100$ PER UN AMORE


3.L'AVANA
 

 

 

La lunga fila stava compostamente unita, in attesa di  giungere fino al box del controllo passaporti. Il caldo umido mi aveva colpito come un pugno, durante il tragitto  dal velivolo all'aerostazione, effettuato su di un pullman che aveva visto giorni migliori. La prima cosa che  mi colpì, furono le grandi lettere che campeggiavano sull'edificio dell'aeroporto e che formavano il nome dello stesso: Josè Martì. Per fortuna, all'interno dello scalo, l'aria condizionata faceva il suo dovere abbastanza bene regalando, così, un deciso sollievo. Dopo circa le quindici ore passate tra aeroporti ed aeroplani, con le caviglie gonfie a causa del ristagno del sangue, stavo per realizzare il mio sogno. Il soldato del controllo passaporti rigirò diverse volte il mio documento, osservando prima la foto e poi la mia persona, per passare successivamente alla verifica della tarjeta del turista che era, in fondo, la richiesta del visto di entrata. Alla fine, appose dei timbri e, riconsegnandomi il tutto, mi augurò un felice soggiorno. Dopo aver recuperato il bagaglio dall'unico nastro trasportatore in funzione e aver negato di aver bisogno di albergo e taxi a delle gentilissime hostess addette alla cura dei turisti in arrivo, varcai finalmente la porta di uscita. Fuori, ad attendere chissà chi e chissà cosa, c'era una variopinta folla di cubani che indagai con lo sguardo. Il caldo mi aveva nuovamente assalito e mi ritrovai improvvisamente stanco e disorientato quando, una vocina, s'alzò da un crocicchio di persone. "Claudio!". Quando rividi Fidelia, confesso di essermi sentito appagato di quella lunga parentesi di attesa che era trascorsa da Varadero all'Avana. Mi corse incontro e mi abbracciò forte dandomi il suo benvenuto con un bacio che aveva un sapore dolce e profumato.

"Sono contenta che tu sei qui. Sai -confessò- fin quando non ti avrei visto arrivare, non lo avrei creduto possibile il rivederti".

Sorriso per il suo italiano un pò comico e per la gioia che mi era salita ascoltando le sue parole ma mantenei un briciolo di razionalità, anche perché non vedevo l'ora di stendermi su di un letto a recuperare le forze sciupate dalla stanchezza prodotta dalla posizione forzatamente noiosa del volo.

"Prendiamo un taxi? Hai visto la casa di tua zia?" le chiesi.

"Il taxi è fuori che ci aspetta. Lo avevo noleggiato prima, per arrivare all'aeroporto ed ho chiesto al padrone di aspettarmi. Adesso andiamo al Vedado da mia zia che ci porterà alla casa. SOno felice".

Seduto sul grande sedile posteriore di una Toyota decisamente nuova, ammiravo tutto quanto potevo cogliere con lo sguardo. Le case, le vie trafficate da biciclette e da motorini cinesi, da vecchie automobili statunitensi e da massicci camion sovietici. Ma, soprattutto, guardavo gli habaneri che si confondevano in modo omogeneo con l'architettura che, spesso, avevo ammirato nelle foto delle guide turistiche e dei libri che avevo letto a Milano. Fidelia tentò l'inizio di una conversazione. "Com'è stato il volo? Che tempo faceva in Italia? Hai mangiato?".

Estrassi dal pacchetto l'ultima sigaretta e l'accesi. "Il viaggio è stato stancante. L'altra volta, quando venni a Varadero, ricordo che fu più comodo, forse perché era un volo senza scali e cambi di aereo. Stamattina, a Milano, faceva un freddo boia, altro che tropici...ma tu, a proposito. Hai mangiato?". Scosse la testolina in segno di negazione e aggiunse "No. Tiengo hambre".

"Ma tua zia, quella che ci affitta la casa, ci può preparare qualcosa da mangiare se le diamo i dollari?" chiesi.

"Certo, ma ci vorrà del tempo per fare la spesa e trovare tutto quello che le chiederai...ma io ho fame adesso!".

"C'è un chiosco dove poter mangiare qualcosa affinché ti passi questa fame?". Senza rispondermi, chiese all'autista di fermarsi davanti ad uno dei pochi chioschi dove si poteva mangiare hamburger e hot dog. La macchina deviò dolcemente sulla destra ed imboccò il tunnel che ci conduceva all'inizio del Malecòn, il lungomare dell'Avana. Due ragazzini stavano giocando con delle camere d'aria gonfiate all'inverosimile che avrebbero usato come canotti e come oggetti da tirarsi addosso. La Toyota si fermò sulla sinistra del Malecòn, lasciandoci liberi di attraversare la strada per raggiungere la tienda che preparava spuntini veloci. Fidelia chiese un paio di perro caliente ed un succo di mango gelato mentre io continuavo a seguire con lo sguardo, quella banda di monelli svestiti che pareva essere un equipaggio della Tortuga. Pagai con cinque dollari senza aspettare il resto e generando, così, lo stupore e la disapprovazione di Fidelia che, però, non disse nulla. Con la bustina di plastica contenente i panini e la lattina di bibita, ci avviammo lentamente al taxi che continuò la sua traversata per l'Avana.

Il Vedado era uno dei quartieri della città. Una volta zona residenziale, conservava ancora intatta la sua condizione architettonica che si evidenziava attraverso i graziosi villini coloniali, tutti dotati di un minuscolo patio adibito, per lo più, a garage di vecchie auto d'epoca. A Calle 38 ci fermammo. Fidelia gridò qualcosa e subito si spalancò un portoncino dal quale emerse una bella  mulatta. "Questa  è mia zia Juliet" disse. La donna mi sorrise e di disse "Buenos Dìas senor. Todo bien?". RImasi colpito dalla dolcezza del suo tono di voce e dalla bellezza del suo corpo, cosa che Fidelia notò istantaneamente. "Ti piace mia zia?" disse dandomi una gomitata all'altezza dello stomaco.

La zia rise della scenetta di gelosia che era avvenuta davanti ai suoi occhi "Està loca por ti. Tiene miedo de perderte, Claudio" e, continuando a ridere, entrò in casa. Il conducente del taxi, scaricò i bagagli dentro l'abitazione che sarebbe stata il nostro nido per quelle due settimane. Si trattava del piano superiore del villino abitato da Juliet e da suo marito, ed era composto da una grande camera da letto dotata di un apparecchio di aria condizionata che avrebbe meglio figurato in un negozio di modernariato dei Navigli; un bel bagno con servizi completi ed un piccolo saloncino che completava l'aerea abitativa. Tutte le finestre erano saldamente impreziosite da artistiche inferriate costruite con tondino di ferro dipinto di un passato verde oliva.

"Te gusta?". Guardai Fidelia, rendendomi conto che, fino ad allora non l'avevo osservata attentamente. Ma a causa della stanchezza e dell'eccitazione di essere nuovamente a Cuba, mi era sfuggito il suo abbigliamento e quella sua bellezza che avevo tanto smarrito in Italia. Gli hot pant bianchi che indossava, le risaltavano le perfette forme del sedere e dell'incavo anteriore del bacino; così com'era, la stretta maglietta di cotone elasticizzato, le evidenziava il seno eretto e ben proporzionato. Il suo volto era delicato nonostante un trucco pesante che lo dipingeva e la pelle ricordava quella della pesca vellutata.

"Ti ho sempre pensata -le dissi- ed ora ti ho qui vicino...". La baciai teneramente pensando a quanto sarebbe stato bello fare l'amore in quel preciso momento. Discretamente, Juliet bussò alla nostra porta..."Ola...Julieta y Romeo" disse.

"Cazzo, che rompipalle mia zia...Que pasaaaa!" gridò quasi infuriata all'indirizzo della porta chiusa.

Seguì una animata conversazione tra le due, che non potei afferrare e, quindi, iniziai a disfare le valige.

"Claudio -fece Fidelia- ha detto mia zia   sei vuoi mangiare aragosta o pescado...poi chiede se gli puoi dare  i soldi, così può comprare quello di cui c'è bisogno...Dai, deciditi, così se ne va subito".

