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La
lunga fila stava compostamente unita, in attesa di giungere fino al box
del controllo passaporti. Il caldo umido mi aveva colpito come un pugno,
durante il tragitto dal velivolo all'aerostazione, effettuato su di un
pullman che aveva visto giorni migliori. La prima cosa che mi colpì,
furono le grandi lettere che campeggiavano sull'edificio dell'aeroporto
e che formavano il nome dello stesso: Josè Martì. Per fortuna,
all'interno dello scalo, l'aria condizionata faceva il suo dovere
abbastanza bene regalando, così, un deciso sollievo. Dopo circa le
quindici ore passate tra aeroporti ed aeroplani, con le caviglie gonfie
a causa del ristagno del sangue, stavo per realizzare il mio sogno. Il
soldato del controllo passaporti rigirò diverse volte il mio documento,
osservando prima la foto e poi la mia persona, per passare
successivamente alla verifica della tarjeta del turista che era, in
fondo, la richiesta del visto di entrata. Alla fine, appose dei timbri
e, riconsegnandomi il tutto, mi augurò un felice soggiorno. Dopo aver
recuperato il bagaglio dall'unico nastro trasportatore in funzione e
aver negato di aver bisogno di albergo e taxi a delle gentilissime
hostess addette alla cura dei turisti in arrivo, varcai finalmente la
porta di uscita. Fuori, ad attendere chissà chi e chissà cosa, c'era una
variopinta folla di cubani che indagai con lo sguardo. Il caldo mi aveva
nuovamente assalito e mi ritrovai improvvisamente stanco e disorientato
quando, una vocina, s'alzò da un crocicchio di persone. "Claudio!".
Quando rividi Fidelia, confesso di essermi sentito appagato di quella
lunga parentesi di attesa che era trascorsa da Varadero all'Avana. Mi
corse incontro e mi abbracciò forte dandomi il suo benvenuto con un
bacio che aveva un sapore dolce e profumato.
"Sono
contenta che tu sei qui. Sai -confessò- fin quando non ti avrei visto
arrivare, non lo avrei creduto possibile il rivederti".
Sorriso per il suo italiano un pò comico e per la gioia che mi era
salita ascoltando le sue parole ma mantenei un briciolo di razionalità,
anche perché non vedevo l'ora di stendermi su di un letto a recuperare
le forze sciupate dalla stanchezza prodotta dalla posizione forzatamente
noiosa del volo.
"Prendiamo un taxi? Hai visto la casa di tua zia?" le chiesi.
"Il
taxi è fuori che ci aspetta. Lo avevo noleggiato prima, per arrivare
all'aeroporto ed ho chiesto al padrone di aspettarmi. Adesso andiamo al
Vedado da mia zia che ci porterà alla casa. SOno felice".
Seduto sul grande sedile posteriore di una Toyota decisamente nuova,
ammiravo tutto quanto potevo cogliere con lo sguardo. Le case, le vie
trafficate da biciclette e da motorini cinesi, da vecchie automobili
statunitensi e da massicci camion sovietici. Ma, soprattutto, guardavo
gli habaneri che si confondevano in modo omogeneo con l'architettura
che, spesso, avevo ammirato nelle foto delle guide turistiche e dei
libri che avevo letto a Milano. Fidelia tentò l'inizio di una
conversazione. "Com'è stato il volo? Che tempo faceva in Italia? Hai
mangiato?".
Estrassi dal pacchetto l'ultima sigaretta e l'accesi. "Il viaggio è
stato stancante. L'altra volta, quando venni a Varadero, ricordo che fu
più comodo, forse perché era un volo senza scali e cambi di aereo.
Stamattina, a Milano, faceva un freddo boia, altro che tropici...ma tu,
a proposito. Hai mangiato?". Scosse la testolina in segno di negazione e
aggiunse "No. Tiengo hambre".
"Ma
tua zia, quella che ci affitta la casa, ci può preparare qualcosa da
mangiare se le diamo i dollari?" chiesi.
"Certo, ma ci vorrà del tempo per fare la spesa e trovare tutto quello
che le chiederai...ma io ho fame adesso!".
"C'è
un chiosco dove poter mangiare qualcosa affinché ti passi questa fame?".
Senza rispondermi, chiese all'autista di fermarsi davanti ad uno dei
pochi chioschi dove si poteva mangiare hamburger e hot dog. La macchina
deviò dolcemente sulla destra ed imboccò il tunnel che ci conduceva
all'inizio del Malecòn, il lungomare dell'Avana. Due ragazzini stavano
giocando con delle camere d'aria gonfiate all'inverosimile che avrebbero
usato come canotti e come oggetti da tirarsi addosso. La Toyota si fermò
sulla sinistra del Malecòn, lasciandoci liberi di attraversare la strada
per raggiungere la tienda che preparava spuntini veloci. Fidelia chiese
un paio di perro caliente ed un succo di mango gelato mentre io
continuavo a seguire con lo sguardo, quella banda di monelli svestiti
che pareva essere un equipaggio della Tortuga. Pagai con cinque dollari
senza aspettare il resto e generando, così, lo stupore e la
disapprovazione di Fidelia che, però, non disse nulla. Con la bustina di
plastica contenente i panini e la lattina di bibita, ci avviammo
lentamente al taxi che continuò la sua traversata per l'Avana.
Il
Vedado era uno dei quartieri della città. Una volta zona residenziale,
conservava ancora intatta la sua condizione architettonica che si
evidenziava attraverso i graziosi villini coloniali, tutti dotati di un
minuscolo patio adibito, per lo più, a garage di vecchie auto d'epoca. A
Calle 38 ci fermammo. Fidelia gridò qualcosa e subito si spalancò un
portoncino dal quale emerse una bella mulatta. "Questa è mia zia
Juliet" disse. La donna mi sorrise e di disse "Buenos Dìas senor. Todo
bien?". RImasi colpito dalla dolcezza del suo tono di voce e dalla
bellezza del suo corpo, cosa che Fidelia notò istantaneamente. "Ti piace
mia zia?" disse dandomi una gomitata all'altezza dello stomaco.
La
zia rise della scenetta di gelosia che era avvenuta davanti ai suoi
occhi "Està loca por ti. Tiene miedo de perderte, Claudio" e,
continuando a ridere, entrò in casa. Il conducente del taxi, scaricò i
bagagli dentro l'abitazione che sarebbe stata il nostro nido per quelle
due settimane. Si trattava del piano superiore del villino abitato da
Juliet e da suo marito, ed era composto da una grande camera da letto
dotata di un apparecchio di aria condizionata che avrebbe meglio
figurato in un negozio di modernariato dei Navigli; un bel bagno con
servizi completi ed un piccolo saloncino che completava l'aerea
abitativa. Tutte le finestre erano saldamente impreziosite da artistiche
inferriate costruite con tondino di ferro dipinto di un passato verde
oliva.
"Te
gusta?". Guardai Fidelia, rendendomi conto che, fino ad allora non
l'avevo osservata attentamente. Ma a causa della stanchezza e
dell'eccitazione di essere nuovamente a Cuba, mi era sfuggito il suo
abbigliamento e quella sua bellezza che avevo tanto smarrito in Italia.
Gli hot pant bianchi che indossava, le risaltavano le perfette forme del
sedere e dell'incavo anteriore del bacino; così com'era, la stretta
maglietta di cotone elasticizzato, le evidenziava il seno eretto e ben
proporzionato. Il suo volto era delicato nonostante un trucco pesante
che lo dipingeva e la pelle ricordava quella della pesca vellutata.
"Ti
ho sempre pensata -le dissi- ed ora ti ho qui vicino...". La baciai
teneramente pensando a quanto sarebbe stato bello fare l'amore in quel
preciso momento. Discretamente, Juliet bussò alla nostra porta..."Ola...Julieta
y Romeo" disse.
"Cazzo,
che rompipalle mia zia...Que pasaaaa!" gridò quasi infuriata
all'indirizzo della porta chiusa.
Seguì
una animata conversazione tra le due, che non potei afferrare e, quindi,
iniziai a disfare le valige.
"Claudio -fece Fidelia- ha detto mia zia sei vuoi mangiare aragosta o
pescado...poi chiede se gli puoi dare i soldi, così può comprare quello
di cui c'è bisogno...Dai, deciditi, così se ne va subito".
