CULTURA CUBANA


RACCONTI SU CUBA
 


 

     

Una panoramica di racconti e romanzi su Cuba, è stata realizzata grazie alla collaborazione di Gordiano Lupi, uno scrittore tra Cuba e Italia che scrive, traduce e pubblica interessanti capitoli di storia della vita cubana.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) è studente di letteratura spagnola all’Università dell’Avana, scrive poesie e racconti per la rivista accademica El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato Esperanza. Ha scritto il racconto lungo La Marina del mio passato che verrà pubblicato in calce al saggio di Gordiano Lupi Vedere Cuba dalla parte dei cubani (Terzo Millennio Editore) e il romanzo breve Confessioni di un omosessuale che uscirà nel 2003 per Stampa Alternativa. Entrambe le opere sono state tradotte da Gordiano Lupi e sono inedite. Alto materiale inedito è stato tradotto e attende un  editore. Tra questi: Vita da jinetera, romanzo sul mondo della prostituzione e Bozzetti avaneri, una raccolta di racconti che non sono racconti come dice lo stesso Alejandro. Gordiano Lupi è il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere sul territorio italiano.


Caro John, mi hanno pubblicato il romanzo...

 

Sono in Parque Central, Centro Avana. Tiro a far tardi, come sempre. Però oggi non è un giorno come tanti. Proprio no.

Caro John, mi hanno pubblicato il romanzo, penso.

Ma John non può capire. È soltanto una statua, lui.

Che poi che cazzo ce l’avranno messa a fare la statua di John Lennon in Centro Avana me lo devono spiegare. Era controrivoluzionario ascoltare i Beatles, un po’ di tempo fa...

Cambia tutto, si vede. Cambia pure la storia.

E il vecchio John adesso è qui che si guarda il via vai di Centro Avana. Un buontempone gli ha rubato gli occhiali poco dopo che lo avevano fissato su questa panchina di bronzo. Però glieli hanno rifatti quasi subito. Mica come a mia zia che è miope e non sa come fare, ché le lenti, quelle vere, col cavolo che si trovano.

Accarezzo la statua di bronzo e sorrido.

Tu sì che hai fortuna, John. Tu non senti niente. E ti frega assai dei problemi del mondo. Ti interessa di molto se mi hanno pubblicato il romanzo. Nemmeno i piccioni ti danno fastidio. Se li sono mangiati tutti, con la fame che c’è in giro.

Romanzo pubblicato, allora.

E adesso?  Cosa cambia?

Cambia niente, cambia.

Sono sempre qui che giro per la vecchia Avana con il sidecar. Turisti che vanno, turisti che vengono.

Lezioni rivoluzionarie su Guillén e Carpentier. Che poi sono bravi, lo so. Vuoi mettere loro con me. Nemmeno a  pensarlo. Però due palle...

Serate con l’Esperanza  a pestare forte sulla batteria.

E poi zitto come una tomba. Non lo posso neppure dire.

Tu dimmi che soddisfazione c’è a pubblicare un romanzo e nessuno sa che l’hai fatto. Un po’ come scoparsi la più bella mulatta dell’Avana e non poterlo dire. Se ne va metà del gusto.

Juventud Rebelde in edizione speciale e uno strillone nero di Centro Avana che grida: Machi di carta, il romanzo confessione d’un giovane avanero. Vuoi mettere? Tutta un’altra cosa.

E il passa parola, la gente che ti guarda per strada.

È lui. Però che coraggio. Che bello il romanzo che ha scritto.

Sarà finocchio davvero? Ecco questo dubbio qui mi piacerebbe meno. Però lo direbbero. Sicuro.

A Fidel però li girerebbero parecchio, credo.

E allora stiamo zitti, via. Zitti come topi.

Caro vecchio John, mi hanno pubblicato il romanzo.

Ecco, giusto a te lo posso dire. E allora te lo dico un altro paio di volte e poi me ne vado. Seduto su questa panchina di bronzo ricordo canzoni dei Beatles e penso a quel che è accaduto e a ciò che non capiterà mai. Però, chi può dirlo? Anche una statua per John Lennon all’Avana, via... chi se la sarebbe aspettata?

“Hai qualche dollaro, amico?” mi fa un vecchio che si è avvicinato alla panchina. Lo guardo meravigliato. Sarà perché sono vestito bene, oggi. Sarà perché questo è un posto da turisti...

Soy cubano egual que tu, amigo!” dico.

I diritti del romanzo si vedranno tra qualche mese, se va bene.

Il vecchio si allontana sconsolo. In lontananza il solito panorama di ragazze che passeggiano e fingono sorrisi, poco distante uomini della polizia controllano e mantengono l’ordine. Fidel ha chiuso pure le discoteche, dice il Granma. Vizi da capitalisti. Covi di drogati e puttane. Adesso la vita è ancora più dura.

E io sono qui che mi gingillo e penso al romanzo.

In Italia qualcuno lo starà leggendo, credo.

“Stattene buono e aspetta” ha detto il camajan.

Che poi il camajan sarebbe il marito di mia cugina, quello che traduce le cose che scrivo, credo di averla già detta questa cosa.

“Ci vogliono almeno sei mesi per sapere com’è andata”.

E io aspetto.

Aspetto il prossimo tornado, magari. Aspetto che mi dicano ancora una volta che la rivoluzione va difesa ogni giorno e io sono qui, pronto a  difendere il niente. Aspetto che Juliana torni, prima o poi. Perché ritornano tutte, questo è sicuro. Aspetto che a Pablo si scordi la chitarra la prossima volta che gli viene in mente di suonare Manolin per scoparsi una ragazza.

E aspetto di cantare Yesterday, caro John.

Sì, c’è poco da fare.

Non mi resta che aspettare.

