MONDOCANEarchivio

                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

LE TRE “I” DELLA GAD IN IRAQ: INGENUI, IDIOTI, O INFAMI?

 

4/2/5 (Nei giorni ghiacciati in cui il Piero-Za’ la Mort – Fassino congressuale ha dischiuso l’impermeabile e ha finalmente esposto il suo scheletrito mix di cranio montezemoliano e colonna vertebrale da museo anatomico; e  nei quali si è visto il lubrico bacio tra due peripatetici per ogni stagione: Fausto-Occhetto al cachmere-Bertinotti e Marco-largo agli acari-Panella. Bacio tra giuda? Tra fratelli? Tra crotali?)

 

Con una premessa che è un invito ai miei compagni e lettori a qualche minuto di estrospezione e ghignate. Sempre che non abbiate niente di meglio da fare, intraprendete quel viaggetto su Indymedia – onore sincero ai bravi ed ecumenici operatori di questa benemerita comunicazione – all’insegna del mio modesto nominativo, o di quello del bassotto Nando, che io mi sono fatto ieri tra un Asor Rosa e un Al Sistani, entrambi- oddio! – esultanti per le “elezioni” in Iraq. Troverete che la mia persona, pur di scarso rilievo storico e cronachistico, è riuscita ad aggrumare un vero e proprio turpipartito di appassionati di una nuova, affascinante turpilingua, interfaccia fedele di un’altrettanto stupefacente turpipensiero. Questo partito, che, tuttavia ha radici profonde affondate inequivocabilmente in qualcosa di 60-80 anni fa, portate a nuovi germogli, negli orti segreti dello Stato, da costanti e premurose inaffiature, è composto da un mix che, solo apparentemente incoerente, esibisce la sua intima omogeneità quando deve occuparsi del sottoscritto e del suo bassotto. Trattasi di un florilegio (con scuse al flos-floris) di bertinottiani cadreghisti spinti, neonazisti a volte con la maglietta del Che, barbe finte, nonviolenti (con le zanne a sciabola, come quasi tutti loro), frustratoni, ginocrate travestite da femministe, psicolabili e, tantissimi, coloro per i quali o la stella di Davide splende su tutto il Medioriente, o di quel Medioriente si butta giù il sole. L’italiano, è vero, non è il loro forte, ma cosa pretendere da chi è imbeccato giorno e notte in inglese? Una sola cosa, in tanto spasso, mi ha sconvolto. Quando un cattivone vero è arrivato al vertice del rancore e dell’insipienza chiamando Nando “quel suo stupido bassotto”.

E no, similcompagni, qui mi avete colpito a morte!

 

Ci eravamo a malapena ripresi dallo Tsunami mediatico della settimana della memoria che ci aveva lasciato spiaggiati  tra una metà di moltitudini di vittime e macerie, tutte ebree. E, dalle foibe lo Tsunami – con Bertinotti che cazzava la randa - ci aveva scaraventato addosso anche qualche colonna di “poveri italiani  brava gente”, a volte con ancora l’olio di ricino in tasca. L’altra metà della moltitudine di vittime, pure sei milioni, comunisti, antifascisti, zingari, omosessuali, irregolari, robine varie, lo Tsunami le deve aver sepolte nella fossa indonesiana da cui era scaturito. Avevamo appena metabolizzato l’annuale rigurgito di collera per come lo Tsunami in questione avesse innalzato, alla faccia e a offesa dei massacrati d’antan, onde alte come il Tempio di Salomone, o come le Torri Gemelle, per coprire il muro Auschwitz di Sharon in Palestina e la fossa comune Buchenwald, larga come la Mesopotamia, di Bush-Blair-Berlusconi-garzoni vari, che una nuova catastrofe ci ha travolto. Una volta di più, impreparati come nemmeno i disobbedienti al primo Chavez tutto rosso e non-nonviolento, o il Bertinotti  (ma stavolta non ha rischiato di farsi vedere!) allo Tsunami dichiaratamente antimperialista (“Imperialismo? Roba vecchia! ”) di Porto Alegre. Impareremo mai?

 