Volsi lo sguardo verso la stecca di sigarette che doveva ancora essere aperta. "Allora, da quello che mi hai detto sono trenta dollari al giorno per la casa, quindi un totale di 450 per quindici giorni. Poi, altri venti per colazione e cena per noi due...altri 300 dollari. Ecco  questi sono mille dollari -dissi allungandole 10 pezzi da 100 dollari ognuno- dalli a Juliet, per pagarsi l'affitto e i nostri pranzi. Con il resto dille di comprare bibite, birre, rum...insomma, quello che vuole". Il danaro passò da una mano all'altra, con enorme soddisfazione delle due donne che avevano, momentaneamente, risolto il l oro problema economico. Colsi uno sguardo torbido negli occhi di Juliet accompagnato da una smorfia che fece non vista da Fidelia. Tutto ciò mi portò alla mente il romano conosciuto a Varadero che, in una situazione del genere, si sarebbe sollazzato con zia e nipote. Juliet uscì, lasciandoci nuovamente soli. Fidelia ne approfittò per chiudere le assicelle che facevano parte delle persiane della finestra della camera da letto in modo da nasconderci dalla vista di qualche curioso. Subito dopo si gettò sul letto restando in attesa della mia reazione. 

"Fidelia, ho voglia di fare l'amore con te...ma, adesso, devo darti tutte le cose che ti ho portato dall'Italia" e così dicendo, posai sul letto il borsone da viaggio contenente i suoi regali.  "Dai...su, dammi tutto!" implorò scherzosa. Iniziò a frugare tra pacchi e involucri, scartandoli uno ad uno e, ogni tanto, alzava un gridolino di soddisfazione e di compiacimento. Quando vide il bambolotto, si animò ulteriormente. Era una bambola verosimile nelle dimensioni e nella foggia, ad un neonato,per cui,  il suo stupore aumentò a dismisura, nell'osservare a che tipo di giocattoli potevano esistere al di fuori di Cuba.

"Ma...è un nino vero!" esclamò con un filo di voce mentre lo cullava come se fosse suo figlio.

"Guarda...se premi sulla pancia, ti parla" le spiegai.

Iniziò la tortura che si protrasse per almeno una buona mezz'ora. Si divertiva a pigiare in continuazione la superficie anteriore del pupazzo e questo, a sua volta, attraverso un micro disco di plastica collegato ad un minuscolo altoparlante, emetteva parole del tipo 'mamma-papà'. Era così entusiasta di questa scoperta che si dimenticò di mangiare i due panini che aveva comprato al Malecòn. Ne approfittai per finire di svuotare le valige e per farmi una doccia ristoratrice. Poi, mi misi in libertà, sostituendo ai jeans e camicia, pantaloncini e maglietta. Fidelia accese la piccola radio che era appoggiata sul comodino ed accennò a dei passi di danza seguendo il ritmo della musica salsa che si alzava nell'aria.

"Claudio -gridò- te quiero mucho amorcito" e si rituffò sopra al letto raggiungendomi. Non accusavo più quel senso di torpore che avevo provato fino allora. La voglia di possederla con tutte le mie forze si era sostituita alla stanchezza prodotta dal viaggio e dalla tensione nervosa che lo aveva accompagnato. Il bolerino volò e cadde per terra, a fianco dei pantaloncini che si era già tolta, rimanendo coperta solo da un minuscolo tanga viola. Le sue unghie scoprirono man mano, il mio corpo, lasciando inciso un leggero sentiero rossastro, unico testimone del loro passaggio. Acuti brividi percorsero parallelamente i miei centri nervosi mentre raggiunsi uno stato estatico. Le sue labbra iniziarono ad esplorare tutti i miei punti sensibili, provocandomi l'aumento della pressione sanguigna che batteva sulle tempie. Non riuscivo controllare il mio stato d'animo e mi tornò in mente il fatto che erano mesi che non facevo più l'amore. L'ultima volta era stata proprio con lei a Varadero. Non che le avessi giurato fedeltà ma, a Milano, non ero riuscito a sintonizzarmi più con le ragazze con le quali abitualmente uscivo.

Ora, ero nudo e disteso sul quell'angolo di nuvola, con a fianco una bellissima ragazza cubana che  diceva di amarmi e con una incontrollabile voglia di fare sesso. Mille perline di sudore incollavano ancor di più i nostri corpi avvinghiati in una ferrea morsa di piacere, mentre i raggi del sole, stavano lentamente calando, creando cupe zone d'ombra che oscuravano teatralmente la stanza. Come già avvenuto a Varadero, scoprii un clima selvaggio che prevalse sulla dolcezza dei primi momenti d'amore. In un caleidoscopio di sensazioni, un vortice d'emozioni e voglie represse, prese il sopravvento. Ritmicamente, la nostra danza iniziò dapprima in modo sincopato, per poi tramutarsi in un qualcosa che sfuggiva all'immaginazione dei più. Era il completamento di un sentimento che avevo cullato e nutrito per mesi, fino a farlo crescere parallelo alla voglia che avevo di lei. Le sue lunghe gambe di gazzella si incrociavano alle mie, stringendosi sempre più, mentre corpi ebbri, godevano degli ultimi fremiti della loro voglia di essere un unica persona. Alla fine, mi smarrii accanto a lei. La stanchezza s'impossessò di me e scivolai in un sonno profondo.

Quando mi sveglia, Fidelia non era più al mio fianco. Il lenzuolo copriva a malapena il mio corpo nudo e, senza vergogna, vidi che la porta della camera era aperta. Mi stropicciai gli occhi che mi bruciavano e sapevo di non avere un bell'aspetto. Presi dal comodino il pacchetto di sigarette e ne accesi una, cercando di indovinare che ora fosse.  Dal di fuori, a parte il buio che aveva finito di avvolgere tutte le cose, si sentivano rumori di voci e suoni lontani, provenire da balconi e radio accese a tutto volume. Mi stiracchiai indeciso sul da farsi, ipotizzando il fatto che Fidelia fosse scesa dalla zia per mangiare qualcosa, oppure...ma le congetture s'infransero quando entrò Juliet.

"Holla Claudio...te gusta La Habana?" disse avvicinandosi senza dar troppo rilievo alla mia nudità affatto celata dal lenzuolo.

"Credo di si, anche se ancora non ho avuto modo di vedere bene la città...E Fidelia?" dissi molto imbarazzato, cercando di evidenziare, forse inconsciamente, il fatto che se io mi trovavo li, in quel momento, ero per via della nipote.

Juliet sorrise e si sedette sul bordo del letto prendendomi la sigaretta che stavo fumando e tirando un paio di boccate.

"Fidelia està hoy con mi hombre para buscar el pescado...cayate!" disse restituendomi la cicca ormai timbrata dal suo rossetto.

"Parli italiano?" le chiesi.

"No mucho...ma te intiendo sin problema. Tieni miedo de mi?" domandò avvicinandosi ancor di più. "No, ma sei una bella donna e non vorrei dare un dispiacere a Fidelia" risposi.

"Dispiacere?" rimarcò dubbiosa sul significato di tale parola.

"Dolor", precisai.

"Ay, dolor..." e sorrise avvicinandosi alle mie labbra.

Juliet era provocante e quel breve sonno aveva ritemprato le mie forze e la mia voglia. Non era giusto tradire Fidelia e stavo approfittando della situazione. Era solo una casualità alla quale non mi andava  di rinunciarci, ma mi rendevo conto che non stavo pensando  con la testa ma con il mio pisello."Cosa vuoi da me?" chiesi senza troppa convinzione solo per cercarmi una futura giustificazione.

"Hacer l'amor. Me gusti mucho Claudio". Juliet si sfilò il vestitino colorato restando nuda. Con stupore vidi che non indossava neanche le mutandine. Il suo corpo era perfetto, impreziosito da quella bellezza che solo chi ha passato i trent'anni può avere. Era un frutto  arrivato alla sua giusta maturazione, quello che stavo per assaporare. L'amplesso, questa volta, sembrò prolungarsi in eterno. L'esperienza di Juliet, coniugata con una mia più calibrata voglia di autocontrollo, impreziosì quell'atto sessuale senza amore, valorizzandone tutti i suoi momenti. Finimmo per divorarci a vicenda mentre, pensavo, che non mi ero discostato troppo dal ruolo del turista incapace di chiudere in un angolo, il proprio egoismo.

