevo sognato. Le lacrime le scendevano tempestose accompagnate da singulti strozzati.

"Sono felice, amore mio...io non sapevo...perché non mi hai detto che venivi a Cuba?" disse tra i singhiozzi.

"Ti ho fatto una sorpresa -risposi- La prima delle tante...".

Si staccò ricomponendosi le treccine ed asciugandosi le lacrime col bordo della vestaglia che sollevò, mostrandomi senza imbarazzo le sue belle gambe.

"Quali sorprese?" domandò curiosa.  Era tornata ad essere la gattina astuta che avevo imparato a conoscere; aveva accantonata la tristezza per recuperare quell'autocontrollo generato da anni di vita jinetera.

Uscii per andare alla jeep a prendere la grossa valigia che avevo preparato per loro. Quando Fidelia ne estrasse il contenuto, un moto di soddisfazione dipinse il suo viso. Mama Fanny osservava divertita ma compiaciuta, tutte le cose che sua figlia stava estraendo come una Mary Poppins cubana e che sarebbero state loro.

Dalle scale scese frignando un bambino nero come la pece.

"Chi è?" domandai.

Fidelia, senza alzare lo sguardo dagli indumenti che stava provandosi mimando una ideale vestizione, rispose senza alcuna emozione.

"E' Miguelito, un mio cuginetto che dorme da noi".

Il niño corse verso il tavolo dov'era posata la grossa valigia, mostrando un acuto interesse verso una piccola automobilina di plastica che era stata accantonata sul bordo.

"Por ti" gli dissi allungandogli il giocattolo.

Immediatamente corse fuori, imitando il rombo del motore e sparì dalla mia vista.

"Mama! Cafè!" grido Fidelia.

La donna andò ad aprire un piccolo armadio che fungeva da credenza, tirando fuori un'antica macchinetta napoletana e s'industriò con una confezione di Cubita per riempirne il serbatoio. Poi, accese l'unico fornello e ci mise sopra la vecchia caffettiera.

Si aprì nuovamente il portoncino fatto di vetuste assi di legno marcio tenute insieme da strani ingranaggi arrugginiti.

"Ola, amigo italiano!" un ridente negrone varcò l'ingresso, catapultandosi verso me.

"Claudio, questo è il mio patrigno, Hector" disse Fidelia dopo aver riposto un vestitino che le avevo comprato a Milano.

"Ma tutti sanno che sono qui?" dissi divertito.

"Moron è un paesino e l'arrivo di uno straniero non è certo passato inosservato..."rispose sorridente.

"Le altre sorprese?" insistette.

"Ho con me il tuo visto di entrata in Italia ed il biglietto aereo. Chiederai subito il passaporto ed il visto di uscita. Nel frattempo, resterò con te a Cuba e, poi, partiremo insieme".

Questa volta rimase ammutolita dalla sorpresa mentre Hector mi aveva stretto tra le sue braccia volendomi, così, dimostrare tutto il suo affetto.

Il brontolio del caffè in ebollizione interruppe la scenetta famigliare.

"Mama! Vado in Italia!" gridò piena di gioia.

Fanny ed Hector la guardarono intensamente, soddisfatti della notizia che era entrata improvvisa nella loro casa. Mama, andò a togliere il caffè dal fuoco mentre il patrigno osservava curioso il contenuto della valigia ormai saccheggiata.

"Domani andremo a Ciego per richiedere il mio passaporto" fece contenta.

"Señor, quieres cafe?" disse Hector porgendomi una tazzina sbeccata.

La casa era esattamente come me l'aveva descritta decine di volte Fidelia ma fui sorpreso dal calore provocato dalla famigliarità che mi pervase fin dal primo istante che vi entrai.

"Claudio, mentre bevi il tuo caffè io vado a prepararmi, così poi usciamo. Ti voglio far vedere il paese ma ti voglio presentare ai miei amici".

Si rintanò nella minuscola camera che dava sull'ingresso dove eravamo, scomparendo alla mia vista.