Qui non ci occupiamo di media del padrone, anche perché non ci va neppure di sfiorarle, le stalle di Argia. Troppi suini, bovini, ovini, troppo fetore. Qui parliamo della “nostra” stampa alternativa, nelle sue infinite varianti dal rosa all’arancione, e di come è riuscita ancora una volta a reggere bordone alle cosmiche falsità  propalate sulle “elezioni” irachene. Mentre a Baghdad gli scherani dell’imperatore si rimangiavano quel 72% di votanti iniettatogli, prima dell’evento, da Bush in persona e scivolavano, tra ilarità e raccapriccio diffusi, fino a sotto il 50%. Mentre quel poco di voci non embedded, non cacciate come Al Jazira, non affette dalla necrofilia  dell’ululante Giovanna Botteri,  non fucilate come i 27 giornalisti tolti di mezzo dal 20 marzo 2003, confermavano un 30%, nella migliore della ipotesi e per eccesso, tra chi aveva un usciere in Zona Verde e chi voleva evitare le “fiamme dell’inferno” minacciate dal papa scita Al Sistani, o tenersi la razione di cibo quotidiano garantitagli da Saddam e minacciata di estinzione da Allaui in caso di renitenza.  Quanti sono i giornalisti italiani? Qualcosa come 50.000? Quanti lavorano per un’informazione sedicente di sinistra (un paio azzarda addirittura “comunista”)? Forse duecento, facendo passare sottobanco anche i portoghesi de “L’Unità” e de “Il Riformista”? Quanti di questi si sono occupati nei giorni dopo il “voto” di Iraq? Diciamo cinquanta, direttori,  caporedattori e editori di riferimento compresi.

 

Cari amici, di questa orda  di sicofanti se ne è salvato uno, su “il Manifesto”: Stefano Chiarini, di cui pur si percepiva la fatica e il fastidio di doversi muovere tra paletti come Mariuccia Ciotta, Gabriele Polo, Astrid Dakli, Karol, Barenghi (ma il volgarotto e confuso autore della massima “meglio gli americani che i tagliatori di teste”, ha tolto il disturbo approdando, correttamente, a “La Stampa”. Mi auguro che lo abbiate letto, Chiarini,  negli splendidi ed educativi reportages da Baghdad. Uno solo come Don Chisciotte, a cavalcare la verità, il coraggio e l’onestà tra pale di mulini a vento che pescavano nella melma. Uno solo, competente in un mare di spocchiosa incompetenza, a spiegare che altro che democrazia, pacificazione, svolta, nuovo inizio e panzane varie, ma una vergogna senza fine, uno stupro delle parole  in questione, un paese spinto come una mandria ai seggi elettorali (filmato in cinque su 8000) dai terroristi a stelle e strisce col fucile puntato, dal terrorista in tonaca e turbante che gli assicurava combustioni perenni, dai terroristi rivestiti da Mossad e Cia che gli agitavano davanti l’alternativa “un pasto per la sopravvivenza, o la sopravvivenza in carcere”. Un popolo curdo che pensava di votare per se stesso e che due briganti di passo, Talabani e Barzani, guidavano all’autodistruzione con in tasca il libretto delle istruzioni del Mossad. 300.000 cattolici caldei, non entusiasti dell’esuberanza curda, privati di seggi, cabine, schede e urne.100.000 “cammelli” curdi, similbertinottiani, introdotti da ogni dove a Kirkuk, città da sempre a maggioranza arabo-turcomanna, ma già in parte ripulita etnicamente, perché lì si voti per quell’oleodotto Iraq-Israele che sarà l’asse di penetrazione sionista verso i territori (anche questi promessi da Jahve?) della Grande Israele. Un centro che non ha votato per niente. Una Baghdad che continuava a saltare per aria  tenendo a casa trequarti dei cittadini, un Sud confessionalmente misto dove, se va bene, hanno votato a Najaf e Kerbala, e molto meno a Basrah (ammettono il 30%, sarà la metà). Del resto, sapendo bene che non pochi dei tirati per il collo a votare avrebbero poi scritto sulla scheda qualcosa di sconveniente come “acqua”, “luce”, “gas”, “andate a casa, fottuti yankee”, l’esperto Allaui e il superespertro ambasciatore squadronista della morte, Negroponte, avevano allertato la sezione irachena congiunta Cia-Mossad perché attivasse il suo 002 Al Zarkawi con cecchini spaventapasseri sui tetti. Chissenefrega se non voteranno: quattro scalzacani in fila da filmare, e quattro donne in nero con il culo in fiamme per l’inferno di Sistani, si trovano sempre. Come per il crollo della statua di Saddam. E, opportunamente, li convogliamo tutti negli unici cinque seggi in cui abbiamo permesso ai media di intervenire… 

 

Solo già sul piano tecnico, professionale, di rispetto per il lettore è già stupefacente la passiva, ripetitiva - ingenua? idiota? infame? - subalternità con cui sono state subite, senza batter ciglio, recepite e rilanciate le cifre dei votanti (anche la Castellina, pur almeno problematica tra gli eterni stereotipi su Saddam e sul vuoto di consenso su cui avrebbe navigato per trent’anni: “afflusso certo più ampio che inizialmente previsto”. Fonte: Allaui). Ma poi trarne giubilo chissà per quale cazzo di distorsione mentale, visto che gli unici dati venivano sfornati nientemeno che da quella marmaglia di ascari e stallieri mafiosi installati dal capotorturatore Paul Bremer, già due ore prima della chiusura dei seggi! Cosa diavolo giustifica le trionfali conclusioni politiche, per le magnifiche sorti e progressive che questa oscena farsa garantirebbe all’Iraq? Quale immane sforzo hanno fatto per farci buttare nel cesso ogni residuo briciolo di fiducia che ancora pensavamo di poter nutrire per la “nostra stampa”.

