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Un
guerrigliero che dopo la vittoria ha voluto tornare nella Sierra e
restarci, con il suo caffè e le sue api, rifiutando tanto l'esercito
quanto la politica. Un incontro con Polo Torres
di ANTONIO
MOSCATO
Negli anni Novanta
- i terribili anni del
Periodo especial
- ho passato lunghi periodi a Niquero, una cittadina dell'oriente
cubano passata alla storia per essere stato il luogo dello sbarco del «Granma».
C'ero arrivato per un progetto di solidarietà del circolo Arci
Metromondo di Milano, ma avevo finito per innamorarmi del paese e
restare lì anche nei periodi morti tra l'arrivo delle delegazioni e
delle attrezzature mediche spedite. Ero l'unico delle molte decine di
compagni italiani a conoscere bene lo spagnolo (e a saper gestire i non
facili rapporti con le autorità locali), sicché da semplice interprete
ero diventato un personaggio importante. Ogni tanto qualcuno mi
proponeva un incontro con qualche veterano della guerriglia del
1956-1958. Ce n'erano parecchi, rimasti o tornati presto a fare i
contadini, e ogni tanto scendevano dalla Sierra in paese per comprare
qualcosa. Ma non avevano la loquacità e la voglia di raccontare di certi
nostri vecchi partigiani: quel periodo sembrava loro lontanissimo, e
forse i loro ricordi non erano così interessanti. Preferivano casomai
parlare della fede religiosa che li aveva spinti ad appartarsi
dall'esercito e dalla vita politica negli anni in cui era stata
proclamata l'incompatibilità tra l'appartenenza al partito e quella a
una qualsiasi chiesa (nella Sierra i cattolici erano pochi, mentre
proliferavano sette millenaristiche o sincretiste). Un divieto assurdo,
perché dimenticava che i contadini che avevano combattuto in quegli anni
erano quasi tutti religiosi (magari si proteggevano dalle pallottole con
un collare di denti di cane, o con erbe benedette...).
Un «Virgilio» personale
Comunque, dopo alcune esperienze deludenti, avevo cominciato a rifiutare
altri incontri dello stesso genere. Ma a Niquero avevo un mio personale
«Virgilio», Alberto Coterón, un giornalista della piccola stazione radio
locale. Lo chiamavo così perché mi aveva aiutato a muovermi nella
complessa realtà del paese, spiegandomi le regole non scritte della vita
sociale e informandomi con franchezza sugli scontri sotterranei tra i
vari dirigenti locali, che osservava attentamente senza prendervi parte.
Grazie a lui avevo capito che cosa intendevano i cubani col detto: «pueblo
chico, infierno grande»...
Quando il mio «Virgilio» seppe della mia delusione per quel che si
poteva ricavare da quelle modeste testimonianze, mi propose di
organizzare un viaggio all'interno della Sierra Maestra per raggiungere
Zoila, la bellissima mulatta che era stata per un anno la compagna del
Che e di cui per molto tempo si era evitato di parlare, e il leggendario
Polo Torres,
el capitán descalzo
di cui Guevara aveva parlato in diverse pagine dei suoi
Passaggi della guerra rivoluzionaria.
In quegli anni non era facile trovare un auto funzionante e soprattutto
la benzina o il gasolio, ma ce la facemmo, approfittando dei viaggi per
visitare con emozione parecchi dei luoghi in cui il Che aveva vissuto in
quei due anni e le due sedi successive del comando della sua colonna
guerrigliera. I primi tentativi di incontrare Zoila fallirono, perché
era in montagna a raccogliere legna o per altro, ma alla fine trovammo
Polo.
Fu una sorpresa straordinaria. Si avvicinava già ai settant'anni ma era
vigorosissimo e soprattutto brillante e malizioso. Sorpreso che un
italiano sapesse della sua esistenza dagli scritti del Che e volesse
capire perché aveva lasciato l'esercito ribelle poco dopo la vittoria
pur avendo ottenuto la nomina a capitano (nei primi anni, prima che i
consiglieri sovietici reintroducessero tutta una complessa gerarchia
militare tradizionale, c'erano solo due gradi: capitano e comandante).
Tutti mi avevano detto che aveva rifiutato l'incarico per una sua
incompatibilità con le scarpe; di fatto c'era qualche fondamento:
continuava ad andare scalzo ed anzi quando lo si fotografava si
divertiva a mettere in mostra in primo piano i suoi lunghi piedi nudi.
Presto però Polo si era sciolto (anche per la fiducia riposta nel mio
accompagnatore) e aveva spiegato che c'erano anche altre ragioni.
Certo pesava in primo luogo la nostalgia dei profumi e della limpidezza
dell'aria della Sierra. Quando il Che lo autorizza a tornare per
quindici giorni in permesso per rivedere la famiglia, appena arriva al
suo podere dove aveva ospitato e nutrito tanti guerriglieri, e sua
moglie Juana aveva curato i feriti, tra cui lo stesso Guevara, trova «i
campi di caffè fioriti» che gli sembrano «un gran lenzuolo che copriva
le colline». Aveva promesso al Che e a Camilo Cienfuegos che sarebbe
tornato ma dice: «Quel paesaggio mi abbagliò e confermai la mia
decisione di non ritornare».