Così com'era arrivata, Juliet se ne andò, lasciando la porta semichiusa e i miei pensieri liberi di vagare nell'aria. Ci trovammo quella sera riuniti intorno alla tavola apparecchiata. Juliet, sempre vestita con l'abitino stampato, era seduta acconto al marito Ernestito, un esile cubano nero come il carbone che proveniva da Baracoa. Fidelia, invece, si era accomodata vicino a me, felice di trovarsi dinnanzi ad una teoria di piatti precedentemente cucinati dalla zia. Ernestito mangiava in silenzio mentre le due donne chiacchieravano tra loro, alzando di tanto in tanto, il tono della voce, mentre mi  lanciavano, ambedue, furtivi sguardi. Non sapevo se Fidelia si fosse accorta di quello che c'era stato tra Juliet e me, ad ogni buon conto, mi sforzai ad apparire normale.

"Te gusta el pescado?" chiese Fidelia cercando una improbabile conversazione.

"Decisamente buono. Fai i miei complimenti a tua zia, cucina proprio bene" risposi.

"Diglielo tu, visto che ti piace tanto..." replicò con una punta di acidità.

"Perché mi dici questo?" replicai lapidario. Non mi rispose riservandosi, forse, di ritornare sull'argomento in altra sede. Juliet riportò in cucina gli avanzi che, certamente, non sarebbero andati sprecati e tornò con quattro tazzine piene di fumante caffè. Ernestito si accese una popular senza filtro e accennò ad imbastire una conversazione. "Claudio, de donde eres tu?".

"Milano" risposi amaramente, pensando a quanto mi sarebbe piaciuto scegliere una città differente, una vita diversa.  "Ay, me gusto mucho la Italia...pizza, spaghetti, Benetton..." continuò Ernestito, evidenziando oltre ai soliti luoghi comuni che accompagnano l'Italia all'estero, anche un inaspettato consumismo senza frontiere. "Non è tutto bello come credi" ma decisi di troncare la conversazione, ero troppo stanco per discutere con un cubano pieno di sogni ed illusioni.

"Sei stanco?" disse Fidelia correndo in mio aiuto. "Si. E' stata una lunga giornata e sono circa venti ore che non dormo. Penso che sia il caso di andare a riposare. Se tu vuoi -continuai- puoi restare con loro".

"Sei loco? Vengo con te...ma a letto, non a dormire" e s'alzò dalla sedia prendendomi  la mano per condurmi docilmente in camera.

Spendi la luce del minuscolo abat-jour ed accesi la radiolina, abbassando il volume. Stavano trasmettendo vecchie arie di mambo famose negli anni cinquanta: gli anni d'oro del Tropicana, della dittatura di Batista e di quel casinò caraibico degli Stati Uniti che era, allora, Cuba. I nostri corpi si avvicinarono al buoi ma ero troppo stanco per un nuovo atto d'amore e mi addormentai dolcemente.

Il canto stridulo di uno striminzito galletto mi svegliò. Al mio fianco trovai una Fidelia vestita di sola pelle che continuava a dormire. La luce filtrava dalle asticelle di legno della finestra, giocando a fare capolino con le ultime ombre della notte. Percepii dei rumori provenienti dalla cucina e pensai che Juliet era indaffarata a preparare la colazione. Mi stiracchiai mentre, ormai sveglio, stavo accingendomi a farmi una doccia. Come percorsa da un brivido, Fidelia spalancò le sue lunghe ciglia nere e, con un filo di voce roca, mi offrì il suo buongiorno.

"Buongiorno amore. Dove vai?" mi disse ma, vedendomi indirizzato verso la porta del bagno, si rinfrancò, avviluppandosi dentro il lenzuola per trovare un pò di calore. Rinchiusi delicatamente la porta della camera ma, prima di entrare nella stanza da bagno, la curiosità mi portò a gettare una occhiata attraverso la finestra che dava sul cortiletto interno della casa. Juliet andava e veniva tra la cucina ed il piccolo patio, dov'era sistemato un armadio dal quale prendeva stoviglie e pentolini vari. Non capii come ma si accorse della mia presenza ed alzò lo sguardo al mio indirizzo, poi aprì uno smagliante sorriso e disse "Bueno Claudio. Quieres café?". Scesi le scale e mi ritrovai seduto su di una specie di sediolo in cucina. Juliet mi porse una tazza allungandomi con l'altra mano, il barattolo dello zucchero grezzo.

"Ernestito dorme?" le domandai.

"No. Cada dìa se va a trabajar muy pronto" ammiccò maliziosa.  Bevvi il caffè con gusto anche se lo trovavo più leggero ed acquoso di quello che solitamente bevevo in Italia. "Muchas gracias por el café" le dissi posando la tazzina sopra al tavolino di formica celeste. S'avvicinò repentinamente e mi abbracciò, cercando di baciarmi senza preavviso. Riuscii a malapena a liberarmi dai suoi tentacoli, avendo realizzato che, al piano di sopra, Fidelia stava nel frattempo, uscendo dalla camera. 

"Despues quiero restar sola con tigo"  sussurrò Juliet allontanandosi come se nulla fosse accaduto e continuando a sfaccendare tra pentole e tegami. Guadagni le scale in tempo per vedere Fidelia uscire dal bagno e rientrare in camera. "Ola chica" le dissi raggiungendola. "Ciao, mio amor" rispose. "Oggi, voglio andare a vedere la città. Ti va?" le chiesi. Lei si rituffò nel letto e riaccese la radiolina. "Stai attento a  tia Juliet" disse seria "E' malata".

"Come malata?" chiesi preoccupato. Emise un sospiro di commiserazione. "Deve fare l'amore più volte al giorno...non importa con chi, ma deve. Ne ha bisogno".  Mi avvicinai. "E' ninfomane?" chiesi. "Non so come si dice in italiano. Ernestito non è suo marito ma un amante che ha trovato qualche tempo fa. Lui non le dice niente perché gli fa comodo essere ospitato da lei, ma tia Juliet continua ad avere altre avventure, quando Ernestito non c'è. Sicuramente vuole farlo anche con  te...anche se sa che io sono muy gelosa" replicò. Rimasi a riflettere. Era allora questo il perché si fosse intrufolata nella mia intimità, la sera prima. Sicuramente avrebbe continuato la sua relazione clandestina durante tutto il mio soggiorno da lei.  Decisi di interrompere subito qualsiasi rapporto che non fosse improntato sulla base di semplice cortesia: era troppo pericoloso quel gioco, avrei potuto perdere Fidelia. Dirottai il discorso sul cosa avremmo veduto in quella mia prima giornata habanera. Poi, scendemmo per fare colazione. Juliet aveva preparato il tavolo solo per noi due, segno evidente che non voleva alimentare sospetti con la sua ingombrante presenza. Discretamente servì caffè, pane imburrato, frullato di Mamei e latte, omelette al lardo. Fidelia, come al solito, mangiava tutto con ottimo appetito volgendo, di tanto, il suo sguardo su di me. Alla fine del pasto, salì in camera a prendere il suo zainetto che aveva già preparato in precedenza. "Eccomi, amor" squillò scendendo le scale.