Volsi
lo sguardo verso la stecca di sigarette che doveva ancora essere aperta.
"Allora, da quello che mi hai detto sono trenta dollari al giorno per la
casa, quindi un totale di 450 per quindici giorni. Poi, altri venti per
colazione e cena per noi due...altri 300 dollari. Ecco questi sono
mille dollari -dissi allungandole 10 pezzi da 100 dollari ognuno- dalli
a Juliet, per pagarsi l'affitto e i nostri pranzi. Con il resto dille di
comprare bibite, birre, rum...insomma, quello che vuole". Il danaro
passò da una mano all'altra, con enorme soddisfazione delle due donne
che avevano, momentaneamente, risolto il l oro problema economico. Colsi
uno sguardo torbido negli occhi di Juliet accompagnato da una smorfia
che fece non vista da Fidelia. Tutto ciò mi portò alla mente il romano
conosciuto a Varadero che, in una situazione del genere, si sarebbe
sollazzato con zia e nipote. Juliet uscì, lasciandoci nuovamente soli.
Fidelia ne approfittò per chiudere le assicelle che facevano parte delle
persiane della finestra della camera da letto in modo da nasconderci
dalla vista di qualche curioso. Subito dopo si gettò sul letto restando
in attesa della mia reazione.
"Fidelia, ho voglia di fare l'amore con te...ma, adesso, devo darti
tutte le cose che ti ho portato dall'Italia" e così dicendo, posai sul
letto il borsone da viaggio contenente i suoi regali. "Dai...su, dammi
tutto!" implorò scherzosa. Iniziò a frugare tra pacchi e involucri,
scartandoli uno ad uno e, ogni tanto, alzava un gridolino di
soddisfazione e di compiacimento. Quando vide il bambolotto, si animò
ulteriormente. Era una bambola verosimile nelle dimensioni e nella
foggia, ad un neonato,per cui, il suo stupore aumentò a dismisura,
nell'osservare a che tipo di giocattoli potevano esistere al di fuori di
Cuba.
"Ma...è
un nino vero!" esclamò con un filo di voce mentre lo cullava come se
fosse suo figlio.
"Guarda...se premi sulla pancia, ti parla" le spiegai.
Iniziò la tortura che si protrasse per almeno una buona mezz'ora. Si
divertiva a pigiare in continuazione la superficie anteriore del pupazzo
e questo, a sua volta, attraverso un micro disco di plastica collegato
ad un minuscolo altoparlante, emetteva parole del tipo 'mamma-papà'. Era
così entusiasta di questa scoperta che si dimenticò di mangiare i due
panini che aveva comprato al Malecòn. Ne approfittai per finire di
svuotare le valige e per farmi una doccia ristoratrice. Poi, mi misi in
libertà, sostituendo ai jeans e camicia, pantaloncini e maglietta.
Fidelia accese la piccola radio che era appoggiata sul comodino ed
accennò a dei passi di danza seguendo il ritmo della musica salsa che si
alzava nell'aria.
"Claudio -gridò- te quiero mucho amorcito" e si rituffò sopra al letto
raggiungendomi. Non accusavo più quel senso di torpore che avevo provato
fino allora. La voglia di possederla con tutte le mie forze si era
sostituita alla stanchezza prodotta dal viaggio e dalla tensione nervosa
che lo aveva accompagnato. Il bolerino volò e cadde per terra, a fianco
dei pantaloncini che si era già tolta, rimanendo coperta solo da un
minuscolo tanga viola. Le sue unghie scoprirono man mano, il mio corpo,
lasciando inciso un leggero sentiero rossastro, unico testimone del loro
passaggio. Acuti brividi percorsero parallelamente i miei centri nervosi
mentre raggiunsi uno stato estatico. Le sue labbra iniziarono ad
esplorare tutti i miei punti sensibili, provocandomi l'aumento della
pressione sanguigna che batteva sulle tempie. Non riuscivo controllare
il mio stato d'animo e mi tornò in mente il fatto che erano mesi che non
facevo più l'amore. L'ultima volta era stata proprio con lei a Varadero.
Non che le avessi giurato fedeltà ma, a Milano, non ero riuscito a
sintonizzarmi più con le ragazze con le quali abitualmente uscivo.
Ora,
ero nudo e disteso sul quell'angolo di nuvola, con a fianco una
bellissima ragazza cubana che diceva di amarmi e con una
incontrollabile voglia di fare sesso. Mille perline di sudore
incollavano ancor di più i nostri corpi avvinghiati in una ferrea morsa
di piacere, mentre i raggi del sole, stavano lentamente calando, creando
cupe zone d'ombra che oscuravano teatralmente la stanza. Come già
avvenuto a Varadero, scoprii un clima selvaggio che prevalse sulla
dolcezza dei primi momenti d'amore. In un caleidoscopio di sensazioni,
un vortice d'emozioni e voglie represse, prese il sopravvento.
Ritmicamente, la nostra danza iniziò dapprima in modo sincopato, per poi
tramutarsi in un qualcosa che sfuggiva all'immaginazione dei più. Era il
completamento di un sentimento che avevo cullato e nutrito per mesi,
fino a farlo crescere parallelo alla voglia che avevo di lei. Le sue
lunghe gambe di gazzella si incrociavano alle mie, stringendosi sempre
più, mentre corpi ebbri, godevano degli ultimi fremiti della loro voglia
di essere un unica persona. Alla fine, mi smarrii accanto a lei. La
stanchezza s'impossessò di me e scivolai in un sonno profondo.
Quando mi sveglia, Fidelia non era più al mio fianco. Il lenzuolo
copriva a malapena il mio corpo nudo e, senza vergogna, vidi che la
porta della camera era aperta. Mi stropicciai gli occhi che mi
bruciavano e sapevo di non avere un bell'aspetto. Presi dal comodino il
pacchetto di sigarette e ne accesi una, cercando di indovinare che ora
fosse. Dal di fuori, a parte il buio che aveva finito di avvolgere
tutte le cose, si sentivano rumori di voci e suoni lontani, provenire da
balconi e radio accese a tutto volume. Mi stiracchiai indeciso sul da
farsi, ipotizzando il fatto che Fidelia fosse scesa dalla zia per
mangiare qualcosa, oppure...ma le congetture s'infransero quando entrò
Juliet.
"Holla
Claudio...te gusta La Habana?" disse avvicinandosi senza dar troppo
rilievo alla mia nudità affatto celata dal lenzuolo.
"Credo di si, anche se ancora non ho avuto modo di vedere bene la
città...E Fidelia?" dissi molto imbarazzato, cercando di evidenziare,
forse inconsciamente, il fatto che se io mi trovavo li, in quel momento,
ero per via della nipote.
Juliet sorrise e si sedette sul bordo del letto prendendomi la sigaretta
che stavo fumando e tirando un paio di boccate.
"Fidelia està hoy con mi hombre para buscar el pescado...cayate!" disse
restituendomi la cicca ormai timbrata dal suo rossetto.
"Parli italiano?" le chiesi.
"No
mucho...ma te intiendo sin problema. Tieni miedo de mi?" domandò
avvicinandosi ancor di più. "No, ma sei una bella donna e non vorrei
dare un dispiacere a Fidelia" risposi.
"Dispiacere?" rimarcò dubbiosa sul significato di tale parola.
"Dolor", precisai.
"Ay,
dolor..." e sorrise avvicinandosi alle mie labbra.
Juliet era provocante e quel breve sonno aveva ritemprato le mie forze e
la mia voglia. Non era giusto tradire Fidelia e stavo approfittando
della situazione. Era solo una casualità alla quale non mi andava di
rinunciarci, ma mi rendevo conto che non stavo pensando con la testa ma
con il mio pisello."Cosa vuoi da me?" chiesi senza troppa convinzione
solo per cercarmi una futura giustificazione.
"Hacer
l'amor. Me gusti mucho Claudio". Juliet si sfilò il vestitino colorato
restando nuda. Con stupore vidi che non indossava neanche le mutandine.