Miguelito rientrò rumorosamente sempre giocando con la macchinina colorata, poi s'avvicinò. "Gracias señor" e uscì nuovamente suscitando una generosa risata da parte di Mama Fanny. "Ah, los niños..." sospirò fissandomi negli occhi.

"Como estas Claudio?" chiese il marito.

Sorrisi mentre stentatamente cercavo di fargli comprendere la mia felicità di trovarmi con loro in quel momento. Il caldo si era fatto soffocante e il piccolo ventilatore da tavolo riusciva solamente a sputare aria ancor più umida di quella che entrava dalla finestra che dava sulla calle. Odore di cucina, caffè, sudore e povertà aggredivano le mie narici piacevolmente assetate di quegli aromi che ubriacavano la mia mente.

Le mosche facevano larghi giri nell'aria, alla ricerca di qualcosa su cui tuffarsi e rapirono per un attimo la mia attenzione. Fidelia uscì vestita di tutto punto, pronta ad esibirsi davanti all'intero paese.

"Vamos Claudio".

Dopo aver passato la mattinata accompagnandola attraverso i suoi capricciosi giri, conoscevo a memoria tutta la cittadina. Eravamo andati a trovare tutte le sue zie e i suoi amici più cari. Tutti mi conoscevano tramite i racconti che Fidelia aveva propinato loro, ingigantendomi fino all'inverosimile. E da tutti ricevevo sorrisi, strette di mano, abbracci e baci.

Fidelia si era messa in ghingheri, utilizzando subito gli abiti che le avevo portato dall'Italia. Ma aveva portato con se parte dei miei regali che aveva a sua volta donato alle persone che eravamo andati a trovare.

"vedi, Claudio -spiegò mentre rientravamo a casa- le mie zie e i miei cugini sono molto buoni con me. Se non abbiamo da mangiare, loro ci danno della roba e così possiamo cucinarla. E così, se io ho qualcosa in più, gliela regalo con piacere perché loro sono poveri".

Pensai che neanche lei era ricca ma, a differenza di loro, coltivava il sogno di venire a vivere in Italia con me. Questo pensiero la rendeva più solida rispetto a chi, come i suoi parenti, aveva appeso i propri desideri ad asciugare al filo della disperazione.

"Sai cosa facciamo adesso? Prendiamo tua madre, il tuo patrigno e chi altro vuoi ed andiamo a mangiare in un ristorante" dissi sorvolando sulle mie considerazioni.

Ritornammo a Calle Quatro. Davanti alla casa, si era radunato un piccolo gruppetto di persone che stavano parlando con Fanny. Al nostro arrivo si scansarono con fare reverenziale, aprendoci un corridoio dove farci passare per raggiungere  il portoncino di casa.

"Che sorpresa, my amor. Tu es loco, gringo maldito!" fece scherzando e alludendo alla mia venuta a Cuba.

Hector era uscito per tornare al lavoro e Fanny si affacciò in casa parlando velocemente con Fidelia.

"Mama dice che va ad accompagnare Miguelito da una zia...ma è una scusa per lasciarci soli. Ho tanta voglia di te amore...seguimi". Salì le scale che conducevano alla camera matrimoniale arredata con pochi mobili malandati. Alcune vecchie fotografie erano appese alle pareti con lo scopo di rendere meno triste il colore della stanza, senza riuscire nell'intento. Fidelia chiuse silenziosamente la porta. Il caldo era opprimente ed il sudore le fasciava il vestito facendolo aderire al suo corpo in maniera quasi indecente.

S'avvicinò fino a prendermi l'anima. Una esplosione di colori avvolse quel nostro amplesso cospargendolo di tutta quella poesia di cui eravamo capaci. I lunghi giorni passati a sognare chi si amava, apparivano ora, distanti. Non esistevano più ansie, paure, preoccupazioni, bisogni. C'eravamo solo noi, vivi e palpitanti, che emergevamo da un torpore quasi letargico per riprenderci il gusto dell'essere innamorati. Le lenzuola bagnate di umori e sudore, mute testimoni del sentimento che ci univa, erano scivolate sul pavimento di pietra grigia, rendendo ancor di più l'idea dell'impeto col quale ci eravamo uniti e dal quale ci eravamo saziati.