"Come ci muoviamo?". Rise a causa di quella mia sciocca domanda. Uscendo dal portone, fummo inondati da un sole che, nonostante l'ora mattutina, già scottava.  Un gruppetto di ragazzi erano radunati intorno ad una Cadillac Sedan del '57  color crema e volsero la loro attenzione su di noi. "Taxiiii" urlò Fidelia. Un paio di loro s'avvicinarono a lei, iniziando una fitta conversazione in cubano, gesticolando per meglio capirsi. Poi Fidelia si ricolse a me "Vogliono 25 dollari per stare tutto il giorno con noi. Ci portano a fare un giro per L'Avana. Ti sta bene?". Senza attendere il mio parere, la Sedan mosse lentamente, fino a raggiungerci. Il conducente, che era anche il proprietario dell'auto, si chiamava Francisco. Dopo le scuole dell'obbligo aveva rinunciato a frequentare l'Università per industriarsi, invece, a guadagnare dollari come tassista abusivo. Non era dell'Avana ma di Campo Florido, una minuscola località dell'entroterra, ubicata tra la capitale e Playa dell'Este. Parlava un pò italiano, appreso dai turisti che scarrozzava, ma non era di molte parole. Nonostante i suoi venticinque anni, appariva maturo e riflessivo. Amava il baseball, le belle macchine e, soprattutto, ballare. Tutto sommato era contento della vita che conduceva, pur lamentandosi in modo velato, del regime castrista.

"Dove andiamo?" domandò. "Vorrei fare una visita panoramica della città ma poi, vorrei visitare il Museo della Rivoluzione e l'Avana vieja...decidi tu, per il resto" dissi.

La pachidermica vettura arrancava sulle strade mal asfaltate delle città mostrando, in pieno, tutta la sua veneranda età. Imboccammo il Malecòn che risultava essere il fulcro di qualsiasi tragitto stradale per l'Avana quando, alla fine del lungomare, Francisco mi indicò con la mano una costruzione. "Quello è l'Hotel Nacional. E' un albergo storico e molto caro...adesso scendiamo per il Malecòn fino al Castillo de la Punta e poi entriamo all'Avana vieja. Ti piacerà".  Ammiravo la larga via a quattro corsie che, ai tempi coloniali, era una discarica. Sapevo che i lavori per la costruzione del lungomare erano terminati alla fine degli anni '20. Ma restavo stregato dalle abitazioni che si affacciavano davanti all'oceano. Case e costruzioni in stile coloniale, risalenti al secolo scorso, mal conservavano i loro originali colori che, però, si facevano il largo tra crepe e macerie d'ogni tipo. Era un accostamento di pastello celeste, giallo, rosa, ocra, verdino, bianco che, straordinariamente, si miscelavano insieme in un voluto disordine cromatico.Alcune case erano ancora abitate e lo si evinceva dei panni stesi alle finestre ad asciugare o dalla gente affacciata a curiosare la vita dai minuscoli balconi in ferro battuto. La via era popolata soprattutto da persone che facevano l'autostop. Questo, a Cuba, risultava essere un modo alternativo decisamente acquisito per raggiungere la destinazione e, in particolare all'Avana, evitava di utilizzare uno strano autobus pubblico, di color rosa, denominato 'cammello', per via della sua forma oblunga e gibbosa.  Francisco parcheggiò l'ansante vettura quasi davanti al Museo de la Revolucìon dove erano riuniti cimeli di tutte le guerre di indipendenza cubane. Oltrepassammo la grande entrata e, dopo aver pagato l'ingresso, salimmo per la grande scala ottocentesca che conduceva ai due piani soprastanti dove, attraverso un percorso obbligato, si potevano scoprire vari momenti storici dell'isola. Si partiva, come era ovvio, dalla scoperta di Cuba da parte di Colombo e, di conseguenza, dalla feroce lotta di conquista contro gli indios Siboneys e Tainos, gli abitanti autoctoni dell'isla. In un susseguirsi di sale, incisioni, reperti archeologici si attraversavano in pochi  metri, quasi cinquecento anni che avevano lo stesso denominatore comune: le lotte per l'indipendenza. Era stata maggiormente messa in risalto la politica coloniale che aveva caratterizzato il diciannovesimo secolo, contro il dominio spagnolo e gli uomini che lo combatterono, tra cui spiccava il poeta e patriota José Martì.  Martire della terza guerra di liberazione avviata nella seconda metà dell'ottocento contro la Spagna fu, oltre che un agguerrito rivoluzionario, un affermato scrittore ed alcuni suoi versi, furono utilizzati per musicare la celebre 'Guantanamera'.  La storia della politica di indipendenza raggiungeva il suo apice nelle sale dedicate alla rivoluzione castrista, iniziata con il fallito assalto alla Caserma Moncada di Santiago de Cuba e terminata vittoriosamente nel gennaio del 1959. Passando da un ambiente all'altro, potevo osservare oggetti ed icone che denunciavano guerra, lutti, brutalità: dalle garrote spagnole agli archibugi, dalle camice insanguinate dei barbudos, ai mitra di fabbricazione sovietica utilizzati dal M-26 sulla Sierra Maestra. La visita terminava, dopo aver riguadagnato il piano terra, con una sosta al giardino del Museo dov'erano parcheggiate jeep, autovetture, un piccolo aeroplano e un autoblindo, utilizzate durante la rivoluzione dagli uomini di Fidel.  Tra questi autentici pezzi da museo, si insinuava in un padiglione chiuso ma dal quale si poteva accedere con lo sguardo attraverso spessi vetri di protezione,  lo yacht 'Granma' , il quale fu utilizzato da Castro e da una ottantina di suoi seguaci per iniziare la lotta di liberazione cubana, trasportando il gruppo di rivoluzionari dal Messico alle coste di Cuba. Per un attimo pensai a come sarebbe stata l'isola se, quella minuscola imbarcazione, non fosse mai salpata da Tuxpan e mi resi conto che il gioco dei 'ma' e dei 'se' era duro a morire.  Fidelia iniziò a sbadigliare cercando, così, di conquistare la mia attenzione: probabilmente non era una buona compañera e  della Revolucion, non gliene importava granché. Tornammo verso la macchina ma di Francisco non v'era traccia. Ne approfittai per raggiungere a piedi il Parque Central portandomi appresso una Fidelia decisamente poco allineata con la mia sete di conoscenza. La gente mi colpiva sempre di più anche se, fastidiosamente, veniva quasi in processione  a domandarmi di acquistare sigari, rum o guide. Fidelia aveva allertato tutti i suoi sensi per proteggermi e, quindi, per tutelare il suo piccolo bene. Allontanava jineteri e jinetere con modi sbrigativi e risoluti che non ammettevano replica, pur rendendosi conto,  che quello che sarebbe stato il pedaggio da pagare stando con me. Ci fermammo ad una tienda che disponeva di tavolini  e sedie protetti dal sole grazie a degli ombrelloni dall'equilibrio precario. Davanti ad una cerveza e al solito succo di mango chiese del perché di quel suo ombroso modo di fare. "Mi stanno tutti sul cazzo!" rispose. "Ma perché? In fondo stanno cercando di guadagnare qualche dollaro..." replicai.

"Quelli ti tirano anche le maledizioni -fece lei seriamente- Sai cosa mi dicevano? Di aiutarli a farti spendere qualche soldo perché, in fondo, io ero come loro e che quando tu sarai ripartito, sarò costretta a fare come loro...stando senza dollari a sbattermi per trovare il sistema per mangiare". Pensai a quello che mi aveva detto "Ma che c'entrano le maledizioni delle quali parli?" Lei cercò un gomma da masticare nella sua borsetta e aggiunse "Perché a Cuba c'è la Santeria. Sono pratiche magiche che possono essere buone oppure cattive. A Santiago le fanno bene...io lo so".  Continuò a sorseggiare il suo mangojuice dalla cannuccia di plastica senza distogliere il suo sguardo da me. "Non ci credi? Anch'io ti ho fatto fare una santeria. Per farti innamorare di me e, infatti, sei tornato a Cuba, adesso". Scossi la testa dimostrandole così che non credevo a quelle cose e ai suoi riti. "Sono qui per mia scelta e non perché qualche stregone mi ha costretto a tornare -dissi-. Ti amo perché mi piaci e perché l'amore non ha spiegazioni logiche, altro che pratiche magiche....". "Vuoi assistere ad un rito?" chiese posando la lattina ormai vuota sopra al minuscolo tavolino di formica. "Non saprei...non sono molto attirato" risposi. "Entonces, tieni miedo" disse ridendo fragorosamente.  "Ma quale paura...solo che non ci credo. Potrei anche assistere a questa cerimonia, solo per dimostrarti che non ci credo. Adesso torniamo alla macchina" chiusi deciso. Raggiungemmo Francisco che stava frugando dentro al cofano dell'auto. "Problemi?" chiesi quasi irretito dalla conversazione precedente. "No problem -risposte in inglese- Donde vamos?" chiese gentilmente. "Bodeguita del Medio e poi in giro per l'Avana. Cerca un ristorante dove poter mangiare qualcosa, ok?".

