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LE TRE “I” DELLA GAD IN IRAQ:
INGENUI, IDIOTI, O INFAMI?
4/2/5 (Nei giorni ghiacciati
in cui il Piero-Za’ la Mort – Fassino congressuale ha
dischiuso l’impermeabile e ha finalmente esposto il suo
scheletrito mix di cranio montezemoliano e colonna
vertebrale da museo anatomico; e nei quali si è visto il
lubrico bacio tra due peripatetici per ogni stagione:
Fausto-Occhetto al cachmere-Bertinotti e Marco-largo agli
acari-Panella. Bacio tra giuda? Tra fratelli? Tra crotali?)
Con una premessa che è un
invito ai miei compagni e lettori a qualche minuto di
estrospezione e ghignate. Sempre che non abbiate niente di
meglio da fare, intraprendete quel viaggetto su Indymedia –
onore sincero ai bravi ed ecumenici operatori di questa
benemerita comunicazione – all’insegna del mio modesto
nominativo, o di quello del bassotto Nando, che io mi sono
fatto ieri tra un Asor Rosa e un Al Sistani, entrambi-
oddio! – esultanti per le “elezioni” in Iraq. Troverete che
la mia persona, pur di scarso rilievo storico e
cronachistico, è riuscita ad aggrumare un vero e proprio
turpipartito di appassionati di una nuova, affascinante
turpilingua, interfaccia fedele di un’altrettanto
stupefacente turpipensiero. Questo partito, che, tuttavia ha
radici profonde affondate inequivocabilmente in qualcosa di
60-80 anni fa, portate a nuovi germogli, negli orti segreti
dello Stato, da costanti e premurose inaffiature, è composto
da un mix che, solo apparentemente incoerente, esibisce la
sua intima omogeneità quando deve occuparsi del sottoscritto
e del suo bassotto. Trattasi di un florilegio (con scuse al
flos-floris) di bertinottiani cadreghisti spinti, neonazisti
a volte con la maglietta del Che, barbe finte, nonviolenti
(con le zanne a sciabola, come quasi tutti loro),
frustratoni, ginocrate travestite da femministe, psicolabili
e, tantissimi, coloro per i quali o la stella di Davide
splende su tutto il Medioriente, o di quel Medioriente si
butta giù il sole. L’italiano, è vero, non è il loro forte,
ma cosa pretendere da chi è imbeccato giorno e notte in
inglese? Una sola cosa, in tanto spasso, mi ha sconvolto.
Quando un cattivone vero è arrivato al vertice del rancore e
dell’insipienza chiamando Nando “quel suo stupido bassotto”.
E no, similcompagni, qui mi
avete colpito a morte!
Ci eravamo a malapena ripresi
dallo Tsunami mediatico della settimana della memoria che ci
aveva lasciato spiaggiati tra una metà di moltitudini di
vittime e macerie, tutte ebree. E, dalle foibe lo Tsunami –
con Bertinotti che cazzava la randa - ci aveva scaraventato
addosso anche qualche colonna di “poveri italiani brava
gente”, a volte con ancora l’olio di ricino in tasca.
L’altra metà della moltitudine di vittime, pure sei milioni,
comunisti, antifascisti, zingari, omosessuali, irregolari,
robine varie, lo Tsunami le deve aver sepolte nella fossa
indonesiana da cui era scaturito. Avevamo appena
metabolizzato l’annuale rigurgito di collera per come lo
Tsunami in questione avesse innalzato, alla faccia e a
offesa dei massacrati d’antan, onde alte come il Tempio di
Salomone, o come le Torri Gemelle, per coprire il muro
Auschwitz di Sharon in Palestina e la fossa comune
Buchenwald, larga come la Mesopotamia, di
Bush-Blair-Berlusconi-garzoni vari, che una nuova catastrofe
ci ha travolto. Una volta di più, impreparati come nemmeno i
disobbedienti al primo Chavez tutto rosso e non-nonviolento,
o il Bertinotti (ma stavolta non ha rischiato di farsi
vedere!) allo Tsunami dichiaratamente antimperialista
(“Imperialismo? Roba vecchia! ”) di Porto Alegre. Impareremo
mai?
Qui non ci occupiamo di media
del padrone, anche perché non ci va neppure di sfiorarle, le
stalle di Argia. Troppi suini, bovini, ovini, troppo fetore.
Qui parliamo della “nostra” stampa alternativa, nelle sue
infinite varianti dal rosa all’arancione, e di come è
riuscita ancora una volta a reggere bordone alle cosmiche
falsità propalate sulle “elezioni” irachene. Mentre a
Baghdad gli scherani dell’imperatore si rimangiavano quel
72% di votanti iniettatogli, prima dell’evento, da Bush in
persona e scivolavano, tra ilarità e raccapriccio diffusi,
fino a sotto il 50%. Mentre quel poco di voci non
embedded, non
cacciate come Al Jazira,
non affette dalla necrofilia dell’ululante
Giovanna Botteri, non fucilate come i 27 giornalisti tolti
di mezzo dal 20 marzo 2003, confermavano un 30%, nella
migliore della ipotesi e per eccesso, tra chi aveva un
usciere in Zona Verde e chi voleva evitare le “fiamme
dell’inferno” minacciate dal papa scita Al Sistani, o
tenersi la razione di cibo quotidiano garantitagli da Saddam
e minacciata di estinzione da Allaui in caso di renitenza.