 

Cito. Manifesto, titolo: “La maggioranza degli iracheni ha vinto(sic) la paura e ha votato… altissima partecipazione…” Da cui l’editoriale: “atto di sfida”, “buona dose di autentico coraggio”, “sono andati a votare intendendo con questo compiere un atto di libertà (sic), finalmente, dopo decenni trascorsi tra plebisciti, silenzi e bombe”. Pascucci si premura poi di precisare, alla faccia degli iracheni tutti (salvo i curdi sionizzati), che gli iracheni non hanno certo votato per esaltare lo Stato nazione, che in Iraq non avrebbe ormai senso”. Bush e Sharon, che questa sciarada l’hanno voluto proprio per spaccare in tre lo stato nazione costruito con infinita perizia antimperialista in 40 anni di resistenza e progresso, ringraziano commossi. Una Resistenza, che assedia nei suoi fortilizi occupanti e ascari, l’unico vero interlocutore rappresentativo degli iracheni di fronte al mondo, dimostrerà il contrario. L’ha già fatto 80 anni fa, quando era infinitamente più debole.

 

Del Manifesto tralasciamo, per amore di un giornale che tuttavia ancora ospita firme decenti, le sciocchezze e superficialità di una collega, che si ostina a andare da quelle parti, o in altre della regione (ricordiamo i suoi ghirigori ad esaltazione della borghesia filocolonialista e francesizzante berbera), a rimasticare le favole dell’intelligence USA su Zarkawi e terrorismi, presunti autentici. Ci cascano tutti, anche la Castellina, che, pure, dall’occuparsi dell’Irlanda avrebbe potuto imparare qualcosa su infiltrazioni e operazioni sporche. Ma l’azzardo e la spocchia non risparmiano neppure i veterani: Castellina arriccia il naso sui “limiti politici pesantissimi” della Resistenza irachena. E’ stata a Falluja al convegno internazionale dei leader  delle formazioni guerrigliere? Ne ha studiato i tanti manuali teorici, le istanze programmatiche, i trotzkismi, nasserismi, marxismileninismi, baathismi?  E già, e non vi ha trovato neanche uno straccio di Pdup, ecco perché! Della collega di Chiarini in Iraq ricordiamo un’ ardita ma, ahinoi non isolata, speculazione su un Sistani che, magari, in un futuro, potrebbe anche “rivoltarsi contro la tutela USA” . Come, capofila per un regime benedetto dal Richelieu turbantato è quel tal Ahmed Chalabi, uomo Cia che, non pago di quello stipendio, sottrasse all’agenzia altri 6 milioni di dollari e a una Banca giordana tanti da meritarsi vent’anni di galera, che ha fatto finta di tenere il muso agli statunitensi per accreditare un’alternativa alla lista Iyad Allaui, marchese di Langley, che ha convinto i suoi compari iraniani a cogestire con gli USA lo sbranamento del paese, e mo’ si rivolterebbe contro i suoi padroni e ufficiali pagatori? E non verrebbe steso secco dai marines, come una scolaresca di Falluja o di Gaza qualsiasi, se non si rizzasse sulle zampe posteriori, lingua de fora, al primo aggrottamento di ciglia di Negroponte? Ma quale rivoltarsi! Qui si è tornati all’intesa USA- israeliani-iraniani che già funzionò così bene quando Khomeini assaltò l’Iraq socialista e laico, paese socialmente più progredito della regione (quello di cui Fassino, battendosi le costole, si è chiesto cosa avrebbe potuto fare di meglio di Bush per toglierlo di mezzo) con le armi di Begin e Shamir, che ne ricavarono i fondi neri per lanciare i contras contro il Nicaragua. Un’ultima perla, però, non ve la posso negare: “In centro Allawi è considerato il nuovo Saddam e proprio per questo è odiato e amato”. Mancano le parole. Provi, come hanno scritto osservatori anglosassoni meno sprovveduti, provi la Sgrena a far scrivere agli iracheni, in libertà, sulla scheda il nome dell’uno o dell’altro. Poi guardi e si taccia.

Ma si sa, l’inviata, coma l’analoga Botteri e vivandiere varie, non si tacerà. Aspetta solo la prossima imbeccata, che so, che Al Zarkawi  è stato avvistato su un Tupolev con stella rossa, a fianco dell’imam di Via Jenner, mentre  tirava atomiche sulla Casa Bianca, e l’avremo spiattellata su almeno cinque colonne del suo malcapitato giornale.

