Gordiano Lupi
NERO TROPICALE
Una raccolta di
racconti: Sangue Tropicale * La vecchia ceiba * Parto di Sangue * Il
sapore della carne * Nella coda del caimano
260 pagine - 12 euro
PARTO DI SANGUE
Le mani lorde di
sangue e troppi ricordi. Non mi hanno capito. Nessuno potrà più capirmi.
E io che confidavo in loro.
Almeno in loro, dopo
tanto dolore.
Il passato è un
insieme di immagini confuse che non so catturare. Fuggono via come
fantasmi. Pensieri si affacciano alla memoria e non si fermano. Poi è
sempre lo stesso ricordo che viene fuori, prepotente e doloroso come una
pugnalata al petto. Un ricordo che non si può scacciare.
Se c’era una cosa che proprio non volevo era un figlio. Ne avevo
abbastanza di stringere la cinghia e di far sacrifici. Era Ramon a
pretenderlo. Voleva un erede, diceva. Uno a cui dare un futuro da morto
di fame e ubriacone proprio come lui. Io provavo a convincerlo che
sarebbe stata soltanto una pazzia. Non mi ascoltava neppure. Le parole
di una donna non avrebbero mai potuto cambiare le sue idee.
“Lo vedi come
viviamo?” gli dicevo indicando con gli occhi la miseria della nostra
casa. “Ti sembra che ci possiamo permettere di allevare un figlio?”
“Dove si mangia in
due si mangia anche in tre”, rispondeva lui.
Il problema era che
non si mangiava neppure in due.Facevamo bastare il niente. L’unica cosa
che non mancava erano le banane, che crescevano spontanee in una specie
di jungla affacciata sul mare. Mangiavamo quelle, fritte nell’olio di
cocco, l’altra sola ricchezza che veniva da una foresta di palme. A
volte rubavamo patate o boniato dai campi dei vicini. Di carne neanche a
parlarne, poteva capitare del pesce, se Ramon era abbastanza abile a
pescarlo con le mani nei giorni di bassa marea.
Abitavamo un bohio
fatto di terra e legno di palma.
La nostra casa era
una stanza con un letto, un tavolo di legno tarlato, una cucina
rudimentale e un bagno esterno, se così si poteva chiamare quella fossa
recintata da canne.
“Non voglio un
figlio, Ramon. Non voglio odiarlo mentre sto morendo di fame” imploravo.
“Un uomo senza un
figlio non è nessuno. Voglio un maschio che porti il mio cognome quando
morirò”, replicava Ramon.
“E se nasce
femmina?” domandavo.
“Da un vero uomo non
nascono femmine” replicava convinto Ramon “ma se capitasse potremmo
farne un altro”.
“Non ci mancherebbe
che quello!” terminavo sconfortata.
Rimpiangevo il
giorno che mi ero sposata.
Quando conobbi Ramon
abitavo a Baracoa e avevo appena diciotto anni. Mi innamorai come una
bambina di quel mulatto dagli occhi neri che aveva quasi dieci anni più
di me. Non accettai consigli da nessuno, tanto meno dai genitori, e
scappai con lui verso Punta Maisí, una campagna affacciata sul mare che
scopriva all’orizzonte le scogliere di Haiti. Furono sufficienti
due anni di matrimonio e di vita in campagna per distruggermi il fisico.
Contavo le rughe sul volto e i miei vent’anni mi pesavano più del
dovuto, purtroppo. Il mio corpo non era più quello che faceva fischiare
per strada i ragazzi di Baracoa. Un figlio sarebbe stato il colpo finale
e poi sarei diventata la schiava di due persone per il resto della vita.
Sepolta viva in quel budello del mondo. A Punta Maisí.
Ramon non mi capiva.
“Tutte le donne
normali desiderano un figlio”, diceva.
Lui era nato a Maisí
ed era abituato a quel tipo di vita. Si riteneva un privilegiato perché
mangiava senza lavorare e il pranzo lo trovava su di un albero di banane
o una palma da cocco. Il fiume portava acqua per bere e spesso nel mare
si faceva buona pesca. Bastava contentarsi di quello che c’era, diceva.