Non percorremmo molta strada perché stavamo già nella città vecchia. Proseguimmo a piedi fino alla Plaza de la Catedral, dov'era situato un animatissimo mercatino a favore dei pepes di turno. Decine di bancarelle esibivano ai turisti, souvenir e prodotti dell'artigianato locale in una confusione di voci e rumori indecifrabili dove spuntavano dialetti di tutto il mondo. Gruppi di stranieri, condotti in pullman fino al vicino parcheggio, fotografando e filmando, cercavano di aprirsi dei varchi attraverso i quali passare per giungere alla BdM, il celebre bar ristorante che era stato un punto di incontro di artisti e gente famosa.

Hemingway, che era solito bere il suo mojito alla Bodeguita, era stato l'ultimo grande rappresentante di quell'intelligenza mondiale ormai introvabile nel paese del comunismo reale. Della vecchia Bodeguita restava il nome, la Calle Emperado 27, le scritte graffite sui muri del locale, una icona turistica e turisti vuoto a perdere. Rifiutai di entrarci dentro quale 'tappa obbligata' e decisi di rimanere ancora un pò a ciondolare tra le bancarelle della piazza. Fidelia mi prese lievemente la mano e seguì docilmente il mio galleggiare nel colore locale. Ci soffermammo davanti ad una bancarella che vendeva alcune sculture riproducenti le case ed i palazzi dell'Avana Vieja. In scala ridotta, l'artista, aveva realizzato dei piccoli capolavori di scenografia tridimensionale che ritraevano le parti più interessanti dei più bei scorci architettonici della vecchia città. Per 30 dollari, divenni proprietario di un angolo del Malecòn in miniatura.  Lentamente raggiungemmo la macchina, facendoci largo tra la folla devastante che continuava a riversarsi nel Barrio. Francisco ci condusse in un ristorante del quartiere cinese, anche se definirlo quartiere era una esagerazione. Si trattava, infatti, di due vie vicine al Capitolio Nacional, la Calle Zanja e la Calle Rayo, che costituivano il punto di riferimento di quasi duemila cinesi che vivevano all'Avana. Davanti ad un piatto di insipidi involtini primavera e maialino in agrodolce, stavo riflettendo sulla eccentricità di quella città che avevo iniziato ad amare prima di conoscerla. Fidelia mi strappò dai miei pensieri. "Non ero mai stata in un ristorante cinese". 

"Ti piace la cucina?" le chiesi. "Non so...basta che riempio la mia pancia anche oggi anche se non sono abituata a questi sapori. Però sono contenta di stare insieme a te".

"Fidelia -dissi- lo sai che ho atteso questi momenti per tutto il tempo che mi ha diviso da te? A Milano non facevo altro che pensarti sempre. In ogni cosa che facevo, c'eri tu, ad attendermi".

Mi fissò compiaciuta. "Non so se hai conosciuto a Varadero, quell'italiano...Pierluigi -continuai-. Beh, lui è uno che conosce molto bene Cuba perché ci viene spesso da tanti anni. L'ho incontrato a Milano e ci siamo visti spesso. Solo con lui riuscivo a stare a mio agio, perché potevo sfogarmi e sapevo, in cuor mio, che lui capiva i miei pensieri". Mi accesi una sigaretta ed aspirai avidamente come per cercare una giusta concentrazione. "E' stato difficile vivere di ricordi e di speranze. In Italia mi sentivo fuori posto, come dissociato...capisci?". Lei, continuava a mangiare l'intruglio cinese e rialzando la testa rispose "Non ti capisco bene ma l'importante è che tu mi ami. Mi ami veramente?" aggiunse per avere conferma.

"Hai dei dubbi?" avanzai.

"Tu, in Italia hai molte donne ed io sono gelosa" replicò vezzosamente.

"Invece, non ho nessuna -risposi-. Ti ho pensato spesso ed è per questo che sono ritornato: per conoscerti meglio, perché vorrei stare insieme a te".

Miagolò la sua soddisfazione meglio che poteva, addolcendo ancor di più, il suo sguardo languido. "Non voglio più andare con i turisti. Solo con te sto veramente bene e mi sento vera. Quando conosco ragazzi stranieri, devo sempre fingerli di amarli per avere quello che mi interessa" ammise tristemente.

"Ma perché non abbandoni questa vita?".

La mia domanda non rimase vuota e spiegò. "Vedi, Claudio. Io, al mio paese, sono povera e non posso permettermi nulla. Niente vestiti e niente divertimenti. Nada de nada. Ma ciò che è tremendo è che non c'è nulla da mangiare. La libreta non riesce a coprire i bisogni reali e ci si deve arrangiare come si può. Per questo ho iniziato a frequentare i turisti. Solo grazie a loro riesco a guadagnare dollari e vestiti, oltre ad approfittare dei divertimenti che mi offrono. E una volta che inizi la vita da jinetera, non è facile staccarsene, perché i vantaggi sino tanti per chi non ha niente".

"Come fai a pensare che io sia diverso dagli altri turisti?" le chiesi curioso.

"Tu cerchi di capire noi cubani. Poi, non ti sei approfittato di questa situazione e questo già te l' ho detto a Varadero. Il fatto che tu sia ritornato dopo breve tempo, significa che ho ragione". Sentivo che stava sgranando tutto il suo miglior repertorio al fine di convincermi della sua sincerità, ma percepivo una stonatura che non sapevo decifrare. Sorvolai sull'indagare quel senso di vuoto che avevo provato nell'assimilare quella sua ultima frase, preferendo cambiare discorso. 

"Cosa vuoi fare stasera?" domandai.

"Possiamo andare a ballare, se vuoi" rispose, conoscendo in anticipo la mia risposta.

Finimmo di pranzare velocemente dentro il locale deserto, segno inequivocabile che i cubani non potevano permettersi neanche una piccolissima distrazione. Uscimmo dal ristorante raggiungendo un Francisco a guardia della sua macchina. Lasciammo il Barrio, passando questa volta per il Capitolio e, subito dopo, per Plaza de la Revolucion. 

Passeggiando tra i giardini quasi sterili di quel luogo, mi venivano in mente le adunate oceaniche che erano solite svolgersi nelle occasioni politiche più importanti. Il grande ritratto del Che emergeva dalla parete di un palazzo, accompagnando l'ideologia del comunismo cubano anche a distanza di tanti anni dalla sua morte. Quante illusioni nate e svanite nel corso di qualche decennio. QUante persone immolatesi nel nome di una causa che non era riuscita a realizzare i suoi propositi. Fidelia, come al solito, mi riportò alla realtà.

"Andiamo al Mirador?".

"Cos'é?" chiesi non ricordandomi nulla delle guide turistiche lette a Milano.

"Lo vedrai tra poco. Ritorniamo alla macchina".

Dopo aver percorso nuovamente il Malecòn, Francisco ci accompagnò al Mirador. Si trattava semplicemente del Castillo de los Tres Reyes del Morro, costruito nel 1600 su progetto dell'italiano Antonelli. Si trovava sulla punta della riva orientale del canale del porto, ed era stata considerata, secoli addietro, una delle fortezze più temibili di tutto il Mar dei Caraibi. Dal cortile antistante il Castello, si godeva una superba vista della città dell'Avana, in cui si evidenziava il prospiciente lungomare, il canale del porto e i grattacieli che si stagliavano alti nel cielo, staccandosi prepotentemente dai vicoli del Barrio.

"E' bellissima" dissi convinto.

"E' poverissima" rispose pragmatica Fidelia.

"Tutta Cuba è poverissima" aggiunsi.

"Tutta colpa del Bloqueo  e dei gringos" replicò severamente.