 

Ospitato dal “Manifesto” c’è un autentico Oscar del festival elettorale iracheno. E dispiace che sia palestinese. Con Ali Rashid, primo segretario della delegazione palestinese in Italia, si prova il delirio di un tuffo nell’acido lisergico in un’alba alla Tora-Tora. Rashid parte in tromba: “Sbaglia chi riduce l’importanza dell’esito positivo delle elezioni in Iraq” e spiega:”Questo successo è un esclusivo merito degli iracheni che vorrebbero vivere finalmente in democrazia e liberarsi, dopo la dittatura, anche dagli americani”. E noi che avevamo sospettato, malevoli, che gli americani alle elezioni spingessero gli iracheni per consolidare e legittimare burattini e burattinai, a perpetua dispersione del popolo iracheno e a perpetua rapina delle sue risorse! Non ho idea di chi sia il fornitore di euforizzanti all’elegante Alì, ma davvero deve essere di altissima affidabilità. Sentite qua: “Nascerà un’assemblea generale che deve dar vita a una costituzione, un governo transitorio e un assetto definitivo del paese…” Con Allaui che, nervosetto, a novembre, ha sparato in testa a sette detenuti e nel ’92-’93 riempiva di bombe gli scuolabus di Baghdad? Con Chalabi? Con la spia iraniana Al Hakim? Con il partito Comunista Iracheno che si è venduto anche i genitori pur di leccare le mani a Bremer e Negopronte?  Ma sì, poiché Alì sa bene che, con l’inevitabile dipartita degli eserciti stranieri, “insieme al loro tramonto tramonteranno anche i progetti di privatizzazione del petrolio, di dominio statunitense e israeliano sul destino della regione… di loro rimarrà solo uno sgradevole ricordo”. Bum! E Lucignolo, e l’omino di sego e il Pase dei Balocchi non ce li metti? O piuttosto il Paese di Acchiappacitrulli. Tramontano gli appalti? Dillo alla Halliburton di Cheney, alla Bechtel di Rumsefeld, alla Carlyle dei perenni soci Bush-Bin Laden, all’Agusta di Bushlusconi che, saltando ogni giorno gli oleodotti e non riuscendo costoro a recuperare neanche le spese per le sigarette, o stanno lì per cent’anni, o finiscono come Tanzi.

 

Sia Alì che il Piero Sansonetti, quello del sovrano di riferimento, venuto a “Liberazione” dall’ “Unità” a fare da apripista per un Bertinotti-cuculo nel nido dei DS (non è questo il progetto: mettersi al posto di D’Alema e Fassino acchiappando Mastella e il nuovamente-caro-difensore-dei-diritti-civili-il-massacro-di-operai-palestinesi-iracheni-è-dimenticato-Marco-Pannella e tirandosi dietro financo Casarini e gli emme-elle a paletti?), traggono dal “miracolo democratico” iracheno vigore e forza per il rilancio del pacifismo, rigorosamente in lungo, come minaccia l’infausto spot sul giornale, dunque borghese,  nonviolento, ma chic davvero. Agiscono entrambi in stato di necessità: Sansonetti (che titola “8 milioni di votanti”, ma trascura che, di questi, tre milioni non sono riusciti a iscriversi nelle liste elettorali) è il cantore dei “nostri ragazzi in Iraq” (nemmeno quelli di Nassiriyah, e sarebbe già brutto, ma quei quattro mercenari che sapete) e il logopedista di un gruppo di squinternati che devono accreditarsi nel sottoscala del salotto capitalista; Alì, che per altre distese di piombo vaneggia di “sbocco democratico”, di “democrazia ormai processo inarrestabile”, di “quadro inedito di valori, libertà e non di dominio” di “una sorta di teologia di liberazione islamica” (perdincibaccoli!, ma vale solo per gli sciti votanti in Iraq, mica per Hamas, ci guardi iddio!) e chiude con un trionfo di fuochi artificiali: “Questo trapasso deve portare l’umanità oltre la modernità” (??? Fate un po’ voi), Alì, dicevo, ha un problema di maggiore spessore: deve, disperatamente deve, facendo il pazzariello sulla tragicomica truffa irachena, accreditare la validità di quella desolazione che sono state le “elezioni” di un milione di palestinesi su nove. Elezioni parimenti sotto i cingoli dei tank, con l’acqua né alla gola, né sotto i piedi, con l’orizzonte della “modernità” sgomberato da inopportuni centri abitati e ulivi rasi al suolo, liberato a sane fucilate dall’inquinamento acustico di bimbetti  arabi non allevati a Rinalin, con un leader, cocco di Luisa Morgantini, spinto a forza da sponsor che vogliono la soluzione finale per il suo popolo. Mentre  il vero leader che Israele l’aveva messa con le spalle al muro, sta in galera con quattro ergastoli. Marwan Barghuti ha, sì, rinunciato a candidarsi, ma si è sacrificato contro la disintegrazione di quel che rimane di Palestina politica laica e, poi, si fosse candidato, chi mai si sarebbe più mosso, nella congrega di quei settantenni simpatici a Bush e Sharon, per tirarlo fuori?. E mentre l’”amico americano” Mahmud Dahlan, capo della sicurezza diplomateggia con Shaul Mofaz, ministro dell’eccidio palestinese, su come bloccare i renitenti palestinesi, discussione sul fagiano tra volpe e cacciatore, il Marwan ingabbiato ma non piegato ripete:”Intifada fino alla vittoria”, facendo svegliare di soprassalto ogni notte il nostro Gennaro – ma perché quel cognome? – Migliore.