Lui era abituato a fare a meno di tante cose. Io no. Io ero una
cittadina. E a Baracoa mio padre aveva una piccola paladar dove
mangiavano turisti. Ogni giorno trovavo in tavola pollo e fagioli, riso
e maiale, carne di manzo. Ramon passava le sue giornate tra la casa di
terra e canna e la caffetteria del villaggio, dove pochi uomini si
riunivano a giocare a domino e a bere. Spesso rincasava ubriaco. Quando
aveva qualche pesos per le tasche li gettava in una bottiglia di cispes
de tren, un liquido biancastro che brucia le budella e non fa pensare.
Una specie di rum fatto in casa tagliando alcol puro con zucchero e
acqua.
Ramon di tanto in
tanto guadagnava qualche dollaro facendo da guida ai turisti che si
spingevano sino a Punta Maisí. Gli stranieri venivano dalla strada di
Baracoa, seguendo insenature sul mare e piccoli approdi, affascinati
dalla vista delle palme e dei bohios. Lui li conduceva sul fiume, a
Yumurí, indicava la punta di Haiti al tramonto e quel mare frastagliato
dal vento. I più generosi lasciavano anche dieci o venti dollari di
mancia. Non capitava spesso, però quando accadeva il denaro non arrivava
mai a casa. Ramon si fermava in caffetteria e ordinava del rum. Di
quello vero. Quando rientrava ubriaco si sfogava con me. Mi prendeva con
la forza. Mi picchiava. Io ormai ci avevo fatto l’abitudine e la mia
sola preoccupazione era quella di non restare incinta.
Ramon era cambiato.
Non era più il romantico mulatto dalle spalle larghe e il sorriso sicuro
che mi aveva portata via una sera d’estate, mentre il cuore batteva
forte per l’emozione. Da tempo non mi regalava fiori e non ascoltava con
me le romantiche canzoni di Alejandro Fernandez che mi piacevano tanto.
Ero diventata prigioniera di una vita fatta solo di tristezze e
desolazione. Baracoa era lontana e pensavo spesso che non ci sarei più
tornata. Mi ero abituata a sopportare tutto, ma un figlio no, quello
proprio non lo volevo. Ramon non comprendeva, spesso si infuriava e
quando era ubriaco accompagnava le parole con le botte. Io piangevo in
silenzio, soffocando le lacrime per la paura di nuove percosse. Quando
capitava che si addormentasse sul mio corpo me lo toglievo di dosso e
asciugavo le lacrime, cercando di dormire. Pensavo a Baracoa e al
sorriso di mio padre quando diceva: “Tu devi sposare uno straniero,
figlia mia. Non devi fare la mia vita. Sei troppo bella”. Erano anni che
non vedevo mio padre. Senza mezzi di trasporto non era facile, l’autobus
diretto a occidente passava solo una volta alla settimana e da Maisí a
Baracoa il viaggio era lungo per affrontarlo camminando o confidando
nell’autostop. Ricordavo mia madre mentre preparava da mangiare per i
turisti e aveva la casa sempre piena di persone che parlavano una lingua
strana. Adesso capivo di aver sbagliato tutto. Se solo avessi avuto la
pazienza di aspettare forse qualche straniero si sarebbe innamorato di
me cambiandomi la vita. Invece ero scappata con Ramon, un uomo che
veniva dalla campagna, conosciuto appena nella discoteca in fondo al
lungomare. E adesso mi trovavo prigioniera d’un sogno d’amore che giorno
dopo giorno si era trasformato in un incubo.
Nonostante tutte le
mie precauzioni accadde. Il destino quando decide di colpire sa farlo
con durezza e non accetta deroghe. Successe una sera che Ramon era più
ubriaco del solito e il suo corpo mi pesava sul ventre come un macigno.
Non ce la feci a evitarlo. Quando ebbi la certezza d’essere incinta non
ragionavo più. Un figlio era la più grande delle disgrazie. Non lo
volevo. Non lo volevo proprio.
Clara, che abitava
nel bohio accanto, provava a consolarmi.
“Pensa alla gioia di
vederlo crescere” diceva “e poi un bambino ti ripaga di tutto con un
sorriso”.
Clara aveva cinque
figli e adesso era di nuovo incinta.
Che se li tenesse
lei i sorrisi! Non volevo fare la fine di quelle donne sfatte ed enormi
che passavano la vita a pulire e sfamare bambini voraci. Avevo già
abbastanza guai. Fu così che decisi di abortire, senza dire niente a
Ramon. Mi avrebbe aiutato Jacinta, quella che al villaggio chiamavano la
curandera, lei faceva riti magici e conosceva i segreti delle erbe.