Ci abbracciammo come se, con quel nostro gesto, potevamo esorcizzare tutte le paure ed i sogni irrealizzati del popolo cubano. Francisco ci ricondusse a Calle 38, davanti alla casa di Juliet dopo aver incassato i dollari pattuiti per il servizio di taxi e ricandidandosi in caso di una nostra nuova necessità. Ci salutammo cordialmente certi di rivederlo nuovamente ad armeggiare dentro il cofano della sua macchina dalle parti della Calle. Juliet ci venne incontro sempre sfoggiando il vestitino a fiori stampati e ci salutò calorosamente. Ernestito stazionava in soggiorno a guardare la televisione. In casa aleggiava un forte odore di cucina ma Fidelia mi spinse su per le scale imboccando decisamente la porta della nostra stanza.

"Finalmente soli" disse.

"Stanca?" domandai.

"Un poco...vado a farmi una doccia ma non andartene" e sparì con il mio asciugamano da bagno portandosi appresso anche la mia camicia pulita. Guardai attraverso la finestra. La strada era piena di animazione. Oltre alla gente che passava, notai un gruppetti di ragazzi che stavano seduti su di un muricciolo ascoltando musiche salsa da un voluminoso radioregistratore. Non erano poi tanto diversi dai loro coetanei neri americani che si potevano trovare nel Bronx o a Venice a ballare hip op o rap. Alcune vecchie auto attraversavano di tanto in tanto il mio sguardo, oltrepassando biciclette che, abbastanza numerose, erano considerate il più popolare mezzo di trasporto dopo i piedi. Con una trentina di dollari, una pesante bicicletta cinese poteva cambiare proprietario ma questi, doveva custodirla e proteggerla come un bene prezioso, dagli innumerevoli ladri che imperversavano nell'isola. Il bisogno di mangiare e l'esigenza del sopravvivere quotidiano, accompagnata dalla civetteria di possedere qualcosa di superfluo, aveva indotto molti ragazzi 'svegli', a rischiare anni di carcere durissimo, tentando furti non solo a discapito di turisti ma anche degli stessi connazionali. Per questo, ogni abitazione, era dotata di inferriate alle porte ed alle finestre per essere meglio difesa da quella che stava diventando una piaga certa, frutto del malessere cubano. Ovviamente, in tutti gli alberghi, funzionava un rigido servizio di sicurezza che interdiva, di fatto, l'accesso nelle aree di proprietà dell'albergo a tutti i cubani che non faceva parte dello staff di servizio. Questo per evitare episodi di furto che potevano limitare l'immagine di isola felice e sicura che doveva essere esportata all'estero dai turisti che avevano soggiornato nella Patria del Caribe.

"Ay mio amor..."gridò Fidelia rientrando in camera. Era appena uscita dalla doccia, avvolta nell'asciugamano bianco che le copriva, solo parzialmente, il corpo ancora umido. Le trecce dei suoi capelli gocciolanti, le scivolavano davanti agli occhi, nascondendo uno sguardo assassino che indicava chiaramente le sue intenzioni. Con mosse calibrate, come imitando una top model, guadagnò il letto sul quale si stese, rimanendo però protetta dal telo di spugna. La raggiunsi e mi misi a scartare l'insolito involucro con la stessa voluttà con la quale un bambino scarta la sua caramella preferita. Era bellissima. La dolcezza del mio amore si impadronì di lei che, pure vogliosa, giocava a fare resistenza di fronte alle mie carezze. Poi, tutto scomparve: i rumori della strada, la musica che si diffondeva dalla radio, lo spignattare che saliva dalla cucina, le considerazioni vuoto a perdere che mi avevano tenuto compagnia fino ad allora. Il vortice di emozioni che stavo vivendo, cancellò proprio tutto, lasciando  nitido solo lei: il suo corpo, il suo profumo animalesco, il suo essere.

Alla fine dell'amplesso dove non vi erano stati vincitori e vinti, accesi l'ennesima sigaretta della giornata con la quale mi divertii a fare anelli di fumo.

"Sto proprio bene con te" le sussurrai all'orecchio.

"Anch'io, amore mio" rispose con un filo di voce roca.

Guardai l'ora pensando che a Milano, in quel preciso istante, la gente stava affannandosi dentro al metrò, nelle strade trafficate di lamiere, in fila agli sportelli delle banche e degli uffici postali, svincolando sotto il magma di smog ed inquinamento che permeava costantemente la città della Madonnina. Quanto era distante quella cappa plumbea dal sole ormai tramontato di quell'isola tropicale. Eppure, Cuba non aveva la bellezza esotica delle Seychelles o delle Maldive, non ostentava quella ricchezza sfrenata della Bahamas o delle altre isole delle Antille. Il mare, seppur turchese e cristallino, era da considerarsi quasi 'normale' paragonato a quello incredibile della Polinesia. Eppure, quell'isola aveva il suo particolare fascino che la rendeva unica e preziosa.

Un rumore di passi interruppe i miei pensieri.

Juliet bussò alla porta che aprì senza attendere risposta.

"Ay Fidelia. Que pasa?" domandò  però guardando me e non la nipote.

"Cazzo, zia -rispose scocciata Fidelia- Eres loca?".

"No. Tiengo hambre, Fidelita. No puedo esperarte por toda la vida y tambien Claudio tiene hambre" replicò.

Fidelia le lanciò uno sguardo di fuoco.

"Che c'entro io?" dissi per evitare l'inizio di una disputa tutta in famiglia nella quale mi sentivo come un osso tra due cani.

Fidelia rispose "La zia dice che tu hai fame perché pure lei ha fame. Quindi, è venuta a dirci di scendere così lei può mangiare. Non ha capito che tu hai pagato e quindi sei tu che decidi quando e cosa fare. Poi, mi sta sul cazzo perché ti guarda troppo".

"Non litigate. Poi -aggiunsi- io non comando proprio niente. Ho pagato per avere un servizio ma non per rendere le persone schiave di obbedire ai miei comandi". Mi guardò con indignazione.

"Non hai capito nulla, pobrecito. A Cuba tu paghi e devi avere ciò per il quale hai pagato. La zia ha preso mille dollari per due settimane ed ha guadagnato tanto con questo negozio. Deve stare al nostro servizio perché così funziona qua e non si deve più permettere di decidere per noi".

"Ma dai...-dissi concludendo- In fondo è tua zia".

"Che cazzo me ne frega! -rispose con accento quasi romanesco- Se non la smette le riprendo i dollari e cerco un'altra casa". 

Juliet dopo aver seguito minuziosamente la nostra conversazione, richiuse la porta e se ne tornò in cucina. 

"Devi capire Claudio -disse calmandosi- che non siamo in Italia. Ci sono altre regole di vita che tu non conosci. Ti rispettano perché sei un turista ma si approfittando perché non sai ancora nulla. La gente, i cubani, si incazzano quando ti vedono insieme a me perché sanno che io ti proteggo da loro. Anche mia tia Juliet è una hjia de puta: quella, oltre ai soldi, ti vuole pure singare, l'ho capito, sai?".

"Fidelia, adesso calmati. Non roviniamo questi giorni che abbiamo aspettato così a lungo. Cerchiamo di essere più tolleranti, in fondo, non c'è niente di male. Altrimenti corriamo il rischio di incazzarsi su ogni cosa. Per me, l'importante è starti vicino....il resto non conta".

La bacia come per suggellare quella voglia di serenità di cui avevo bisogno e per chiudere definitivamente il suo sfogo.

