RACCONTI SU CUBA


 


 

 

Una fuga

Da : I racconti del Presidio

di PABLO DE LA TORRIENTE BRAU

 

 

La fuga è sempre stata una delle forme- la più temeraria – della speranza del carcerato. La letteratura si è occupata lungamente dell’evasione e da quando il Conte di Montecristo riuscì a scappare dal Castello di If,utilizzando il cadavere del suo maestro, il tema è stato utilizzato con fortune diverse, ma in maniera sistematica.

È successo lo stesso anche nel cinema e si deve ammettere che, come per tante altre cose, la finzione non ha fatto altro che seguire i passi della realtà.

Evadere effettivamente è una delle torture mentali del carcerato. Molti, per anni, hanno studiato questa opportunità con una pazienza unica della quale si parla poco nei libri, ma che cinesi e benedettini citano con un esempio classico: la pazienza del carcerato.

La parola Fuga è come una raffica di libertà. E i forzati di tutte le prigioni del mondo, nei momenti supremi, non hanno mai avuto dubbi nel ricorrere alla fuga cercando la libertà o fuggendo verso la morte.

I prigionieri sono fuggiti nelle steppe gelate della Siberia, esposti alla fame dei lupi; dall’isola della Nuova Caledonia, perduta nella immensa solitudine del Pacifico, in fragili barchette sono scappati i prigionieri, affrontando la fame crudele e le allucinazioni pazze della sete in quel mare senza fine! Dall’Isola del Diavolo sono evasi i prigionieri, sfidando le tribù degli indios cacciatori di bianchi, gli artigli dei giaguari, il morso fatale dei serpenti ... e dall’Isola de Pinos, meno pericolosa, ma più terribile, sono scappati i carcerati, senza nemici immediati, ma senza acqua da bere! Anche da lì sono scappati, senza avere nulla più che immonde distese di fango dove scappare e soldati con la mira infallibile da cui scappare...

Ma in nessun altro penitenziario del mondo, come nel Presidio Modelo dell’Isola de Pinos l’innegabile verità dell’ossessione per la fuga ha provocato canagliate tanto feroci e vigliacche tra i reclusi...

La stragrande maggioranza delle evasioni registrate sono avvenute perchè quegli uomini erano stati castigati con:

“ la forzosa”... che era così: se non scappavano, li ammazzavano e tra morire fermi o morire correndo preferivano correre, in cerca di una immaginaria eventualità favorevole che non si presentò mai...

In molte occasioni i prigionieri conoscevano l’ora precisa in cui avrebbero sparato contro di loro e le stesse guardie concedevano loro un determinato numero di ore per

“fuggire”...

I prigionieri così dovevano fuggire senza speranze e senza preparazione, ciechi e storditi come il topo rinchiuso nella trappola, che salta invano, mentre il gatto lo contempla nervoso...

I prigionieri dell’Isola de Pinos fuggivano come i cervi sulla montagna, inseguiti dai cani e dalle pallottole, senza meta, senza sapere dove andare, senza altra motivazione che il panico... Si potevano paragonare solamente a poveri animali indifesi come i topi o i cervi, quei confinati fuggitivi dell’Isola de Pinos!

Nelle prigioni in cui io sono stato – come prigioniero politico - ho conosciuto alcune storie d’evasioni.

Nel Castello del Principe una volta, mentre assistevo al funerale d’un recluso, richiamò la mia attenzione una strana cerimonia finale. I compagni che portavano la bara la posero su un supporto di legno: il medico tolse il coperchio e certificò che il morto ... era il morto.

Cercai di sapere a cosa si doveva quel singolare riconoscimento e seppi che una volta, come nell’immortale libro di Alessandro Dumas, un recluso aveva preso il posto di un cadavere.

In un’altra occasione mentre stavo nel punto di controllo vidi con stupore che perquisivano la macchina del Supervisore della Prigione. Chiesi la ragione e mi spiegarono che una volta, con infinita pazienza, un carcerato aveva preparato un nascondiglio dentro una macchina e riuscì così a fuggire dalla prigione. 

Posso menzionare diverse evasioni avvenute nell’Isola de Pinos. È famosa la fuga di quei carcerati che se ne andarono e, non trovando niente da mangiare, tutte le notti ritornavano alla prigione, entravano nella dispensa e  prendevano viveri in quantità, sino a quando li ammazzarono.  Poi la famosa fuga del Guanche e la più nota di tutte, quella del Gibarito - Armando Denis Diaz- che evitò di farsi uccidere per più tempo di tutti gli altri, poichè visse per quattro mesi in libertà, burlandosi delle imboscate, sino a che, con i capelli cresciuti e i vestiti nuovi, mentre si stava imbarcando come un cittadino qualsiasi, un marinaio lo ammazzò sparandogli nella città di Nuova Gerona. 

Il Gibarito aveva scritto un diario sulla sua evasione, che era molto interessante. Io lo cercai per pubblicarlo, ma non riuscii a trovarlo più: sembra che fosse troppo interessante perchè scomparve dal sommario delle cause contro Castells.