 

1. Mi presento

 

Per cominciare dirò che mi chiamo Maicol, ho ventitré anni e la pelle mulatta, però ho i capelli neri e lisci come un bianco. Questo ci tengo a precisarlo perché da noi è importante. Si dice che a Cuba non c’è razzismo, ma non è mica vero. Persino i neri tra loro dicono scherzando che “in casa mia di nero basto io…”. Sono abbastanza alto, ho le gambe lunghe e il sedere stretto, le labbra carnose e il naso piccolino, gli occhi neri e sottili dal taglio cinese, le mani delicate. Le ragazze si innamorano del mio sorriso, dicono che dà luce a tutto il viso. Quando vengono a sapere che sono omosessuale ci restano male. Tutti dicono che la mia bellezza è femminile, delicata e che ho poco da invidiare a una donna. Quando ballo mi muovo con eleganza e conosco a memoria i passi della salsa e del merengue. Da quando sono in Italia insegno danza e mi esibisco in qualche festa. Vivo a Livorno, una città di mare che ricorda un po’ L’Avana e mi fa sentire meno la nostalgia. C’è addirittura un piccolo Malecón nella zona dell’Ardenza, simile al nostro però più basso e stretto. Nelle giornate di libeccio mi fermo a guardare il mare e il volo dei gabbiani. Sogno L’Avana. Sogno i bambini schizzati dal salmastro. Qui non accade, il mare se ne sta buono al di là del muro e un po’ ci resto deluso, ma comunque è bello stare con il volto proteso sulle onde a respirare il profumo del mare, specie quando il tempo è cattivo. Qui non c’è pericolo di cicloni e si può fare. Mi hanno detto che il libeccio, per quanto violento, non fa mai i danni delle nostre tempeste. A Livorno d’estate si può andare al mare e d’inverno non è che il freddo sia così terribile. Si sopporta. Basta un cappotto e fare l’abitudine ai maglioni di lana. Pizzicano un po’ e fanno arrossare la pelle, però ci si abitua. Vivo qui con Luca, un avvocato di trent’anni che ho conosciuto all’Avana. Luca è un bel ragazzo dai capelli castani e gli occhi verdi, alto, interessante. Mi ha affascinato subito per il suo modo di fare, così diverso da quello di tanti turisti che vengono a Cuba. Galante, romantico, sensibile. Mi ha detto che in Italia ha sempre fatto tutto di nascosto, temeva per la sua professione specie i primi tempi. Adesso è un avvocato inserito, ha rilevato lo studio del padre e ha un bel giro di clienti. L’omosessualità non è più un problema. Ecco l’Italia mi piace per questo: io e Luca possiamo vivere insieme alla luce del sole e nessuno ci trova niente da dire. Certo i pettegolezzi dei vicini di casa sono inevitabili, ma all’Avana sarebbe stato peggio.

Luca era venuto a Cuba in cerca di qualcosa di diverso, aveva letto Garcia Lorca e il diario dove confessa che soltanto all’Avana si sentiva libero di esprimere la sua omosessualità. Vedeva Cuba come il paradiso dei gay, un posto dove era possibile essere se stessi senza problemi. Avevo letto anch’io Garcia Lorca, che diamine. E avevo letto anche Lezama Lima e Senel Paz, però mi ero convinto che fosse soltanto letteratura. Letteratura e leggenda romantica. Forse L’Avana era così per uno straniero pieno di dollari, per un turista. Non per un cubano che ci doveva vivere. Perché vivere all’Avana da gay è dura, è sempre stata dura.

In ogni caso io e Luca ci siamo innamorati. Avevamo interessi simili, gusti simili, al di là che mi piaceva molto e io piacevo a  lui. Perché il sesso è importante, se manca l’attrazione fisica manca quasi tutto, ma non è che si viva soltanto di sesso.

Luca è un avvocato un po’ particolare, non si occupa solo di codici e leggi, quando stacca dallo studio pensa ad altro. Legge molto, ama la poesia, la letteratura cubana, conosce un sacco di cose che a me sono sempre piaciute. Stiamo bene insieme anche per questo.

E’ stato lui a spingermi a scrivere questa storia della mia vita.

“Ti servirà a guardarti dentro. Scrivere è una liberazione” mi ha detto. Lo fa spesso anche lui di buttar giù dei pensieri, delle brevi poesie, me ne ha scritte di stupende quando eravamo a Cuba e qualche volta me ne scrive ancora.

Luca ha fatto di tutto per farmi venire in Italia. Non è stato facile, però. Da Cuba si esce soltanto sposando uno straniero e tra due uomini non era proprio possibile. Da quando sono qui leggo e ascolto cose che mi sconvolgono. I gay chiedono la legittimazione delle coppie e in qualche paese del nord Europa già succede. Forse un giorno potremo averlo anche noi. Mi sembra un sogno.

Luca è stato davvero grande. Ha portato all’Avana una sua amica omosessuale e mi ha fatto sposare con lei. E’ stato divertente. Un matrimonio in piena regola celebrato a La Maison con firma sui registri e auto d’epoca. Lui ha fatto da testimone e da traduttore ma per noi è stato come sposarci davvero. Paola era soltanto un mezzo per raggiungere lo scopo e alla fine della cerimonia formale ha lasciato il posto a Luca ben volentieri. Abbiamo fatto un giro in auto sul Malecón per scattare qualche foto al tramonto e subito dopo una festa a Regla in casa della nonna, dove abbiamo bevuto e ballato fino al mattino.

Ho dovuto attendere un paio di mesi per ottenere il visto per l’espatrio, ma poi è arrivato. Non potevano rifiutarlo: ero sposato.

