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NARRATIVA - LIBRI
 

 

LA MORTE DI ITALO CALVINO

di GORE VIDAL 

Nella mattina di Venerdì 20 Settembre, 1985, la prima tempesta equinoziale dell'anno scoppiò sulla città di Roma. Mi svegliai al suono dei tuoni e dei lampi; e pensai d'essere, di nuovo, nella Seconda Guerra Mondiale. Un po' prima di mezzogiorno, una macchina con autista arrivò per portarmi lungo la costa mediterranea verso un paesino sul mare

chiamato Castiglion della Pescaia dove, all'una, sarebbe stato sepolto, nel cimitero del paese, Italo Calvino, deceduto il giorno precedente.

Calvino aveva avuto un'emorragia cerebrale due settimane prima mentre stava seduto nel giardino della sua casa in Pineta di Roccamare, dove aveva passato l'estate lavorando alle lezioni su Charles Eliot Norton che avrebbe tenuto durante l'autunno e l'inverno presso Harvard. L'avevo visto nel mese di Maggio. L'avevo lodato per il suo coraggio: intendeva dare le lezioni in inglese, una lingua che leggeva con facilità ma che parlava con esitazione, non come il francese o lo spagnolo, che parlava perfettamente; del resto era nato a Cuba figlio di due agronomi italiani; e aveva vissuto per molti anni a Parigi.

Era notte. Eravamo sulla terrazza del mio appartamento romano; una luce sopra le nostre teste rendeva i suoi occhi infossati ancora più scuri del solito. Italo aggrottò le ciglia come per dire, così o cosà; poi sorrise, e quando sorrideva, all'improvviso, il suo viso diventava come quello di un bambino immensamente sveglio il quale ha appena elaborato la teoria di campo unificata. "A Harvard farfuglierò" disse. "Ma tanto farfuglio in qualunque lingua".

A differenza degli Stati Uniti, l'Italia ha sia un sistema educativo (non importa se buono o cattivo) ed una cultura comune, sia buona sia cattiva. Negli anni recenti, Calvino era diventato la figura centrale nella cultura dell'Italia. Gli italiani erano fieri d'aver generato uno scrittore di livello mondiale la cui reputazione americana iniziò, se lo posso dire, poiché nessun altro lo farà, dal 30 Maggio 1974, quando io descrissi uno dei suoi romanzi su The New York Review of Books. Entro il 1985, fatta eccezione per l'Inghilterra, Calvino era letto ovunque fossero letti i libri. Ho persino trovato un Calvino inserito nella burocrazia letteraria Moscovita, e penso che possa aver convinto gli

editori di stato a tradurne di più. Curiosamente, il fatto che egli se la fosse squagliata dal partito comunista italiano nel 1957 non disturbava nessuno.

Calvino è morto tre settimane prima del suo sessantaduesimo compleanno; e l'Italia mise il lutto, come se fosse morto un amato principe. Per un americano, il contrasto fra loro e noi è impressionante. Quando muore uno scrittore americano, viene pubblicata, se egli è una celebrità (la fama non è più possibile per nessuno di noi), una foto sotto la piega delle prime pagine; più in là, un breve apprezzamento nella pagina dedicata ai libri dei quotidiani che ne hanno una, di solito si tratta del lavoro di un giornalista o altro quasi scrittore il quale non ha effettivamente letto niente del lavoro dello scrittore mancato ma che si trova a suo agio con l'arcano della pettegola "Pagina Sei", e finisce tutto lì.

Nel caso di Calvino, i necrologi dei quotidiani americani furono superficiali ed incompetenti: i circuiti fra i dipartimenti d'inglese, dove le nostre pillole di reputazione letteraria vengono custodite adesso, ed il mondo del giornalismo sono più che mai fragili e la ricettività è sempre cattiva. Sorprendentemente, Time and Newsweek, benché l'ho abbiano messo sulla "pagina letteraria", non erano male, anche se uno lo riteneva un "surrealista" e l'altro un "maestro della fantasia"; egli era, senza dubbio, un vero realista, il quale credeva "che solo una certa solidità prosaica può dare alla luce la creatività; la fantasia è come la marmellata, la devi spalmare sopra una fetta di pane. Altrimenti, rimarrà una cosa senza forma, come la marmellata, dalla quale non si ricaverà niente." Questa semplice analogia è tratta da un'intervista alla televisione italiana, trasmessa dopo la sua morte.

Per dimostrare quanto Calvino fosse ben visto da queste parti, The New York Times citò sia John Updike, l'apostolo perenne della nostra letteratura per le persone di media cultura (1) (con questo non intendo essere, completamente, scortese), che Margaret Atwood (un nome che mi giunge nuovo), Ursula K. Le Guin (una stimabile scrittrice di fantascienza, ma a che titolo vuol dire un'ultima parola a proposito di uno dei più complessi fra gli scrittori moderni?), Michael Wood, il cui commento è stato abbastanza buono, e, in ultimo, l'eccellente Anthony Burgess, il quale non ha raggiunto il suo livello abituale in quest'occasione. Altrove, il Sig. Herbert Mitgang citò anch'egli il sig. Updike e anche John Gardner, ex-apostolo degli ignoranti, una specie d'evangelico cristiano che vedeva il paradiso come un'università pragmatica americana.

L'Europa considerava la morte di Calvino come una calamità per la cultura. Un critico letterario, contrapposto a teorico, scrisse a lungo su Le Monde, mentre in Italia, ogni giorno per due settimane, furono pubblicati i bollettini dell'ospedale di Siena, e all'improvviso l'intera nazione era unita nella sua stima non solo per un grande scrittore ma per qualcuno che raggiungeva non soltanto gli scolari delle scuole elementari attraverso le sue collezioni di racconti popolari e favole, ma anche, una volta o l'altra, tutti coloro che leggono.