Il suo corpo era perfetto, impreziosito da quella bellezza che solo chi
ha passato i trent'anni può avere. Era un frutto arrivato alla sua
giusta maturazione, quello che stavo per assaporare. L'amplesso, questa
volta, sembrò prolungarsi in eterno. L'esperienza di Juliet, coniugata
con una mia più calibrata voglia di autocontrollo, impreziosì quell'atto
sessuale senza amore, valorizzandone tutti i suoi momenti. Finimmo per
divorarci a vicenda mentre, pensavo, che non mi ero discostato troppo
dal ruolo del turista incapace di chiudere in un angolo, il proprio
egoismo.
Così
com'era arrivata, Juliet se ne andò, lasciando la porta semichiusa e i
miei pensieri liberi di vagare nell'aria. Ci trovammo quella sera
riuniti intorno alla tavola apparecchiata. Juliet, sempre vestita con
l'abitino stampato, era seduta acconto al marito Ernestito, un esile
cubano nero come il carbone che proveniva da Baracoa. Fidelia, invece,
si era accomodata vicino a me, felice di trovarsi dinnanzi ad una teoria
di piatti precedentemente cucinati dalla zia. Ernestito mangiava in
silenzio mentre le due donne chiacchieravano tra loro, alzando di tanto
in tanto, il tono della voce, mentre mi lanciavano, ambedue, furtivi
sguardi. Non sapevo se Fidelia si fosse accorta di quello che c'era
stato tra Juliet e me, ad ogni buon conto, mi sforzai ad apparire
normale.
"Te
gusta el pescado?" chiese Fidelia cercando una improbabile
conversazione.
"Decisamente buono. Fai i miei complimenti a tua zia, cucina proprio
bene" risposi.
"Diglielo tu, visto che ti piace tanto..." replicò con una punta di
acidità.
"Perché mi dici questo?" replicai lapidario. Non mi rispose
riservandosi, forse, di ritornare sull'argomento in altra sede. Juliet
riportò in cucina gli avanzi che, certamente, non sarebbero andati
sprecati e tornò con quattro tazzine piene di fumante caffè. Ernestito
si accese una popular senza filtro e accennò ad imbastire una
conversazione. "Claudio, de donde eres tu?".
"Milano"
risposi amaramente, pensando a quanto mi sarebbe piaciuto scegliere una
città differente, una vita diversa. "Ay, me gusto mucho la Italia...pizza,
spaghetti, Benetton..." continuò Ernestito, evidenziando oltre ai soliti
luoghi comuni che accompagnano l'Italia all'estero, anche un inaspettato
consumismo senza frontiere. "Non è tutto bello come credi" ma decisi di
troncare la conversazione, ero troppo stanco per discutere con un cubano
pieno di sogni ed illusioni.
"Sei
stanco?" disse Fidelia correndo in mio aiuto. "Si. E' stata una lunga
giornata e sono circa venti ore che non dormo. Penso che sia il caso di
andare a riposare. Se tu vuoi -continuai- puoi restare con loro".
"Sei
loco? Vengo con te...ma a letto, non a dormire" e s'alzò dalla sedia
prendendomi la mano per condurmi docilmente in camera.
Spendi la luce del minuscolo abat-jour ed accesi la radiolina,
abbassando il volume. Stavano trasmettendo vecchie arie di mambo famose
negli anni cinquanta: gli anni d'oro del Tropicana, della dittatura di
Batista e di quel casinò caraibico degli Stati Uniti che era, allora,
Cuba. I nostri corpi si avvicinarono al buoi ma ero troppo stanco per un
nuovo atto d'amore e mi addormentai dolcemente.
Il
canto stridulo di uno striminzito galletto mi svegliò. Al mio fianco
trovai una Fidelia vestita di sola pelle che continuava a dormire. La
luce filtrava dalle asticelle di legno della finestra, giocando a fare
capolino con le ultime ombre della notte. Percepii dei rumori
provenienti dalla cucina e pensai che Juliet era indaffarata a preparare
la colazione. Mi stiracchiai mentre, ormai sveglio, stavo accingendomi a
farmi una doccia. Come percorsa da un brivido, Fidelia spalancò le sue
lunghe ciglia nere e, con un filo di voce roca, mi offrì il suo
buongiorno.
"Buongiorno amore. Dove vai?" mi disse ma, vedendomi indirizzato verso
la porta del bagno, si rinfrancò, avviluppandosi dentro il lenzuola per
trovare un pò di calore. Rinchiusi delicatamente la porta della camera
ma, prima di entrare nella stanza da bagno, la curiosità mi portò a
gettare una occhiata attraverso la finestra che dava sul cortiletto
interno della casa. Juliet andava e veniva tra la cucina ed il piccolo
patio, dov'era sistemato un armadio dal quale prendeva stoviglie e
pentolini vari. Non capii come ma si accorse della mia presenza ed alzò
lo sguardo al mio indirizzo, poi aprì uno smagliante sorriso e disse "Bueno
Claudio. Quieres café?". Scesi le scale e mi ritrovai seduto su di una
specie di sediolo in cucina. Juliet mi porse una tazza allungandomi con
l'altra mano, il barattolo dello zucchero grezzo.
"Ernestito
dorme?" le domandai.
"No.
Cada dìa se va a trabajar muy pronto" ammiccò maliziosa. Bevvi il caffè
con gusto anche se lo trovavo più leggero ed acquoso di quello che
solitamente bevevo in Italia. "Muchas gracias por el café" le dissi
posando la tazzina sopra al tavolino di formica celeste. S'avvicinò
repentinamente e mi abbracciò, cercando di baciarmi senza preavviso.
Riuscii a malapena a liberarmi dai suoi tentacoli, avendo realizzato
che, al piano di sopra, Fidelia stava nel frattempo, uscendo dalla
camera.
"Despues
quiero restar sola con tigo" sussurrò Juliet allontanandosi come se
nulla fosse accaduto e continuando a sfaccendare tra pentole e tegami.
Guadagni le scale in tempo per vedere Fidelia uscire dal bagno e
rientrare in camera. "Ola chica" le dissi raggiungendola. "Ciao, mio
amor" rispose. "Oggi, voglio andare a vedere la città. Ti va?" le
chiesi. Lei si rituffò nel letto e riaccese la radiolina. "Stai attento
a tia Juliet" disse seria "E' malata".
"Come
malata?" chiesi preoccupato. Emise un sospiro di commiserazione. "Deve
fare l'amore più volte al giorno...non importa con chi, ma deve. Ne ha
bisogno". Mi avvicinai. "E' ninfomane?" chiesi. "Non so come si dice in
italiano. Ernestito non è suo marito ma un amante che ha trovato qualche
tempo fa. Lui non le dice niente perché gli fa comodo essere ospitato da
lei, ma tia Juliet continua ad avere altre avventure, quando Ernestito
non c'è. Sicuramente vuole farlo anche con te...anche se sa che io sono
muy gelosa" replicò. Rimasi a riflettere. Era allora questo il perché si
fosse intrufolata nella mia intimità, la sera prima. Sicuramente avrebbe
continuato la sua relazione clandestina durante tutto il mio soggiorno
da lei. Decisi di interrompere subito qualsiasi rapporto che non fosse
improntato sulla base di semplice cortesia: era troppo pericoloso quel
gioco, avrei potuto perdere Fidelia. Dirottai il discorso sul cosa
avremmo veduto in quella mia prima giornata habanera. Poi, scendemmo per
fare colazione. Juliet aveva preparato il tavolo solo per noi due, segno
evidente che non voleva alimentare sospetti con la sua ingombrante
presenza. Discretamente servì caffè, pane imburrato, frullato di Mamei e
latte, omelette al lardo. Fidelia, come al solito, mangiava tutto con
ottimo appetito volgendo, di tanto, il suo sguardo su di me. Alla fine
del pasto, salì in camera a prendere il suo zainetto che aveva già
preparato in precedenza. "Eccomi, amor" squillò scendendo le scale.
