La piccola Suzuky, divorava la striscia
d'asfalto disuguale che stavo macinando tra L'Avana e Ciego de Avila.
Con una moderata velocità costante, sorpassavo camion inventati dalla
fantasia e dalla disperazione, spesso costruiti, adattando un vagone
ferroviario su di una vecchia motrice di trattore.
Lungo
il paesaggio monotono, scorgevo il lontananza, case uguali tra loro,
edificate con pochi mattoni uniti a fantasmagorici materiali, avanzati
da chissà quale destino. Sterili palmizi si facevano largo tra la folta
vegetazione tropicale cercando una loro identità.
Sulla
strada, erano appostati ad ogni crocicchio, gruppi di persone in attesa
di veder arrivare, arrancando tra una nuvola di fumo nero, la guagua che
li avrebbe riportati là, da dove se ne erano venuti. Alle rare
autovetture che transitavano, chiedevano un passaggio al fine di
evitare, così, la lunga attesa che li avrebbe visti salire su di un
pullman stracarico di persone e cose che, se aveva la fortuna di non
guastarsi prima, li avrebbe ricondotti a destinazione, per pochi pesos
cubani.
Si
distinguevano contadini che pedalavano pesanti biciclette, rientrare a
casa dopo una lunga giornata di lavoro, passata su campi riarsi da un
impietoso sole che cuoceva terra e sudore delle persone.
Il
cielo si era rannuvolato d'improvviso, come spesso accade ai tropici,
oscurando il globo luminoso e creando delle ampie zone d'ombra sopra il
paesaggio circostante, dove gli unici padroni erano gli avvoltoi che
svolazzavano in circolo. Ero preoccupato per il cambiamento repentino
che non lasciava presagire nulla di buono. L'unica autovettura che
avessi trovato al noleggio dell'aeroporto dell'Avana, era sprovvista di
capote.
Le
prime gocce di pioggia iniziarono a bagnare la mie testa poco dopo,
seguite da una vera e propria mitragliata d'acqua. Come tutte le strade
dell'isola, era difficile trovare un riparo. Le rarissime stazioni di
servizio, erano distanti tra loro diversi chilometri e, tranne rare
eccezioni, non esistevano punti di ristoro dove potersi riparare dal
maltempo. Continuai ad avanzare dal momento che non v'erano alternative,
nella speranza di vedere in lontananza, qualche possibile riparo. I
tergicristalli dell'auto, si ruppero poco dopo, aggravando la già
precaria visibilità.
Nonostante tutto, ero felice.
Avevo
telefonato a Fidelia il giorno prima, assicurandomi senza destare
sospetti, che sarebbe rimasta a casa per i prossimi giorni. Poi, ero
volato all'Avana portando, oltre ad un voluminoso bagaglio fatto
interamente di regali, anche il mio cuore strabocchevole d'amore.
Pierluigi aveva aumentato il suo credito, integrando con un altro
assegno, il prestito già concessomi per mettermi nella condizione di
realizzare l'idea che aveva avuto e, delle quale, si sentiva orgoglioso.
La
pioggia non mi spaventava anche se, ormai, ero bagnato fino al collo e
mancavano ancora duecento chilometri a Ciego de Avila da dove, poi,
avrei dirottato su Moron.
Durante il volo, mi aveva tenuto compagnia, l'immaginazione che mi aveva
fatto sognare tutte le cose che avrei vissuto al mia arrivo a casa di
Fidelia. Mi sforzavo, soprattutto, di visualizzare la faccia sorpresa
dal mio inaspettato arrivo. Desideravo lei con tutte le mie forze e
questo pensiero, alimentava tutto l'amore che provavo per Cuba.
La
notte era scesa. La potevo riconoscere dal fascio di luce proiettato
dagli asfittici fari dell'auto che frugavano, indiscreti, il buio. Aveva
smesso di piovere sulle mie ossa inzuppate quando giunsi a Ciego de
Avila. Ero stanco ed infreddolito e mancava ancora un ora di viaggio per
giungere da Fidelia. Decisi che sarebbe stato più opportuno presentarmi
il giorno dopo quando, con il conforto della luce del sole e ben
riposato, avrei fatto la mia teatrale apparizione davanti casa sua.
Scorsi l'insegna di un piccolo albergo, dove decisi di passare
un'anonima notte.
Il
gallo di Moron, campeggiava all'entrata della piccola ma linda
cittadina. Si trattava di una scultura di metallo che riproduceva un
galletto stilizzato preso come simbolo della città. Gli abitanti del
luogo ridevano della posizione in cui era stato posta la statua in
quanto, dicevano, che il gallo indicava con il suo becco, il capoluogo
della provincia, Ciego de Avila, ma con il culo, il paese che avrebbe
dovuto rappresentare.