Tutti avevano una gran fiducia nei suoi poteri e correva voce che avesse
risolto persino casi di cancro allo stadio terminale. Dovevo liberarmi
di quel figlio prima che fosse troppo tardi.
Jacinta mi consigliò
alcuni rimedi.
“Sono infallibili,
figlia mia”, mi disse con aria solenne.
Sperai che fosse
vero. Trangugiai birra bollente e aspirine per diverse sere, feci bagni
caldi e bevvi infusi di strane erbe prima di andare a dormire, preparai
tisane con ingredienti segreti e mangiai radici raccolte prima del
calare del sole sotto alberi di banane.
Fu tutto inutile.
Provai anche a
tuffarmi in mare dalla scogliera, quella che i turisti visitano per
ammirare la punta estrema di Haiti. Jacinta aveva detto che l’impatto
violento mi avrebbe fatto abortire.
Non servì a niente. Quel figlio si era attaccato prepotentemente alla
vita e non era possibile liberarsene. Fui costretta a dirlo a Ramon. Lui
si lasciò andare a una gioia incontenibile.
“Ci pensi Maria?
Avremo un bambino”.
“Io non lo voglio
questo figlio, Ramon”, rispondevo.
Ma sapevo che non
avrei potuto fare altrimenti.
Lui cercava di
convincermi che sarebbe stato importante per il nostro matrimonio. Io
non lo ascoltavo neppure.
Quando era ubriaco
usava i soliti sistemi.
Mi picchiava. Mi
insultava.
“Perché non vuoi un
figlio da me, brutta troia?” gridava.
Speravo tanto che le
botte mi facessero abortire.Ma non accadde. Purtroppo. Cominciai a
covare un sentimento di rabbia e rancore e la rassegnazione di un tempo
lasciò il posto a un odio profondo nei confronti di Ramon e di quel
figlio indesiderato. Sarebbe nato entro pochi mesi e non avrei potuto
fare niente per impedirlo.
Quando il bambino
nacque Ramon era raggiante di felicità, oltre tutto era maschio, proprio
come desiderava. Lo chiamò Josè, in omaggio a suo padre morto alcuni
anni prima e neppure si consultò con me al momento della registrazione.
Quelle erano decisioni da uomini e le donne non avevano nessun diritto
di intromettersi, diceva. In ogni caso non avevo nessuna intenzione di
partecipare alla scelta del nome. Avevo partorito un bambino che non
desideravo, il mio compito era terminato. Quando guardavo Ramon e il
piccolo Josè ero capace di provare soltanto odio e disprezzo. Pensavo al
mio corpo che cadeva a pezzi ogni giorno di più, a quel seno pieno di
smagliature biancastre, alla cellulite sui glutei, alla pelle sciupata e
alle rughe che segnavano il volto. Tutto per colpa di Ramon e di quel
maledetto figlio che era voluto venire al mondo per forza. Nonostante i
miei sforzi. Nonostante le erbe di Jacinta e i tentativi di abortire. Le
vicine di casa si complimentavano per quel bambino così bello e in
salute. Io neppure rispondevo, borbottavo qualcosa e continuavo per la
mia strada. Ero diventata solitaria e silenziosa, non frequentavo più
nessuno. Stavo chiusa nel bohio a cullare il bambino e ad attendere che
Ramon facesse rientro dalla caffetteria. Josè succhiava il latte dal
seno portandomi via quel poco che restava della giovinezza. Io lo
guardavo e riuscivo a provare per lui solo rancore, maledicendo il
giorno che era venuto al mondo. Ramon non aveva tempo per accorgersi di
quel che mi passava per la testa, era troppo preso a vantarsi con gli
amici per la nascita del bambino. Offriva sigari rubati e cispes de tren
in ogni momento del giorno. Si ubriacava e tornava a casa sempre più
tardi. Mi vedeva silenziosa accanto al bambino e non si preoccupava più
di tanto. In fondo mi comportavo come sempre, cucinavo, sistemavo la
casa, mi occupavo anche del piccolo. La notte subivo le percosse e i
rapporti violenti, quando lui era ubriaco. Con la sola differenza che
tacevo, non riuscivo neppure a piangere. Ramon non aveva mai fatto caso
alle mie lacrime e se solo avesse avuto il tempo di guardarmi negli
occhi, avrebbe visto brillare una scintilla di odio. Un desiderio di
vendetta che attendeva solo l’occasione di manifestarsi. Se Ramon lo
avesse fatto, forse avrebbe capito che non tutto era uguale. Forse
sarebbe stato ancora in tempo a fare qualcosa. Ma non lo fece. I giorni
continuarono a passare sui miei rimpianti, io restavo intrappolata tra
silenzio e ricordi, presa da impossibili desideri di fuga. Il mare in
lontananza scacciava gabbiani solitari dalle scogliere nei giorni di
tempesta, mentre avvoltoi giganteschi si posavano sulla spiaggia a
cibarsi di carcasse di uccelli morti. Passavo ore a scrutare l’orizzonte
e attendevo con ansia il bussare del vento sulle fragili pareti del
bohio. Neppure i tornados mi incutevano timore. L’unica cosa che avrei
voluto dalla vita era di percorrerla a ritroso, lasciandomi alle spalle
tutti gli errori commessi. Quando posavo lo sguardo sul bambino
immaginavo d’essere un folle spirito della notte che avrebbe voluto
avvolgerlo in un telo nero e portarlo via a cavallo del vento. Quel
figlio era l’ultimo degli errori. Il più grande. Da quel momento avrei
fatto attenzione a non commetterne altri.