 

Passiamo rapidamente di testata in testata, un percorso tra nasi chilometrici. Di scorcio ringraziamo Bertinotti per aver dato, con la sua spirale guerra-terrorismo e le sue rappresentazioni scientifiche della resistenza irachena con la i minuscola, una bella mano al giudice di Brescia che ha rimesso a posto quei terroristi arabi che volevano impegnarsi contro il genocidio in Iraq, secondo “il comune sentire” di Borghezio e, appunto, Bertinotti. Stiamo per raccontarvi le vere “elezioni” in Iraq, quando inciampiamo in nientemeno che il direttore della “camera di consultazione”, la nuova radiosa sinistra alternativa, la vera e unica risposta a Berlusconi e ai consociativismi dei suoi oppositori, quella del 15 gennaio, evento storico da ascriversi al “Manifesto”. Uno smarrito Alberto Asor Rosa sul “Corriere della Sera”: “Ciò che è accaduto in Iraq rappresenta una grande lezione per tutti noi… L’affluenza al voto, che sembra essere stata massiccia, testimonia due cose. Primo: l’ostilità al regime di Saddam era profonda, attraversava la società irachena in modo intenso” (bel salto logico, professo’, per lei che ha intervistato qualche milionata di iracheni che, pur avendo le armi, non hanno mai alzato un dito contro un regime che li aveva isolati, poverini, in una progresso sociale, culturale, economico senza pari nell’oceano del sottosviluppo regionale). “Riprendere il discorso sulle vie della guerra e della pace con toni, in termini più maturi, io credo che potrà aiutare la Coalizione a trovare punti in comune che, fino a due giorni fa, neppure si potevano intravedere…” Ah, la nuova coalizione! Ah l’aurora! Ah, se la Coalizione, dopo aver cucinato nell’uranio e nella fame due milioni di iracheni e averne polverizzati parecchi altri con le bombe, ora ascoltasse il professore! Come finirebbero di colpo la tragedia, la frammentazione di una grande nazione, gli ammazzamenti a vista, i finti resistenti iracheni e veri terroristi decapitatori Cia-Mossad, le obliterazioni di Falluja e tante altre, le torture ai rastrellati a casaccio, la rapina di tutto ciò che è iracheno con la contemporanea polverizzazione della sua storia, scienza, cultura, un sottogoverno proconsolare di chierici integralisti e delinquenti!

 Scherzi a parte, ma davvero volete questo criptofassino alla guida della riscossa?

 

L’Iraq delle elezioni.

Lunedì, 31 gennaio, un lunedì, il popolo iracheno si è svegliato come sempre: con 150.000 militari stranieri, 40.000 mercenari  killer, diverse migliaia di commandos della morte israeliani e una loggia di briganti che occupano il loro paese.  E poi ancora Iyad Allawi, terrorista Cia e palo della Banda Bushotti, futuro capo del governo e 14 basi militari statunitensi in costruzione. Democrazia significa “governo del popolo”. Quanto è successo domenica conferma e rafforza un governo nominato dall’invasore sotto occupazione militare.

Un’elezione? In un’elezione i votanti dovrebbero scegliere candidati che poi li vanno a rappresentare ed esercitano una misura di potere. Qui non si è votato per un candidato, neppure per un partito politico con un pensiero che non sia quello di restare protetti sotto le sottane della coalizione finchè morte non li separi Si era autorizzati a votare per una lista i cui componenti, partiti o individui, rimanevano sconosciuti. Queste liste furono  decise da una commissione elettorale di cui ogni membro era stato scelto dal viceré Paul Bremer. I nomi dei 7.700 candidati non era pubblici, non si sapeva per chi si votasse, se non per qualcuno che andava bene o all’eminenza iraniana Al Sistani, o al pluriassassino Iyad Allaui e, comunque, agli USA.  I candidati che alla fine saranno selezionati (da scrutini eseguiti nel buio della Zona Verde, sotto controllo esclusivo di marines) non eserciteranno alcuna autorità legislativa o esecutiva. La costituzione che redigeranno sarà dettata dagli statunitensi, tenendo conto di qualche prurito clericale degli ayatollah collaborazionisti (lo erano anche sotto gli inglesi).