Il
sole era già alto nel cielo, facendo risplendere il paesaggio pulito
dalla pioggia del giorno prima. Chiesi ad un ragazzo dove si trovasse la
Calle quatro, quella tra l'Avenida de Tarafa y Serafina, dov'era la casa
di Fidelia.
A
Cuba, tutte le strade erano numerate ma, per decifrarne la posizione,
bisognava cercarne anche gli incroci che ne identificavano l'esatta
ubicazione. Questo, in un piccolo paese dove tutti conoscono tutti, non
era di grande difficoltà ma, in una città come L'Avana, tutti problemi
legati a questo sistema di segnalazione stradale, emergevano
impietosamente. Il ragazzo si offerse di accompagnarmi, sperando di
ricevere in cambio un paio di dollari che non mi chiese. All'imbocco
della Calle, scese dall'auto, soddisfatto della piccola mancia che gli
avevo elargito e mi salutò con gratitudine.
La
strada, piuttosto centrale, divideva in due un agglomerato di piccole
casette di legni con i tetti di lamiera arrugginita. Si assomigliavano
tutte fra loro: due piani di miseria ed insetti divisi tra un minuscolo
patio, un ingresso utilizzato anche come cucina, una piccola camera, un
bagnetto senza servizi ed una scala che conduceva al piano superiore
dov'era sistemata pretenziosamente la camera matrimoniale. Fuori, ogni
veranda aveva la sua sedia a dondolo, privilegio di comodità destinata
al capofamiglia e agli ospiti di riguardo.
Imboccando la strada alla ricerca del numero civico, notai il fatto che
ogni sedia a dondolo era occupata da persone che, dondolandosi,
parlavano fra loro oppure erano intenti a fare qualche piccolo lavoretto
o a leggere il Granma. Era un giorno come tanti altri a Moron così come
in tutti i piccoli paesi dell'entroterra cubano, esenti dai clamori del
turismo occidentale.
Quando vidi Fidelia, lei ancora non si era accorta del mio arrivo. Stava
rannicchiata sulla sedia, dondolandosi con gli occhi chiusi e la
cuffietta del walkman ben piazzata sulla testa. Le treccine erano meno
lucide e non indossava che una stinta vestaglietta abbastanza lisa. Non
portava tacchi a spillo ma, posate per terra al fianco della sedia,
scorsi un paio di scolorite ciabatte da mare. Arrestai la Suzuki
davanti al piccolo patio mentre i vicini seguivano la scena con
attenzione e curiosità.
Seguì
un urlo e Fidelia corse dentro casa sbattendosi rovinosamente sulla
porta di ingresso. Rimasi stupito dalla reazione. Avevo sognato che mi
sarebbe corsa incontro per buttarmi le braccia al collo e per darmi un
lungo bacio ed invece, nulla di tutto ciò: solo un grido e la fuga in
casa. Ero smarrito quando la porta si riaprì delicatamente facendone
uscire una donna dall'aria dignitosa che sapeva di buono.
"Buenos Dias, Claudio. Yo soy Fanny Maria, la mama de Fidelia.
Desculpame, para nosotros esta es una sorpresa muy grande. Tenerte aquì
ahora...ès imposible" disse veramente sincera. "Encantado -feci- y
Fidelia?".
La
donna aprì il portoncino, scivolando dentro la casa facendomi cenno di
seguirla.
Fidelia era in un cantone con le mani sul viso e stava piangendo.
"Amore mio" le dissi avvicinandomi impercettibilmente.
Lei
corse da me, abbracciandomi come avevo sognato. Le lacrime le scendevano
tempestose accompagnate da singulti strozzati.
"Sono
felice, amore mio...io non sapevo...perché non mi hai detto che venivi a
Cuba?" disse tra i singhiozzi.
"Ti
ho fatto una sorpresa -risposi- La prima delle tante...".
Si
staccò ricomponendosi le treccine ed asciugandosi le lacrime col bordo
della vestaglia che sollevò, mostrandomi senza imbarazzo le sue belle
gambe.
"Quali sorprese?" domandò curiosa. Era tornata ad essere la gattina
astuta che avevo imparato a conoscere; aveva accantonata la tristezza
per recuperare quell'autocontrollo generato da anni di vita jinetera.