Quanti sono i giornalisti italiani? Qualcosa come 50.000?
Quanti lavorano per un’informazione sedicente di sinistra
(un paio azzarda addirittura “comunista”)? Forse duecento,
facendo passare sottobanco anche i portoghesi de “L’Unità” e
de “Il Riformista”? Quanti di questi si sono occupati nei
giorni dopo il “voto” di Iraq? Diciamo cinquanta,
direttori, caporedattori e editori di riferimento compresi.
Cari amici, di questa orda di
sicofanti se ne è salvato uno, su “il Manifesto”: Stefano
Chiarini, di cui pur si percepiva la fatica e il fastidio di
doversi muovere tra paletti come Mariuccia Ciotta, Gabriele
Polo, Astrid Dakli, Karol, Barenghi (ma il volgarotto e
confuso autore della massima “meglio gli americani che i
tagliatori di teste”, ha tolto il disturbo approdando,
correttamente, a “La Stampa”. Mi auguro che lo abbiate
letto, Chiarini, negli splendidi ed educativi reportages da
Baghdad. Uno solo come Don Chisciotte, a cavalcare la
verità, il coraggio e l’onestà tra pale di mulini a vento
che pescavano nella melma. Uno solo, competente in un mare
di spocchiosa incompetenza, a spiegare che altro che
democrazia, pacificazione, svolta, nuovo inizio e panzane
varie, ma una vergogna senza fine, uno stupro delle parole
in questione, un paese spinto come una mandria ai seggi
elettorali (filmato in cinque su 8000) dai terroristi a
stelle e strisce col fucile puntato, dal terrorista in
tonaca e turbante che gli assicurava combustioni perenni,
dai terroristi rivestiti da Mossad e Cia che gli agitavano
davanti l’alternativa “un pasto per la sopravvivenza, o la
sopravvivenza in carcere”. Un popolo curdo che pensava di
votare per se stesso e che due briganti di passo, Talabani e
Barzani, guidavano all’autodistruzione con in tasca il
libretto delle istruzioni del Mossad. 300.000 cattolici
caldei, non entusiasti dell’esuberanza curda, privati di
seggi, cabine, schede e urne.100.000 “cammelli” curdi,
similbertinottiani, introdotti da ogni dove a Kirkuk, città
da sempre a maggioranza arabo-turcomanna, ma già in parte
ripulita etnicamente, perché lì si voti per quell’oleodotto
Iraq-Israele che sarà l’asse di penetrazione sionista verso
i territori (anche questi promessi da Jahve?) della Grande
Israele. Un centro che non ha votato per niente. Una Baghdad
che continuava a saltare per aria tenendo a casa trequarti
dei cittadini, un Sud confessionalmente misto dove, se va
bene, hanno votato a Najaf e Kerbala, e molto meno a Basrah
(ammettono il 30%, sarà la metà). Del resto, sapendo bene
che non pochi dei tirati per il collo a votare avrebbero poi
scritto sulla scheda qualcosa di sconveniente come “acqua”,
“luce”, “gas”, “andate a casa, fottuti yankee”, l’esperto
Allaui e il superespertro ambasciatore squadronista della
morte, Negroponte, avevano allertato la sezione irachena
congiunta Cia-Mossad perché attivasse il suo 002 Al Zarkawi
con cecchini spaventapasseri sui tetti. Chissenefrega se non
voteranno: quattro scalzacani in fila da filmare, e quattro
donne in nero con il culo in fiamme per l’inferno di Sistani,
si trovano sempre. Come per il crollo della statua di
Saddam. E, opportunamente, li convogliamo tutti negli unici
cinque seggi in cui abbiamo permesso ai media di
intervenire…
Solo già sul piano tecnico,
professionale, di rispetto per il lettore è già stupefacente
la passiva, ripetitiva - ingenua? idiota? infame? -
subalternità con cui sono state subite, senza batter ciglio,
recepite e rilanciate le cifre dei votanti (anche la
Castellina, pur almeno problematica tra gli eterni
stereotipi su Saddam e sul vuoto di consenso su cui avrebbe
navigato per trent’anni: “afflusso certo più ampio che
inizialmente previsto”. Fonte: Allaui). Ma poi trarne
giubilo chissà per quale cazzo di distorsione mentale, visto
che gli unici dati venivano sfornati nientemeno che da
quella marmaglia di ascari e stallieri mafiosi installati
dal capotorturatore Paul Bremer, già due ore prima della
chiusura dei seggi! Cosa diavolo giustifica le trionfali
conclusioni politiche, per le magnifiche sorti e progressive
che questa oscena farsa garantirebbe all’Iraq? Quale immane
sforzo hanno fatto per farci buttare nel cesso ogni residuo
briciolo di fiducia che ancora pensavamo di poter nutrire
per la “nostra stampa”.
