di Gianni
Minà
Uno spirito caustico come Daniel
Chavarría, scrittore e rivoluzionario uruguayano, ha liquidato
l'episodio dell'espulsione da Cuba di Francesco Battistini del Corriere
della Sera e di Francesca Caferri de la Repubblica, insieme a due o tre
politici polacchi, con una battuta crudele “Meno male! A Cuba i
giornalisti li espellono, in Iraq invece la truppa d'occupazione
nordamericana spara loro addosso”. La battuta feroce si basa su una
constatazione incontrovertibile e scabrosa: anche Cuba vive da tempo una
guerra, quella che gli Stati Uniti le hanno dichiarato 45 anni fa con
l'embargo economico e mediatico [recentemente inasprito] e che ora,
nell'epoca di Bush jr., ha ripreso vigore, come confermano le 450
inquietanti pagine del progetto “Cuba libre”, disponibili da maggio 2004
sul sito del Dipartimento di Stato Usa.
È un progetto politico ben preciso che,
con tanti saluti al diritto di autodeterminazione dei popoli, punta ad
un cambio “rapido e drastico” nell'isola. Certo, salvo gli attentati
terroristici subiti nell'ultimo trentennio e che hanno causato più di
3000 morti in terra cubana, non è, per ora, una guerra dichiaratamente
armata, quella del governo di Washington, ma un conflitto combattuto con
le armi spietate e subdole dell'economia e della comunicazione e rivela,
da parte nordamericana, una concezione molto coloniale dei diritti dei
cittadini dell'isola.
Così, senza voler giustificare le
inutili espulsioni dei giornalisti, si intende come Cuba possa vivere in
una sindrome di “castello assediato” che le fa commettere errori. Una
condizione in cui la nazione più poderosa del mondo stanzia
pubblicamente 53 milioni di dollari l'anno [più 5 per le campagne di
propaganda] per costruire una opposizione alla revolución e cambiarne il
destino [per ora meno drammatico del resto dell'America latina]. Come è
successo 30 anni fa al Cile e più recentemente all'Iraq. E tutto questo
senza che nessun D'Alema [pronto a dichiarare sulla democrazia carente
dell'isola] senta alcuna preoccupazione.
Perché nel documento della “Commissione
per sostenere una Cuba libera” si dichiara senza mezzi termini
l'intenzione del governo di Washington di designare fin da ora, per
l'isola che si presume sarà liberata, un coordinatore del Dipartimento
di Stato, che si occuperebbe della transizione. Insomma un Paul Bremer
che successivamente dovrebbe passare il potere ad un altro Allawi, anche
lui, verosimilmente, proveniente dalla CIA. E questo, è ovvio, per
ristabilire la democrazia.
“L'assemblea per la promozione della
società civile a Cuba”, organizzata da Marta Beatriz Roque venerdì 20 e
sabato 21 maggio, con un budget di 130 mila dollari, forniti da James
Cason, esperto di “guerre sporche” e responsabile dell'ufficio di
interessi degli Stati Uniti all'Avana, è una delle tappe di questa
strategia della tensione. Una politica tesa alla destabilizzazione
interna e inaugurata, due anni fa, con i dirottamenti di tre aerei
passeggeri e il sequestro fallito del ferry boat di Regla. Una pressione
alla quale Cuba aveva reagito duramente fucilando, dopo un rapido
processo, tre degli undici componenti il gruppo che aveva sequestrato,
coltelli alla gola, i passeggeri del ferry boat. Una decisione dolorosa,
visto che da quattro anni il governo de l'Avana, al contrario di quello
di Washington, rispettava la moratoria sulla pena di morte, chiesta da
più parti, fra cui il Vaticano, per voce dello stesso Giovanni Paolo II.