"Ho guardato la mia estrella tutte le sere" confessò piano.

Accesi la solita sigaretta e mi volsi verso di lei.

"Anch'io ma a Milano, vedere il cielo stellato non è sempre possibile".

Mi accarezzò delicatamente il petto, giocando con la peluria che lo infoltiva.

"Ti ho sempre pensato -continuò- e vorrei avere un figlio da te, in modo che la nostra unione duri per sempre".

Non avevo mai pensato ad una eventuale paternità ma, l'idea di mettere al mondo un piccolo niño mulatto che riunisse in se tutta la dolcezza e la carica di umanità caraibica col quale giocare ad essere finalmente adulto e responsabile, non mi dispiacque affatto. Avrebbe indubbiamente cementato l'unione con Fidelia ma, dopo l'egoismo del momento, sarei stato capace di assicurare tutto l'affetto e l'amore di cui aveva bisogno? Riflettendoci su, non m'accorsi del cambiamento d'umore di Fidelia.

"Non devi sentirti obbligato -disse- ti ho solo raccontato uno dei miei sogni".

Chissà quanti altri ne custodiva nel cassetto del suo  cuore, pensai.

"Stavo pensandoci su...-risposi- immaginando quanto potrebbe essere bello. Mi piacerebbe mettere su la mia famiglia con te".

Un lampo di dolcezza sfiorò il suo viso subito scomparendo.

"Ma tu vivi in Italia ed io qui...Come crescerebbe il nostro bambino senza suo padre, in un paese dove non c'è nulla per lui?" mi domandò, cercando il conforto della mia risposta.

"Potresti venire a vivere in Italia con me. Poi...una volta all'anno si potrebbe tornare a Cuba con il bambino per fargli conoscere la sua Patria e le sue radici" dissi convinto.

"My amor, sarebbe bellissimo. E' questo che spero dalla vita, ma so che non si realizzerà".

Perché? -feci caparbio- Se questo è il nostro comune desiderio, lo possiamo realizzare con le nostre sole forze".

"I sogni non si avverano mai -aggiunse laconicamente- ed io non voglio soffrire di più di quello che già soffro a causa della tua lontananza". La strinsi forte a me. Non volevo deluderla specie ora che mi aveva confessato  il suo segreto più grande che iniziavo a condividere.

La Consulteria Juridica di Ciego de Avila ci vide uscire raggianti.

Fidelia stringeva tra le mani, il suo passaporto, col quale aveva raggiunto una condizione quasi privilegiata rispetto alla maggioranza di cubani che ne era sprovvista. Il documento, bruttino da vedere, rappresentava il primo passo verso il volo che l'avrebbe condotta al di là del regime di Castro, dentro al mondo ipocrita fatto di luci ed edonismo occidentale che non avrebbe mai capito.

"Amore mio, grazie!" ripetè fino ad arrivare alla nostra auto.

Aveva, successivamente, inoltrato la richiesta per ottenere il visto d'uscita ma avrebbe dovuto attendere una settimana, per averlo. Potevamo restare tranquilli per tutto quel tempo, in attesa della nostra partenza per l'Europa. Era al settimo cielo ora che tutte le pratiche erano state espletate e che si trattava solo di contare i giorni.

"Ritorniamo all'Avana" domandò.

"Mi piacerebbe conoscere Santiago de Cuba, Trinidad e Santa Clara..."risposi.

"Santa Clara no, por favor..."disse intristendosi dei suoi recenti ricordi.

"Va bene.  Torneremo all'Avana da zia Juliet, se vuoi. Per me, l'importante è stare insieme a te".