"Come
ci muoviamo?". Rise a causa di quella mia sciocca domanda. Uscendo dal
portone, fummo inondati da un sole che, nonostante l'ora mattutina, già
scottava. Un gruppetto di ragazzi erano radunati intorno ad una
Cadillac Sedan del '57 color crema e volsero la loro attenzione su di
noi. "Taxiiii" urlò Fidelia. Un paio di loro s'avvicinarono a lei,
iniziando una fitta conversazione in cubano, gesticolando per meglio
capirsi. Poi Fidelia si ricolse a me "Vogliono 25 dollari per stare
tutto il giorno con noi. Ci portano a fare un giro per L'Avana. Ti sta
bene?". Senza attendere il mio parere, la Sedan mosse lentamente, fino a
raggiungerci. Il conducente, che era anche il proprietario dell'auto, si
chiamava Francisco. Dopo le scuole dell'obbligo aveva rinunciato a
frequentare l'Università per industriarsi, invece, a guadagnare dollari
come tassista abusivo. Non era dell'Avana ma di Campo Florido, una
minuscola località dell'entroterra, ubicata tra la capitale e Playa
dell'Este. Parlava un pò italiano, appreso dai turisti che scarrozzava,
ma non era di molte parole. Nonostante i suoi venticinque anni, appariva
maturo e riflessivo. Amava il baseball, le belle macchine e,
soprattutto, ballare. Tutto sommato era contento della vita che
conduceva, pur lamentandosi in modo velato, del regime castrista.
"Dove
andiamo?" domandò. "Vorrei fare una visita panoramica della città ma
poi, vorrei visitare il Museo della Rivoluzione e l'Avana vieja...decidi
tu, per il resto" dissi.
La
pachidermica vettura arrancava sulle strade mal asfaltate delle città
mostrando, in pieno, tutta la sua veneranda età. Imboccammo il Malecòn
che risultava essere il fulcro di qualsiasi tragitto stradale per
l'Avana quando, alla fine del lungomare, Francisco mi indicò con la mano
una costruzione. "Quello è l'Hotel Nacional. E' un albergo storico e
molto caro...adesso scendiamo per il Malecòn fino al Castillo de la
Punta e poi entriamo all'Avana vieja. Ti piacerà". Ammiravo la larga
via a quattro corsie che, ai tempi coloniali, era una discarica. Sapevo
che i lavori per la costruzione del lungomare erano terminati alla fine
degli anni '20. Ma restavo stregato dalle abitazioni che si affacciavano
davanti all'oceano. Case e costruzioni in stile coloniale, risalenti al
secolo scorso, mal conservavano i loro originali colori che, però, si
facevano il largo tra crepe e macerie d'ogni tipo. Era un accostamento
di pastello celeste, giallo, rosa, ocra, verdino, bianco che,
straordinariamente, si miscelavano insieme in un voluto disordine
cromatico.Alcune case erano ancora abitate e lo si evinceva dei panni
stesi alle finestre ad asciugare o dalla gente affacciata a curiosare la
vita dai minuscoli balconi in ferro battuto. La via era popolata
soprattutto da persone che facevano l'autostop. Questo, a Cuba,
risultava essere un modo alternativo decisamente acquisito per
raggiungere la destinazione e, in particolare all'Avana, evitava di
utilizzare uno strano autobus pubblico, di color rosa, denominato 'cammello',
per via della sua forma oblunga e gibbosa. Francisco parcheggiò
l'ansante vettura quasi davanti al Museo de la Revolucìon dove erano
riuniti cimeli di tutte le guerre di indipendenza cubane. Oltrepassammo
la grande entrata e, dopo aver pagato l'ingresso, salimmo per la grande
scala ottocentesca che conduceva ai due piani soprastanti dove,
attraverso un percorso obbligato, si potevano scoprire vari momenti
storici dell'isola. Si partiva, come era ovvio, dalla scoperta di Cuba
da parte di Colombo e, di conseguenza, dalla feroce lotta di conquista
contro gli indios Siboneys e Tainos, gli abitanti autoctoni dell'isla.
In un susseguirsi di sale, incisioni, reperti archeologici si
attraversavano in pochi metri, quasi cinquecento anni che avevano lo
stesso denominatore comune: le lotte per l'indipendenza. Era stata
maggiormente messa in risalto la politica coloniale che aveva
caratterizzato il diciannovesimo secolo, contro il dominio spagnolo e
gli uomini che lo combatterono, tra cui spiccava il poeta e patriota
José Martì. Martire della terza guerra di liberazione avviata nella
seconda metà dell'ottocento contro la Spagna fu, oltre che un agguerrito
rivoluzionario, un affermato scrittore ed alcuni suoi versi, furono
utilizzati per musicare la celebre 'Guantanamera'. La storia della
politica di indipendenza raggiungeva il suo apice nelle sale dedicate
alla rivoluzione castrista, iniziata con il fallito assalto alla Caserma
Moncada di Santiago de Cuba e terminata vittoriosamente nel gennaio del
1959. Passando da un ambiente all'altro, potevo osservare oggetti ed
icone che denunciavano guerra, lutti, brutalità: dalle garrote spagnole
agli archibugi, dalle camice insanguinate dei barbudos, ai mitra di
fabbricazione sovietica utilizzati dal M-26 sulla Sierra Maestra. La
visita terminava, dopo aver riguadagnato il piano terra, con una sosta
al giardino del Museo dov'erano parcheggiate jeep, autovetture, un
piccolo aeroplano e un autoblindo, utilizzate durante la rivoluzione
dagli uomini di Fidel. Tra questi autentici pezzi da museo, si
insinuava in un padiglione chiuso ma dal quale si poteva accedere con lo
sguardo attraverso spessi vetri di protezione, lo yacht 'Granma' , il
quale fu utilizzato da Castro e da una ottantina di suoi seguaci per
iniziare la lotta di liberazione cubana, trasportando il gruppo di
rivoluzionari dal Messico alle coste di Cuba. Per un attimo pensai a
come sarebbe stata l'isola se, quella minuscola imbarcazione, non fosse
mai salpata da Tuxpan e mi resi conto che il gioco dei 'ma' e dei 'se'
era duro a morire. Fidelia iniziò a sbadigliare cercando, così, di
conquistare la mia attenzione: probabilmente non era una buona compañera
e della Revolucion, non gliene importava granché. Tornammo verso la
macchina ma di Francisco non v'era traccia. Ne approfittai per
raggiungere a piedi il Parque Central portandomi appresso una Fidelia
decisamente poco allineata con la mia sete di conoscenza. La gente mi
colpiva sempre di più anche se, fastidiosamente, veniva quasi in
processione a domandarmi di acquistare sigari, rum o guide. Fidelia
aveva allertato tutti i suoi sensi per proteggermi e, quindi, per
tutelare il suo piccolo bene. Allontanava jineteri e jinetere con modi
sbrigativi e risoluti che non ammettevano replica, pur rendendosi
conto, che quello che sarebbe stato il pedaggio da pagare stando con
me. Ci fermammo ad una tienda che disponeva di tavolini e sedie
protetti dal sole grazie a degli ombrelloni dall'equilibrio precario.
Davanti ad una cerveza e al solito succo di mango chiese del perché di
quel suo ombroso modo di fare. "Mi stanno tutti sul cazzo!" rispose. "Ma
perché? In fondo stanno cercando di guadagnare qualche dollaro..."
replicai.
"Quelli ti tirano anche le maledizioni -fece lei seriamente- Sai cosa mi
dicevano? Di aiutarli a farti spendere qualche soldo perché, in fondo,
io ero come loro e che quando tu sarai ripartito, sarò costretta a fare
come loro...stando senza dollari a sbattermi per trovare il sistema per
mangiare". Pensai a quello che mi aveva detto "Ma che c'entrano le
maledizioni delle quali parli?" Lei cercò un gomma da masticare nella
sua borsetta e aggiunse "Perché a Cuba c'è la Santeria. Sono pratiche
magiche che possono essere buone oppure cattive. A Santiago le fanno
bene...io lo so". Continuò a sorseggiare il suo mangojuice dalla
cannuccia di plastica senza distogliere il suo sguardo da me. "Non ci
credi? Anch'io ti ho fatto fare una santeria. Per farti innamorare di me
e, infatti, sei tornato a Cuba, adesso". Scossi la testa dimostrandole
così che non credevo a quelle cose e ai suoi riti. "Sono qui per mia
scelta e non perché qualche stregone mi ha costretto a tornare -dissi-.
Ti amo perché mi piaci e perché l'amore non ha spiegazioni logiche,
altro che pratiche magiche....". "Vuoi assistere ad un rito?" chiese
posando la lattina ormai vuota sopra al minuscolo tavolino di formica.
"Non saprei...non sono molto attirato" risposi. "Entonces, tieni miedo"
disse ridendo fragorosamente. "Ma quale paura...solo che non ci credo.