La strategia della tensione è
proseguita poi quest'anno, in occasione della 61° sessione della
Commissione diritti umani dell'Onu, nella quale il governo di Washington
è riuscito a bloccare la presentazione di una denuncia sulle violenze,
gli abusi e le torture compiute dai suoi funzionari, ufficiali e soldati
in Afghanistan [dove alcuni testimoni sono stati ammazzati di botte
durante gli interrogatori], nelle carceri irachene e a Guantánamo, ma ha
ottenuto di imporre di stretta misura, col voto determinante di alcune
nazioni europee come l'Italia, una censura a Cuba, dove non ci sono mai
stati desaparecidos, torture ed esecuzioni extra giudiziarie.
L'iniziativa di Beatriz Roque e di René
de Jesús Gómez e Felix Antonio Bonne, che, bisogna ricordare, si è
svolta regolarmente, con il disappunto di tutti quei politici mestatori
e anche giornalisti che si aspettavano una repressione, è stata però
un'iniziativa alla fine autolesionistica.
Perché non solo ha costretto alcuni
dissidenti storici come Osvaldo Payá, Cuesta Morua ed Elizardo Sánchez a
dissociarsi da una manifestazione organizzata da chi “incontestabilmente
prende ordini e soldi dal governo degli Stati Uniti”, ma perché ha
ribadito le divisioni e la possibilità di manipolare l'opposizione alla
revolución.
Chi potrebbe fidarsi, infatti, di un
progetto di cambio politico che afferma: “Bisognerà processare i
funzionari e i membri del governo, del partito, delle forze di
sicurezza, delle organizzazioni di massa e anche quelle di cittadini
favorevoli al governo rivoluzionario [e quindi ufficialmente tutti] e
forse pure di molti membri dei Comitati di difesa della rivoluzione”?
Perché, sia chiaro “la lista potrebbe essere molto ampia”. Questa
sarebbe la strategia per restituire Cuba alla libertà e alla democrazia?
E i cronisti dei nostri più prestigiosi giornali invece di informarsi e
di allarmarsi per questa guerra sotterranea in corso, vanno, in zona di
operazione, con visti da turisti. Lo farebbero in Iraq o anche solo in
Palestina? E perché insieme ai candidi partiti “democratici” italiani
dimenticano per esempio che, proprio in questi giorni, George W. Bush
ha, come gradito ospite a Miami, il famigerato terrorista Luis Posada
Carriles, al quale potrebbe concedere “asilo politico”?
Posada Carriles, che nel '76, col suo
compare Orlando Bosch, mise il tritolo su un aereo passeggeri della
Cubana de Aviacion fu successivamente coinvolto nell'assassinio a
Washington di Orlando Letelier, ministro degli esteri del governo cileno
di Salvador Allende. Più recentemente, nel '99, prima di essere
arrestato e condannato a Panama a 8 anni di detenzione, era stato fra
gli organizzatori della serie di attentati messi in atto all'Avana per
annientare il turismo dell'isola. Ma la ex presidentessa di Panama,
Mireya Moscoso, prima di lasciare l'incarico, su pressioni
nordamericane, lo aveva liberato. Il governo cubano e anche quello
venezuelano [perché nell'esplosione dell'aereo morirono anche alcuni
cittadini di quel paese], hanno chiesto l'estradizione. Lo stesso, se
l'Italia fosse un paese coerente e dignitoso, dovrebbe fare, come ha
ricordato Maurizio Matteuzzi, il nostro Ministro degli Esteri Gianfranco
Fini. Perché negli attentati del ‘99 contro il turismo di Cuba, morì
anche un cittadino italiano, il giovane imprenditore Fabio Di Celmo e il
suo vecchio padre Giustino ancora cerca qualcuno che lo sostenga nella
speranza di punire i mandanti dell'assassinio di suo figlio.
Ma in Italia queste inquietanti realtà,
che spiegano la “sindrome da assedio” in cui talvolta cade Cuba, non
interessano a molti esponenti di partiti che si dichiarano ancora di
sinistra. Figuriamoci ai giornalisti, che certamente non hanno pensato
ad andare a cercare nell'isola i parenti delle vittime dell'attentato
del '76, o di andare in Florida [consiglierei con un visto giornalistico
ufficiale] per fare un reportage negli ambienti da cui parte il
terrorismo verso Cuba.
