Un momento storico di
Nuestra America poco conosciuto...
Fidel Castro aveva un appuntamento con il leader popolare Gaitán
Nella pacifica Bogotá,
residenza di frati e d’avvocati, il generale Marshall si riunisce con i
ministri degli esteri dei paesi latino americani. Che cosa ha portato in
Colombia il Re Mago dell’occidente, colui che irriga di dollari i
territori europei devastati dalla guerra?
Il generale Marshall
resiste impassibile con la cuffia sulle tempie alle chiacchiere che si
sentono, senza alzare le palpebre e fa conto sulla lunghissima
professione di fede democratica di molti tra i delegati latino
americani, ansiosi di vendersi a un prezzo di gallo morto, mentre John
McCloy, gestore del Banco Mondiale avvisa: “Mi dispiace Signori,
ma non ho lasciato il libretto degli assegni nella valigia...”
Fuori dai saloni della
Nona Conferenza Panamericana tutto il paese parla. I dottori
liberali annunciano che porteranno la pace in Colombia, così come la dea
Pallade Atena fece crescere gli ulivi sulle colline d’Atene e i dottori
conservatori promettono prenderanno la forza dal sole e accenderanno con
l’oscuro fuoco che sono le viscere della terra la timida una lampadina
votiva, nell’oscurità che si accende quando si prevedono i tradimenti,
nella notte delle nebbie.
Mentre i ministri degli esteri e i dottori gridano, proclamano e
declamano, la realtà esiste.
Nelle campagne della
Colombia si spara in una guerra tra conservatori e liberali; i politici
mettono le parole mentre i contadini mettono i morti.
La violenza sta
arrivando a Bogotà, bussa alle sue porte e minaccia la routine di
sempre, con gli stessi peccati di sempre, le stesse metafore.
Nella corrida dei tori
dell’ultima domenica, la folla disperata s’è lanciata nell’arena e ha
fatto a pezzi un povero toro che non voleva combattere.
GAITÁN
“Il paese politico,
dice Jorge Eliécer Gaitán, non ha nulla a che spartire con il paese
nazionale”. Gaitán è il capo del Partito Liberale,
ma è anche la sua pecora nera.
I poveri di tutte le
bandiere lo adorano. Che differenza c’è tra la fame liberale e la fame
conservatrice? Il paludiamo non è conservatore e nemmeno liberale! La
voce di Gaitán parla per il popolo che grida con la sua voce. Quest’uomo
mette al muro la paura! Accorrono ad ascoltarlo da tutte le parti, per
ascoltarsi, i miserabili nelle barche a remi attraversando la selva,
mettendo gli speroni ai cavalli, per i sentieri....
Dicono che quando
Gaitán parla se ne va la nebbia a Bogotà e che anche San Pietro si mette
ad ascoltare e non permette che cada la pioggia sulle gigantesche
concentrazioni riunite alla luce delle torce.
Il
coraggioso leader, con il su viso statuario, denuncia senza peli sulla
lingua l’oligarchia e il ventriloquo imperialista che la tiene sulle sue
ginocchia, un’oligarchia senza vita propria e annuncia la riforma
agraria e altre verità che porranno fine a una menzogna senza fine.
Se non lo ammazzano
Gaitán sarà il presidente della Colombia. Comprarlo non è possibile. A
quale tentazione potrebbe cedere quest’uomo che disprezza il piacere,
che dorme solo, mangia poco e beve niente e che non accetta l’anestesia
neanche per strapparsi un dente?
IL “BOGOTAZO”
Alle due del
pomeriggio del nove aprile, Gaitán aveva un appuntamento: andava a
ricevere uno studente, uno di quegli studenti latino americani che si
stavano riunendo a Bogotà, al margine, contro la cerimonia panamericana
del generale Marshall.
All’una e mezza lo
studente esce dall’albergo con l’intenzione di fare una passeggiata
sino all’ufficio di Gaitán, ma camminando sente il rumore di un
terremoto e una valanga umana gli si presenta davanti.