Uscii
per andare alla jeep a prendere la grossa valigia che avevo preparato
per loro. Quando Fidelia ne estrasse il contenuto, un moto di
soddisfazione dipinse il suo viso. Mama Fanny osservava divertita ma
compiaciuta, tutte le cose che sua figlia stava estraendo come una Mary
Poppins cubana e che sarebbero state loro.
Dalle
scale scese frignando un bambino nero come la pece.
"Chi
è?" domandai.
Fidelia, senza alzare lo sguardo dagli indumenti che stava provandosi
mimando una ideale vestizione, rispose senza alcuna emozione.
"E'
Miguelito, un mio cuginetto che dorme da noi".
Il
niño corse verso il tavolo dov'era posata la grossa valigia, mostrando
un acuto interesse verso una piccola automobilina di plastica che era
stata accantonata sul bordo.
"Por
ti" gli dissi allungandogli il giocattolo.
Immediatamente corse fuori, imitando il rombo del motore e sparì dalla
mia vista.
"Mama!
Cafè!" grido Fidelia.
La
donna andò ad aprire un piccolo armadio che fungeva da credenza, tirando
fuori un'antica macchinetta napoletana e s'industriò con una confezione
di Cubita per riempirne il serbatoio. Poi, accese l'unico fornello e ci
mise sopra la vecchia caffettiera.
Si
aprì nuovamente il portoncino fatto di vetuste assi di legno marcio
tenute insieme da strani ingranaggi arrugginiti.
"Ola,
amigo italiano!" un ridente negrone varcò l'ingresso, catapultandosi
verso me.
"Claudio, questo è il mio patrigno, Hector" disse Fidelia dopo aver
riposto un vestitino che le avevo comprato a Milano.
"Ma
tutti sanno che sono qui?" dissi divertito.
"Moron è un paesino e l'arrivo di uno straniero non è certo passato
inosservato..."rispose sorridente.
"Le
altre sorprese?" insistette.
"Ho
con me il tuo visto di entrata in Italia ed il biglietto aereo.
Chiederai subito il passaporto ed il visto di uscita. Nel frattempo,
resterò con te a Cuba e, poi, partiremo insieme".
Questa volta rimase ammutolita dalla sorpresa mentre Hector mi aveva
stretto tra le sue braccia volendomi, così, dimostrare tutto il suo
affetto.
Il
brontolio del caffè in ebollizione interruppe la scenetta famigliare.
"Mama!
Vado in Italia!" gridò piena di gioia.
Fanny
ed Hector la guardarono intensamente, soddisfatti della notizia che era
entrata improvvisa nella loro casa. Mama, andò a togliere il caffè dal
fuoco mentre il patrigno osservava curioso il contenuto della valigia
ormai saccheggiata.
"Domani andremo a Ciego per richiedere il mio passaporto" fece contenta.
"Señor,
quieres cafe?" disse Hector porgendomi una tazzina sbeccata.
La
casa era esattamente come me l'aveva descritta decine di volte Fidelia
ma fui sorpreso dal calore provocato dalla famigliarità che mi pervase
fin dal primo istante che vi entrai.
"Claudio, mentre bevi il tuo caffè io vado a prepararmi, così poi
usciamo. Ti voglio far vedere il paese ma ti voglio presentare ai miei
amici".
Si
rintanò nella minuscola camera che dava sull'ingresso dove eravamo,
scomparendo alla mia vista.
Miguelito rientrò rumorosamente sempre giocando con la macchinina
colorata, poi s'avvicinò. "Gracias señor" e uscì nuovamente suscitando
una generosa risata da parte di Mama Fanny. "Ah, los niños..." sospirò
fissandomi negli occhi.
"Como
estas Claudio?" chiese il marito.
Sorrisi mentre stentatamente cercavo di fargli comprendere la mia
felicità di trovarmi con loro in quel momento. Il caldo si era fatto
soffocante e il piccolo ventilatore da tavolo riusciva solamente a
sputare aria ancor più umida di quella che entrava dalla finestra che
dava sulla calle. Odore di cucina, caffè, sudore e povertà aggredivano
le mie narici piacevolmente assetate di quegli aromi che ubriacavano la
mia mente.
Le
mosche facevano larghi giri nell'aria, alla ricerca di qualcosa su cui
tuffarsi e rapirono per un attimo la mia attenzione. Fidelia uscì
vestita di tutto punto, pronta ad esibirsi davanti all'intero paese.
"Vamos
Claudio".
Dopo
aver passato la mattinata accompagnandola attraverso i suoi capricciosi
giri, conoscevo a memoria tutta la cittadina. Eravamo andati a trovare
tutte le sue zie e i suoi amici più cari. Tutti mi conoscevano tramite i
racconti che Fidelia aveva propinato loro, ingigantendomi fino
all'inverosimile. E da tutti ricevevo sorrisi, strette di mano, abbracci
e baci.