Cito. Manifesto, titolo: “La
maggioranza degli iracheni ha vinto(sic) la paura e ha
votato… altissima partecipazione…” Da cui l’editoriale:
“atto di sfida”, “buona dose di autentico coraggio”, “sono
andati a votare intendendo con questo compiere
un atto di libertà
(sic), finalmente, dopo decenni trascorsi tra
plebisciti, silenzi e bombe”. Pascucci si premura poi di
precisare, alla faccia degli iracheni tutti (salvo i curdi
sionizzati), che gli iracheni non hanno certo votato per
esaltare lo Stato nazione, che in Iraq
non avrebbe ormai senso”.
Bush e Sharon, che questa sciarada l’hanno voluto proprio
per spaccare in tre lo stato nazione costruito con infinita
perizia antimperialista in 40 anni di resistenza e
progresso, ringraziano commossi. Una Resistenza, che assedia
nei suoi fortilizi occupanti e ascari, l’unico vero
interlocutore rappresentativo degli iracheni di fronte al
mondo, dimostrerà il contrario. L’ha già fatto 80 anni fa,
quando era infinitamente più debole.
Del Manifesto tralasciamo, per
amore di un giornale che tuttavia ancora ospita firme
decenti, le sciocchezze e superficialità di una collega, che
si ostina a andare da quelle parti, o in altre della regione
(ricordiamo i suoi ghirigori ad esaltazione della borghesia
filocolonialista e francesizzante berbera), a rimasticare le
favole dell’intelligence USA su Zarkawi e terrorismi,
presunti autentici. Ci cascano tutti, anche la Castellina,
che, pure, dall’occuparsi dell’Irlanda avrebbe potuto
imparare qualcosa su infiltrazioni e operazioni sporche. Ma
l’azzardo e la spocchia non risparmiano neppure i veterani:
Castellina arriccia il naso sui “limiti politici
pesantissimi” della Resistenza irachena. E’ stata a Falluja
al convegno internazionale dei leader delle formazioni
guerrigliere? Ne ha studiato i tanti manuali teorici, le
istanze programmatiche, i trotzkismi, nasserismi,
marxismileninismi, baathismi? E già, e non vi ha trovato
neanche uno straccio di Pdup, ecco perché! Della collega di
Chiarini in Iraq ricordiamo un’ ardita ma, ahinoi non
isolata, speculazione su un Sistani che, magari, in un
futuro, potrebbe anche “rivoltarsi contro la tutela USA” .
Come, capofila per un regime benedetto dal Richelieu
turbantato è quel tal Ahmed Chalabi, uomo Cia che, non pago
di quello stipendio, sottrasse all’agenzia altri 6 milioni
di dollari e a una Banca giordana tanti da meritarsi vent’anni
di galera, che ha fatto finta di tenere il muso agli
statunitensi per accreditare un’alternativa alla lista Iyad
Allaui, marchese di Langley, che ha convinto i suoi compari
iraniani a cogestire con gli USA lo sbranamento del paese, e
mo’ si rivolterebbe contro i suoi padroni e ufficiali
pagatori? E non verrebbe steso secco dai marines, come una
scolaresca di Falluja o di Gaza qualsiasi, se non si
rizzasse sulle zampe posteriori, lingua de fora, al primo
aggrottamento di ciglia di Negroponte? Ma quale rivoltarsi!
Qui si è tornati all’intesa USA- israeliani-iraniani che già
funzionò così bene quando Khomeini assaltò l’Iraq socialista
e laico, paese socialmente più progredito della regione
(quello di cui Fassino, battendosi le costole, si è chiesto
cosa avrebbe potuto fare di meglio di Bush per toglierlo di
mezzo) con le armi di Begin e Shamir, che ne ricavarono i
fondi neri per lanciare i contras contro il Nicaragua.
Un’ultima perla, però, non ve la posso negare: “In centro
Allawi è considerato il nuovo Saddam e proprio per questo è
odiato e amato”. Mancano le parole. Provi, come hanno
scritto osservatori anglosassoni meno sprovveduti, provi la
Sgrena a far scrivere agli iracheni, in libertà, sulla
scheda il nome dell’uno o dell’altro. Poi guardi e si
taccia.
Ma si sa, l’inviata, coma
l’analoga Botteri e vivandiere varie, non si tacerà. Aspetta
solo la prossima imbeccata, che so, che Al Zarkawi è stato
avvistato su un Tupolev con stella rossa, a fianco dell’imam
di Via Jenner, mentre tirava atomiche sulla Casa Bianca, e
l’avremo spiattellata su almeno cinque colonne del suo
malcapitato giornale.