"Allora,portami al Correo da dove posso telefonare a mia zia" comandò.

Mezz'ora più tardi, filavamo sulla strada che avevo percorso qualche giorno prima, sotto il temporale. L'Avana ci stava nuovamente aspettando.

Il Vedado era così come l'avevo lasciato. La sua aria demodé piena di atmosfere riempiva le strade specialmente verso quel tratto chiamato "La Rampa", centro della cultura e della città moderna. Le vie erano, come al solito, animate dalla stessa gente che si poteva trovare in una qualsiasi città e paesino dell'isola. Biciclette arrugginite dal tempo e scassati motorini, sorpassavano le difficoltà prodotte dalle salite che si aprivano improvvise nel quartiere collinoso. La Calle 38 si trovava poco dopo la minuscola piazzetta dove avevo passato una delle notti più dolci della mia vita. Arrivai davanti alla casa di Juliet e suonai due volte con il clacson per avvisare del nostro arrivo. Si aprì il portoncino e Juliet uscì col suo solito scanzonato sorriso e, come la prima volta che la vidi, ne ammirai il superbo corpo fatto solo per amare. 

"Claudio -gridò correndomi incontro- My amigo".

S'arrampicò su di me come volendomi possedere davanti a tutti, ignorando completamente Fidelia. Cercai di liberarmi da quel moto di eccessivo affetto, accingendomi a prelevare il bagaglio dal sedile posteriore del fuoristrada.

Fidelia fulminò con lo sguardo la zia, dopo averla freddamente salutata, ed entrò in casa.

"Claudio...quieres un café, una cerveza, ron?" disse amabilmente Juliet.

"Una cerveza para mi y...tienes un jugo de mango por Fidelia?" domandai.

"No" rispose con una velata soddisfazione per quella piccola vittoria presa sopra le voglie della nipote. Salii le scale che conducevano a quella che ormai considerava come la 'nostra' camera. Fidelia stava svuotando il suo bagaglio riponendo, con estrema attenzione e cura, gli abiti dentro il minuscolo armadio senza ante.

"Hai finito mia zia di baciarti?" disse in un tono che non ammetteva repliche. "Ti ho detto che quella vuole singare con te..." continuò.

"Non litighiamo. Lascia che lei abbia il suo sogno..."risposi per consolarla.

"E allora scopatela! Così sarete felici.." replicò seccamente.

"Perché sei gelosa? Non ti fidi di me?" chiesi.

S'imbronciò ancor di più come se la mia domanda avesse provocato l'effetto contrario di quello che mi ero prefissato.

"Te gusta! Lo vedo..." gridò incollerita.

"Non è vero. Io penso solo a te...come puoi credere una cosa simile?" dissi cercando di mantenere un contegno impassibile.

Restò muta anche quando mi avvicinai per cingerla appassionatamente.

La baciai quasi castamente ed aggiunsi "Smettila di vedere cose che non ci sono. Pensa solamente che tra una settimana sarà tutto diverso".

Il ricordo della sua prossima partenza la calmò e si rimpossessò dell'atteggiamento che aveva sempre avuto durante i giorni di Moron.

"Domanda a tua zia cosa ha preparato per cena. Ho fame e tu?" le chiesi.

Annuì con la testa e s'affrettò a scendere le scale  per andare a curiosare in cucina. La radiolina a transistor era sempre sistemata in bella mostra sul comodino. Girai la piccola manopola di plastica bianca e subito le note di una moderna salsa riempirono le mie orecchie, cancellando i rumori della strada sottostante.

Era tutto così lindo nonostante il calore soffocante che imperava. Il condizionatore della stanza si era guastato ed era stato sostituito, nell'arduo compito di rinfrescare l'ambiente, da un paio di ventilatori arcaici che a malapena avevano la forza di far girare le pale annerite da una polvere mai pulita. Mi stesi sul minuscolo letto, chiudendo gli occhi cullato dalla musica della radio e dagli odori provenienti dalla cucina.