Fidelia si era messa in ghingheri, utilizzando subito gli abiti che le
avevo portato dall'Italia. Ma aveva portato con se parte dei miei regali
che aveva a sua volta donato alle persone che eravamo andati a trovare.
"vedi, Claudio -spiegò mentre rientravamo a casa- le mie zie e i miei
cugini sono molto buoni con me. Se non abbiamo da mangiare, loro ci
danno della roba e così possiamo cucinarla. E così, se io ho qualcosa in
più, gliela regalo con piacere perché loro sono poveri".
Pensai che neanche lei era ricca ma, a differenza di loro, coltivava il
sogno di venire a vivere in Italia con me. Questo pensiero la rendeva
più solida rispetto a chi, come i suoi parenti, aveva appeso i propri
desideri ad asciugare al filo della disperazione.
"Sai
cosa facciamo adesso? Prendiamo tua madre, il tuo patrigno e chi altro
vuoi ed andiamo a mangiare in un ristorante" dissi sorvolando sulle mie
considerazioni.
Ritornammo a Calle Quatro. Davanti alla casa, si era radunato un piccolo
gruppetto di persone che stavano parlando con Fanny. Al nostro arrivo si
scansarono con fare reverenziale, aprendoci un corridoio dove farci
passare per raggiungere il portoncino di casa.
"Che
sorpresa, my amor. Tu es loco, gringo maldito!" fece scherzando e
alludendo alla mia venuta a Cuba.
Hector era uscito per tornare al lavoro e Fanny si affacciò in casa
parlando velocemente con Fidelia.
"Mama
dice che va ad accompagnare Miguelito da una zia...ma è una scusa per
lasciarci soli. Ho tanta voglia di te amore...seguimi". Salì le scale
che conducevano alla camera matrimoniale arredata con pochi mobili
malandati. Alcune vecchie fotografie erano appese alle pareti con lo
scopo di rendere meno triste il colore della stanza, senza riuscire
nell'intento. Fidelia chiuse silenziosamente la porta. Il caldo era
opprimente ed il sudore le fasciava il vestito facendolo aderire al suo
corpo in maniera quasi indecente.
S'avvicinò fino a prendermi l'anima. Una esplosione di colori avvolse
quel nostro amplesso cospargendolo di tutta quella poesia di cui eravamo
capaci. I lunghi giorni passati a sognare chi si amava, apparivano ora,
distanti. Non esistevano più ansie, paure, preoccupazioni, bisogni.
C'eravamo solo noi, vivi e palpitanti, che emergevamo da un torpore
quasi letargico per riprenderci il gusto dell'essere innamorati. Le
lenzuola bagnate di umori e sudore, mute testimoni del sentimento che ci
univa, erano scivolate sul pavimento di pietra grigia, rendendo ancor di
più l'idea dell'impeto col quale ci eravamo uniti e dal quale ci eravamo
saziati.
"Ho
guardato la mia estrella tutte le sere" confessò piano.
Accesi la solita sigaretta e mi volsi verso di lei.
"Anch'io ma a Milano, vedere il cielo stellato non è sempre possibile".
Mi
accarezzò delicatamente il petto, giocando con la peluria che lo
infoltiva.
"Ti
ho sempre pensato -continuò- e vorrei avere un figlio da te, in modo che
la nostra unione duri per sempre".
Non
avevo mai pensato ad una eventuale paternità ma, l'idea di mettere al
mondo un piccolo niño mulatto che riunisse in se tutta la dolcezza e la
carica di umanità caraibica col quale giocare ad essere finalmente
adulto e responsabile, non mi dispiacque affatto. Avrebbe indubbiamente
cementato l'unione con Fidelia ma, dopo l'egoismo del momento, sarei
stato capace di assicurare tutto l'affetto e l'amore di cui aveva
bisogno? Riflettendoci su, non m'accorsi del cambiamento d'umore di
Fidelia.
"Non
devi sentirti obbligato -disse- ti ho solo raccontato uno dei miei
sogni".
Chissà quanti altri ne custodiva nel cassetto del suo cuore, pensai.
"Stavo pensandoci su...-risposi- immaginando quanto potrebbe essere
bello. Mi piacerebbe mettere su la mia famiglia con te".
Un
lampo di dolcezza sfiorò il suo viso subito scomparendo.