Il bambino cresceva
e io diventavo sempre più triste e silenziosa. Ramon non provava neppure
a capirmi, accettava quel mutismo senza farsi troppe domande.
Fu alla vigilia del
nostro sesto anniversario che decisi di sorprenderlo con una proposta
inaspettata.
“Ramon, ti ricordi
che giorno è domani?”
“Certo. Non
dimentico le date importanti. È stato sei anni fa che ci siamo sposati e
ti ho portata via da Baracoa”.
“Avrei voglia di
festeggiare e di cucinare qualcosa di buono per cena, magari un po’ di
carne”.
“E dove la trovi con
i soldi che abbiamo?”
“Tu non ti
preoccupare. So io come fare”, conclusi.
Ramon forse pensò
che cominciavo ad accettare la nuova situazione e soprattutto quel
figlio. La proposta di cucinare un pranzo speciale per festeggiare il
nostro anniversario era senza dubbio un buon segno. Quando Ramon tornò a
casa per cena, stringendo in mano una bottiglia di rum da poco prezzo e
un mazzo di fiori raccolto nel campo vicino al bohio, lo accolsi con un
sorriso.
“Ho messo a letto il
bambino, così possiamo stare un poco da soli”. Indicai il lettino in
fondo alla stanza dove il piccolo Josè era avvolto da un lenzuolo. Ramon
sembrava felice.
Cominciai a servire
la cena. Riso bianco, fagioli, banane fritte nell’olio di cocco e
pezzetti di carne in salsa di pomodoro. Lui mangiò con gusto, io mi
limitai ad assaggiare un po’ di riso e qualche banana.
“Lo sai che non
ricordavo neppure che sapore avesse? Questa carne è molto tenera e tu
sei una cuoca perfetta”.
“Non esagerare. Il
merito in fondo è solo della carne”, risposi.
Bevemmo birra chiara
e rum. Ramon finì per ubriacarsi. Io sapevo controllarmi, invece. Il rum
non mi è mai piaciuto molto e poi dovevo mantenermi sobria perché avevo
ancora molto da fare quella sera. Mi alzai per andare nell’angolo del
bohio dove avevamo ricavato una piccola cucina.
“Ti preparo un
caffè”, dissi.
“Buona idea”,
rispose Ramon, che non si reggeva in piedi. Furono le sue ultime parole
per quella sera. Subito dopo sentì un tremendo dolore alla testa e
svenne. Quella vecchia mazza da baseball, appoggiata come un
soprammobile vicino alla porta del bohio, finalmente era servita a
qualcosa.
Quando Ramon riprese
i sensi albeggiava, i primi raggi di sole penetravano dall’unica
finestra della stanza. Lo avevo legato al letto mani e piedi, dopo aver
sollevato la coperta. Accanto a lui non c’era il piccolo Josè
addormentato ma solo i suoi macabri resti. Brandelli di carne, minuscole
dita, due pupille insanguinate, un piccolo cranio frantumato e ossa
spolpate.
“Guarda tuo figlio,
bastardo!” gridai.
Ramon si sentì
mancare. Si vomitò addosso la cena più volte, sporcando i vestiti e il
letto. Era terrorizzato e sconvolto. D’improvviso capì da dove proveniva
quella carne.