Seguirono, uno dopo l'altro, giorni incantevoli. DI giorno, sfrugugliavo la città cercando di impossessarmi dei suoi piccoli mille segreti custoditi all'interno dei suoi quartieri. Tornai anche alla Bodeguida e, trovandola meno affollata, ne approfittai per bere un mojito decisamente annacquato e per apporre la mia firma sulle luride pareti. Visitai la Cattedrale dai due campanili che aveva ospitato le ceneri di Colombo e mi soffermai alle tre fortezze della città: la Fuerza, la Punta ed il famoso Morro che già conoscevo.  Ma era il susseguirsi di emozioni che traeva forza dalla gente dell'Avana Vieja a rendere i miei stimoli più netti. Vecchi dalla facce incartapecorite dal tempo, bambini alti meno di un metro giocosi tra le sudice strade, ragazze dal fare provocante alla ricerca del turista da catturare, ragazzi che si sbattevano per guadagnarsi l'oggi, incastrandosi tra i molteplici traffici illegali. Il tutto, era condito dall'architettura coloniale del quartiere e dalle vecchie automobili nordamericane di quasi mezzo secolo, parcheggiate nelle anguste viuzze. Ogni tanto si apriva una piazza coi suoi bei palazzi d'epoca, ospitante un vecchio Convento o una Chiesa del tempo che fu. E,  tra la sporcizia generata da un dignitoso ma inesorabile degrado, trovavano il loro spazio i venditori ambulanti di cultura, che proponevano sopra a delle minuscole bancarelle, libri di ogni tipo e foggia. Curiosando, si potevano trovare veri pezzi d'antiquariato, rappresentati da testi editi nell'Ottocento; gli stessi si confondevano con libri apparsi dopo la Rivoluzione da dove emergevano scritti di Castro e Guevara. Ma, insieme all'opera omnia di Martì e Neruda,  trovavi riviste sovietiche in puro cirillico confuse con le edizione degli anni '40 di Life.

Le sere passavano tra il dolce far nulla casalingo, magari seguendo alla televisione una telenovela messicana datata di vent'anni prima, oppure approfittando della conoscenza dei locali della città che aveva Francisco, andavamo in giro con lui a divertirsi tra salsa e merengue.

Juliet era restata al suo posto, pur tentando velatamente di farmi capire la sua piena disponibilità. A volte cercavo di capire il perché di quel mio unico atto di debolezza con lei, senza trovare alcuna giustificazione plausibile e la cosa, mi rendeva impotente nei confronti di quel mio gesto gratuito. Durante quel periodo, avevo conosciuto più a fondo Fidelia che mi seguitava a raccontarmi la sua battaglia quotidiana per rimediare beni introvabili e le varie vicissitudini che l'avevano accompagnata e la stavano ancora accompagnando, per svoltare la vita. Anche lei non si era potuta sottrarre al destino che accomunava circa undici milioni di cubani  nell'arte di arrangiarsi. I giovani godevano, però,  di migliori opportunità per emergere da quel magma di disperazione in quanto, avevano dalla loro, la vitalità propria della loro età e non avevano conosciuto il passato pre rivoluzionario. Le ragazze emigravano dai loro miseri paesi verso le più note località di villeggiatura che accoglievano, ogni anno, migliaia di turisti stranieri in cerca di esotiche emozioni. Da qui, il proliferare di quella filosofia di vita, definito jinetero, che relazionava gli autoctoni con i ricchi stranieri, ben felici di trovare una disponibilità a buon mercato.  Fidelia mi disse che, in un primo momento i jineteri, seppur illegali, erano tollerati dal regime castrista perché, attraverso il loro modo di relazionarsi con i turisti soddisfandoli nelle loro esigenze, causavano una buona cassa di risonanza a favore del turismo che vedeva, stagione dopo stagione, l'incremento dei visitatori che portavano preziosi dollari nelle magre casse dello stato.

Ma, con l'andare del tempo e come tutte le cose, l'effetto jineteros era degenerato a causa di una maggiore richiesta di turismo sessuale che aveva iniziato a crescere sulle spalle della disperazione. A volta non si trattava più di semplici prestazioni ma di vere e proprie aberrazioni. Era stato scoperto un giro di prostituzione minorile, un altro legato alla pornografia e, come ovvio, aveva iniziato a diffondersi la droga, importata da Santo Domingo e tagliata in casa.

Tutto questo, se non frenato in tempo, avrebbe avuto un effetto boomerang nata dalla delinquenza in crescente aumento e all'incontrollabilità di alcune situazioni che, certamente, non avrebbero generato buona pubblicità all'isola. Ma, non solo si doveva tutelare maggiormente il turista, iper proteggendolo da vari pericoli ma si doveva, nel contempo, eliminare quella piaga giovanile che, con l'andar del tempo, poteva diventare una minaccia per il regime che governava il paese. Erano, quindi, state emanate alcune leggi che, con ferma repressione, tendevano a far diminuire il fenomeno dei jineteri, ritenuti principali responsabili di quella situazione. Fermi e controlli iniziavano a stringere l'afflusso di ragazzi cubani provenienti dai loro paesi d'origine verso le località turistiche come, di contro, i jineteri già presenti dovevano essere molto prudenti nella loro condotta per evitare fogli di via che li avrebbero marcati a vita. Fidelia mi confessò di essere già stata fermata in differenti occasioni e che le sarebbe già stato intimato l'ordine di tornare al suo paese. Varadero stava cambiando proprio in virtù del giro di vite messo in atto dalla Fuerza Armata Revolucionaria e dalle varie istituzioni di controllo dell'ordine pubblico. I ragazzi che restavano, mi spiegò, erano abitanti regolari oppure jineteri confidenti della polizia.

"Capisci amore -disse- non potrò più andare a Varadero perché se mi fermassero, rischierei di andare in prigione. Così, dopo che tu sarai partito, sarò costretta a tornare a casa dai miei a Moròn".

"E cosa farai a casa?" chiesi sollevato dal fatto che avrebbe smesso la vita.

"La fame. Non c'è nulla da fare e non ci sono turisti. Mi alzerò la mattina tardi così ho meno tempo per sentire la fame. Poi mi metterò seduta fuori casa a sentire la radio e a litigare con mia mamma. Se ci sarà da magiare, mangerò...ma verso le cinque del pomeriggio perché così si divide la giornata in due parti e da noi si mangia solo una volta al giorno e sempre congrì. Poi chiacchiererò con le mie amiche fino a sera. Si guarda la televisione e si aspetta il sonno per andare a dormire e questo tutti i giorni allo stesso modo".

"Ma non puoi andare a lavorare? Ti passerebbe il tempo e guadagneresti soldi" le chiesi speranzoso.

"Per cinque dollari al mese e fare un culo così? No grazie, resto a dormire..." rispose.

Era la filosofia dei jineteri: guadagnare molto, spendendo tutto e subito e col minimo sforzo. Anche Fidelia non si staccava dall'ottica dell'abitudine, ormai radicata in lei, generata da anni di vita più o meno facile ma, indubbiamente priva di responsabilità, qual'era quella del jinetero.

"Cosa ti aspetti dalla vita?". Ci pensò un attimo e rispose "Che tu mi sposi e mi porti in Italia. Sarei felicissima di questo, ed anche mia madre".

"Perché -chiesi- conosce la nostra storia?"

"Certo, le dico sempre tutto. Quando telefonavi oppure arrivava una tua lettera...lei, però, mi dice che tu sei come gli altri: non mi vuoi bene e mi fai tante promesse che non manterrai". Mi prese in contropiede. Di promesse ne avevo fatte tante a Varadero ma non mi ero impegnato nello sposarla o nel portarla a vivere in Italia. Forse era vero quello che pensava sua madre, non ero dissimile da altri che erano stati con lei prima di me.

"Senti Fidelia. Non ti ho mai detto che ti avrei sposata ma non ho neppure detto il contrario. Adesso, però, ti faccio una promessa vera: ti porterò in Italia a stare qualche tempo con me. Ci conosceremo meglio e tu potrai vedere come si vive da noi...devi solo avere pazienza ma te lo giuro" dissi solennemente. I suoi occhi s'illuminarono di gioia mentre mi stringeva in un forte abbraccio dove potevo intuire tutta la sua infantile genuinità. Chissà quante altre volte si era trovata in quella stessa situazione. Chissà quanti sogni aveva riposti nel cassetto della sua illusione. Non dovevo deluderla, doveva realizzare il suo sogno.