All’Iraq non è stata data l’opportunità di votare per l’unica cosa che interessasse quel popolo tra i più civili e progrediti della Terra, come dimostrano le 125 operazioni di guerriglia al giorno,  perfettamente coordinate e protette dalla popolazione: la fine dell’occupazione. Le quasi 150.000 persone ammazzate dagli occupanti e dai loro ascari dal marzo 2003, nonché i due milioni di uccisi dall’embargo, non hanno potuto votare. E neppure i 20.000 detenuti a caso, compresi quelli delle camere di tortura di Abu Ghraib, Guantanamo, Camp Bucca, e delle prigioni segrete in Israele, Giordania, Marocco, Afghanistan, Diego Garcia.

 

Si è detto che si tratta delle prime elezioni democratiche in Iraq da cinquant’anni in qua. Già, a parte che in Iraq c’era un sistema multipartitico fino al 1979, demolito dal tradimento del PC iracheno e dai curdi schieratisi con gli invasori iraniani, le ultime elezioni alle quali ci si riferisce furono tenute sotto una monarchia nominata dagli USA e dal Regno Unito e autorizzata a selezionare un organo consultivo che non avesse poteri né legislativi, né esecutivi. La sua sola funzione era di fornire una facciata di legittimità (vi suona nuovo?) al regime fantoccio e di acquietare e pacificare i perplessi e pacifici nel bel mondo postcoloniale: il paese rimase sotto il tallone delle compagnie petrolifere angloamericane. Meno di tre anni dopo, una rivoluzione popolare guidata dal Baath e dai comunisti rovesciò questi satrapi ed è da allora che gli USA e la Gran Bretagna tentano di riportare l’Iraq allo stato di colonia. Le elezioni sono un pilastro del progetto. Non disse Henry Kissinger: “Il Medioriente e il suo petrolio sono troppo importanti per essere lasciati nelle mani degli arabi”? Del resto, gli USA mai si sono sognati di portare democrazia in alcun paese della regione, men che mai in uno Stato fondato sulla discriminazione e sul razzismo come Israele, mentre ovunque le sue truppe e armi tengono al riparo dalla rabbia popolare manutengoli del colonialismo corrotti e feroci.

 

Nell’Iraq in cui si è “votato” regna il coprifuoco, sorvegliato da pattuglie che girano con l’arma puntata su qualsiasi cosa si muova, i confini sono chiusi, la circolazione è proibita. Supervisore delle elezioni  era quel John Negroponte che negli anni 1981-85, da ambasciatore in Honduras, gestiva squadroni della morte responsabili di 200.000 assassinii, le operazioni stragiste dei contras, gli attacchi di Reagan al Nicaragua, al Salvador e al Guatemala. La futura  economia dell’Iraq sfugge totalmente al controllo degli “eletti”. L’ha predeterminata Paul Bremer  in termini di privatizzazione di tutto e, tra le tante belle cose, di divieto ai contadini di conservare le loro sementi e l’obbligo di comprarle anno dopo anno da Monsanto e Novartis. Ad assistere Negroponte nell’impresa elettorale sono accorsi le solite fattucchiere della manipolazione elettorale: l’Istituto Democratico per gli Affari Internazionali e l’Istituto Internazionale Repubblicano, entrambi operanti in stretto coordinamento con le facciate Cia National Endowment for Democracy e USAid, la stessa gente dei golpe elettorali in Jugoslavia, Georgia, Ucraina  (l’Ucraina arancione benedetta da Bertinotti, dal Manifesto e da quella lista civetta di Bertinotti per il prossimo congresso che si chiama, sogghignando, “Un’altra Rifondazione è possibile” e che, con Salvatore Cannavò, nasce dall’accoppiamento impuro con gli scherani Cia Otpor e Radio B92  di Serbia) e del fallito broglio al referendum su Chavez presidente in Venezuela. Analoghe elezioni vennero tenute durante la guerra in Vietnam, a supporto dei fantocci fascisti di Saigon: non fornirono né sovranità, né autogoverno, né fermarono la resistenza, né ne impedirono la vittoria (anche allora si era ubriacato l’opinione pubblica con la fanfare dell’’83% di votanti, “contro la violenza dei terroristi Vietcong”.

 

In questa elezioni , forse la più manipolata da quando qualcuno pensò che si potevano mescolare  nomi in un’urna e farne pastette alla Bonolis, non ci sono stati osservatori internazionali. Nessuna fonte esterna ha potuto vedere un fico secco. Non dico monitorare, ma neppure vagamente avvicinarsi alle schede o ai conteggi. Conclusione: quelle elezioni sono credibili, democratiche, un successo, una strada verso l’avvenire, quanto lo sono Bush e la criminalità organizzata raccolta attorno a lui. E’ la resistenza armata in tutto il paese, che con buone pace delle anime belle tipo Giovanni Franzoni, giudice di Brescia borghezista e il solito ormai esangue Bertinocchio, colpisce giustamente, necessariamente ed eticamente anche chi contro il proprio popolo si vende al nemico (guarda un po’ se ora ti devono impartire anche la lezioncina – Sansonetti, Gagliardi del tabloid femminista e ginocratico “Liberazione”- che fa brutto parlare di amico-nemico e bisogna uscire dalla “spirale dell’odio”: a me il martello di Pinocchio!), che dimostra con chiarezza assoluta cosa il popolo iracheno pensa e sente a proposito dell’occupazione. Che transfert, quello del pagliaccio che governa dalle nostre parti, quando proclamò che il comunismo porta “miseria, terrore e morte”!