"Ma
tu vivi in Italia ed io qui...Come crescerebbe il nostro bambino senza
suo padre, in un paese dove non c'è nulla per lui?" mi domandò, cercando
il conforto della mia risposta.
"Potresti venire a vivere in Italia con me. Poi...una volta all'anno si
potrebbe tornare a Cuba con il bambino per fargli conoscere la sua
Patria e le sue radici" dissi convinto.
"My
amor, sarebbe bellissimo. E' questo che spero dalla vita, ma so che non
si realizzerà".
Perché? -feci caparbio- Se questo è il nostro comune desiderio, lo
possiamo realizzare con le nostre sole forze".
"I
sogni non si avverano mai -aggiunse laconicamente- ed io non voglio
soffrire di più di quello che già soffro a causa della tua lontananza".
La strinsi forte a me. Non volevo deluderla specie ora che mi aveva
confessato il suo segreto più grande che iniziavo a condividere.
La
Consulteria Juridica di Ciego de Avila ci vide uscire raggianti.
Fidelia stringeva tra le mani, il suo passaporto, col quale aveva
raggiunto una condizione quasi privilegiata rispetto alla maggioranza di
cubani che ne era sprovvista. Il documento, bruttino da vedere,
rappresentava il primo passo verso il volo che l'avrebbe condotta al di
là del regime di Castro, dentro al mondo ipocrita fatto di luci ed
edonismo occidentale che non avrebbe mai capito.
"Amore mio, grazie!" ripetè fino ad arrivare alla nostra auto.
Aveva, successivamente, inoltrato la richiesta per ottenere il visto
d'uscita ma avrebbe dovuto attendere una settimana, per averlo. Potevamo
restare tranquilli per tutto quel tempo, in attesa della nostra partenza
per l'Europa. Era al settimo cielo ora che tutte le pratiche erano state
espletate e che si trattava solo di contare i giorni.
"Ritorniamo all'Avana" domandò.
"Mi
piacerebbe conoscere Santiago de Cuba, Trinidad e Santa
Clara..."risposi.
"Santa Clara no, por favor..."disse intristendosi dei suoi recenti
ricordi.
"Va
bene. Torneremo all'Avana da zia Juliet, se vuoi. Per me, l'importante
è stare insieme a te".
"Allora,portami al Correo da dove posso telefonare a mia zia" comandò.
Mezz'ora più tardi, filavamo sulla strada che avevo percorso qualche
giorno prima, sotto il temporale. L'Avana ci stava nuovamente
aspettando.
Il
Vedado era così come l'avevo lasciato. La sua aria demodé piena di
atmosfere riempiva le strade specialmente verso quel tratto chiamato "La
Rampa", centro della cultura e della città moderna. Le vie erano, come
al solito, animate dalla stessa gente che si poteva trovare in una
qualsiasi città e paesino dell'isola. Biciclette arrugginite dal tempo e
scassati motorini, sorpassavano le difficoltà prodotte dalle salite che
si aprivano improvvise nel quartiere collinoso. La Calle 38 si trovava
poco dopo la minuscola piazzetta dove avevo passato una delle notti più
dolci della mia vita. Arrivai davanti alla casa di Juliet e suonai due
volte con il clacson per avvisare del nostro arrivo. Si aprì il
portoncino e Juliet uscì col suo solito scanzonato sorriso e, come la
prima volta che la vidi, ne ammirai il superbo corpo fatto solo per
amare.
"Claudio -gridò correndomi incontro- My amigo".
S'arrampicò su di me come volendomi possedere davanti a tutti, ignorando
completamente Fidelia. Cercai di liberarmi da quel moto di eccessivo
affetto, accingendomi a prelevare il bagaglio dal sedile posteriore del
fuoristrada.
Fidelia fulminò con lo sguardo la zia, dopo averla freddamente salutata,
ed entrò in casa.
"Claudio...quieres un café, una cerveza, ron?" disse amabilmente Juliet.
"Una
cerveza para mi y...tienes un jugo de mango por Fidelia?" domandai.
"No"
rispose con una velata soddisfazione per quella piccola vittoria presa
sopra le voglie della nipote. Salii le scale che conducevano a quella
che ormai considerava come la 'nostra' camera. Fidelia stava svuotando
il suo bagaglio riponendo, con estrema attenzione e cura, gli abiti
dentro il minuscolo armadio senza ante.
"Hai
finito mia zia di baciarti?" disse in un tono che non ammetteva
repliche. "Ti ho detto che quella vuole singare con te..." continuò.
"Non
litighiamo. Lascia che lei abbia il suo sogno..."risposi per consolarla.