La luna splendeva piena. L'alone pallido che la circondava, spargeva una fioca luce sulle tenebrose nuvole che la incorniciavano, creando un effetto tridimensionale delle stesse. Una polvere di stelle brillava disordinatamente nelle zone terse del cielo sopra noi.  Una brezza di un vento caldo scompigliava i nostri capelli che, fluttuavano nell'aria. Tutto appariva melanconicamente magico in quella notte habanera. In lontananza, solo un cane triste lanciava il suo disperato abbaiare. Alle quattro della mattina tutto era immobile e silenzioso. La folla quotidiana si era dissolta nel nulla lasciandoci padroni della città.

Noi, il nostro amore e L'Avana.

Tutto si fondeva meravigliosamente creando una atmosfera difficile da scordare.

Mi ero svegliato quasi di soprassalto poco prima, alzandomi dal letto dopo una incredibile serata di amore. Fidelia avevo seguito il mio peregrinare lungo le Calli del Vedado, fino a trovare una piazzetta dov'eravamo seduti a contemplare quel silenzio esclusivamente nostro.

"Chissà se a Milano, le notti sono così belle" mormorò.

Non valeva la pena spiegarle che in Italia era difficile vivere dei momenti così unici e pieni di poesia come quello che stavamo passando il quel preciso istante. Come poterle far capire la convulsità della nostra vita occidentale che ci separava sempre più  dai rapporti umani, dalle nostre radici esistenziali, dalla tranquillità di una vita serena senza traguardi da dover raggiungere, senza mete da conquistare man mano.

Non avrebbe mai infranto il suo sogno rappresentato dal benessere esibito da orde di turisti che sfoggiavano, magari in quell'unica settimana di vacanza trascorsa a Cuba, il frutto di undici mesi di risparmi strappati alla voracità delle bollette da pagare, delle tasse da evadere, degli aumenti di tutti i beni e servizi quotidiani. Come dirle che la maglietta di Benetton era indossata solo per dissetare quel narcisistico consumismo che la pubblicità opprimente alimentava in noi?

Era preferibile farla cullare nelle sue illusioni: le avrebbero reso la sua esistenza meno amara da vivere. Dolcemente le presi le mani snelle.

"Amore -dissi- con te sarebbe magnifico in qualsiasi parte della terra".

Rimase soddisfatta di quelle parole e posò la sua testolina sul mio petto. Scrutavo il cielo, ora illuminato da miliardi di astri. Le nuvole che prima oscuravano una parte della volta celeste, si erano dissolte come per incanto.

Cos'è una intuizione d'amore? Un attimo fuggente di armonia col creato ottenuta attraverso una bene quasi palpabile. Ma, in quel momento, volai in alto seguendo la poesia del  mio cuore.

"Guarda -dissi-. Osserva bene....la vedi quella stella là in alto?" e le indicai un puntino luminoso tra i tanti ma così luminoso che si staccava dagli altri.

Lei alzò lo sguardo seguendo la rotta indicata dal mio dito, poi annuì.

"Ora ti faccio un grande regalo....quella stella è tua, d'ora in poi. Ricordati che, in qualsiasi momento della tua vita che la guarderai, ed in qualsiasi parte della terra ti troverai, potrai dire a tutti che in una notte stellata, un uomo italiano l'ha donata a te e che questo tuo regalo, ti seguirà per tutta la vita".

Scoppiò in un sommesso pianto di gioia. Fra tutti i doni che aveva ricevuto, proprio quello meno concreto, meno utile, meno divertente, si era trasformato in un prezioso giuramento d'amore. Fidelia aveva capito cosa vibrava in me ed era commossa e felice allo stesso tempo come lo ero io. Si stava avvicinando il momento della mia partenza e durante quei giorni avevo capito quanto fosse importante per me quel rapporto nato all'ombra di un popolo fiero e cordiale. Ma cosa amavo? Fidelia, in quanto tale oppure solamente perché cubana? Non potevo districare quel groviglio di emozioni che formavano i miei sentimenti. Non vi era un confine delineato, tutto s'amalgamava insieme, non lasciando trasparire vie di distinzione tra i vari elementi che componevano quella sciarada. Avevo imparato molto dalle due settimane trascorse in una situazione quasi vera, non più da totale turista. In mezzo alla gente potevo scorgere la miseria prodotta da un embargo che non aveva simili nella storia recente dell'umanità. Questo piccolo paese in mezzo al mare, ancora spaventava il mondo del dollaro che continuava, con tutti i mezzi possibili, a combatterlo duramente per sopprimerlo definitivamente. Tutto questo mi appariva come inconcepibile e tutt'altro che dignitoso. E, in quell'impari lotta, soffriva un popolo intero che era arrivato alla fame pur di mantenere intatto il suo diritto  di sovrana indipendenza.

L'aeroporto era differente ma la storia si ripeteva con una più marcata intensità rispetto a quella già conosciuta a Varadero, la prima volta. Gli ultimi dollari avanzatimi erano passati nelle mani di Fidelia, nella speranza che potessero essere utilizzati per alleviarle, almeno per un pò, le sofferenze della grigia esistenza che l'attendeva. Anche questa volta avevo saccheggiato quasi interamente il mio bagaglio, regalando tutto quello che potevo a Ernestito, Juliet, Francisco e Fidelia. Tornavo con gli indirizzi di tutti loro ben scritti su di un minuscolo foglietto di carta ingiallita, con la promessa di spedire una cartolina ad ognuno di loro, al mio arrivo in Italia. Rimuginavo su Juliet e a come mi aveva baciato sulla bocca per augurarmi il buon viaggio, prima di lasciare la linda casetta che mi aveva ospitato. Così come mi capitava di pensare ad Ernestito e alla sua strana vita coniugale.

Mi rammaricavo, però, di non essere tornato da Mama Estrella, con la quale avrei voluto parlare ancora di Guevara e della Cuba eroica del dopo rivoluzione.

Molte cose errano rimaste dentro alla nicchia dei desideri ma il tempo trascorso all'Avana non era stato mal speso. Un pò più cubano nell'anima e con altre esperienze nello zaino, stavo rientrando nel mio mondo che mi stava già aspettando per rifagocitarmi nei suoi assurdi ingranaggi.

L'aereo bianco dalle lunghe strisce parallele gialle e rosse dell'Iberia era parcheggiato sulla pista in attesa del popolo dei vacanzieri. Lo potevamo guardare attraverso le grosse vetrate del bar del primo piano dell'aerostazione.  Il sole splendeva alto all'inizio di quel pomeriggio che mi vedeva partire dopo aver espletato le procedure di imbarco, ed io invidiavo chi era appena arrivato con il volo proveniente dall'Europa.

Fidelia aveva indossato un sobrio vestito verde smeraldo che ne risaltava le forme perfette. Era bellissima come sempre anche se, una tristezza evidente, ne imbronciava il candido viso di mulatta. Gli occhi spenti, gli angoli delle labbra abbassati, il suo fare taciturno: tutto contribuiva a quella sua tristezza che stonava col variopinto mondo che ci circondava.

"Mi telefonerai?" disse con un filo di voce.

"Stai tranquilla. Non posso più abbandonarti...lo sai, no?".

"Veramente mi inviterai in Italia?" continuò come per cercare il cordone ombelicale della sua speranza in me.

"Questa volta l'ho promesso, ricordi?" replicai.

L'altoparlante del 'Josè Martì' annunciò in spagnolo la chiamata all'imbarco per il mio volo, l'unico in partenza intercontinentale per quel giorno.

La baciai lungamente per avere il sapore della sua bocca dentro di me per tutto il viaggio, dopo di che m'affrettai al controllo passaporti.

L'omino con la divisa militare seduto dietro al box armeggiò col mio documento e con il visto, visibilmente soddisfatto del suo potere.

"Señor, tiene una novia aquì?" chiese.

"Non una novia -risposi- una mujer cubana".

"Pues entoces, hasta luego y buen viaje" aggiunse.

Restituendomi il documento non si accorse delle lacrime che segnavano il mio volto.

 

 

 
1. VARADERO 2. MILANO 3. L'AVANA 4. MILANO II
5. MORON 6. EUROPA 7. PLAYA DE L'ESTE 8. SOGNO INFRANTO

 

 

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