La folla accorre da
tutti i suburbi, scavalca le colline, avanza come un fiume da ogni
luogo, uragano d’ira e di dolore che giunge invadendo la città, rompendo
vetrine, rovesciando i tram, incendiando gli edifici.
“Lo hanno ammazzato”!
“Lo hanno ammazzato”!
È
stato per strada, con tre pallottole. L’orologio di Gaitán è rimasto
fermo all’una e cinque.
Lo studente, un cubano
grande e grosso che si chiama Fidel Castro si mette in testa una
cappello senza visiera e si lascia trasportare del vento della folla.
LE FIAMME
Invadono il centro di
Bogotá le turbe degli indios e le masse degli operai; mani spaccate
dalla terra e dalla calce, mani macchiate d’olio o di lucido da scarpe.
Con il vortice giungono gli studenti e i camerieri, le lavandaie di
fiume e le venditrici dei mercati, le prostitute e i tuttofare, i
cerca-morte e i cerca- fortuna. Dal vortice si separa una donna che
porta quattro pellicce
tutte addosso, torpide
e felice come un’orsa innamorata. Fugge come un coniglio un uomo con
molte collane di perle al collo e un altro cammina come una tartaruga
con una congelatore sulla schiena.
Agli angoli i bambini
straccioni dirigono il transito, mentre i detenuti strappano le sbarre
delle prigioni. Qualcuno taglia con il machete gli idranti dei pompieri.
Bogotà è un falò gigante e il cielo è una volta rossastra.
Dai balconi dei
ministeri incendiati piovono le macchine da scrivere e piovono le
pallottole dai campanili delle chiese in fiamme.
I poliziotti si
nascondono o incrociano le braccia di fronte a quella furia.
Dal
Palazzo Presidenziale si vede arrivare il fiume della folla. Le
mitragliatrici hanno già respinto due attacchi, ma la gente è riuscita e
schiacciare contro il portone del Palazzo il mercenario sventrato che ha
ammazzato Gaitán.
Doña Bertha, la prima
dama, si mette un revolver alla cintura e chiama il suo confessore:
“Padre, abbia la bontà di portare mio figlio all’ambasciata
nordamericana”.
Da un altro telefono
il presidente Mariano Ospina Pérez manda a proteggere la casa del
generale Marshall e da ordini contro la folla sollevata. Poi si siede e
aspetta. Il ruggito cresce nelle strade.
Tre carri armati
aprono l’assalto contro il Palazzo presidenziale.
I carri armati portano
gente sul tetto, gente che agita bandiere e grida il nome di Gaitán.
Dietro, segue la moltitudine irosa, armata di machetes, asce e caviglie
ma non giungerà al Palazzo.
I carri armati si
fermano, girano lentamente le torrette, puntano contro la folla e
cominciano la strage, ammazzano il popolo a mucchi.
LE CENERI
Qualcuno cammina
cercando una scarpa. Una donna ulula con un bambino morto tra le
braccia. La città fuma. Si cammina con attenzione per non pestare i
cadaveri; un manichino distrutto pende dal cavi del tram. Dalla
scalinata di un monastero bruciato un Cristo nudo e mezzo incenerito
guarda verso il cielo con le braccia in croce.
A
piedi di questa scalinata un mendicante beve e invita: la mitria
dell’arcivescovo gli copre la testa sino agli occhi e un mantello di
velluto gli avvolge il corpo. Il mendicante si difende dal freddo
bevendo cognac francese in un calice d’oro e offre da bere ai passanti
in una grande coppa d’argento. Bevendo e invitando una pallottola
dell’esercito lo finisce.
Si sentono gli ultimi
spari: la città distrutta dal fuco recupera l’ordine dopo tre giorni di
pazzia e di vendetta.
Il popolo disarmato
ritorna all’eterna umiliazione di sempre, alla fatica e alla
tristezza.
Il generale Marshall
non ha dubbi: il “Bogotazo” è stato un’opera di Mosca. Il governo
della Colombia sospende le relazioni con l’Unione Sovietica.
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