Ospitato dal “Manifesto” c’è
un autentico Oscar del festival elettorale iracheno. E
dispiace che sia palestinese. Con Ali Rashid, primo
segretario della delegazione palestinese in Italia, si prova
il delirio di un tuffo nell’acido lisergico in un’alba alla
Tora-Tora. Rashid parte in tromba: “Sbaglia chi riduce
l’importanza dell’esito positivo delle elezioni in Iraq” e
spiega:”Questo successo è un esclusivo merito degli iracheni
che vorrebbero vivere finalmente in democrazia e liberarsi,
dopo la dittatura, anche dagli americani”. E noi che avevamo
sospettato, malevoli, che gli americani alle elezioni
spingessero gli iracheni per consolidare e legittimare
burattini e burattinai, a perpetua dispersione del popolo
iracheno e a perpetua rapina delle sue risorse! Non ho idea
di chi sia il fornitore di euforizzanti all’elegante Alì, ma
davvero deve essere di altissima affidabilità. Sentite qua:
“Nascerà un’assemblea generale che deve dar vita a una
costituzione, un governo transitorio e un assetto definitivo
del paese…” Con Allaui che, nervosetto, a novembre, ha
sparato in testa a sette detenuti e nel ’92-’93 riempiva di
bombe gli scuolabus di Baghdad? Con Chalabi? Con la spia
iraniana Al Hakim? Con il partito Comunista Iracheno che si
è venduto anche i genitori pur di leccare le mani a Bremer e
Negopronte? Ma sì, poiché Alì sa bene che, con
l’inevitabile dipartita degli eserciti stranieri, “insieme
al loro tramonto tramonteranno anche i progetti di
privatizzazione del petrolio, di dominio statunitense e
israeliano sul destino della regione… di loro rimarrà solo
uno sgradevole ricordo”. Bum! E Lucignolo, e l’omino di sego
e il Pase dei Balocchi non ce li metti? O piuttosto il Paese
di Acchiappacitrulli. Tramontano gli appalti? Dillo alla
Halliburton di Cheney, alla Bechtel di Rumsefeld, alla
Carlyle dei perenni soci Bush-Bin Laden, all’Agusta di
Bushlusconi che, saltando ogni giorno gli oleodotti e non
riuscendo costoro a recuperare neanche le spese per le
sigarette, o stanno lì per cent’anni, o finiscono come Tanzi.
Sia Alì che il Piero
Sansonetti, quello del sovrano di riferimento, venuto a
“Liberazione” dall’ “Unità” a fare da apripista per un
Bertinotti-cuculo nel nido dei DS (non è questo il progetto:
mettersi al posto di D’Alema e Fassino acchiappando Mastella
e il
nuovamente-caro-difensore-dei-diritti-civili-il-massacro-di-operai-palestinesi-iracheni-è-dimenticato-Marco-Pannella
e tirandosi dietro financo Casarini e gli emme-elle a
paletti?), traggono dal “miracolo democratico” iracheno
vigore e forza per il rilancio del pacifismo, rigorosamente
in lungo,
come minaccia l’infausto spot sul giornale, dunque
borghese, nonviolento, ma chic davvero. Agiscono entrambi
in stato di necessità: Sansonetti (che titola “8 milioni di
votanti”, ma trascura che, di questi, tre milioni non sono
riusciti a iscriversi nelle liste elettorali) è il cantore
dei “nostri ragazzi in Iraq” (nemmeno quelli di Nassiriyah,
e sarebbe già brutto, ma quei quattro mercenari che sapete)
e il logopedista di un gruppo di squinternati che devono
accreditarsi nel sottoscala del salotto capitalista; Alì,
che per altre distese di piombo vaneggia di “sbocco
democratico”, di “democrazia ormai processo inarrestabile”,
di “quadro inedito di valori, libertà e non di dominio” di
“una sorta di teologia di liberazione islamica” (perdincibaccoli!,
ma vale solo per gli sciti votanti in Iraq, mica per Hamas,
ci guardi iddio!) e chiude con un trionfo di fuochi
artificiali: “Questo trapasso deve portare l’umanità oltre
la modernità” (??? Fate un po’ voi), Alì, dicevo, ha un
problema di maggiore spessore: deve, disperatamente deve,
facendo il pazzariello sulla tragicomica truffa irachena,
accreditare la validità di quella desolazione che sono state
le “elezioni” di un milione di palestinesi su nove. Elezioni
parimenti sotto i cingoli dei tank, con l’acqua né alla
gola, né sotto i piedi, con l’orizzonte della “modernità”
sgomberato da inopportuni centri abitati e ulivi rasi al
suolo, liberato a sane fucilate dall’inquinamento acustico
di bimbetti arabi non allevati a
Rinalin, con un
leader, cocco di Luisa Morgantini, spinto a forza da sponsor
che vogliono la soluzione finale per il suo popolo. Mentre
il vero leader che Israele l’aveva messa con le spalle al
muro, sta in galera con quattro ergastoli. Marwan Barghuti
ha, sì, rinunciato a candidarsi, ma si è sacrificato contro
la disintegrazione di quel che rimane di Palestina politica
laica e, poi, si fosse candidato, chi mai si sarebbe più
mosso, nella congrega di quei settantenni simpatici a Bush e
Sharon, per tirarlo fuori?. E mentre l’”amico americano”
Mahmud Dahlan, capo della sicurezza diplomateggia con Shaul
Mofaz, ministro dell’eccidio palestinese, su come bloccare i
renitenti palestinesi, discussione sul fagiano tra volpe e
cacciatore, il Marwan ingabbiato ma non piegato
ripete:”Intifada fino alla vittoria”, facendo svegliare di
soprassalto ogni notte il nostro Gennaro – ma perché quel
cognome? – Migliore.
