La pietra
Ernesto Che Guevara
Questa è una preziosa testimonianza, una cronaca di Ernesto Che Guevara
in Congo, scritta su dieci pagine del suo blocco degli appunti in
versione originale e direttamente, quasi senza cancellature.
Il tema delle annotazioni è l’annuncio della possibile
morte di Celia, sua madre e lo scritto va quindi datato attorno al 22
maggio del 1965.
Osmany Cienfuegos portò quel giorno al Che: “La notizia più
triste della guerra. In una conversazione telefonica da Buinos Aires
avvisarono che mia madre era molto malata, con un tono che faceva
presumere un annuncio preparatorio (...) dovetti aspettare un mese in
quella triste incertezza aspettando una risposta che indovinavo, ma
sempre con la speranza di un errore nella notizia, sino a quando giunse
la conferma che mia madre era morta.”
Nel mezzo di quella triste incertezza il Che scrisse queste
annotazioni di forte tono introspettivo, nelle quali si trovano
riflessioni filosofiche, ironia, dolore e tenerezza. Si tratta dello
scritto più crudo, intenso e commovente del Che. Pubblicato per la
prima volta in una raccolta di testimonianze della vita del Che con il
titolo “La Memoria” nel 1998, il Centro degli Studi Che Guevara ha
autorizzato questa riproduzione per i lettori del Granma in occasione
del 75º anniversario della nascita del Guerrigliero Eroico.
“ Me lo disse come si devono dire queste cose a un uomo
forte, a uno responsabile e gliene sono grato. Non mi ha forzato
preoccupazione e dolore e io ho cercato di non mostrare nè uno nè
l’altro. È stato così semplice! Inoltre devo aspettare la conferma
per poter essere ufficialmente triste. Mi sono chiesto se potrei
piangere un po’ ma non lo credo perchè un capo è impersonale; non è che
gli si nega il diritto di sentire, ma non deve mostrare quello che sente
dentro di lui, magari quello dei suoi soldati, a volte.
È stato un amico di famiglia che ha telefonato che mia
madre era molto grave, però io quel giorno ero fuori
Grave da morire?
Si!
Avvisatemi per qualsiasi cosa!
Il messaggero della morte era già andato via e io non avevo
conferme. Potevo solo aspettare. Dopo la notizia ufficiale avrei deciso
se avevo o meno il diritto di mostrare la mia tristezza, ma pensavo di
no.
Il sole della mattina era molto caldo dopo la pioggia. Non
c’era niente di strano. Tutti i giorni pioveva e poi saliva il sole e
scaldava, facendo evaporare l’umidità. Il pomeriggio poi sarebbe stato
cristallino, anche se quel giorno non era caduta troppa pioggia sulle
montagne. Era quasi normale.
Dicevano che il 20 maggio la pioggia sarebbe cessata e sino
ad ottobre non sarebbe caduta nemmeno un goccia d’acqua.
Dicevano...ma dicono tante cose che non sono vere!
La natura poi si fa guidare dal calendario? Non mi
importava se la natura si fa guidare dal calendario. In generale si
poteva dire che non mi importava niente di niente. Nè l’inattività
forzata, nè quella guerra idiota senza obiettivi. Bene, senza obiettivi
no, ma tutto era però così vago, diluito, che sembrava irraggiungibile,
come un inferno surrealista nel quale l’eterno castigo era il tedio.
Certo che mi importava.
Si deve trovare il modo di rompere tutto questo pensavo ed era facile
pensarlo... uno poteva sviluppare mille piani con la tentazione, dopo
una selezione dei migliori, di fonderne due o tre in uno, semplificare
tutto, scriverlo sulla carta e consegnarlo. Così finiva tutto e si
doveva ricominciare da capo. Una burocrazia più intelligente del normale
invece di archiviare lo faceva sparire. I mie uomini dicevano che se lo
fumavano il piano poichè ogni pezzo di carta si poteva fumare se gli
metti dentro qualcosa. Quello che non ti piaceva lo potevi cambiare con
il prossimo e questo sembrava potesse durare fino all’infinito.
Avevo voglia di fumare e presi la pipa. Come sempre era nel
mio taschino. Io non perdevo le mie pipe come i soldati, per me era
importate averle. Nelle volute di fumo si può rimontare qualsiasi
distanza, direi che si possono creare i propri piani e sognare la
vittoria senza che sembri un sogno, ma solo una realtà vaporosa per la
distanza e le brume che ci sono sempre tra le volute di fumo... La pipa
è la mia buona compagna: come perdere una cosa così necessaria ? Che
bruti!
Non erano così bruti, avevano da fare ed erano stanchi per il da fare.
Non dovevano pensare quindi, e allora, a cosa serve una pipa se non devi
pensare? Però serve per sognare! Sì, si può sognare, ma la pipa è
importante quando si sogna da lontano verso un futuro unico il cui solo
cammino è il fumo o un passato così lontano che si sente la necessità di
percorrere lo stesso sentiero, ma i desideri più vicini si sentono con
altre parti del corpo: hanno piedi vigorosi e vista giovane... non
necessitano l’aiuto del fumo. Loro perdevano le pipe perchè non le
ritenevano indispensabili, perchè non si perdono solo le cose
imprescindibili.