Potrei anche assistere a questa cerimonia, solo per dimostrarti che non
ci credo. Adesso torniamo alla macchina" chiusi deciso. Raggiungemmo
Francisco che stava frugando dentro al cofano dell'auto. "Problemi?"
chiesi quasi irretito dalla conversazione precedente. "No problem
-risposte in inglese- Donde vamos?" chiese gentilmente. "Bodeguita del
Medio e poi in giro per l'Avana. Cerca un ristorante dove poter mangiare
qualcosa, ok?".
Non
percorremmo molta strada perché stavamo già nella città vecchia.
Proseguimmo a piedi fino alla Plaza de la Catedral, dov'era situato un
animatissimo mercatino a favore dei pepes di turno. Decine di bancarelle
esibivano ai turisti, souvenir e prodotti dell'artigianato locale in una
confusione di voci e rumori indecifrabili dove spuntavano dialetti di
tutto il mondo. Gruppi di stranieri, condotti in pullman fino al vicino
parcheggio, fotografando e filmando, cercavano di aprirsi dei varchi
attraverso i quali passare per giungere alla BdM, il celebre bar
ristorante che era stato un punto di incontro di artisti e gente famosa.
Hemingway, che era solito bere il suo mojito alla Bodeguita, era stato
l'ultimo grande rappresentante di quell'intelligenza mondiale ormai
introvabile nel paese del comunismo reale. Della vecchia Bodeguita
restava il nome, la Calle Emperado 27, le scritte graffite sui muri del
locale, una icona turistica e turisti vuoto a perdere. Rifiutai di
entrarci dentro quale 'tappa obbligata' e decisi di rimanere ancora un
pò a ciondolare tra le bancarelle della piazza. Fidelia mi prese
lievemente la mano e seguì docilmente il mio galleggiare nel colore
locale. Ci soffermammo davanti ad una bancarella che vendeva alcune
sculture riproducenti le case ed i palazzi dell'Avana Vieja. In scala
ridotta, l'artista, aveva realizzato dei piccoli capolavori di
scenografia tridimensionale che ritraevano le parti più interessanti dei
più bei scorci architettonici della vecchia città. Per 30 dollari,
divenni proprietario di un angolo del Malecòn in miniatura. Lentamente
raggiungemmo la macchina, facendoci largo tra la folla devastante che
continuava a riversarsi nel Barrio. Francisco ci condusse in un
ristorante del quartiere cinese, anche se definirlo quartiere era una
esagerazione. Si trattava, infatti, di due vie vicine al Capitolio
Nacional, la Calle Zanja e la Calle Rayo, che costituivano il punto di
riferimento di quasi duemila cinesi che vivevano all'Avana. Davanti ad
un piatto di insipidi involtini primavera e maialino in agrodolce, stavo
riflettendo sulla eccentricità di quella città che avevo iniziato ad
amare prima di conoscerla. Fidelia mi strappò dai miei pensieri. "Non
ero mai stata in un ristorante cinese".
"Ti
piace la cucina?" le chiesi. "Non so...basta che riempio la mia pancia
anche oggi anche se non sono abituata a questi sapori. Però sono
contenta di stare insieme a te".
"Fidelia -dissi- lo sai che ho atteso questi momenti per tutto il tempo
che mi ha diviso da te? A Milano non facevo altro che pensarti sempre.
In ogni cosa che facevo, c'eri tu, ad attendermi".
Mi
fissò compiaciuta. "Non so se hai conosciuto a Varadero, quell'italiano...Pierluigi
-continuai-. Beh, lui è uno che conosce molto bene Cuba perché ci viene
spesso da tanti anni. L'ho incontrato a Milano e ci siamo visti spesso.
Solo con lui riuscivo a stare a mio agio, perché potevo sfogarmi e
sapevo, in cuor mio, che lui capiva i miei pensieri". Mi accesi una
sigaretta ed aspirai avidamente come per cercare una giusta
concentrazione. "E' stato difficile vivere di ricordi e di speranze. In
Italia mi sentivo fuori posto, come dissociato...capisci?". Lei,
continuava a mangiare l'intruglio cinese e rialzando la testa rispose
"Non ti capisco bene ma l'importante è che tu mi ami. Mi ami veramente?"
aggiunse per avere conferma.
"Hai
dei dubbi?" avanzai.
"Tu,
in Italia hai molte donne ed io sono gelosa" replicò vezzosamente.
"Invece, non ho nessuna -risposi-. Ti ho pensato spesso ed è per questo
che sono ritornato: per conoscerti meglio, perché vorrei stare insieme a
te".
Miagolò la sua soddisfazione meglio che poteva, addolcendo ancor di più,
il suo sguardo languido. "Non voglio più andare con i turisti. Solo con
te sto veramente bene e mi sento vera. Quando conosco ragazzi stranieri,
devo sempre fingerli di amarli per avere quello che mi interessa" ammise
tristemente.
"Ma
perché non abbandoni questa vita?".
La
mia domanda non rimase vuota e spiegò. "Vedi, Claudio. Io, al mio paese,
sono povera e non posso permettermi nulla. Niente vestiti e niente
divertimenti. Nada de nada. Ma ciò che è tremendo è che non c'è nulla da
mangiare. La libreta non riesce a coprire i bisogni reali e ci si deve
arrangiare come si può. Per questo ho iniziato a frequentare i turisti.
Solo grazie a loro riesco a guadagnare dollari e vestiti, oltre ad
approfittare dei divertimenti che mi offrono. E una volta che inizi la
vita da jinetera, non è facile staccarsene, perché i vantaggi sino tanti
per chi non ha niente".
"Come
fai a pensare che io sia diverso dagli altri turisti?" le chiesi
curioso.
"Tu
cerchi di capire noi cubani. Poi, non ti sei approfittato di questa
situazione e questo già te l' ho detto a Varadero. Il fatto che tu sia
ritornato dopo breve tempo, significa che ho ragione". Sentivo che stava
sgranando tutto il suo miglior repertorio al fine di convincermi della
sua sincerità, ma percepivo una stonatura che non sapevo decifrare.
Sorvolai sull'indagare quel senso di vuoto che avevo provato
nell'assimilare quella sua ultima frase, preferendo cambiare discorso.
"Cosa
vuoi fare stasera?" domandai.
"Possiamo andare a ballare, se vuoi" rispose, conoscendo in anticipo la
mia risposta.
Finimmo di pranzare velocemente dentro il locale deserto, segno
inequivocabile che i cubani non potevano permettersi neanche una
piccolissima distrazione. Uscimmo dal ristorante raggiungendo un
Francisco a guardia della sua macchina. Lasciammo il Barrio, passando
questa volta per il Capitolio e, subito dopo, per Plaza de la
Revolucion.
Passeggiando tra i giardini quasi sterili di quel luogo, mi venivano in
mente le adunate oceaniche che erano solite svolgersi nelle occasioni
politiche più importanti. Il grande ritratto del Che emergeva dalla
parete di un palazzo, accompagnando l'ideologia del comunismo cubano
anche a distanza di tanti anni dalla sua morte. Quante illusioni nate e
svanite nel corso di qualche decennio. QUante persone immolatesi nel
nome di una causa che non era riuscita a realizzare i suoi propositi.
Fidelia, come al solito, mi riportò alla realtà.
"Andiamo al Mirador?".
"Cos'é?" chiesi non ricordandomi nulla delle guide turistiche lette a
Milano.
"Lo
vedrai tra poco. Ritorniamo alla macchina".
Dopo
aver percorso nuovamente il Malecòn, Francisco ci accompagnò al Mirador.
Si trattava semplicemente del Castillo de los Tres Reyes del Morro,
costruito nel 1600 su progetto dell'italiano Antonelli. Si trovava sulla
punta della riva orientale del canale del porto, ed era stata
considerata, secoli addietro, una delle fortezze più temibili di tutto
il Mar dei Caraibi. Dal cortile antistante il Castello, si godeva una
superba vista della città dell'Avana, in cui si evidenziava il
prospiciente lungomare, il canale del porto e i grattacieli che si
stagliavano alti nel cielo, staccandosi prepotentemente dai vicoli del
Barrio.
"E'
bellissima" dissi convinto.
"E'
poverissima" rispose pragmatica Fidelia.