Passiamo rapidamente di
testata in testata, un percorso tra nasi chilometrici. Di
scorcio ringraziamo Bertinotti per aver dato, con la sua
spirale guerra-terrorismo e le sue rappresentazioni
scientifiche della resistenza irachena con la i minuscola,
una bella mano al giudice di Brescia che ha rimesso a posto
quei terroristi arabi che volevano impegnarsi contro il
genocidio in Iraq, secondo “il comune sentire” di Borghezio
e, appunto, Bertinotti. Stiamo per raccontarvi le vere
“elezioni” in Iraq, quando inciampiamo in nientemeno che il
direttore della “camera di consultazione”, la nuova radiosa
sinistra alternativa, la vera e unica risposta a Berlusconi
e ai consociativismi dei suoi oppositori, quella del 15
gennaio, evento storico da ascriversi al “Manifesto”. Uno
smarrito Alberto Asor Rosa sul “Corriere della Sera”: “Ciò
che è accaduto in Iraq rappresenta una grande lezione per
tutti noi… L’affluenza al voto, che sembra essere stata
massiccia, testimonia due cose. Primo: l’ostilità al regime
di Saddam era profonda, attraversava la società irachena in
modo intenso” (bel salto logico, professo’, per lei che ha
intervistato qualche milionata di iracheni che, pur avendo
le armi, non hanno mai alzato un dito contro un regime che
li aveva isolati, poverini, in una progresso sociale,
culturale, economico senza pari nell’oceano del
sottosviluppo regionale). “Riprendere il discorso sulle vie
della guerra e della pace con toni, in termini più maturi,
io credo che potrà aiutare la Coalizione a trovare punti in
comune che, fino a due giorni fa, neppure si potevano
intravedere…” Ah, la nuova coalizione! Ah l’aurora! Ah, se
la Coalizione, dopo aver cucinato nell’uranio e nella fame
due milioni di iracheni e averne polverizzati parecchi altri
con le bombe, ora ascoltasse il professore! Come finirebbero
di colpo la tragedia, la frammentazione di una grande
nazione, gli ammazzamenti a vista, i finti resistenti
iracheni e veri terroristi decapitatori Cia-Mossad, le
obliterazioni di Falluja e tante altre, le torture ai
rastrellati a casaccio, la rapina di tutto ciò che è
iracheno con la contemporanea polverizzazione della sua
storia, scienza, cultura, un sottogoverno proconsolare di
chierici integralisti e delinquenti!
Scherzi a parte, ma davvero
volete questo criptofassino alla guida della riscossa?
L’Iraq delle elezioni.
Lunedì, 31 gennaio, un
lunedì, il popolo iracheno si è svegliato come sempre: con
150.000 militari stranieri, 40.000 mercenari killer,
diverse migliaia di commandos della morte israeliani e una
loggia di briganti che occupano il loro paese.
E poi ancora Iyad
Allawi, terrorista Cia e palo della Banda Bushotti, futuro
capo del governo e 14 basi militari statunitensi in
costruzione. Democrazia significa “governo del popolo”.
Quanto è successo domenica conferma e rafforza un governo
nominato dall’invasore sotto occupazione militare.
Un’elezione?
In un’elezione i votanti dovrebbero scegliere candidati che
poi li vanno a rappresentare ed esercitano una misura di
potere. Qui non si è votato per un candidato, neppure per un
partito politico con un pensiero che non sia quello di
restare protetti sotto le sottane della coalizione finchè
morte non li separi Si era autorizzati a votare per una
lista i cui componenti, partiti o individui, rimanevano
sconosciuti. Queste liste furono decise da una commissione
elettorale di cui ogni membro era stato scelto dal viceré
Paul Bremer. I nomi dei 7.700 candidati non era pubblici,
non si sapeva per chi si votasse, se non per qualcuno che
andava bene o all’eminenza iraniana Al Sistani, o al
pluriassassino Iyad Allaui e, comunque, agli USA. I
candidati che alla fine saranno selezionati (da scrutini
eseguiti nel buio della Zona Verde, sotto controllo
esclusivo di marines) non eserciteranno alcuna autorità
legislativa o esecutiva. La costituzione che redigeranno
sarà dettata dagli statunitensi, tenendo conto di qualche
prurito clericale degli ayatollah collaborazionisti (lo
erano anche sotto gli inglesi).