Se avevo qualche altra cosa del genere? Il fazzoletto di
garza, ma era diverso perchè me lo aveva dato lei, se per caso mi
ferivano a un braccio. Sarebbe stato un laccio amoroso. La difficoltà
sarebbe stata usarlo se mi ferivano al torace. In realtà c’era una
soluzione facile, cioè metterlo per legarmi la testa, per fermare il
mento e andare con lui nella tomba, leale sino alla morte. Se morivo
sulla montagna o mi raccoglievano gli altri non ci sarebbe più il
fazzoletto di garza, finirei putrefatto tra l’erba o mi esibirebbero,
forse mi si vedrebbe su Life con uno sguardo agonizzante e disperato,
fisso per l’attimo della paura suprema, perchè c’è la paura, inutile
negarlo. Con il fumo ho percorso le mie vecchie strade e sono giunto
negli angoli più intimi della paura, sempre legata alla morte, come un
nulla che turba e non spiega. È che noi marxisti leninisti la spieghiamo
molto bene come un nulla, e perchè questo nulla? Niente. Una spiegazione
più semplice e convincete è impossibile. Il nulla è nulla. Si spegne il
tuo cervello, lo copre un velo nero, se vuoi come un cielo di stelle
distanti e questo è il niente, il nulla, cioè l’infinito.
Uno sopravvive nella specie, nella storia che è una forma
mistificata di vita nella specie; in questi atti e in questi ricordi.
Ma non hai mai sentito un brivido per la schiena leggendo
le cariche al machete di Maceo? Quella è la vita dopo il nulla! E anche
i figli. Non vorrei sopravvivere ai miei figli. Non mi conoscono
nemmeno, sono un corpo estraneo che a volte turba la loro tranquillità e
che si interpone tra loro e la madre. Mi sono immaginato mio figlio
grande e lei coi capelli bianchi che diceva in tono di rimprovero – tuo
padre non avrebbe mai fatto questo o quello. Ho sentito dentro di me,
figlio di mio padre, una tremenda ribellione. Io figlio non so se
era verità o meno che mio padre non avrebbe mai fatto quella cosa o
un’altra, cose cattive, ma mi sentivo perseguitato, tradito, per quel
ricordo di me padre che mi tiravano in faccia ad ogni momento Mio figlio
dovrebbe essere un uomo e nulla più, migliore o peggiore, ma un uomo.
Io gradirei da mio padre la sua tenerezza dolce e volante, senza
esempio. E mia madre? Povera vecchia! Ufficialmente non avevo diritto,
dovevo aspettare la conferma...
Così camminavo sulle mie strade di fumo quando mi
interruppe, felice di rendersi utile, un soldato.
Non ha perso niente?
Niente. Dissi associando il niente a quello del sogno.
Lo pensi bene.
Palpai le mie tasche. Tutto era in ordine.
Niente.
E queste pietruzze? Gliele ho viste al lavandino?
Accidenti!
Il rimprovero mi colpì con una forza selvaggia. Non si
perde nulla necessario, indispensabilmente necessario. Si vive se non si
è necessari? Da vegetali sì, ma un essere morale no, non lo credo, per
lo meno.
Sentii persino un tuffo nel ricordo e mi vidi palpandomi le
tasche con rigorosa meticolosità mentre il fiume scuro per la terra
della montagna mi nascondeva i suoi segreti. La pipa prima di tutto, era
lì. Le carte o il fazzoletto avrebbero galleggiato. Il vaporizzatore
c’era, le penne lì anche loro. I blocchi per le note nei sacchettini di
nylon, l’accendino era presente, tutto in ordine e scomparve il tuffo.
Portai nella battaglia solo due piccoli ricordi: il fazzoletto di garza
di mia moglie e il portachiavi con la pietra di mia madre, povero anche
lui, poi la pietra si staccò e la tenevo nella tasca.
Era clemente o vendicativo o impersonale come un capo il
fiume? Non si piange perchè non si deve o perchè non si può? Non c’è il
diritto di dimenticare nemmeno in guerra? È necessario camuffarsi da
maschio di ghiaccio?
Non lo so davvero, non lo so, so solo che sento la
necessità fisica di vedere mia madre e di metterle la testa sul grembo
magro e che lei mi dica – vecchio mio – con una tenerezza secca e piena,
sentire nei capelli la sua mano senza peso accarezzandomi a salti, come
una marionetta di corda, come se la tenerezza le uscisse dagli occhi e
dalla voce perchè i conduttori rotti non le permettevano di raggiungere
le estremità. Le mani rabbrividiscono e palpitano più accarezzare, ma la
tenerezza viene fuori e le circonda e uno si sente tanto bene, tanto
piccolo e così forte. Non è necessario chiedere perdono: lei comprende
tutto e uno lo sa quando sente quel – vecchio mio...
È forte? Anche a me fa effetto, ieri sono quasi caduto
quando mi volevo alzare in piedi. È che non lo fanno seccare bene
credo...
È una merda, sto aspettando quello che ho chiesto per
vedere se me lo portano triturato, come la gente... Uno ha diritto di
fumare magari una pipa tranquillo e pacifico, no?
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