"Tutta Cuba è poverissima" aggiunsi.
"Tutta colpa del Bloqueo e dei gringos" replicò severamente.
Ci
abbracciammo come se, con quel nostro gesto, potevamo esorcizzare tutte
le paure ed i sogni irrealizzati del popolo cubano. Francisco ci
ricondusse a Calle 38, davanti alla casa di Juliet dopo aver incassato i
dollari pattuiti per il servizio di taxi e ricandidandosi in caso di una
nostra nuova necessità. Ci salutammo cordialmente certi di rivederlo
nuovamente ad armeggiare dentro il cofano della sua macchina dalle parti
della Calle. Juliet ci venne incontro sempre sfoggiando il vestitino a
fiori stampati e ci salutò calorosamente. Ernestito stazionava in
soggiorno a guardare la televisione. In casa aleggiava un forte odore di
cucina ma Fidelia mi spinse su per le scale imboccando decisamente la
porta della nostra stanza.
"Finalmente soli" disse.
"Stanca?" domandai.
"Un
poco...vado a farmi una doccia ma non andartene" e sparì con il mio
asciugamano da bagno portandosi appresso anche la mia camicia pulita.
Guardai attraverso la finestra. La strada era piena di animazione. Oltre
alla gente che passava, notai un gruppetti di ragazzi che stavano seduti
su di un muricciolo ascoltando musiche salsa da un voluminoso
radioregistratore. Non erano poi tanto diversi dai loro coetanei neri
americani che si potevano trovare nel Bronx o a Venice a ballare hip op
o rap. Alcune vecchie auto attraversavano di tanto in tanto il mio
sguardo, oltrepassando biciclette che, abbastanza numerose, erano
considerate il più popolare mezzo di trasporto dopo i piedi. Con una
trentina di dollari, una pesante bicicletta cinese poteva cambiare
proprietario ma questi, doveva custodirla e proteggerla come un bene
prezioso, dagli innumerevoli ladri che imperversavano nell'isola. Il
bisogno di mangiare e l'esigenza del sopravvivere quotidiano,
accompagnata dalla civetteria di possedere qualcosa di superfluo, aveva
indotto molti ragazzi 'svegli', a rischiare anni di carcere durissimo,
tentando furti non solo a discapito di turisti ma anche degli stessi
connazionali. Per questo, ogni abitazione, era dotata di inferriate alle
porte ed alle finestre per essere meglio difesa da quella che stava
diventando una piaga certa, frutto del malessere cubano. Ovviamente, in
tutti gli alberghi, funzionava un rigido servizio di sicurezza che
interdiva, di fatto, l'accesso nelle aree di proprietà dell'albergo a
tutti i cubani che non faceva parte dello staff di servizio. Questo per
evitare episodi di furto che potevano limitare l'immagine di isola
felice e sicura che doveva essere esportata all'estero dai turisti che
avevano soggiornato nella Patria del Caribe.
"Ay
mio amor..."gridò Fidelia rientrando in camera. Era appena uscita dalla
doccia, avvolta nell'asciugamano bianco che le copriva, solo
parzialmente, il corpo ancora umido. Le trecce dei suoi capelli
gocciolanti, le scivolavano davanti agli occhi, nascondendo uno sguardo
assassino che indicava chiaramente le sue intenzioni. Con mosse
calibrate, come imitando una top model, guadagnò il letto sul quale si
stese, rimanendo però protetta dal telo di spugna. La raggiunsi e mi
misi a scartare l'insolito involucro con la stessa voluttà con la quale
un bambino scarta la sua caramella preferita. Era bellissima. La
dolcezza del mio amore si impadronì di lei che, pure vogliosa, giocava a
fare resistenza di fronte alle mie carezze. Poi, tutto scomparve: i
rumori della strada, la musica che si diffondeva dalla radio, lo
spignattare che saliva dalla cucina, le considerazioni vuoto a perdere
che mi avevano tenuto compagnia fino ad allora. Il vortice di emozioni
che stavo vivendo, cancellò proprio tutto, lasciando nitido solo lei:
il suo corpo, il suo profumo animalesco, il suo essere.
Alla
fine dell'amplesso dove non vi erano stati vincitori e vinti, accesi
l'ennesima sigaretta della giornata con la quale mi divertii a fare
anelli di fumo.
"Sto
proprio bene con te" le sussurrai all'orecchio.
"Anch'io, amore mio" rispose con un filo di voce roca.
Guardai l'ora pensando che a Milano, in quel preciso istante, la gente
stava affannandosi dentro al metrò, nelle strade trafficate di lamiere,
in fila agli sportelli delle banche e degli uffici postali, svincolando
sotto il magma di smog ed inquinamento che permeava costantemente la
città della Madonnina. Quanto era distante quella cappa plumbea dal sole
ormai tramontato di quell'isola tropicale. Eppure, Cuba non aveva la
bellezza esotica delle Seychelles o delle Maldive, non ostentava quella
ricchezza sfrenata della Bahamas o delle altre isole delle Antille. Il
mare, seppur turchese e cristallino, era da considerarsi quasi 'normale'
paragonato a quello incredibile della Polinesia. Eppure, quell'isola
aveva il suo particolare fascino che la rendeva unica e preziosa.
Un
rumore di passi interruppe i miei pensieri.
Juliet bussò alla porta che aprì senza attendere risposta.
"Ay
Fidelia. Que pasa?" domandò però guardando me e non la nipote.
"Cazzo,
zia -rispose scocciata Fidelia- Eres loca?".
"No.
Tiengo hambre, Fidelita. No puedo esperarte por toda la vida y tambien
Claudio tiene hambre" replicò.
Fidelia le lanciò uno sguardo di fuoco.
"Che
c'entro io?" dissi per evitare l'inizio di una disputa tutta in famiglia
nella quale mi sentivo come un osso tra due cani.
Fidelia rispose "La zia dice che tu hai fame perché pure lei ha fame.
Quindi, è venuta a dirci di scendere così lei può mangiare. Non ha
capito che tu hai pagato e quindi sei tu che decidi quando e cosa fare.
Poi, mi sta sul cazzo perché ti guarda troppo".
"Non
litigate. Poi -aggiunsi- io non comando proprio niente. Ho pagato per
avere un servizio ma non per rendere le persone schiave di obbedire ai
miei comandi". Mi guardò con indignazione.
"Non
hai capito nulla, pobrecito. A Cuba tu paghi e devi avere ciò per il
quale hai pagato. La zia ha preso mille dollari per due settimane ed ha
guadagnato tanto con questo negozio. Deve stare al nostro servizio
perché così funziona qua e non si deve più permettere di decidere per
noi".
"Ma
dai...-dissi concludendo- In fondo è tua zia".
"Che
cazzo me ne frega! -rispose con accento quasi romanesco- Se non la
smette le riprendo i dollari e cerco un'altra casa".
Juliet dopo aver seguito minuziosamente la nostra conversazione,
richiuse la porta e se ne tornò in cucina.
"Devi
capire Claudio -disse calmandosi- che non siamo in Italia. Ci sono altre
regole di vita che tu non conosci. Ti rispettano perché sei un turista
ma si approfittando perché non sai ancora nulla. La gente, i cubani, si
incazzano quando ti vedono insieme a me perché sanno che io ti proteggo
da loro. Anche mia tia Juliet è una hjia de puta: quella, oltre ai
soldi, ti vuole pure singare, l'ho capito, sai?".
"Fidelia, adesso calmati. Non roviniamo questi giorni che abbiamo
aspettato così a lungo. Cerchiamo di essere più tolleranti, in fondo,
non c'è niente di male. Altrimenti corriamo il rischio di incazzarsi su
ogni cosa. Per me, l'importante è starti vicino....il resto non conta".
La
bacia come per suggellare quella voglia di serenità di cui avevo bisogno
e per chiudere definitivamente il suo sfogo.