L'informazione embedded che trionfa
attualmente ignora queste quisquilie. La guerra mediatica cara al
Dipartimento di Stato si fa con le provocazioni, magari come quelle
familiari ai Reporter Sans Frontiéres, il cui fondatore, Robert Menard,
recentemente ha dovuto ammettere di essere stato sovvenzionato dal
National Endowment for Democracy, l'agenzia della CIA che sovrintende a
queste operazioni di discredito delle nazioni non allineate agli
interessi del governo degli Stati Uniti.
“È il prezzo dell'informazione moderna,
bellezza!”, ha commentato ironico Daniel Chavarría.
Per questo ho pubblicato su il
manifesto del 24 maggio
l'inizio di questo editoriale
sintetizzato e uscito col titolo “Il candore dei cronisti italici”, e
che introduce il numero doppio 90-91 di Latinoamerica.
24 ore dopo Robert Menard ha risposto
con una lettera a il manifesto, confermando il denaro ricevuto dal
National Endowment for Democracy, agenzia della CIA, e giustificandolo
con l'esigenza di finanziare un progetto destinato a “sostenere
giornalisti arrestati, carcerati o minacciati in Africa” e spiegando che
la cifra ricevuta dal NED nel 2005 [39,900 dollari] rappresenta soltanto
lo 0,95% del bilancio dell'organizzazione. Una risposta imbarazzata. Ma
subito dopo Menard non può fare a meno di rivelare da che parte sta
veramente e qual è la sua etica giornalistica, sorprendendosi che la mia
accusa venisse mentre “tre giornalisti polacchi [ma poi si è saputo che
non erano giornalisti] e due italiani erano stati espulsi da Cuba mentre
21 giornalisti locali [alcuni condannati a più di 20 anni di carcere]
sono sempre dietro le sbarre”.
Mi è stato facile ricordargli, con
un'altra lettera a il manifesto pubblicata il 28 maggio, come apparisse
singolare che Menard facesse sovvenzionare Reporter Sans Frontiéres
proprio da un'agenzia della CIA, e paradossalmente per “sostenere i
giornalisti arrestati o minacciati in Africa”, cioè i giornalisti che
quasi sempre sono vittime, nel proprio lavoro, degli interessi che la
CIA difende.
Il “lavoro sporco” che fa il
Dipartimento di stato americano, trasformando in presunti giornalisti
tanti poveri cristi in cerca a Cuba, come nel resto dell'America latina,
di sbarcare il lunario, è di fronte agli occhi di tutti. E tutto questo
mentre i giornalisti di lungo corso e di accertato coraggio vengono
assassinati ogni anno, come i sindacalisti, in Colombia o in Messico,
che hanno il record di queste esecuzioni, ma non riescono ad avere
l'attenzione di Reporter Sans Frontiéres e delle sinistre riformiste
europee.
È il trionfo dell'ipocrisia, specie se
si indaga, come noi facciamo in questo numero della rivista -nel settore
Documenti e testi- sui sovvenzionatori delle attività di RSF. Da
Publicis, concessionaria della comunicazione e immagine delle forze
armate americane, alla Coca cola, che ha il record, nelle sue filiali in
America latina, dei sindacalisti uccisi [in particolare in Guatemala,
come Dante Liano ha documentato, qualche numero fa, in questa rivista],
alla Bacardi, sempre felice, in Florida, di sponsorizzare l'eversione
violenta contro Cuba.
Sui due colleghi italiani respinti
perché sono andati a fare il lavoro di reporter in un paese
evidentemente assediato dagli Stati Uniti con un visto di turismo, non
vale la pena soffermarsi troppo. Basta ricordare che colleghi della
France presse, dell'agenzia spagnola EFE, dell'Ansa e di tanti giornali
latinoamericani e non, hanno regolarmente coperto l'evento riguardante
l'iniziativa di Beatriz Roque e dei suoi compagni, pagata
dall'attivissimo incaricato d'affari nordamericano James Cason, con una
prebenda di 130 mila dollari regolarmente dichiarati, mentre i nostri
giornali d'opinione si sono guardati bene di farlo, neanche recuperando
le notizie d'agenzia.