All’Iraq non è stata data
l’opportunità di votare per l’unica cosa che interessasse
quel popolo tra i più civili e progrediti della Terra, come
dimostrano le 125 operazioni di guerriglia al giorno,
perfettamente coordinate e protette dalla popolazione: la
fine dell’occupazione. Le quasi 150.000 persone ammazzate
dagli occupanti e dai loro ascari dal marzo 2003, nonché i
due milioni di uccisi dall’embargo, non hanno potuto votare.
E neppure i 20.000 detenuti a caso, compresi quelli delle
camere di tortura di Abu Ghraib, Guantanamo, Camp Bucca, e
delle prigioni segrete in Israele, Giordania, Marocco,
Afghanistan, Diego Garcia.
Si è detto che si tratta delle
prime elezioni democratiche in Iraq da cinquant’anni in qua.
Già, a parte che in Iraq c’era un sistema multipartitico
fino al 1979, demolito dal tradimento del PC iracheno e dai
curdi schieratisi con gli invasori iraniani, le ultime
elezioni alle quali ci si riferisce furono tenute sotto una
monarchia nominata dagli USA e dal Regno Unito e autorizzata
a selezionare un organo consultivo che non avesse poteri né
legislativi, né esecutivi. La sua sola funzione era di
fornire una facciata di legittimità (vi suona nuovo?) al
regime fantoccio e di acquietare e pacificare i perplessi e
pacifici nel bel mondo postcoloniale: il paese rimase sotto
il tallone delle compagnie petrolifere angloamericane. Meno
di tre anni dopo, una rivoluzione popolare guidata dal Baath
e dai comunisti rovesciò questi satrapi ed è da allora che
gli USA e la Gran Bretagna tentano di riportare l’Iraq allo
stato di colonia. Le elezioni sono un pilastro del progetto.
Non disse Henry Kissinger: “Il Medioriente e il suo petrolio
sono troppo importanti per essere lasciati nelle mani degli
arabi”? Del resto, gli USA mai si sono sognati di portare
democrazia in alcun paese della regione, men che mai in uno
Stato fondato sulla discriminazione e sul razzismo come
Israele, mentre ovunque le sue truppe e armi tengono al
riparo dalla rabbia popolare manutengoli del colonialismo
corrotti e feroci.
Nell’Iraq in cui si è “votato”
regna il coprifuoco, sorvegliato da pattuglie che girano con
l’arma puntata su qualsiasi cosa si muova, i confini sono
chiusi, la circolazione è proibita. Supervisore delle
elezioni era quel John Negroponte che negli anni 1981-85,
da ambasciatore in Honduras, gestiva squadroni della morte
responsabili di 200.000 assassinii, le operazioni stragiste
dei contras, gli attacchi di Reagan al Nicaragua, al
Salvador e al Guatemala. La futura economia dell’Iraq
sfugge totalmente al controllo degli “eletti”. L’ha
predeterminata Paul Bremer in termini di privatizzazione di
tutto e, tra le tante belle cose, di divieto ai contadini di
conservare le loro sementi e l’obbligo di comprarle anno
dopo anno da Monsanto e Novartis. Ad assistere Negroponte
nell’impresa elettorale sono accorsi le solite fattucchiere
della manipolazione elettorale: l’Istituto Democratico per
gli Affari Internazionali e l’Istituto Internazionale
Repubblicano, entrambi operanti in stretto coordinamento con
le facciate Cia National Endowment for Democracy e USAid, la
stessa gente dei golpe elettorali in Jugoslavia, Georgia,
Ucraina (l’Ucraina arancione benedetta da Bertinotti, dal
Manifesto e da quella lista civetta di Bertinotti per il
prossimo congresso che si chiama, sogghignando, “Un’altra
Rifondazione è possibile” e che, con Salvatore Cannavò,
nasce dall’accoppiamento impuro con gli scherani Cia Otpor e
Radio B92 di Serbia) e del fallito broglio al referendum su
Chavez presidente in Venezuela. Analoghe elezioni vennero
tenute durante la guerra in Vietnam, a supporto dei fantocci
fascisti di Saigon: non fornirono né sovranità, né
autogoverno, né fermarono la resistenza, né ne impedirono la
vittoria (anche allora si era ubriacato l’opinione pubblica
con la fanfare dell’’83% di votanti, “contro la violenza dei
terroristi Vietcong”.
In questa elezioni , forse la
più manipolata da quando qualcuno pensò che si potevano
mescolare nomi in un’urna e farne pastette alla Bonolis,
non ci sono stati osservatori internazionali. Nessuna fonte
esterna ha potuto vedere un fico secco. Non dico monitorare,
ma neppure vagamente avvicinarsi alle schede o ai conteggi.