Suo figlio. Aveva
mangiato suo figlio.
“Tu sei pazza,
Maria”, trovò la forza di dire.
“Forse sì. Ma non ha
più importanza. Almeno per te”.
Impugnai il machete.
Lo stesso machete che mi era servito per scannare e sezionare quel
figlio indesiderato. Ramon implorò perdono più volte. Mi disse che se
l’avessi risparmiato sarebbe cambiato tutto tra noi. Mi disse che non
avrebbe più fatto niente che non avessi voluto. Ma fu inutile, ormai
avevo preso la decisione. Mi avvicinai al letto e lasciai cadere il
machete sulla gamba destra di Ramon. Lui gridò di dolore. Il sangue
schizzò tutto intorno bagnando il letto e la terra del bohio. Un attimo
dopo fu la volta della gamba sinistra. Si levarono nuove grida
strazianti e altri schizzi di sangue macchiarono i vestiti di Ramon e il
mio corpo. Un tanfo di escrementi si aggiunse all’odore penetrante che
già si era diffuso nell’aria. Ramon, con le gambe ridotte a due
moncherini sanguinanti, se la stava facendo sotto dalla paura.
Supplicava che non lo uccidessi. Piangeva come un bambino. Sollevai il
machete e lo lasciai cadere sul suo corpo per l’ultima volta. Fu un
colpo secco e deciso che si abbatté sul collo staccandogli di netto la
testa. Tutto intorno c’erano pezzi di carne umana a brandelli, sangue,
ossa recise, vomito ed escrementi. Un puzzo insopportabile pervadeva il
bohio. Mi avvicinai al lavandino e mi lavai con cura le mani e le parti
del corpo schizzate dal sangue, mi pettinai, mi cambiai d’abito.
Raccolsi i pochi oggetti che mi sarebbero ancora serviti e qualche
vestito, quindi misi tutto in una piccola valigia di cuoio marrone.
Prima di uscire lanciai uno sguardo soddisfatto al letto e a quei corpi
scannati. Non provavo nessun rimorso ma un incredibile senso di
liberazione. Sapevo solo che l’autobus per Baracoa mi attendeva alla
fermata vicino alla spiaggia. Pensai a mio padre, a quel sorriso che
tanto mi era mancato. La mamma sarebbe stata contenta di rivedermi e
avrebbe preparato una cena a base di congrís e maiale arrostito alla
fiamma. In quel momento avevo solo tanta voglia di scappare. Osservavo
la punta di Haiti in lontananza, mentre fuggivo via da quel posto
infernale e sentivo che non avrei mai potuto provarne nostalgia.
Non immaginavo come
sarebbe andata a finire.
La casa dei miei
genitori non era più la mia casa. Da tempo.
È vero che subito mi
hanno abbracciata e baciata e fatto un mucchio di domande. Ma poi,
quando ho iniziato a raccontare, ho capito tutto. Ho visto l’espressione
sconvolta di mia madre. E ho sentito mio padre gridare come un
forsennato. È stato allora che non sono più stata capace di dire una
parola. Non servivano le parole, purtroppo. Ancora una volta non
servivano a niente. Ho raccolto le ultime forze e afferrato un machete.
C’è sempre stato un machete nella cucina dei miei. Per scannare il
maiale e sezionarlo. Per tagliare la legna e gli arbusti davanti alla
casa. L’ho usato. Di nuovo. Ormai sapevo come fare. Non era la prima
volta. Ho zittito la bocca di mio padre che gridava come un folle. Ho
placato nel sangue la preoccupazione di mia madre.
Adesso sono seduta
accanto ai resti dei loro corpi e osservo le pareti nude di quella che
un tempo è stata la mia casa. Ho le mani sporche di sangue e ascolto in
silenzio il rumore del mare che percuote le scogliere. Lo so che
verranno a prendermi. Lo so che adesso mi attende soltanto la morte.
I ricordi si
spengono poco a poco, come un vento che si placa e arresta la furia
delle onde. Ed è solo per un istante che sento la nostalgia. Quella che
credevo non potesse catturarmi. La nostalgia di un bohio desolato nella
campagna d’oriente. Di una spiaggia che scopre un panorama di isole
lontane. Di un figlio perduto. Persino di un figlio. Ma è troppo tardi,
ormai.
Troppo tardi.
Agosto 2001
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