"E
allora scopatela! Così sarete felici.." replicò seccamente.
"Perché sei gelosa? Non ti fidi di me?" chiesi.
S'imbronciò ancor di più come se la mia domanda avesse provocato
l'effetto contrario di quello che mi ero prefissato.
"Te
gusta! Lo vedo..." gridò incollerita.
"Non
è vero. Io penso solo a te...come puoi credere una cosa simile?" dissi
cercando di mantenere un contegno impassibile.
Restò
muta anche quando mi avvicinai per cingerla appassionatamente.
La
baciai quasi castamente ed aggiunsi "Smettila di vedere cose che non ci
sono. Pensa solamente che tra una settimana sarà tutto diverso".
Il
ricordo della sua prossima partenza la calmò e si rimpossessò
dell'atteggiamento che aveva sempre avuto durante i giorni di Moron.
"Domanda a tua zia cosa ha preparato per cena. Ho fame e tu?" le chiesi.
Annuì
con la testa e s'affrettò a scendere le scale per andare a curiosare in
cucina. La radiolina a transistor era sempre sistemata in bella mostra
sul comodino. Girai la piccola manopola di plastica bianca e subito le
note di una moderna salsa riempirono le mie orecchie, cancellando i
rumori della strada sottostante.
Era
tutto così lindo nonostante il calore soffocante che imperava. Il
condizionatore della stanza si era guastato ed era stato sostituito,
nell'arduo compito di rinfrescare l'ambiente, da un paio di ventilatori
arcaici che a malapena avevano la forza di far girare le pale annerite
da una polvere mai pulita. Mi stesi sul minuscolo letto, chiudendo gli
occhi cullato dalla musica della radio e dagli odori provenienti dalla
cucina.
Stavo
ancora dormendo quando una mano sfiorò il mio viso facendomi sobbalzare
di scatto. Gli occhi limpidi di Fidelia si specchiarono nei miei,
chiedendo ed offrendo amore. Non potevamo resistere a quell'istinto
meraviglioso che era dettato dai nostri sentimenti. Avevamo già
consumato tre giorni, ciondolando per l'Avana ma non tralasciandone i
dintorni tra cui la Marina Hemigway, dalle ricche barche nordamericane
stazionanti clandestinamente, in attesa di uscire per dar la caccia a
giganteschi marlyn. Ma la figura di Gregorio Fuentes, amico di Hemigway
e che gli suggerì il protagonista de "Il vecchio e il mare", non
esisteva più. Al suo posto un grande albergo, tiendas, banchine costose
per yacht di lusso, ristoranti ed un servizio di sicurezza degno di un
paradiso caraibico. Avevo scoperto un altro tassello del mosaico delle
stridenti contraddizioni di Cuba. Quell'isola di contrasti, dove tutto
era possibile, continuava a stregarmi tra telenovelas propagandistiche
trasmesse da Cubavision e file di ordinati scolari, vestiti della
propria divisa bianco e vinaccia, in attesa di entrare a scuola.
Quotidianamente trascorrevo qualche ora al Parque Lenin, gioia del suo
ideatore Fidel Castro, passeggiando all'interno dei suoi 700 ettari di
natura, senza però tralasciare la visita agli interessanti Musei
cittadini, passando da quello Antropologico al Napoleonico, attraverso
la casa di Josè Martì e godendo, nel contempo, della splendida vista
dell'architettura coloniale habanera che si magnificava nelle piazze,
palazzi e chiese della città.
Dovunque mi recassi, ero sempre accompagnato da Fidelia che, dal suo
canto, filtrava con fare critico le mie sensazioni sempre tese ad una
entusiastica visione delle cose.
In
alcuni momenti apparivo come un fanatico internazionalista addetto alla
propaganda dell'isola, tanto era il fervore e l'entusiasmo che
accompagnava le mie nuove scoperte. Ma Fidelia mi riportava sempre al
contatto con una realtà fatta di stenti e paure, che non aveva proprio
nulla del clima idilliaco che io interpretavo.
Con
maggior consapevolezza della volta precedente, evitavo di cadere nei
luoghi comuni del turismo di massa che prevedeva escursioni all'orchidario
di Soroa e serate al Tropicana, per rifugiarmi, invece, nelle piazze
adiacenti l'Università dove potevo respirare l'aria della nuova cultura
cubana che si evinceva nei discorsi di giovani studenti con i quali mi
relazionavo, e che erano felici di aprirsi in confidenze con uno
straniero meno turista del solito.