Insomma non era importante capire che
consistenza ha la dissidenza a Cuba, ma partecipare a una provocazione,
magari per far crescere il discredito verso la rivoluzione
Con lo stesso silenzio, infatti, i
media italiani hanno coperto la grande assise sul terrorismo svoltasi a
Cuba il 3 e 4 giugno e alla quale hanno partecipato quasi settecento
studiosi ed intellettuali di tutto il mondo e che Gennaro Carotenuto
racconta in questo numero di Latinoamerica.
È chiaro che “l'Assemblea per la
promozione della società civile a Cuba” era, invece, solo una scusa per
partecipare, come ho spiegato, ad una plateale provocazione che fa parte
di una strategia precisa, tesa a permettere al Dipartimento di stato di
giustificare, in un prossimo futuro, qualunque azione o ulteriore
restrizione nei riguardi di Cuba. È il prezzo elettorale che Bush deve
pagare a chi, in Florida, lo ha fatto eleggere nel suo primo mandato in
modo rocambolesco e ancora adesso è uno degli sponsor più generosi della
sua avventura politica.
Non si dispiacciano i colleghi
Battistini del Corriere della Sera e Caferri de la Repubblica, convinti
che l'ambasciata cubana, se si fossero dichiarati giornalisti, non
avrebbe concesso loro il visto. Ci sono degli illustri precedenti in
merito. Gabriel García Márquez, per esempio, o Eduardo Galeano, o i
vecchietti del Buena vista social club, che, ritenuti pericolosi
sovversivi, in determinati momenti della loro vita si sono visti
rifiutare il visto per entrare negli Stati Uniti o sono stati fermati
per ore in qualche varco doganale degli States. L'aereo su cui viaggiava
il cantautore Cat Stevens, da oltre 20 anni diventato musulmano col nome
di Mohammad Yussuf, quindi possibile terrorista, è stato addirittura
costretto ad atterrare in un aeroporto militare del Maine, da dove
immediatamente è stato rispedito in Inghilterra. Sempre in nome della
libertà e della democrazia, ovviamente.
Questa tensione che riprende nei
confronti di Cuba -con la connivenza, purtroppo, anche dell'Unione
europea- è documentata in questo numero doppio 90/91 della rivista, così
come l'ambiguo ruolo che sta giocando l'associazione Reporter Sans
Frontiéres, incapace, nei suoi rapporti, di denunciare e condannare le
innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute dagli Stati Uniti da
quando è iniziata la cosiddetta “guerra preventiva”, ma votata, con un
accanimento quanto meno sospetto, contro ogni aspetto della politica di
Cuba, del Venezuela e di tutte le nazioni che infastidiscono le
strategie del governo di Washington. È un'ipocrisia evidente che Luis
Sepúlveda, in questo numero della rivista, rinfaccia anche a Mario
Vargas Llosa.
Latinoamerica 90/91 si onora anche di
alcune riflessioni particolarmente acute: quelle di Frei Betto sul nuovo
papato di Benedetto XVI e sulle trasformazioni in atto nel Brasile di
Lula e poi quella di Bruce Jackson sulla caccia ai reporter indipendenti
in Iraq, quelle di Bugliani, De Marzo e Contreras Baspineiro sul ruolo
dei movimenti indigeni in cerca di riscatto in Ecuador e Bolivia, quella
di Perez Esquivel sulla precarietà ormai endemica di Haiti e quella di
Omar Gonzáles sul pensiero unico, imposto dalla cultura del mercato, e
quindi sulla neutralità impossibile. Toccanti infine i ricordi di
Rigoberta Menchú e monsignor Pedro Casaldaliga nel 25° anno
dall'assassinio del vescovo Romero.
(...)