Seguirono, uno dopo l'altro, giorni incantevoli. DI giorno, sfrugugliavo
la città cercando di impossessarmi dei suoi piccoli mille segreti
custoditi all'interno dei suoi quartieri. Tornai anche alla Bodeguida e,
trovandola meno affollata, ne approfittai per bere un mojito decisamente
annacquato e per apporre la mia firma sulle luride pareti. Visitai la
Cattedrale dai due campanili che aveva ospitato le ceneri di Colombo e
mi soffermai alle tre fortezze della città: la Fuerza, la Punta ed il
famoso Morro che già conoscevo. Ma era il susseguirsi di emozioni che
traeva forza dalla gente dell'Avana Vieja a rendere i miei stimoli più
netti. Vecchi dalla facce incartapecorite dal tempo, bambini alti meno
di un metro giocosi tra le sudice strade, ragazze dal fare provocante
alla ricerca del turista da catturare, ragazzi che si sbattevano per
guadagnarsi l'oggi, incastrandosi tra i molteplici traffici illegali. Il
tutto, era condito dall'architettura coloniale del quartiere e dalle
vecchie automobili nordamericane di quasi mezzo secolo, parcheggiate
nelle anguste viuzze. Ogni tanto si apriva una piazza coi suoi bei
palazzi d'epoca, ospitante un vecchio Convento o una Chiesa del tempo
che fu. E, tra la sporcizia generata da un dignitoso ma inesorabile
degrado, trovavano il loro spazio i venditori ambulanti di cultura, che
proponevano sopra a delle minuscole bancarelle, libri di ogni tipo e
foggia. Curiosando, si potevano trovare veri pezzi d'antiquariato,
rappresentati da testi editi nell'Ottocento; gli stessi si confondevano
con libri apparsi dopo la Rivoluzione da dove emergevano scritti di
Castro e Guevara. Ma, insieme all'opera omnia di Martì e Neruda,
trovavi riviste sovietiche in puro cirillico confuse con le edizione
degli anni '40 di Life.
Le
sere passavano tra il dolce far nulla casalingo, magari seguendo alla
televisione una telenovela messicana datata di vent'anni prima, oppure
approfittando della conoscenza dei locali della città che aveva
Francisco, andavamo in giro con lui a divertirsi tra salsa e merengue.
Juliet era restata al suo posto, pur tentando velatamente di farmi
capire la sua piena disponibilità. A volte cercavo di capire il perché
di quel mio unico atto di debolezza con lei, senza trovare alcuna
giustificazione plausibile e la cosa, mi rendeva impotente nei confronti
di quel mio gesto gratuito. Durante quel periodo, avevo conosciuto più a
fondo Fidelia che mi seguitava a raccontarmi la sua battaglia quotidiana
per rimediare beni introvabili e le varie vicissitudini che l'avevano
accompagnata e la stavano ancora accompagnando, per svoltare la vita.
Anche lei non si era potuta sottrarre al destino che accomunava circa
undici milioni di cubani nell'arte di arrangiarsi. I giovani godevano,
però, di migliori opportunità per emergere da quel magma di
disperazione in quanto, avevano dalla loro, la vitalità propria della
loro età e non avevano conosciuto il passato pre rivoluzionario. Le
ragazze emigravano dai loro miseri paesi verso le più note località di
villeggiatura che accoglievano, ogni anno, migliaia di turisti stranieri
in cerca di esotiche emozioni. Da qui, il proliferare di quella
filosofia di vita, definito jinetero, che relazionava gli autoctoni con
i ricchi stranieri, ben felici di trovare una disponibilità a buon
mercato. Fidelia mi disse che, in un primo momento i jineteri, seppur
illegali, erano tollerati dal regime castrista perché, attraverso il
loro modo di relazionarsi con i turisti soddisfandoli nelle loro
esigenze, causavano una buona cassa di risonanza a favore del turismo
che vedeva, stagione dopo stagione, l'incremento dei visitatori che
portavano preziosi dollari nelle magre casse dello stato.
Ma,
con l'andare del tempo e come tutte le cose, l'effetto jineteros era
degenerato a causa di una maggiore richiesta di turismo sessuale che
aveva iniziato a crescere sulle spalle della disperazione. A volta non
si trattava più di semplici prestazioni ma di vere e proprie
aberrazioni. Era stato scoperto un giro di prostituzione minorile, un
altro legato alla pornografia e, come ovvio, aveva iniziato a
diffondersi la droga, importata da Santo Domingo e tagliata in casa.
Tutto
questo, se non frenato in tempo, avrebbe avuto un effetto boomerang nata
dalla delinquenza in crescente aumento e all'incontrollabilità di alcune
situazioni che, certamente, non avrebbero generato buona pubblicità
all'isola. Ma, non solo si doveva tutelare maggiormente il turista, iper
proteggendolo da vari pericoli ma si doveva, nel contempo, eliminare
quella piaga giovanile che, con l'andar del tempo, poteva diventare una
minaccia per il regime che governava il paese. Erano, quindi, state
emanate alcune leggi che, con ferma repressione, tendevano a far
diminuire il fenomeno dei jineteri, ritenuti principali responsabili di
quella situazione. Fermi e controlli iniziavano a stringere l'afflusso
di ragazzi cubani provenienti dai loro paesi d'origine verso le località
turistiche come, di contro, i jineteri già presenti dovevano essere
molto prudenti nella loro condotta per evitare fogli di via che li
avrebbero marcati a vita. Fidelia mi confessò di essere già stata
fermata in differenti occasioni e che le sarebbe già stato intimato
l'ordine di tornare al suo paese. Varadero stava cambiando proprio in
virtù del giro di vite messo in atto dalla Fuerza Armata Revolucionaria
e dalle varie istituzioni di controllo dell'ordine pubblico. I ragazzi
che restavano, mi spiegò, erano abitanti regolari oppure jineteri
confidenti della polizia.
"Capisci amore -disse- non potrò più andare a Varadero perché se mi
fermassero, rischierei di andare in prigione. Così, dopo che tu sarai
partito, sarò costretta a tornare a casa dai miei a Moròn".
"E
cosa farai a casa?" chiesi sollevato dal fatto che avrebbe smesso la
vita.
"La
fame. Non c'è nulla da fare e non ci sono turisti. Mi alzerò la mattina
tardi così ho meno tempo per sentire la fame. Poi mi metterò seduta
fuori casa a sentire la radio e a litigare con mia mamma. Se ci sarà da
magiare, mangerò...ma verso le cinque del pomeriggio perché così si
divide la giornata in due parti e da noi si mangia solo una volta al
giorno e sempre congrì. Poi chiacchiererò con le mie amiche fino a sera.
Si guarda la televisione e si aspetta il sonno per andare a dormire e
questo tutti i giorni allo stesso modo".
"Ma
non puoi andare a lavorare? Ti passerebbe il tempo e guadagneresti
soldi" le chiesi speranzoso.
"Per
cinque dollari al mese e fare un culo così? No grazie, resto a
dormire..." rispose.
Era
la filosofia dei jineteri: guadagnare molto, spendendo tutto e subito e
col minimo sforzo. Anche Fidelia non si staccava dall'ottica
dell'abitudine, ormai radicata in lei, generata da anni di vita più o
meno facile ma, indubbiamente priva di responsabilità, qual'era quella
del jinetero.
"Cosa
ti aspetti dalla vita?". Ci pensò un attimo e rispose "Che tu mi sposi e
mi porti in Italia. Sarei felicissima di questo, ed anche mia madre".
"Perché -chiesi- conosce la nostra storia?"
"Certo, le dico sempre tutto. Quando telefonavi oppure arrivava una tua
lettera...lei, però, mi dice che tu sei come gli altri: non mi vuoi bene
e mi fai tante promesse che non manterrai". Mi prese in contropiede. Di
promesse ne avevo fatte tante a Varadero ma non mi ero impegnato nello
sposarla o nel portarla a vivere in Italia. Forse era vero quello che
pensava sua madre, non ero dissimile da altri che erano stati con lei
prima di me.
"Senti Fidelia. Non ti ho mai detto che ti avrei sposata ma non ho
neppure detto il contrario. Adesso, però, ti faccio una promessa vera:
ti porterò in Italia a stare qualche tempo con me. Ci conosceremo meglio
e tu potrai vedere come si vive da noi...devi solo avere pazienza ma te
lo giuro" dissi solennemente. I suoi occhi s'illuminarono di gioia
mentre mi stringeva in un forte abbraccio dove potevo intuire tutta la
sua infantile genuinità. Chissà quante altre volte si era trovata in
quella stessa situazione. Chissà quanti sogni aveva riposti nel cassetto
della sua illusione. Non dovevo deluderla, doveva realizzare il suo
sogno.