Conclusione: quelle elezioni sono credibili, democratiche,
un successo, una strada verso l’avvenire, quanto lo sono
Bush e la criminalità organizzata raccolta attorno a lui. E’
la resistenza armata in tutto il paese, che con buone pace
delle anime belle tipo Giovanni Franzoni, giudice di Brescia
borghezista e il solito ormai esangue Bertinocchio, colpisce
giustamente, necessariamente ed eticamente anche chi contro
il proprio popolo si vende al nemico (guarda un po’ se ora
ti devono impartire anche la lezioncina – Sansonetti,
Gagliardi del tabloid femminista e ginocratico
“Liberazione”- che fa brutto parlare di amico-nemico e
bisogna uscire dalla “spirale dell’odio”: a me il martello
di Pinocchio!), che dimostra con chiarezza assoluta cosa il
popolo iracheno pensa e sente a proposito dell’occupazione.
Che transfert, quello del pagliaccio che governa dalle
nostre parti, quando proclamò che il comunismo porta
“miseria, terrore e morte”!
Restano due parole a proposito
della nuova forma che il bertinottismo, e una raggrinzita
fetta di “movimento”, al perenne inseguimento del battesimo
prodiano e padronale, hanno preso per svillaneggiare e
tradire le aspettative e i diritti degli iracheni
all’autodeterminazione e alla sovranità. Invischiati nel
grottesco paradosso del “ritiro delle truppe, con se e con
ma”, ora si appellano all’ONU, alla forza multinazionale,
ma, per favore, senza i paesi che hanno bombardato,
trucidato, devastato e torturato. Vediamola, questa ONU, e
come ha riscattato paesi, Stati e popoli nel corso del suo
mezzo secolo di compiacenze e dirette nefandezze. Solo
alcuni casi tra tanti.
1945: appena fondata, l’ONU
non pronuncia verbo sull’orrore di Hiroshima e
Nagasaki;1948, spartizione della Palestina con – alla fine
dell’indisturbata avanzata sionista - un 22 per cento
lasciato alla maggioranza di autoctoni, il resto offerto
agli invasori e strada aperta a una strategia ininterrotta
di espansione e genocidio; 1950, aggressione e spartizione
della Corea; 1949-1971, tiene fuori la Cina e tiene dentro
Formosa; 1962, consegna il leader anticolonialista del
Congo, Patrice Lumumba, ai suoi boia; 1991 legittima la
prima guerra all’Iraq e il successivo embargo genocida;
approva la prima invasione USA di Haiti, l’invasione
“umanitaria” che ha sbrindellato la Somalia, l’intervento
della Francia in Ruanda, i bombardamenti della Nato in
Bosnia e poi contro la Serbia, con la falsa scusa
dell’inesistente pulizia etnica in Kosovo; trasforma Kosovo
e Bosnia in protettorati coloniali; legittima l’invasione di
Timor Est; approva l’invasione dell’Afghanistan ( in
sintonia con la maestrina del 15 gennaio, Susan George,
ricordiamocelo!); approva l’occupazione militare e avalla il
governo quisling in Iraq; approva una nuova invasione
statunitense e francese di Haiti; minaccia il Sudan,
avallando menzogne di missionari e umanitari, per aprire la
strada a un intervento imperialista; manipola l’AIEA,
agenzia atomica, per destabilizzare Stati ostili
all’imperialismo, ma che si copre la faccia di prosciutto
quando si tratta di rimirare le 400 bombe atomiche
israeliane; da sempre copre i traffici illeciti nei paesi
amministrati, da quel li di donne, bambini, droga, a quelli
di organi, permettendo che sistematicamente vi partecipino
alla grande, insieme ai tanti farabutti Ong, i propri
funzionari. E’ un dito, quello dell’ONU, a nascondersi
dietro al quale si compiono atti osceni in luogo pubblico.
Ma, per fortuna, compagni,
c’è, eccome, la Resistenza irachena, anche a Porto Alegre il
vento è cambiato e ha scoperto quale cazzo di altro mondo
gli esclusi del mondo vogliono, e qui da noi praterie
sconfinate si sono aperte a sinistra di D’Alema e Bertinotti.
Ciao.
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l'articolo fu scritto prima
del rapimento della collega Sgrena. Immediatamente dopo,
Fulvio Grimaldi ha aggiunto quanto segue:
Ai compagni e colleghi de Il
manifesto, la massima solidarietà nella loro preoccupazione
per Giuliana Sgrena e nell'impegno per portare a conclusione
positiva una vicenda che, come altre in passato con il
coinvolgimento di giornalisti vicini al popolo iracheno
invaso, occupato e devastato, non può non sollevare dubbi e
sospetti su matrice e obiettivi. Con Giuliana abbiamo in
comune una lunghissima esperienza mediorientale e irachena
e, per quanto spesso su giudizi e posizioni divergenti,
sappiamo tutti che Giuliana sta dalla parte di chi tenta,
con uno sforzo che ogni giorno diventa più disperato, di
arginare l'alluvione di informazione falsa, deformante,
approssimativa e servile. Non può essere nell'interesse
della libertà, della giustizia e della sovranità del popolo
iracheno che una firma come quella di Giuliana Sgrena venga
minacciata e sequestrata. Che la vicenda di Giuliana, a cui
auspichiamo un immediato esito felice, sia un impulso a
un'iniziativa mondiale di giornalisti, cittadini e politici
per denunciare e bloccare la scandalosa campagna di censura,
intimidazione e terrorismo di cui sono stati vittime tanti
colleghi non embedded e tante testate, a partire da "Al
Jazira". Tantissimi auguri!