Stavo ancora dormendo quando una mano sfiorò il mio viso facendomi sobbalzare di scatto. Gli occhi limpidi di Fidelia si specchiarono nei miei, chiedendo ed offrendo amore. Non potevamo resistere a quell'istinto meraviglioso che era dettato dai nostri sentimenti. Avevamo già consumato tre giorni, ciondolando per l'Avana ma non tralasciandone i dintorni tra cui la Marina Hemigway, dalle ricche barche nordamericane stazionanti clandestinamente, in attesa di uscire per dar la caccia a giganteschi marlyn.  Ma la figura di Gregorio Fuentes, amico di Hemigway e che gli suggerì il protagonista de "Il vecchio e il mare", non esisteva più. Al suo posto un grande albergo, tiendas, banchine costose per yacht di lusso, ristoranti ed un servizio di sicurezza degno di un paradiso caraibico. Avevo scoperto un altro tassello del mosaico delle stridenti contraddizioni di Cuba. Quell'isola di contrasti, dove tutto era possibile, continuava a stregarmi tra telenovelas propagandistiche trasmesse da Cubavision e file di ordinati scolari, vestiti della propria divisa bianco e vinaccia, in attesa di entrare a scuola. Quotidianamente trascorrevo qualche ora al Parque Lenin, gioia del suo ideatore Fidel Castro, passeggiando all'interno dei suoi 700 ettari di natura, senza però tralasciare la visita agli interessanti Musei cittadini, passando da quello Antropologico al Napoleonico, attraverso la casa di Josè Martì e godendo, nel contempo, della splendida vista dell'architettura coloniale habanera che si magnificava nelle piazze, palazzi e chiese della città.

Dovunque mi recassi, ero sempre accompagnato da Fidelia che, dal suo canto, filtrava con fare critico le mie sensazioni sempre tese ad una entusiastica visione delle cose.

In alcuni momenti apparivo come un fanatico internazionalista addetto alla propaganda dell'isola, tanto era il fervore e l'entusiasmo che accompagnava le mie nuove scoperte. Ma Fidelia mi riportava sempre al contatto con una realtà fatta di stenti e paure, che non aveva proprio nulla del clima idilliaco che io interpretavo.

Con maggior consapevolezza della volta precedente, evitavo di cadere nei luoghi comuni del turismo di massa che prevedeva escursioni all'orchidario di Soroa e serate al Tropicana, per rifugiarmi, invece, nelle piazze adiacenti l'Università dove potevo respirare l'aria della nuova cultura cubana che si evinceva nei discorsi  di giovani studenti con i quali mi relazionavo, e che erano felici di aprirsi in confidenze con uno straniero meno turista del solito.

La quotidianità mi portava sempre qualche sorpresa che ero pronto a cogliere con l'entusiasmo derivato dalla felice coniugazione delle mie aspettative felicemente realizzate. Ripensavo spesso ai momenti di cupa nostalgia vissuti in Italia ed essi mi apparivano come spettri lontani, frutto di incubi sciolti sotto il caldo sole del Mar del Caribe.

Trovavo meraviglioso quel clima, come meravigliose erano le persone che avevo incontrato, tutte disposte ad offrire un sorriso alla vita.

"Andiamo a trovare Mama Estrella?" chiesi al debutto di una radiosa mattina.

"Non preferisci vedere Santiago? Ora che ho il passaporto posso prendere anch'io l'aereo e quindi..."disse Fidelia.

Riflettei sulla sua proposta. Ero curioso di conoscere Santiago e la gente dell' Oriente cubano e, tra l'altro, mi venivano in mente tutti i discorsi sulla Santeria fatti con Pierluigi.

Fidelia continuò "A Santiago ho un cugino che potrebbe ospitarci a casa sua senza avere problemi con gli alberghi".

Sembrava che avesse già deciso per me e mi lasciai trasportare dalla sua volontà.