Sono arrivato in Italia a gennaio e non posso negare che un po’ la differenza l’ho sentita. Freddo polare, pungente. Vento di tramontana e libeccio. Io ero uscito da Cuba soltanto una volta con il gruppo di ballo, però era agosto quando partimmo per una turnè in Spagna e non avevo sentito una gran differenza. In vita mia non avevo mai indossato niente più che una maglietta di cotone e un paio di pantaloni leggeri. In Italia non era proprio la stessa cosa. E poi mi mancava la musica e il chiasso della mia gente. Uno stereo acceso giorno e  notte a tamburellare ritmi di merengue e salsa. Il silenzio è la cosa che ancora fatico ad accettare, soprattutto d’inverno. Perché quando viene l’estate non è che gli italiani siano così diversi dai cubani, con la bella stagione escono fuori dal guscio e sanno divertirsi. E’ anche un problema di clima, in fondo.

Mi mancano anche le vicine di casa che irrompono senza bussare con la scusa di farsi prestare un po’ di zucchero o del caffè e poi si fermano per ore a spettegolare e a commentare le ultime puntate della novela trasmesse dalla televisione.

Qui ognuno vive a casa propria. Io mi sforzo di riprodurre un’atmosfera cubana, almeno in casa mia. Però non è facile. Per esempio lo stereo va tenuto a basso volume perché dà fastidio ai vicini. I lati negativi sono tanti, è vero. Però anche le cose buone non vanno dimenticate. Qui vivo tranquillo con Luca e poi ho un lavoro, insegno danza latino-americana in una palestra e guadagno dei soldi. Ho una casa vera e una solidità economica, senza dovermi ingegnare ogni giorno a procurarmi pranzo e cena. Non tornerei indietro, certo che no. Anche se Cuba mi manca, perché negarlo? E’ la mia terra. E mi capita spesso di sentire che in fondo al cuore è ancora aperta una ferita di nostalgia...

 

il libro, edito da StampAlternativa, si trova già in libreria


 

Poesia a ritmo di salsa

Carrellata di giovani poeti cubani

Prima puntata

 

di Gordiano Lupi

 

La poesia cubana prodotta dalla Rivoluzione Castrista non può prescindere dall’ideologia e dalla storia e si inserisce in un contesto dove “l’arte è un’arma della Rivoluzione”. Sono parole di Fidel Castro che si è sempre rivolto agli intellettuali ammonendoli a restare dentro la rivoluzione, perché al suo interno sarebbe stata permessa ogni libertà (con i dovuti limiti). E’ ovvio che la “poesia delle due sponde”, la poesia cubana in esilio, ha caratteristiche diverse, generalmente di protesta e polemica nei confronti del regime comunista. Nell’economia di questo scritto ci occuperemo soltanto della poesia che si scrive sull’isola (anche se spesso viene pubblicata soltanto all’estero per svariati problemi, non ultimi quelli di natura economica).

Dopo il 1959 la poesia si storicizza e si cala nella realtà, rifuggendo da visoni surreali e mitiche. La poesia collabora alla costruzione dell’uomo comunista ed è al servizio della nuova idea che, almeno durante i primi vent’anni, è capace di infiammare gli animi.

Non si può parlare di poesia cubana moderna senza prima fare un breve accenno ai due grandi nomi che hanno caratterizzato la letteratura dell’isola negli ultimi due secoli: Josè Martì (1853 – 1895) e Josè Lezama Lima (1910 – 1976).

Josè Martì è considerato l’eroe dell’indipendenza, morì combattendo contro i colonizzatori spagnoli e fu poeta di radice whitmaniana, anticipatore della poetica modernista (di lui si ricordano soprattutto i Versos Sencillos del 1891, che contengono anche le parole della celebre canzone Guantanamera). Non fu solo poeta, ma anche narratore per l’infanzia (fondò la celebre rivista La Edad de Oro), saggista, uomo politico e romanziere. Tutta l’educazione della gioventù cubana passa attraverso l’insegnamento capillare della sua opera.

Lezama Lima  ebbe molti discepoli che si radunarono attorno a lui e alla sua rivista Origines, fu autore di poesie ermetiche e visionarie  (Muerte de Narciso, 1937) e del grande romanzo filosofico di matrice proustiana Paradiso (1966) seguito dall’incompiuto Oppiano Licario (postumo, 1977). La poesia moderna deve molto a Lezama Lima  e alla rivista Origines che produsse l’antologia Diez poetas cubanos (1948).

La prima poesia post rivoluzionaria la troviamo nell’antologia Poesia Joven de Cuba (1959) ed è un qualcosa di molto moderno. “La poesia - dicono gli stessi autori nell’introduzione - penetra la vita quotidiana e si nutre di essa, nutrendola a sua volta. Deve essere ricca di prosa e dialoghi, ma anche di violenza, effusioni sentimentali, preoccupazioni sociali e politiche, sgorbiature, impurezze”. Queste parole sono un manifesto che rompe con la tradizione romantica e inserisce il ruolo del poeta come fondamentale all’interno di una nuova società da costruire.

Altra rivista importante è El Caiman barbudo (fondata nel 1966) che accentua la poetica conversazionista e colloquiale portandola alle estreme conseguenze, sino a svilirla e farla morire. El Caiman ha la sventura di nascere in un periodo molto buio per la cultura cubana, il cosiddetto quinquennio grigio, quando il poeta è quasi totalmente asservito alle esigenze della Rivoluzione. Eccessi di retorica e di nazionalismo caratterizzano il gruppo del Caimano, che non fu neppure in grado di darsi una propria antologia, ma soltanto un manifesto intitolato Nos pronunciamos.