 

Restano due parole a proposito della nuova forma che il bertinottismo,  e una raggrinzita fetta di “movimento”, al perenne inseguimento del battesimo prodiano e padronale, hanno preso per svillaneggiare e tradire le aspettative e i diritti degli iracheni all’autodeterminazione e alla sovranità. Invischiati nel grottesco paradosso del “ritiro delle truppe,  con se e con ma”, ora si appellano all’ONU, alla forza multinazionale, ma, per favore, senza i paesi che hanno  bombardato, trucidato, devastato e torturato. Vediamola, questa ONU, e come ha riscattato paesi, Stati e popoli nel corso del suo mezzo secolo di compiacenze e dirette nefandezze. Solo alcuni casi tra tanti.

1945: appena fondata, l’ONU non pronuncia verbo sull’orrore di Hiroshima e Nagasaki;1948, spartizione della Palestina con – alla fine dell’indisturbata avanzata sionista - un 22 per cento lasciato alla maggioranza di autoctoni, il resto offerto agli invasori e strada aperta a una strategia ininterrotta di espansione e genocidio; 1950, aggressione e spartizione della Corea;  1949-1971, tiene fuori la Cina e tiene dentro Formosa; 1962, consegna il leader anticolonialista del Congo, Patrice Lumumba, ai suoi boia; 1991 legittima la prima guerra all’Iraq e il successivo embargo genocida; approva la prima invasione USA di Haiti, l’invasione “umanitaria” che ha sbrindellato la Somalia, l’intervento della Francia in Ruanda, i bombardamenti della Nato in Bosnia e poi contro la Serbia, con la falsa scusa dell’inesistente pulizia etnica in Kosovo; trasforma Kosovo e Bosnia in protettorati coloniali; legittima l’invasione di Timor Est; approva l’invasione dell’Afghanistan ( in sintonia con la maestrina del 15 gennaio, Susan George, ricordiamocelo!); approva l’occupazione militare e avalla il governo quisling in Iraq; approva una nuova invasione statunitense e francese di Haiti; minaccia il Sudan, avallando menzogne di missionari e umanitari, per aprire la strada a un intervento imperialista; manipola l’AIEA, agenzia atomica, per destabilizzare Stati ostili all’imperialismo, ma che si copre la faccia di prosciutto quando si tratta di rimirare le 400 bombe atomiche israeliane; da sempre copre i traffici illeciti nei paesi amministrati, da quel li di donne, bambini, droga, a quelli di organi, permettendo che sistematicamente vi partecipino alla grande, insieme ai tanti farabutti Ong, i propri funzionari. E’ un dito, quello dell’ONU, a nascondersi dietro al quale si compiono atti osceni in luogo pubblico.

 

Ma, per fortuna, compagni, c’è, eccome, la Resistenza irachena, anche a Porto Alegre il vento è cambiato e ha scoperto quale cazzo di altro mondo gli esclusi del mondo vogliono, e qui da noi praterie sconfinate si sono aperte a sinistra di D’Alema e Bertinotti.

Ciao.

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l'articolo fu scritto prima del rapimento della collega Sgrena. Immediatamente dopo, Fulvio Grimaldi ha aggiunto quanto segue:

 

Ai compagni e colleghi de Il manifesto, la massima solidarietà nella loro preoccupazione per Giuliana Sgrena e nell'impegno per portare a conclusione positiva una vicenda che, come altre in passato con il coinvolgimento di giornalisti vicini al popolo iracheno invaso, occupato e devastato, non può non sollevare dubbi e sospetti su matrice e obiettivi. Con Giuliana abbiamo in comune una lunghissima esperienza mediorientale e irachena e, per quanto spesso su giudizi e posizioni divergenti, sappiamo tutti che Giuliana sta dalla parte di chi tenta, con uno sforzo che ogni giorno diventa più disperato, di arginare l'alluvione di informazione falsa, deformante, approssimativa e servile. Non può essere nell'interesse della libertà, della giustizia e della sovranità del popolo iracheno che una firma come quella di Giuliana Sgrena venga minacciata e sequestrata. Che la vicenda di Giuliana, a cui auspichiamo un immediato esito felice, sia un impulso a un'iniziativa mondiale di giornalisti, cittadini e politici per denunciare e bloccare la scandalosa campagna di censura, intimidazione e terrorismo di cui sono stati vittime tanti colleghi non embedded e tante testate, a partire da "Al Jazira". Tantissimi auguri!