Il Santero teneva stretto un grosso incredibile sigaro, intervallando lunghe boccate di fumo a dei piccoli sorsi di una strana bevanda cui attingeva da una piccola tazza di coccio, successivamente sputando per terra e mormorando frasi apparentemente senza senso.

Era stato Camilo a condurci in quel luogo ma, per riuscirci, sua cugina Fidelia aveva dovuto vincere non poche resistenze che erano state erette a difesa di un mondo per pochi eletti.

La piccola sala, conteneva il Sancta Santorum , cuore del mistero e altare dei feticci simboleggianti le varie divinità. Il rito al quale stavo assistendo, era stato tramandato dagli schiavi Yoruba e prevedeva il raggiungimento di una sensazione estatica che avrebbe condotto l'officiante ad essere in contatto con gli Orishas, gli dei della Santeria e parlare per loro voce.  All'inizio, il Santero e due suoi assistenti, avevano cercato il mio "Angel de la Guardia", cioè l'Orisha a cui appartenevo, gettando piccole noci e conchiglie in un grande piatto di legno coperto di polvere sacra di erbe.

Mi fu spiegato che quella era la prima iniziazione e che, per il momento, non si poteva fare di  più. Per ottenere il Cofà, il vaso segreto della divinazione simbolo del secondo passo, avrei dovuto rimanere segregato per tre giorni a casa del Santero in totale astinenza e dormendo su di un letto di erbe purificanti. Alla fine ci sarebbe stata una cerimonia dove avrei bevuto una pozione di erbe per Ossain, il dio della vegetazione, in quanto solo Ossain possedeva l'axè, la grande magia. Alla fine della cerimonia, gli assistenti del Santero fecero cenno di uscire dalla stanza. Il rito era concluso con un pò di delusione.

Uno degli aiutanti mi consegnò un piccolo sacchetto di juta che avrei dovuto portare sempre con me, legato al collo da un laccio di cuoi.

Camilo aprì lo sportello sinistro dell'auto, facendoci entrare dalla sua parte. A Cuba possedere una vettura era un lusso anche se funzionava solo uno sportello.

Da tre giorni eravamo ospiti del cugino di Fidelia che aveva profuso, fin dal nostro arrivo, una cordialità fuori dal normale.

Ci aveva accompagnato per le strette vie di quella che era stata la prima capitale dell'Isla, facendoci ammirare le bellezze della città vecchia sviluppata intorno al Parque Cèspedes. Avevo visitato la casa di Diego Velasquez, attuale sede del Museo dedicato all'arte coloniale; passando per la Cattedrale ed il Palazzo dell'Ayuntamiento, senza per questo tralasciare la stupenda Casa de la Trova, il Museo Bacardi ed il Cimitero di Santa Ifigenia, ospitante la tomba di Martì.  Tutto era sempre circondato da una contagiosa allegria che si poteva trovare per le calli o fuoriuscita dalla case, memoria forse, del famoso Carnevale cittadino.

La gente era più cordiale di quella dell'Avana. Ai miei occhi tutti apparivano dolci, sensibili e disinteressati anche se, Santiago, non si discostava affatto dalle altre città di Cuba, in preda alla miseria e alla pochezza prodotta dal periodo speciale.

Terra degli schiavi neri, l'Oriente riassumeva a sé la gioia di vivere, la passione per l'amore, il rispetto per la religione, la felicità dell'amicizia, il senso di indipendenza. Santiago ne era la degna incarnazione. Dalle rivolte degli schiavi fino all'assalto al Quartel Moncada, lo spirito di libertà  aveva sempre animato la gente dell'Oriente cubano, fertile terreno della Rivoluzione Castrista. Anche se affascinato da tutti quei nuovi stimoli, provavo una sorda nostalgia per l'Avana e convinsi Fidelia di tornarci subito. Dovevamo prepararci alla prossima partenza per l'Europa, dove il sogno si sarebbe avverato.