I poeti degli anni settanta, in polemica con questa retorica di regime troppo spinta, impostano una visione anti colloquiale della poesia. Questi autori vogliono liberare i versi dalle trappole dei troppi elementi prosaici e dagli eccessi colloquiali, però finiscono per cadere nell’eccesso opposto. Ne viene fuori una poesia stucchevole che non ha più alcun legame con la realtà e rifugge dalle radici sociali. E’ il tojosismo (da tojosa la colomba selvatica delle campagne cubane), una corrente che si rivolge verso il mondo rurale e vuole riaffermare i valori nazionali e le bellezze dell’isola. Si recuperano forme strofiche in disuso come il sonetto e  la decima. Un esempio lo troviamo nell’antologia Nuevos Poetas curata da Roberto Diaz. Dopo questa caduta verticale, negli anni successivi si assiste a una graduale ripresa di consistenza del discorso lirico. I poeti degli anni ottanta propongono un nuovo modo di storicizzare la poesia, pur senza tornare agli estremi del colloquialismo. Gli anni novanta si esprimono nell’antologia Cuba: en su lugar la poesia (1982) Fu un periodo di fioritura poetica senza precedenti capitanato da Raul Hernandez Novas. Infine i nuovissimi autori degli anni novanta, che sono quelli che ci interessano più da vicino, riscoprono la trova e la lirica cubana (il Guillermo Tell di Carlos Varela ne è l’esempio più significativo) e attraverso quella radicalizzano i conflitti generazionali. Si torna allo squilibrio e allo sconcerto, cambia la visione del mondo. Il poeta vive ai margini della società e non al suo interno, cerca il rischio e  ama l’avventura, disprezza le regole dei padri. La poesia vive a stretto contatto con la musica, tanto è vero che molti poeti sono anche cantautori (Frank Delgado), cantanti rock (Carlos Varela) o improvvisatori di strofe cantate o repentistas (Alexis Diaz Pimienta). La poesia cubana di fine secolo è lacerata e luminosa ed è lo specchio di una situazione sociale difficile e precaria. I poeti contemporanei mettono sulla carta tutte le incertezze e contraddizioni di una società che cambia e non sa dove è diretta. Una società che a parole si dice ancora comunista mentre nei fatti si apre a forme di capitalismo imperfetto che acuiscono le differenze sociali e gettano la popolazione nello sconcerto.

Il poeta si fa interprete di queste esigenze e offre il suo canto all’analisi di un quotidiano difficile da capire.

Vogliamo cominciare questo nostro viaggio all’interno della poesia cubana degli ultimi anni novanta presentandovi una lirica di Alexis Diaz Pimienta.

 

Le lettere smarrite

 

Per favore, non recuperate le lettere smarrite.

Lasciate la busta accanto al tronco dell’albero,

sotto un’anonima pietra, o a rotolare nei giardini.

Ci sono lettere che si scrivono perché non arrivino,

perché dall’altro lato della voce diffidino di tutto,

perché esista una seconda lettera, esplicita e inutile.

Ciò accade con l’assenso di tutti,

con soprassalti premeditati e complicità.

Sono mesi, anni, di matematica innocenza.

In quelle lettere si confessava tutto,

si annunciavano pericoli che poi la pioggia ha ammorbidito;

in quelle lettere c’erano poscritti che premonivano

sul fatto che sarebbero andate smarrite.

La loro vera destinazione era il silenzio,

le erbacce al bordo dei letti,

le ragnatele sui davanzali,

le nuvole sul volto.

Definitivamente,

dall’altro lato della voce non l’aspettavano.

Lasciatela accanto all’albero,

sotto un’anonima pietra,

a rotolare nella memoria del felice mittente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Danilo Manera – da L’isola che canta giovani poeti cubani – Feltrinelli, 1998)

 

Alexis Diaz Pimienta (L’Avana, 1966) è un poeta repentista e lavora al Centro Provinciale della Musica dell’Avana. Ha pubblicato all’estero (soprattutto alle Isole Canarie) molte raccolte di poesie (Cuarto de Mala Musica 1995, En Almeria casi nunca llueve 1996, La sexta cara del dado 1997, Pasajero de transito 1997, Las palmas de Gran Canaria 1997). Ha pubblicato una raccolta di racconti, Los visitantes del sabado, 1994.

In Italia si possono leggere sue poesie nel volume L’isola che canta, Feltrinelli 1997 e racconti in La baia delle gocce notturne, Besa 1996 e Vedi Cuba e poi muori, Feltrinelli, 1997.

I due primi capitoli di POESIA A PASSO DI SALSA, lezioni di letteratura cubana.sono state pubblicate da IL FILO di Roma (ottobre - novembre).

 

IL GIUSTIZIERE DEL MALECON

 

  

Un letto disfatto e pareti bianche, fuori il sole di sempre.

     E’ normale lasciarsi andare ai pensieri da un letto d’ospedale.     Ripercorrere il passato, quello che è stato e soprattutto ciò che avrei potuto evitare. Andare con la mente in un viaggio a ritroso nel tempo e accarezzare emozioni lontane. Soprattutto perché adesso sono sola e intorno vedo solo medici e infermieri. Non che mi manchi qualcosa. Tutti sono così gentili e ascoltano ogni richiesta per compiacermi. Però devo guarire in fretta e tornare quella d’un tempo, mio figlio Danilo mi attende e non può stare solo con la nonna, a Toyo. Devo portarlo nella nostra casa di Luyanó. Ho soltanto lui per compagno, da quando quell’italiano, che per un gioco del destino è stato suo padre, mi ha abbandonato. Volevo essere io a decidere sul futuro e ho scelto di vivere le luci della notte, che si specchiano sul Malecón e fanno compagnia alla luna nei riflessi di acque torbide e nere. Ho scelto le discoteche per turisti, i grandi e lussuosi hotel davanti a case di povera gente. Questo è il mio mondo. Cavallerizza della vita. E mi chiamano con disprezzo jinetera. Le comari del quartiere mi guardano storto quando  vesto gli abiti della notte e fuggo via da un polveroso quotidiano. Attraverso la calzada  delle quatros esquinas, poi prendo un taxi in direzione della vita, indossando scarpe altissime e gonne corte dai colori sgargianti.