Comunque chi legge quello che segue si potrà fare un’idea di ciò che erano le evasioni dal Presidio Modelo.

Luis Rivero Morejon era il nostro barbiere ed era magro, di media statura, bianco anemico. Forse era biondiccio...

Noi lo chiamavamo il Barberito, come tutti gli altri barbieri che avevamo avuto lì.

Non mi fece mai la barba e mi tagliò i capelli solo tre o quattro volte, ma non fu per questa ragione che non nacque mai intimità tra me e i barbieri.

Qualcosa d’istintivo mi faceva fuggire da loro... io sentivo che i barbieri venivano utilizzati per spiarci. Forse mi sbagliavo, ma il Presidio mi aveva insegnato ad essere prudente. Uno comunque dimostrava tanta curiosità per le nostre faccende che decidemmo di dire al capo del padiglione che sapevamo perfettamente che il barbiere ci stava spiando. Poco dopo lo cambiarono...

Questo però non vuol dire che non avevamo relazioni con il nostro barbiere.

Al contrario. Alcuni prediligevano le chiacchiere con loro e io stesso, nonostante la mia prevenzione, più d’una volta conversai lungamente con loro e con qualcuno nacque anche una certa confidenza.

Ora ricordo Morejon, Luis Rivero, La Rosa e Santos...

Quello che più attrasse la nostra attenzione però fu Luis Rivero, che era anemico, magro, silenzioso, quasi severo...

Matias e Bartolo Barceló riuscirono a fare amicizia con lui e sapemmo così che quell’uomo non faceva domande, ma  “raccontava”.

Luis Rivero aveva l’aspetto impressionante dell’uomo nel quale si intravede il soggetto predisposto al suicidio; nelle sue accuse, che formulava apertamente, si vedeva l’individuo che non può ammettere il silenzio davanti a  un crimine. Gli orrori del presidio lo disgustavano. Non era come quei reclusi -la maggioranza- per i quali quegli orrori avevano un solo lato negativo, cioè che c’era la possibilità di esserne ugualmente vittime!

Luis Rivero conservava anche nel Presidio, irritata, la dignità della coscienza umana.

Proprio per quella ragione non aveva “ amici” e avrebbe scontato totalmente la sua condanna. Il pensiero di non sopravvivere alla condanna lo preoccupava intensamente: era un’autentica ossessione per lui.

La sua misera costituzione fisica - mangiava troppo male – gli faceva presentire la morte lenta dell’uomo che si debilita. Quelle riflessioni rendevano più violente le sue parole e più dure le sue accuse.

Il solo nome di La Yana, nella sua immaginazione, evocava la morte... Barbiere, senza forze, affamato, sapeva fin troppo bene di non poter  resistere al barbaro sforzo che rappresentava quel disumano lavoro dei castigati.

“Io, quello, non lo posso resistere nemmeno una settimana” ci diceva “e se qualche volta mi manderanno là, scapperò il primo giorno...Preferisco morire per una pallottola correndo che con le ferite putride in una cella o morire affogato nel fango, morto di fatica ...”

E un giorno avvenne quello che temeva. Sembra che per aver “negoziato” qualcosa da mangiare o per il desiderio di vestirsi meglio – tipico tra i barbieri – Luis Rivero mandò una lettera a casa nella quale chiedeva che gli mandassero qualche capo di abbigliamento. Nell’ultima lettera confermavano la spedizione...

Nel Presidio era peccato mortale chiedere qualsiasi cosa  fuori, nemmeno un francobollo si poteva domandare... 

Il Capitano Castells aveva una sua opinione indiscutibile. Chiedendo, l’uomo criminale sfruttava la famiglia che se proprio lo desiderava poteva mandare qualcosa... ma non si poteva chiedere nemmeno un francobollo.

Luis Rivero sapeva bene tutto quanto, ma, aguzzando la fantasia, aveva concepito l’idea di inventare che l’offerta era dei suoi familiari.

Conoscendo bene la memoria prodigiosa degli uomini della censura e sapendo che  a loro poteva “non suonare bene” la storia dell’offerta, nell’ultima lettera ricevuta aveva aggiunto, imitando la calligrafia, un P.S. nel quale elencava tutti i capi che “la famiglia gli voleva inviare”.

Effettivamente però alla censura “non suonò” l’offerta e gli chiesero la lettera. Egli continuò a fare il barbiere, mentre eseguivano tutti i controlli e raccontò il caso a molti di noi.

“Se scoprono che ho falsificato la lettera, mi manderanno a La Yana e mi uccideranno, ma prima che mi uccidano, io scappo”!

Noi indovinammo che quell’uomo diceva la verità e quel pomeriggio, quando lo vedemmo raccogliere con la calma di sempre il suo fagotto con il borotalco, le lamette, le forbici e la striscia di cuoio per affilare, gli dicemmo addio, sicuri, di non rivederlo mai più.

Eravamo molto impressionati, sapendo che stava andando incontro ad una morte sicura!(frammento - Traduzione Gioia Minuti).

 

Un’altro!

 

 

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