Fulvio Grimaldi
E' stato un cattivo tiro della sorte a far coincidere il
sequestro di Giuliana Sgrena con le critiche all'inviata
(anonima) del "Manifesto" contenute nel mio "Mondocane" -
"Le tre 'i' della GAD" - con l'inevitabilmente sgradevole
sapore di inopportunità che non può non esserne derivato a
chi, ignaro, ha scritto e a chi, consapevole, ha letto.
Non ho nulla da correggere di quelle mie osservazioni su
come l'inviata del Manifesto ha riferito delle "elezioni"
imperialcomandate in Iraq, per me niente affatto segno di
coraggio e di atto di libertà, ma criminale e totalmente
falsa operazione di legittimazione di una macelleria
anglo-italo-americana, incitamento alla frantumazione del
paese e alla dispersione del suo popolo, e, nella migliore
delle ipotesi, scelta disperata per evitare "le fiamme
dell'inferno" della spia fondamentalista anglo-iraniana Al
Sistani, e per sottrarsi alla minaccia di uccisione per fame
lanciata dal bancarottiere Cia Iyad Allaui con la
sottrazione delle razioni di cibo che per 12 anni di embargo
genocida il governo iracheno aveva assicurato ai suoi
cittadini.
Non c'è niente di contradditorio tra l'augurare di tutto
cuore a Giuliana Sgrena e ai compagni dell'unico giornale
ancora leggibile in Italia una felice uscita dalla terribile
situazione in atto e il mantenere tutte le riserve sulle
analisi fatta dalla giornalista in merito alla realtà della
Resistenza irachena, al suo accreditamento del terrorismo e
dell'ectoplasma Cia-Mossad Al Zarkawi come espressioni della
resistenza armata, alla violenza e al " fondamentalismo
islamico", alla "società civile" irachena, tutta, nelle
misura in cui può esibirsi, collaborazionista, al conflitto
tra minoranza (filofrancese) berbera secessionista e
maggioranza nazionale in Algeria, e via elencando posizioni
che, seppure si pongono tutte nello stesso ambito del
rifiuto dell'imperialismo e dell'oppressione, si orientano
in modo diverso quanto a retroterra, mezzi e fini.
Non credo che Giuliana, con la sua onestà intellettuale,
apprezzerebbe se, ora, chi ha avuto modo di dissentire,
alimentasse la sua solidarietà con tarallucci e vino.
Riconosco che il mio articolo è capitato in un momento
inopportuno. Sempre infinitamente meno opportuno, comunque,
dei cannibalismi dei mafiosi di potere, i cui sponsor,
compari e guardiaspalle sanno, e sono, perfettamente - ne ho
la ferma convinzione, anche sulla base di precedenti come
Baldoni, Margaret Hassan, Nick Berg, Simone, Malbrunot e
Chesnot - coloro che si giocano l'ennesimo sputtanamento
della Resistenza sulla pelle di chi è più vicino, se non al
popolo in lotta, a quello martoriato. Meno opportuno di chi,
lungo tutto il maledetto arco costituzionale, si è
precipitato ancora una volta sulla direttiva-alibi dei
servizi: "Sunniti, certo; banditi, chissà". Meno opportuno
anche degli ammuffiti reperti ottocenteschi che ieri, dal
palco congressuale, non hanno saputo, voluto, dire una
parola sul terrore di una donna, dei suoi compagni, della
sua famiglia, ostaggi del terrorismo di Stato. Ostaggi come
è ostaggio ormai tutto il mondo dell'informazione fuori
dalla tenaglia concentrazione transnazionale
capitalista-censura del potere e dei suoi subordinati.
Luisa Morgantini si è precipitata al "Manifesto" promettendo
agitazioni di "Donne in nero" a Baghdad, a Tel Aviv, a
Belgrado. A Baghdad sarebbe bene che andassimo in 100.000,
tutti giornalisti, per vedere se ci possono sparare,
sequestrare, cacciare tutti quanti; a Tel Aviv bisognerebbe
fare risuonare 100.000 megafoni che urlino come a fare le
operazioni sporche in Iraq siano le squadre speciali
israeliane; e a Belgrado sarebbe solo da piangere sulla
tomba della Jugoslavia su cui qualche palata di terra l'ha
gettata anche "donne in nero" quando la chiamavano "fascismo
serbo".
Ignacio Ramonet, chiama in causa, non per la prima volta,
tra gli attori del conflitto iracheno, l'esercito degli
Stati Uniti e il governo iracheno ad interim, collaboratore
dell'occupante. Ci voleva proprio un Ramonet a scoprire
l'acqua calda? O la scopriamo tutti, a gran voce, senza
timidezze e omaggi alla doppiezza della "spirale
guerra-terrorismo", o altro che Giuliana Sgrena. Denudiamo
il re per liberare Giuliana!
Fulvio Grimaldi
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