Ma c'era dell'altro. Vedeva gli altri guerriglieri entrati nell'esercito
che passavano «tutto il tempo marciando» e non capiva le ragioni di
quelle esercitazioni («sembra che non si rendano conto che c'è del
lavoro da fare»). Il Che aveva manifestato comprensione per il suo
atteggiamento e gli aveva proposto, se proprio non poteva accettare di
restare nell'esercito, di fermarsi all'Avana per studiare, o per
dirigere un'azienda agricola vicino alla capitale. Ma perché studiare
ancora, si era domandato, visto che quello che sapeva «era sufficiente
per mantenere la famiglia»?
All'Avana, che non gli piace perché «è un posto tanto affollato», in
realtà ritorna quando è necessario. Ad esempio già per il 26 luglio del
1959 (la prima commemorazione dell'assalto alla Caserma Moncada dopo la
vittoria) organizza una «colonna» di 300 contadini della sua zona per
andare nella capitale a premere sul governo (che aveva ancora al suo
interno molti esponenti moderati) per accelerare la riforma agraria.
Quelle prime interviste a Polo, dopo anni in cui era rimasto un po' al
margine, hanno innescato un processo molto interessante. Prima di tutto
egli si è messo a disposizione delle delegazioni di solidarietà che
giungevano a Niquero dall'Italia, guidandoli nella Sierra e organizzando
per loro pranzi frugali con lo stesso «menù» con cui oltre trenta anni
prima sua moglie Juana aveva sfamato il Che. Poi, a mano a mano, ha
messo in piedi un «Club por los caminos del Che» che ha portato sulla
Sierra visitatori stranieri e giovani cubani (lo stesso Polo ha scalato
per 140 volte la cima più alta della Sierra, il
Pico Turquino, uno dei luoghi storici della rivoluzione).
Successivamente, con l'aiuto della figlia Nieves e di un giornalista
appassionato di storia locale, René Hernández, le sue interviste e
quelle a Juana (una vera forza della natura, vivace e spesso molto
critica verso il marito) sono state montate mettendole a confronto con
le testimonianze dei libri del Che o di Almeida. Ne è venuto fuori un
insolito libro, apparso presso Lampi di stampa, sia in spagnolo che in
italiano: «Il Che, la rivoluzione, l'amore nel racconto di Polo e
Juana», che ora Polo, accompagnato dalla figlia e da René
Hernández, è venuto a presentare in Italia. Un libro straordinario,
senza nulla di retorico o stancamente celebrativo. In primo luogo
ricostruisce i lunghi mesi in cui la guerriglia era stata in difficoltà,
assediata, braccata. Come lo stesso Guevara, Polo non nasconde di aver
avuto paura e di essersi dimenticato una volta di custodire i suoi
prigionieri durante i mitragliamenti dagli aerei.
Si direbbe che a non aver mai paura sia solo Juana, che quando vede il
marito in difficoltà tira fuori la grinta e... la pistola. Accade
durante i due anni successivi alla vittoria, quando sulla Sierra si
formano diverse sacche di resistenza armata. Polo e Juana descrivono
efficacemente l'operato e la composizione di quelle formazioni: spesso i
bandidos
non erano controrivoluzionari mandati da Miami, ma compaesani che
avevano combattuto contro Batista, a volte perfino col grado di
capitano.
Visite sgradite
Polo quando riceveva sgradite visite da costoro, che volevano arruolarlo
o confiscargli le armi, cercava di dialogare pazientemente, tenendo
conto dei rapporti di forza: i due vivevano con i figli piccoli in una
zona poco abitata, e d'altra parte perfino i loro fratelli non li
sostenevano; al contrario Juana compariva all'improvviso puntando la
pistola sui
bandidos, che insultava pesantemente chiamandoli vili,
perché durante la lotta contro Batista erano rimasti nella riserva e ora
si facevano forti con loro. Un atteggiamento coraggiosissimo ma anche
molto pericoloso.
Il libro non si riduce a questo, che pure sarebbe già importante, ma
fornisce un quadro esauriente della vita di due
guajiros
cubani nel corso di vari decenni. Polo infatti ricostruisce con
orgoglio il suo lavoro di contadino, che riusciva a fornire allo stato
ortaggi e latte e che, nonostante l'obbligo di lavorare - come tutti i
piccoli agricoltori indipendenti - due o tre giorni a settimana sulle
terre statali, aveva trovato il tempo per catturare alcuni sciami di api
selvatiche, avviando un'apicoltura razionale che gli consentiva di
consegnare allo stato grandi quantità di miele in un anno. Con amarezza
tuttavia ricorda che i furti e i sabotaggi (insieme a incaute
fumigazioni di insetticidi con gli aerei) distrussero in poco tempo gran
parte dei 200 alveari.
Altri accenni fa spesso Juana alla scarsa coscienza di molti compaesani,
nella prima fase, ma anche in diversi momenti successivi. Anche per
questo il libro può essere davvero utile: infatti è molto pericolosa la
visione apologetica e acritica di certi «innamorati» dell'isola che la
rappresentano come «monolitica», unanime, tutta cosciente, mentre ogni
voce di dissenso o di critica viene liquidata attribuendola al
«tradimento prezzolato» di mercenari «al soldo delle mafie di Miami».
Per amare Cuba, bisogna conoscerla com'è, non immaginarla in base ai
nostri desideri.
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