La
quotidianità mi portava sempre qualche sorpresa che ero pronto a
cogliere con l'entusiasmo derivato dalla felice coniugazione delle mie
aspettative felicemente realizzate. Ripensavo spesso ai momenti di cupa
nostalgia vissuti in Italia ed essi mi apparivano come spettri lontani,
frutto di incubi sciolti sotto il caldo sole del Mar del Caribe.
Trovavo meraviglioso quel clima, come meravigliose erano le persone che
avevo incontrato, tutte disposte ad offrire un sorriso alla vita.
"Andiamo a trovare Mama Estrella?" chiesi al debutto di una radiosa
mattina.
"Non
preferisci vedere Santiago? Ora che ho il passaporto posso prendere
anch'io l'aereo e quindi..."disse Fidelia.
Riflettei sulla sua proposta. Ero curioso di conoscere Santiago e la
gente dell' Oriente cubano e, tra l'altro, mi venivano in mente tutti i
discorsi sulla Santeria fatti con Pierluigi.
Fidelia continuò "A Santiago ho un cugino che potrebbe ospitarci a casa
sua senza avere problemi con gli alberghi".
Sembrava che avesse già deciso per me e mi lasciai trasportare dalla sua
volontà.
Il
Santero teneva stretto un grosso incredibile sigaro, intervallando
lunghe boccate di fumo a dei piccoli sorsi di una strana bevanda cui
attingeva da una piccola tazza di coccio, successivamente sputando per
terra e mormorando frasi apparentemente senza senso.
Era
stato Camilo a condurci in quel luogo ma, per riuscirci, sua cugina
Fidelia aveva dovuto vincere non poche resistenze che erano state erette
a difesa di un mondo per pochi eletti.
La
piccola sala, conteneva il Sancta Santorum , cuore del mistero e altare
dei feticci simboleggianti le varie divinità. Il rito al quale stavo
assistendo, era stato tramandato dagli schiavi Yoruba e prevedeva il
raggiungimento di una sensazione estatica che avrebbe condotto
l'officiante ad essere in contatto con gli Orishas, gli dei della
Santeria e parlare per loro voce. All'inizio, il Santero e due suoi
assistenti, avevano cercato il mio "Angel de la Guardia", cioè l'Orisha
a cui appartenevo, gettando piccole noci e conchiglie in un grande
piatto di legno coperto di polvere sacra di erbe.
Mi fu
spiegato che quella era la prima iniziazione e che, per il momento, non
si poteva fare di più. Per ottenere il Cofà, il vaso segreto della
divinazione simbolo del secondo passo, avrei dovuto rimanere segregato
per tre giorni a casa del Santero in totale astinenza e dormendo su di
un letto di erbe purificanti. Alla fine ci sarebbe stata una cerimonia
dove avrei bevuto una pozione di erbe per Ossain, il dio della
vegetazione, in quanto solo Ossain possedeva l'axè, la grande magia.
Alla fine della cerimonia, gli assistenti del Santero fecero cenno di
uscire dalla stanza. Il rito era concluso con un pò di delusione.
Uno
degli aiutanti mi consegnò un piccolo sacchetto di juta che avrei dovuto
portare sempre con me, legato al collo da un laccio di cuoi.
Camilo aprì lo sportello sinistro dell'auto, facendoci entrare dalla sua
parte. A Cuba possedere una vettura era un lusso anche se funzionava
solo uno sportello.
Da
tre giorni eravamo ospiti del cugino di Fidelia che aveva profuso, fin
dal nostro arrivo, una cordialità fuori dal normale.
Ci
aveva accompagnato per le strette vie di quella che era stata la prima
capitale dell'Isla, facendoci ammirare le bellezze della città vecchia
sviluppata intorno al Parque Cèspedes. Avevo visitato la casa di Diego
Velasquez, attuale sede del Museo dedicato all'arte coloniale; passando
per la Cattedrale ed il Palazzo dell'Ayuntamiento, senza per questo
tralasciare la stupenda Casa de la Trova, il Museo Bacardi ed il
Cimitero di Santa Ifigenia, ospitante la tomba di Martì. Tutto era
sempre circondato da una contagiosa allegria che si poteva trovare per
le calli o fuoriuscita dalla case, memoria forse, del famoso Carnevale
cittadino.
La
gente era più cordiale di quella dell'Avana. Ai miei occhi tutti
apparivano dolci, sensibili e disinteressati anche se, Santiago, non si
discostava affatto dalle altre città di Cuba, in preda alla miseria e
alla pochezza prodotta dal periodo speciale.