     Che altro posso fare? Ho solo un corpo da vendere e lo faccio fruttare bene. E’ l’unico modo che conosco per dar da mangiare a un bambino di quattro anni che non ha mai conosciuto suo padre. La mia unica vendetta è quella di vivere alle spalle di gente come lui. Sono sempre io ad abbandonarli. Sono io che decido quando è il momento di farla finita. Non mi innamoro mai. Non mi innamoro più, da tempo. I sogni non attraversano le strade di queste notti disperate condite d’avventura. Notti di sesso e strade scolpite da vento caldo in ogni stagione. Balli e sudore sotto le stelle. 

     Mi chiamo Maria, ho venticinque anni e vivo sola a Luyanó. Mia madre abita a Toyo e la vedo quasi ogni giorno, soprattutto per lasciarle Danilo. E’ un bambino e non lo voglio immischiare nella mia vita, in questi squallidi incontri dove il sorriso è obbligato e l’amore soltanto finzione. Così lui sta spesso con la nonna, in un palazzo davanti a un negozio di pane e dolciumi, sopra un bel porticato stile coloniale screpolato da vento e incuria. Là trova una famiglia normale e tanta gente che lo fa giocare. Ci sono i miei zii e le cugine, un appartamento di tre stanze accoglie almeno tre famiglie e c’è sempre allegria e rumore a ogni ora del giorno. Danilo va volentieri dalla nonna. Sa che là può giocare a nascondino per le scale del palazzo o farsi rincorrere in strada, dove non passano che poche auto su di un fondo sconnesso.

     Ci sono ragazzi più grandi che a volte rimediano una pelota e lui cerca di inserirsi nel gioco in tutti i modi. E’ sveglio Danilo e non si stanca mai. Mia madre è ancora giovane e sa come domarlo, forse più di quanto non riesca a fare io che devo farmi perdonare troppe cose. Stiamo così poco insieme che quando capita voglio solo assaporare il suo respiro lieve vicino al mio petto e questo basta per rendermi felice. Tutto quello che faccio è per lui. L’unico uomo della mia vita.

     Mia madre dice che sono una bella ragazza e che gli uomini si innamorano di me soltanto  a guardarmi passare. Credo che in parte sia vero, perché quando voglio trovare compagnia per la notte non fatico molto. E riesco anche a scegliere e a scoraggiare chi non mi va a genio. Dicono che siano i miei occhi neri e il sorriso ad attrarre, ma anche i lunghi capelli dello stesso colore che mi scendono liberi dietro le spalle. Sono abbastanza alta e indosso gonne cortissime dai colori vivaci che fanno risaltare le lunghe gambe. Gli uomini mi  mangiano con lo sguardo e poi qui la gente non te lo manda a dire quando ti trova carina. Lanciano piropos scherzosi e volgari che ti fanno arrossire e io rispondo con un sorriso a tutti, tanto se non pagano se lo possono togliere dalla testa che mi sprechi per loro. E un cubano non lo voglio neppure per regalo. Ubriaconi e perdigiorno, non sanno fare altro. Vivono tra caffetteria e feste, corrono dietro alla prima gonna che scopre le gambe un poco sopra il ginocchio, tradiscono con leggerezza. E poi la donna per loro è poco più che un oggetto.

     Non che gli stranieri siano migliori ma almeno hanno i dollari in mano. Il cubano vive di espedienti, piccole truffe ai danni dello stato, affari con turisti. E lo stato se lo merita in fondo, perché la paga mensile per un lavoro normale non supera i duecento pesos. Dieci dollari. E’ fondamentale arrangiarsi e inventare qualcosa se si vuole mangiare. La mia fortuna è quella di possedere un bel corpo. La mia unica ricchezza. Un corpo che mi ha sempre aiutato a vivere e a superare momenti duri. Mi ha fatto anche illudere quando è stato di quell’italiano che mi ha lasciato un figlio. A volte lo rivedo specchiandomi negli occhi neri del mio bambino. Il suo nome era Franco e pareva sincero. Non l’ho più visto dopo le tante promesse gettate al vento e lui non ha mai conosciuto il bambino. Doveva portarmi via, lontano. Dovevo andare a vivere con lui. E invece siamo rimasti soli, io e Danilo. Lo stringo forte al petto e gli sussurro che per lui sarà diverso, di sicuro. La vita cambierà e riusciremo a costruire un avvenire o almeno spero, se no che senso avrebbe tutto ciò?

     La politica non mi ha mai interessato. Le chiacchiere di Radio Reloj e della Cubavision sono acqua che corre tra canzoni di Manolin e Marc Anthony, tra una novela e un film. Niente di più. Alle sei della sera, quando Fidel parla, di solito ho altro da fare e non m’incantano le pause che confeziona ad arte tra parole studiate e convincenti. Non mi appassionano le storie assurde che servono solo a far propaganda. Quando è successo di Elian se ne parlava da mattina a sera, quasi fosse l’unico nostro problema, come se i veri problemi non fossero altri. Ci hanno tolto anche la dignità e il rispetto di noi stessi, possono portarci via anche un bambino.

     E adesso sono in quest’ospedale e dalla finestra una strada imbiancata di polvere accoglie ragazzini in corsa, tra carcasse d’auto e palme che si lanciano a disegnare contorni di cielo.

     Sola con i ricordi. Piena di rimorsi e rimpianti.

     Tutto sarebbe potuto andare diversamente.

     Io non sarei in una stanza del Mazorra a osservare un angusto ritaglio di cielo. Tanta gente sarebbe ancora viva, avrei un’amica accanto. Ma non si può cambiare il passato e allora non resta che ricordare. Ricordare e rimpiangere.

 


IL MISTERO DI INCRUCIJADA

Ricordi di storie lontane

 

La vecchia sedia di legno dondola ancora in faccia al tramonto, nonostante il tempo che è trascorso, nonostante gli anni.

L’estate comincia a farsi sentire nella quiete di questa campagna e come ogni giorno, quando il sole scende silenzioso al limitare dei campi di canna da zucchero, il mio sguardo si perde tra palme lontanissime e rumori di vento.