Camilo ci salutò con le lacrime agli occhi e con 200 dollari in tasca che aveva lungamente rifiutato prima di accettarli. Per lui, l'amicizia era un dolce sentimento e non una opportunità da sfruttare. Per me, era il proseguimento di una scoperta che non finiva mai di emozionarmi.

Ma l'aeroporto Josè Martì ci stava aspettando.

Juliet era sensualmente radiosa. Aveva atteso il nostro ritorno con impazienza essendo rimasta sola. Il suo uomo era partito per Pinar del Rio dov'era andato a trovare i suoi genitori, lasciando la casa del Vedado ed una Juliet in acuta crisi di solitudine.

"Zia ha preparato gamberoni e bistecche di tartaruga" disse Fidelia tornando in camera dopo essere passata dalla cucina.

Quei giorni passati fuori dalla sua gelosia, avevano smorzato i toni polemici che contraddistinsero i primi giorni all'Avana in compagnia della zia. Juliet, dal canto suo, aveva prudentemente evitato di assumere degli atteggiamenti sconvenienti ma, si notava la forzatura alla sue reali intenzioni. Mancavano ancora un paio di giorni alla nostra partenza e decisi di recarmi da solo all'ufficio della compagnia aerea per riconfermare le nostre prenotazioni:

Lasciando Fidelia, avrei goduto di una maggior libertà di movimenti senza essere condizionato dal suo umore.

Respiravo l'aria proveniente dal mare, inalandola a pieni polmoni.

Godevo di quei momenti, in cui rubavo con lo sguardo, vedute di una città che mi aveva ammaliato e dove scoprivo sempre, qualcosa di nuovo ed imprevedibile.

Passeggiando senza meta, arrivai all'Avenida del Puerto ed imboccai Calle Leonor Perez. In fondo alla strada, fui rapito da una musica proveniente da una chiesetta diroccata. La curiosità fu tale che varcai uno dei due portoncini di ingresso che m'introdusse nell'interno di una navata centrale dove, un gruppo di ragazzi, stava provando un brano di musica classica. Fui colpito dal gioco di luci che si sviluppava grazie ai raggi del sole che filtravano da grandi finestre a vetri colorati. Stavano suonando "La Follia" di Corelli e mai, note così particolari, ebbero sede più appropriata per esternare tutta la loro musicalità armoniosa.

Rientrai a casa con un animo intriso di poesia e serenità.

L'aeroporto Martì era animato come al solito, pieno di  turisti in partenza dall'isola. A differenza di qualche tempo prima, il mio stato d'animo era diverso, grazie alla compagnia di Fidelia.

Stringeva a se il piccolo zainetto contenente le poche cose che l'avrebbero accompagnata in Italia, con la stessa intensità con la quale un genitore segue all'altare il proprio figlio il giorno del suo matrimonio.

I suoi occhi sprizzavano una gioia incontenibile e contagiosa.

L'eccitazione del viaggio e della realizzazione del suo sogno, aveva iniziato a prendere corpo con 48 ore d'anticipo rispetto alla partenza per l'Europa. Aveva perfino accettato le avances che, negli  ultimi giorni, Juliet aveva iniziato a farmi in modo spudorato. Febbrilmente contava le ore e perfino i  minuti che la separavano da quel momento così lungamente atteso, non riuscendo a contenere l sua eccitazione.

Davanti al banco di accettazione porse tremante il suo passaporto e il biglietto accompagnato dal prezioso visto d'uscita, ormai in regola con tutto il mondo. Tutto le era nuovo: la dogana, i negozi del piccolo duty free che vendevano souvenir e folklore, la scaletta dell'aereo, l'aviogetto così grande e pulito sul quale prese posto.

Ormai era a bordo, e sarebbe scesa in un altro mondo senza doversi più preoccupare del congrì e delle noiose telenovelas in bianco e nero.

Fidelia stava nascendo in quel momento.

 

 

 

 
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5. MORON 6. EUROPA 7. PLAYA DE L'ESTE 8. SOGNO INFRANTO

 

 

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