Terra
degli schiavi neri, l'Oriente riassumeva a sé la gioia di vivere, la
passione per l'amore, il rispetto per la religione, la felicità
dell'amicizia, il senso di indipendenza. Santiago ne era la degna
incarnazione. Dalle rivolte degli schiavi fino all'assalto al Quartel
Moncada, lo spirito di libertà aveva sempre animato la gente
dell'Oriente cubano, fertile terreno della Rivoluzione Castrista. Anche
se affascinato da tutti quei nuovi stimoli, provavo una sorda nostalgia
per l'Avana e convinsi Fidelia di tornarci subito. Dovevamo prepararci
alla prossima partenza per l'Europa, dove il sogno si sarebbe avverato.
Camilo ci salutò con le lacrime agli occhi e con 200 dollari in tasca
che aveva lungamente rifiutato prima di accettarli. Per lui, l'amicizia
era un dolce sentimento e non una opportunità da sfruttare. Per me, era
il proseguimento di una scoperta che non finiva mai di emozionarmi.
Ma
l'aeroporto Josè Martì ci stava aspettando.
Juliet era sensualmente radiosa. Aveva atteso il nostro ritorno con
impazienza essendo rimasta sola. Il suo uomo era partito per Pinar del
Rio dov'era andato a trovare i suoi genitori, lasciando la casa del
Vedado ed una Juliet in acuta crisi di solitudine.
"Zia
ha preparato gamberoni e bistecche di tartaruga" disse Fidelia tornando
in camera dopo essere passata dalla cucina.
Quei
giorni passati fuori dalla sua gelosia, avevano smorzato i toni polemici
che contraddistinsero i primi giorni all'Avana in compagnia della zia.
Juliet, dal canto suo, aveva prudentemente evitato di assumere degli
atteggiamenti sconvenienti ma, si notava la forzatura alla sue reali
intenzioni. Mancavano ancora un paio di giorni alla nostra partenza e
decisi di recarmi da solo all'ufficio della compagnia aerea per
riconfermare le nostre prenotazioni:
Lasciando Fidelia, avrei goduto di una maggior libertà di movimenti
senza essere condizionato dal suo umore.
Respiravo l'aria proveniente dal mare, inalandola a pieni polmoni.
Godevo di quei momenti, in cui rubavo con lo sguardo, vedute di una
città che mi aveva ammaliato e dove scoprivo sempre, qualcosa di nuovo
ed imprevedibile.
Passeggiando senza meta, arrivai all'Avenida del Puerto ed imboccai
Calle Leonor Perez. In fondo alla strada, fui rapito da una musica
proveniente da una chiesetta diroccata. La curiosità fu tale che varcai
uno dei due portoncini di ingresso che m'introdusse nell'interno di una
navata centrale dove, un gruppo di ragazzi, stava provando un brano di
musica classica. Fui colpito dal gioco di luci che si sviluppava grazie
ai raggi del sole che filtravano da grandi finestre a vetri colorati.
Stavano suonando "La Follia" di Corelli e mai, note così particolari,
ebbero sede più appropriata per esternare tutta la loro musicalità
armoniosa.
Rientrai a casa con un animo intriso di poesia e serenità.
L'aeroporto Martì era animato come al solito, pieno di turisti in
partenza dall'isola. A differenza di qualche tempo prima, il mio stato
d'animo era diverso, grazie alla compagnia di Fidelia.
Stringeva a se il piccolo zainetto contenente le poche cose che
l'avrebbero accompagnata in Italia, con la stessa intensità con la quale
un genitore segue all'altare il proprio figlio il giorno del suo
matrimonio.
I
suoi occhi sprizzavano una gioia incontenibile e contagiosa.
L'eccitazione del viaggio e della realizzazione del suo sogno, aveva
iniziato a prendere corpo con 48 ore d'anticipo rispetto alla partenza
per l'Europa. Aveva perfino accettato le avances che, negli ultimi
giorni, Juliet aveva iniziato a farmi in modo spudorato. Febbrilmente
contava le ore e perfino i minuti che la separavano da quel momento
così lungamente atteso, non riuscendo a contenere l sua eccitazione.
Davanti al banco di accettazione porse tremante il suo passaporto e il
biglietto accompagnato dal prezioso visto d'uscita, ormai in regola con
tutto il mondo. Tutto le era nuovo: la dogana, i negozi del piccolo duty
free che vendevano souvenir e folklore, la scaletta dell'aereo,
l'aviogetto così grande e pulito sul quale prese posto.
Ormai
era a bordo, e sarebbe scesa in un altro mondo senza doversi più
preoccupare del congrì e delle noiose telenovelas in bianco e nero.
Fidelia stava nascendo in quel momento.
|