Qui sedeva mio nonno, con il sigaro tra le labbra e la bottiglia di rum nella mano. Ricordo come fosse adesso quando mi raccontava la storia della casa sperduta ai margini del bosco, dove cantano le prime civette che aprono le porte alla notte.

Era la casa delle vecchie fiabe e di lontane paure.

Attendevo l’odore del suo sigaro e le parole, in compagnia del vento della sera, mentre mia sorella Maria poco lontano giocava con le bambole di pezza.

Mi sedevo comoda davanti a lui e chiedevo: 

“Dai, nonno, raccontami una storia”.

“Quale storia?” faceva lui.

Ma sapeva che era sempre quella che volevo.

La storia della casa maledetta.

La storia della strega che viveva a Incrucijada, vicino a Cavagna.

Lui diceva di averla conosciuta e che i suoi lunghi capelli neri scendevano a boccoli su di un sorriso misterioso.

Mio nonno parlava con voce lieve, soppesando le parole.

La campagna portava i rumori della notte. Voci di civette e canti di grilli, vento che muoveva le fronde di altissime palme e basse mangrovie. Il fiume scorreva vicino e rumoreggiava acquitrinosi lamenti su gracidare di rane.

Ero piccola allora.

Avevo appena cinque anni ed ero venuta ad abitare a Cavagna da poco. Mio padre era morto e per noi il futuro diventava improvvisamente difficile. Una lunga malattia ce lo aveva portato via e senza di lui non potevamo continuare a vivere in città. Mia madre non aveva un lavoro e doveva occuparsi di me e di Maria.

Fu così che accettammo l’invito del nonno.

Trasferimmo le nostre poche cose da L’Avana a Cavagna e cambiammo vita radicalmente. Non più i viali polverosi e i rumori del porto industriale che si udivano distintamente dalla nostra casa sulla via Blanca, ma gli enormi silenzi della notte.

Poca gente intorno. Poca vita.

Case di legno sparse accanto a palme isolate e distese di canna e banani. Campi di mais e boniato. Frutteti di mango e guayaba, che lasciavano il posto a dolcissimi mamey.

Io ero abituata ai rumori delle strade avanere, allo scoppiettare dei motori di carcasse di auto cadenti, ai bambini, che facevano girare una pallina da baseball agli angoli dei vicoli. Non è stato facile adattarsi a questa immensa campagna lontana dal mare.

Iniziai a passare le sere accanto a mio nonno.

Era un modo per abituarsi a questa nuova vita fatta di silenzi.

Lui era bravissimo a interrompere le mie nostalgie e a riempirmi la testa di storie impossibili. Narrava di fate e folletti. Raccontava avventure di bambini che correvano liberi nei boschi e incontravano divinità scese sulla terra. Descriveva con pazienza episodi di una guerra lontana combattuta sui monti. Episodi che io credevo inventati ma che poi riconobbi come storie di vita.

Mio nonno era stato sulla Sierra e aveva lottato per la rivoluzione. Pochi giorni prima di morire mi disse che tutto quello che gli restava di quel periodo lo aveva raccontato a me, sotto forma di storia. Niente di più, perché le illusioni le aveva perdute e le persone in cui credeva erano morte troppo presto.

Mi piacevano quelle narrazioni intense e appassionate e la mia mente di bambina fantasticava di soldati in mezzo a trincee improvvisate, che dormivano nel fango. Mi sembrava di vederli i fucili dei rivoluzionari che calavano su di un nemico organizzato, dopo averlo attirato in imboscate incredibili tra le montagne. Lui però sapeva benissimo qual era il racconto che preferivo e lo teneva in serbo per ultimo, come una meta da raggiungere e un premio da meritare. Io attendevo paziente la storia che mi incuteva maggior terrore.

La campagna, con il suo silenzio e i lugubri canti di uccelli notturni, accompagnati dal gracidare delle rane dai fossi e dai grilli nei prati, cominciava a farmi paura dopo il tramonto.

Non contenta chiedevo a mio nonno di completare l’opera, parlandomi della casa lontana con il tetto di fronde di palma.

Era il mio incubo. Spesso la sognavo.

A volte immaginavo il volto affascinante e malvagio della strega. Mio nonno diceva che era bella da impazzire e che da giovane aveva fatto perdere la testa a molti ragazzi del villaggio. Però non si era mai sposata con nessuno e chi era stato visto con lei dopo poco tempo aveva fatto una brutta fine. Raccontava mio nonno che il suo primo pretendente era stato il medico di Cavagna, un bel ragazzo di carnagione scura, corporatura massiccia e lineamenti decisi. Lo videro uscire con lei per qualche settimana, suscitando l’invidia di tutti i giovani del paese, perché Isabel era davvero bella. Poi improvvisamente si ammalò. Rimase bloccato nel letto per mesi e nessuno scoprì l’origine di quella strana malattia. Morì tra atroci sofferenze dopo un anno, quasi implorando che la vita gli venisse tolta.

Isabel era scomparsa nel nulla.

Era tornata a rifugiarsi nella sua casa ai margini del bosco e non aveva frequentato più nessuno per molto tempo.

Un paio di anni dopo la rividero con un proprietario terriero di nome Roberto, che possedeva la gran parte dei campi di canna di Cavagna. Un uomo importante, che dava lavoro a tanti braccianti e pagava regolarmente i suoi conti. Era stimato da tutti e si sapeva far ben volere anche dai suoi lavoranti. Non era un atteggiamento comune tra i padroni, solitamente inclini a sfruttare i contadini e a non curarsi delle condizioni dei poveri.

Mio nonno mi diceva che se i proprietari fossero stati tutti come lui non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione.

Isabel usciva con il suo uomo e passeggiava per le vie del corso principale di Cavagna nei giorni di festa.