La
luna splendeva piena. L'alone pallido che la circondava, spargeva una
fioca luce sulle tenebrose nuvole che la incorniciavano, creando un
effetto tridimensionale delle stesse. Una polvere di stelle brillava
disordinatamente nelle zone terse del cielo sopra noi. Una brezza di un
vento caldo scompigliava i nostri capelli che, fluttuavano nell'aria.
Tutto appariva melanconicamente magico in quella notte habanera. In
lontananza, solo un cane triste lanciava il suo disperato abbaiare. Alle
quattro della mattina tutto era immobile e silenzioso. La folla
quotidiana si era dissolta nel nulla lasciandoci padroni della città.
Noi,
il nostro amore e L'Avana.
Tutto
si fondeva meravigliosamente creando una atmosfera difficile da
scordare.
Mi
ero svegliato quasi di soprassalto poco prima, alzandomi dal letto dopo
una incredibile serata di amore. Fidelia avevo seguito il mio
peregrinare lungo le Calli del Vedado, fino a trovare una piazzetta
dov'eravamo seduti a contemplare quel silenzio esclusivamente nostro.
"Chissà se a Milano, le notti sono così belle" mormorò.
Non
valeva la pena spiegarle che in Italia era difficile vivere dei momenti
così unici e pieni di poesia come quello che stavamo passando il quel
preciso istante. Come poterle far capire la convulsità della nostra vita
occidentale che ci separava sempre più dai rapporti umani, dalle nostre
radici esistenziali, dalla tranquillità di una vita serena senza
traguardi da dover raggiungere, senza mete da conquistare man mano.
Non
avrebbe mai infranto il suo sogno rappresentato dal benessere esibito da
orde di turisti che sfoggiavano, magari in quell'unica settimana di
vacanza trascorsa a Cuba, il frutto di undici mesi di risparmi strappati
alla voracità delle bollette da pagare, delle tasse da evadere, degli
aumenti di tutti i beni e servizi quotidiani. Come dirle che la
maglietta di Benetton era indossata solo per dissetare quel narcisistico
consumismo che la pubblicità opprimente alimentava in noi?
Era
preferibile farla cullare nelle sue illusioni: le avrebbero reso la sua
esistenza meno amara da vivere. Dolcemente le presi le mani snelle.
"Amore -dissi- con te sarebbe magnifico in qualsiasi parte della terra".
Rimase soddisfatta di quelle parole e posò la sua testolina sul mio
petto. Scrutavo il cielo, ora illuminato da miliardi di astri. Le nuvole
che prima oscuravano una parte della volta celeste, si erano dissolte
come per incanto.
Cos'è
una intuizione d'amore? Un attimo fuggente di armonia col creato
ottenuta attraverso una bene quasi palpabile. Ma, in quel momento, volai
in alto seguendo la poesia del mio cuore.
"Guarda -dissi-. Osserva bene....la vedi quella stella là in alto?" e le
indicai un puntino luminoso tra i tanti ma così luminoso che si staccava
dagli altri.
Lei
alzò lo sguardo seguendo la rotta indicata dal mio dito, poi annuì.
"Ora
ti faccio un grande regalo....quella stella è tua, d'ora in poi.
Ricordati che, in qualsiasi momento della tua vita che la guarderai, ed
in qualsiasi parte della terra ti troverai, potrai dire a tutti che in
una notte stellata, un uomo italiano l'ha donata a te e che questo tuo
regalo, ti seguirà per tutta la vita".
Scoppiò in un sommesso pianto di gioia. Fra tutti i doni che aveva
ricevuto, proprio quello meno concreto, meno utile, meno divertente, si
era trasformato in un prezioso giuramento d'amore. Fidelia aveva capito
cosa vibrava in me ed era commossa e felice allo stesso tempo come lo
ero io. Si stava avvicinando il momento della mia partenza e durante
quei giorni avevo capito quanto fosse importante per me quel rapporto
nato all'ombra di un popolo fiero e cordiale. Ma cosa amavo? Fidelia, in
quanto tale oppure solamente perché cubana? Non potevo districare quel
groviglio di emozioni che formavano i miei sentimenti. Non vi era un
confine delineato, tutto s'amalgamava insieme, non lasciando trasparire
vie di distinzione tra i vari elementi che componevano quella sciarada.
Avevo imparato molto dalle due settimane trascorse in una situazione
quasi vera, non più da totale turista. In mezzo alla gente potevo
scorgere la miseria prodotta da un embargo che non aveva simili nella
storia recente dell'umanità. Questo piccolo paese in mezzo al mare,
ancora spaventava il mondo del dollaro che continuava, con tutti i mezzi
possibili, a combatterlo duramente per sopprimerlo definitivamente.
Tutto questo mi appariva come inconcepibile e tutt'altro che dignitoso.
E, in quell'impari lotta, soffriva un popolo intero che era arrivato
alla fame pur di mantenere intatto il suo diritto di sovrana
indipendenza.
L'aeroporto era differente ma la storia si ripeteva con una più marcata
intensità rispetto a quella già conosciuta a Varadero, la prima volta.
Gli ultimi dollari avanzatimi erano passati nelle mani di Fidelia, nella
speranza che potessero essere utilizzati per alleviarle, almeno per un
pò, le sofferenze della grigia esistenza che l'attendeva. Anche questa
volta avevo saccheggiato quasi interamente il mio bagaglio, regalando
tutto quello che potevo a Ernestito, Juliet, Francisco e Fidelia.
Tornavo con gli indirizzi di tutti loro ben scritti su di un minuscolo
foglietto di carta ingiallita, con la promessa di spedire una cartolina
ad ognuno di loro, al mio arrivo in Italia. Rimuginavo su Juliet e a
come mi aveva baciato sulla bocca per augurarmi il buon viaggio, prima
di lasciare la linda casetta che mi aveva ospitato. Così come mi
capitava di pensare ad Ernestito e alla sua strana vita coniugale.
Mi
rammaricavo, però, di non essere tornato da Mama Estrella, con la quale
avrei voluto parlare ancora di Guevara e della Cuba eroica del dopo
rivoluzione.
Molte
cose errano rimaste dentro alla nicchia dei desideri ma il tempo
trascorso all'Avana non era stato mal speso. Un pò più cubano nell'anima
e con altre esperienze nello zaino, stavo rientrando nel mio mondo che
mi stava già aspettando per rifagocitarmi nei suoi assurdi ingranaggi.
L'aereo bianco dalle lunghe strisce parallele gialle e rosse dell'Iberia
era parcheggiato sulla pista in attesa del popolo dei vacanzieri. Lo
potevamo guardare attraverso le grosse vetrate del bar del primo piano
dell'aerostazione. Il sole splendeva alto all'inizio di quel pomeriggio
che mi vedeva partire dopo aver espletato le procedure di imbarco, ed io
invidiavo chi era appena arrivato con il volo proveniente dall'Europa.
Fidelia aveva indossato un sobrio vestito verde smeraldo che ne
risaltava le forme perfette. Era bellissima come sempre anche se, una
tristezza evidente, ne imbronciava il candido viso di mulatta. Gli occhi
spenti, gli angoli delle labbra abbassati, il suo fare taciturno: tutto
contribuiva a quella sua tristezza che stonava col variopinto mondo che
ci circondava.
"Mi
telefonerai?" disse con un filo di voce.
"Stai
tranquilla. Non posso più abbandonarti...lo sai, no?".
"Veramente mi inviterai in Italia?" continuò come per cercare il cordone
ombelicale della sua speranza in me.
"Questa volta l'ho promesso, ricordi?" replicai.
L'altoparlante del 'Josè Martì' annunciò in spagnolo la chiamata
all'imbarco per il mio volo, l'unico in partenza intercontinentale per
quel giorno.
La
baciai lungamente per avere il sapore della sua bocca dentro di me per
tutto il viaggio, dopo di che m'affrettai al controllo passaporti.
L'omino con la divisa militare seduto dietro al box armeggiò col mio
documento e con il visto, visibilmente soddisfatto del suo potere.
"Señor,
tiene una novia aquì?" chiese.
"Non
una novia -risposi- una mujer cubana".
"Pues
entoces, hasta luego y buen viaje" aggiunse.
Restituendomi il documento non si accorse delle lacrime che segnavano il
mio volto.
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