Fulvio Grimaldi

E' stato un cattivo tiro della sorte a far coincidere il sequestro di Giuliana Sgrena con le critiche all'inviata (anonima) del "Manifesto" contenute nel mio "Mondocane" - "Le tre 'i' della GAD" -  con l'inevitabilmente sgradevole sapore di inopportunità che non può non esserne derivato a chi, ignaro, ha scritto e a chi, consapevole, ha letto.
Non ho nulla da correggere di quelle mie osservazioni su come l'inviata del Manifesto ha riferito delle "elezioni" imperialcomandate in Iraq, per me niente affatto segno di coraggio e di atto di libertà, ma criminale e totalmente falsa operazione di legittimazione di una macelleria anglo-italo-americana, incitamento alla frantumazione del paese e alla dispersione del suo popolo, e, nella migliore delle ipotesi, scelta disperata per evitare "le fiamme dell'inferno" della spia fondamentalista anglo-iraniana Al Sistani, e per sottrarsi alla minaccia di uccisione per fame lanciata dal bancarottiere Cia Iyad Allaui con la sottrazione delle razioni di cibo che per 12 anni di embargo genocida il governo iracheno aveva assicurato ai suoi cittadini.
Non c'è niente di contradditorio tra l'augurare di tutto cuore a Giuliana Sgrena e ai compagni dell'unico giornale ancora leggibile in Italia una felice uscita dalla terribile situazione in atto e il mantenere tutte le riserve sulle analisi fatta dalla giornalista in merito alla realtà della Resistenza irachena, al suo accreditamento del terrorismo e dell'ectoplasma Cia-Mossad Al Zarkawi come espressioni della resistenza armata, alla violenza e al " fondamentalismo islamico", alla "società civile" irachena, tutta, nelle misura in cui può esibirsi, collaborazionista, al conflitto tra minoranza (filofrancese) berbera secessionista e maggioranza nazionale in Algeria, e via elencando posizioni che, seppure si pongono tutte nello stesso ambito del rifiuto dell'imperialismo e dell'oppressione, si orientano in modo diverso quanto a retroterra, mezzi e fini.
Non credo che Giuliana, con la sua onestà intellettuale, apprezzerebbe se, ora, chi ha avuto modo di dissentire, alimentasse la sua solidarietà con tarallucci e vino.
Riconosco che il mio articolo è capitato in un momento inopportuno. Sempre infinitamente meno opportuno, comunque, dei cannibalismi dei mafiosi di potere, i cui sponsor, compari e guardiaspalle sanno, e sono, perfettamente - ne ho la ferma convinzione, anche sulla base di precedenti come Baldoni, Margaret Hassan, Nick Berg, Simone, Malbrunot e Chesnot - coloro che si giocano l'ennesimo sputtanamento della Resistenza sulla pelle di chi è più vicino, se non al popolo in lotta, a quello martoriato. Meno opportuno di chi, lungo tutto il maledetto arco costituzionale, si è precipitato ancora una volta sulla direttiva-alibi dei servizi: "Sunniti, certo; banditi, chissà".  Meno opportuno anche degli ammuffiti reperti ottocenteschi che ieri, dal palco congressuale, non hanno saputo, voluto, dire una parola sul terrore di una donna, dei suoi compagni, della sua famiglia, ostaggi del terrorismo di Stato. Ostaggi come è ostaggio ormai tutto il mondo dell'informazione fuori dalla tenaglia concentrazione transnazionale capitalista-censura del potere e dei suoi subordinati.
Luisa Morgantini si è precipitata al "Manifesto" promettendo agitazioni di "Donne in nero" a Baghdad, a Tel Aviv, a Belgrado. A Baghdad sarebbe bene che andassimo in 100.000, tutti giornalisti, per vedere se ci possono sparare, sequestrare, cacciare tutti quanti; a Tel Aviv bisognerebbe fare risuonare 100.000 megafoni che urlino come a fare le operazioni sporche in Iraq siano le squadre speciali israeliane; e a Belgrado sarebbe solo da piangere sulla tomba della Jugoslavia su cui qualche palata di terra l'ha gettata anche "donne in nero" quando la chiamavano "fascismo serbo".
Ignacio Ramonet, chiama in causa, non per la prima volta, tra gli attori del conflitto iracheno, l'esercito degli Stati Uniti e il governo iracheno ad interim, collaboratore dell'occupante. Ci voleva proprio un Ramonet a scoprire l'acqua calda? O la scopriamo tutti, a gran voce, senza timidezze e omaggi alla doppiezza della "spirale guerra-terrorismo", o altro che Giuliana Sgrena. Denudiamo il re per liberare Giuliana!
Fulvio Grimaldi

 

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