A messa la domenica, però, non ce la videro mai.

Era l’unica donna di tutta la campagna che non andasse mai a una funzione religiosa e non praticava neppure i riti santeri della tradizione.

La relazione con Roberto durò tre settimane, perché un giorno lui  venne trovato morto nel bel mezzo di uno dei suoi tanti campi di canna. Fu una morte orribile. Il suo corpo era diventato gonfio e nero e in bocca gli avevano piantato a forza tre canne da zucchero divelte.

Mio nonno assicurava che non poteva essere stato nessuno dei suoi operai perché tutti lo amavano e lo rispettavano.

Era stata la bruja a punirlo. E lo aveva fatto nel modo peggiore.

Isabel rimaneva sempre sola e nessuno aveva più il coraggio di avvicinarla. Poi fu lei stessa a isolarsi sempre più. Non voleva uomini intorno e non cercava marito perché ce l’aveva già, diceva mio nonno. Era sposata con Satana.

Adesso che sono un poco più grande e che il nonno non c’è più,  penso che probabilmente parlava da innamorato respinto.

Probabilmente Isabel piaceva anche a lui e ci aveva provato a lungo, senza successo. Le strane storie su di lei le aveva sicuramente inventate alla caffetteria mentre trangugiava la sua quotidiana mezza bottiglia di rum con gli amici.

Ho quindici anni e non posso continuare a credere nelle streghe e nei patti satanici. I suoi racconti però sono un ricordo di fanciullezza che vorrei riuscire a esplorare. Un mondo misterioso che attende soltanto di essere scoperto e conquistato.

E’ per questo che ho deciso di levarmela questa curiosità.

Tra poco ci andrò a quella casa lontana, insieme a  Maria e Luis, il nostro miglior amico, che ha un paio di anni di più e gli stessi ricordi d’infanzia. Siamo convinti che siano tutte leggende.

Racconti del popolo e nulla di più.

Per questo vogliamo andare a vedere. Per smettere di avere paura quando cala la notte e lo sguardo corre lontano.

Io ricordo spesso mio nonno e il suo sigaro acceso a rischiarare il buio. Rammento le storie e le sue mani scarne. Il bene che mi voleva e la gioia che provavo nello stare a sentire parole nel caldo di quelle sere d’estate. Tornano a mente le paure dell’infanzia e i racconti che non riesco a scordare.La solita vecchia storia di Incrucijada. E adesso mio nonno non c’è più per stringermi forte al petto e darmi il bacio della buona notte. Le mie paure devo affrontarle da sola.

 


Il primo capitolo di Vita da Jinetera di Alejandro Torreguitart Ruiz

Completamente inedito

Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) studente di letteratura spagnola all’Università dell’Avana, scrive poesie e racconti per la rivista accademica Esperanza, è poeta repentista e cantautore. Non ha pubblicato niente in patria. Suona in un gruppo rock chiamato El Barrio. Di lui per il momento Gordiano Lupi ha tradotto il racconto  La Marina del mio passato che dovrebbe andare a formare il capitolo conclusivo del saggio VEDERE CUBA DALLA PARTE DEI CUBANI (Terzo Millennio Editore) e il romanzo Le confessioni di un omosessuale che uscirà nel corso del 2003 nella collana Eretica di Stampa Alternativa. Adesso Lupi sta traducendo il romanzo Vita da Jinetera, un vero e proprio viaggio nella prostituzione per turisti e alcuni racconti di taglio esistenziale (Vento tropicale, Una mattina con la testa tra le mani, Donna di fuoco...).  Alejandro è un autore dallo stile indefinibile, grande ammiratore di Pedro Juan Gutierrez e di Lezama Lima, fa suo il realismo magico sudamericano e lo metabolizza in una spietata analisi del quotidiano.

 

 

 

 

Coral negro de L’Avana/ tremendisima mulata…

La radio diffonde una musica che rimbalza nelle mie orecchie. Un vecchio motivo che nessuno canta più da anni. Piaceva a mia nonna, credo. Lo hanno riportato gli europei e le loro stupide mode.

La flaca.

Por un beso de la flca/ jo daria lo que fuera…

Che puttanate ci tocca ascoltare…

Anche per oggi è finta, comunque. Si torna a casa, se Dio vuole.

E anche se Dio non vuole, nella mia vita Dio c’è sempre entrato poco.

Mi tolgo di dosso le braccia pelose dell’uomo che ho rimorchiato ieri e mi alzo dal letto. Sono in un appartamento di Nueva Vedado, poco lontano da calle venticinco, la lunga direttrice che conduce al Malecón. Mi vesto con calma, quindi passo in bagno per sciacquarmi la faccia e rifarmi il trucco. Lui dorme. Russa, addirittura. Non si accorgerà neppure che me ne sono andata. Qui non ho più niente da fare. Stringo i cento dollari tra le mani ed esco. Troverà un’altra per domani. Ce ne sono tante. Non voglio neppure salutarlo e sentire quell’odioso accento tedesco. Esco dalla camera accostando la porta con delicatezza, attraverso l’ingresso e la cucina, qui incrocio lo sguardo della padrona di casa. Lei non saluta, mi osserva di sfuggita e continua a fare le sue cose. So cosa pensa ma non mi interessa.

“Che il diavolo ti porti, vecchia megera” mormoro. Non può sentirmi.

Mi allontano verso calle venticinco dove ferma la guagua. Sento bruciare sulla pelle il sole del mattino. Un sole che è sempre lo stesso, estate o inverno. Si torna a casa, penso. Intorno a me la vita di sempre. Gente che passa, bambini che corrono, cani randagi che mendicano un pezzo di pane. Qualcuno che fischia alle spalle. Un nero sorride da un’auto scassata. Un lavorante della microbrigada si sporge dal balcone di un palazzo in costruzione e mi lancia un bacio.

“Vieni qui, mulatta!” grida.

Rispondo con un sorriso.

Sono così gli uomini all’Avana. E forse anche nel resto di Cuba. Se passa una bella ragazza non possono fare a meno di lanciarle un complimento. Fa parte del loro modo di essere e a noi piace, in fondo. Ci sentiamo desiderate, abbiamo la sicurezza d’essere attraenti. Io ho venticinque anni e mi sento vecchia di fronte alle ragazzine che fanno la vita. Ho un figlio di otto anni, una casa dove tornare, una famiglia.

“Vengo a pranzo da te, mulatta. Se cucini come cammini mi mangio fino all’ultimo cucchiaio di riso!” grida un nero che si è fermato sull’altro marciapiede soltanto per osservare il movimento ondulatorio delle mie natiche.

“Non so cucinare” rispondo sorridendo.

“Vengo lo stesso. Tanto sono a dieta…”

Non restano indietro questi uomini, penso.

“Lascia stare che è meglio” concludo.

Succede sempre così. Gli uomini mi mangiano con gli occhi quando passo per strada. Ci provano. Mi fanno complimenti. Io lascio fare. Sorrido. Ringrazio. Tanto alla resa dei conti sono io che decido e il fatto che abbiano dollari è l’unica cosa che conta. Ieri sono andata a letto con quel bestione tedesco che puzzava come un animale. Era sudato e pieno di birra, alito e ascelle mandavano un odore pestilenziale, eppure ci ho passato la notte concedendo il minimo indispensabile. Questi europei non sono dei grandi amatori, si stancano quasi subito. Due pompate e via. Tutto finito. Se sono vecchi è anche meglio. Durano meno e il guadagno è più facile.

Adesso ho cento dollari in tasca e meno pensieri.

Raggiungo il terminal della guagua, proprio di fronte al vecchio giardino zoologico. Ci ho portato Daglis un po’ di tempo fa e ricordo ancora la sua felicità davanti alla gabbia dei leoni e a quella dei gorilla. Non se ne sarebbe mai andato.

“Aspetta la guagua?” chiede una signora di mezza età che usa un ombrello rattoppato per trovare riparo dai raggi del sole.

“Sì, quella che va a Luyanó” rispondo.

“Ha tre ore di ritardo. Si è rotta e la stanno riparando”.

Bene, come in Lista di attesa. Solo che qui non è un film. Penso.

Decido di prendere il taxi, tanto ho cento dollari in tasca e posso permettermelo. C’è Daglis che mi aspetta e non posso tardare.

 

Siamo tornati a vivere a Luyanó da un paio d’anni, proprio nella vecchia casa di quando era vivo il babbo e io e mia sorella Manuele sorella soltanto due bambine. L’ho ricomprata con i soldi guadagnati facendo la vita. E’ stata una bella soddisfazione.

“Sei tu, Juliana?” domanda mia madre dalla sala.

“Sì, mamma. E’ rientrato Daglis?”.

“E’ qui con me. Stiamo facendo i compiti”.

Daglis appena sente la mia voce scende dalla sedia e mi viene incontro.

“Mi hanno dato da imparare a memoria una poesia di Martí. Non ci riesco”.

“Vediamo un po’” dico io “prova a ripeterla…”

Cultivo una rosa blanca/ en julio como en enero/ para el amigo sincero/ que me da su mano franca…

“E poi?”

“E’ qui che è difficile. Non ricordo la seconda parte”.

“Leggila ancora”.

“Perché si devono studiare le poesie a memoria? A cosa serve?”.

“Quella poesia è molto bella, Daglis. Devi impararla”.

Non voglio che mio figlio diventi come me. Lui deve studiare, imparare tante cose, apprezzare le poesie, l’arte, i libri. Lui deve fare una vita diversa. Ne ha le possibilità. E poi qualcosa cambierà in questo paese, prima o poi. Vedo che fa una smorfia, poi si rimette a  sedere. La nonna continua a leggere la seconda parte della poesia. La imparerà, ne sono sicura. Daglis è un ragazzo sveglio e intelligente. Un po’ vagabondo, magari. Ma quando vuole le cose le apprende.

“Ha telefonato tua sorella” dice mia madre.

Io sono sdraiata sul divano per riposare.

“Cosa ha detto?”.

“Viene a cena da noi con il marito”.

“Con quel nero parassita?”.

“Non parlare così di tuo cognato. Non mi piace”.

“Proprio un nero si doveva andare a prendere per marito... Un nero senza un quattrino che sta con lei solo perché io provvedo per tutti…”.

“Non essere troppo dura con lui”.

“E’ stata Manuela a dirmi che Ramon la picchia e spesso torna a casa ubriaco. Io ne ho abbastanza di uomini così. Ne ho conosciuti troppi da quando è morto papà”.

“Deve piacere a lei, in fondo”.

“Sì, però lo mantengo io”.

“Basta Juliana, per favore. C’è il bambino che sente. Non vorrei che andasse a riferire tutto”.

“Daglis non è stupido. Sa che certe cose non si dicono. Vero, Daglis?”

“Io sto pensando soltanto a questa stupida poesia. Non è che potrei andare a  giocare un po’ con la  pelota? Finisco dopo…”.

“Va bene, vai. Ma per cena voglio che tu l’abbia imparata. Intesi?”.

Lo accompagno con lo sguardo. Daglis esce correndo per strada dove incontra il solito gruppo di amici, ragazzi di tutte le età che improvvisano due squadre di baseball in un campo delimitato dalla loro fantasia. Mia madre passa in cucina dove sta bollendo un pentolone di riso e fagioli. Nel forno c’è un pezzo di maiale ad arrostire.

“Friggerò un po’ di banane con le patate. Per il resto la cena è già pronta” mi dice dall’altra stanza.

Io la sento appena. Poi mi addormento sul divano.

La notte è stata  faticosa e devo recuperare le energie perdute.

 


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