CUBAOGGI
CUBA, LA STELLA SOLITARIA
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di ALESSANDRA RICCIO
Era la fine degli anni ottanta, quelli della
"pacificazione e democratizzazione" del Centroamerica, della fine dei
regimi militari nell'America del Sud, quelli del muro di Berlino e della
fine del comunismo, il cui requiem più pietoso è stato, recentemente,
quello di colui che a quella fine aveva contribuito con grande impegno,
il nostro papa polacco che ha parlato benevolmente della grande storia
del comunismo come di "un male necessario". La sinistra italiana ed
europea non aveva occhi che per quello che accadeva all'est e ne era al
tempo stesso atterrita e affascinata. Lì si stava liquidando in maniera
inaspettata e vertiginosa, un' esperienza che aveva segnato il secolo e
aveva acceso le speranze di un altro mondo possibile; e quella
liquidazione travolgeva al tempo stesso il più grande partito comunista
d'Europa, il Partito Comunista Italiano, schiacciato dal fallimento del
socialismo reale del quale era stato tradizionalmente critico, e
speranzoso che, insieme al campo socialista si liquidassero le tensioni
della guerra fredda, il doppio imperialismo (?), il verticismo
sovietico, ecc., ecc. Non vide che quella caduta verticale squilibrava
il mondo in maniera traumatica e lo lasciava in balia di un'unica
superpotenza delle cui virtù non dubitava.
A me è toccato vivere quegli avvenimenti dall'altra
parte dell'Oceano, in America. Ma non nell'America amata da Veltroni e
compagni, non nell'America "paese civile" e modello di modernità, non
nell'America sempre pronta a "difendere" la democrazia e i diritti
umani, bensì in quel fastidioso angolo del Caribe, in quell'isola "barbuda"
che osava autodenominarsi "territorio libre en América", che non stava
esultando nei pochi e confusi anni della perestrojca di Gorbaciov e che,
scandalosamente controcorrente, aveva tirato fuori un nuovo slogan che
faceva arricciare il naso alla nostra sinistra: "socialismo o muerte"
proprio quando avvolti nei veli del lutto, molti partecipavano al
funerale nonostante che la voce avvertita di Eduardo Galeano spiegasse
che quello non era il nostro funerale. Stavo a Cuba e da lì mettevo il
naso nel vasto continente latinoamericano, né democratico né pacificato.
Violenza in Colombia, corruzione in Perù e Venezuela, squadroni della
morte in Salvador, desaparecidos in Guatemala, controrivoluzione in
Nicaragua: ma ovunque elezioni e, pertanto democrazia e coscienze
tranquille. In Panama, un paese inventato nel passaggio di secolo fra
otto e novecento, un paese di comodo per poter mettere le mani sul
costruendo canale senza troppi impicci politici, il discutibile erede
del nazionalista e popolare Omar Torrijos, il Generale Noriega, tenta di
giocare sporco in una tornata elettorale farsesca in cui tutti giocano
sporco. Addestrato nella tristemente famosa Escuela de las Américas, nel
libro paga della CIA, arricchito col traffico di droga, ma ammiratore di
Torrijos e inaspettatamente nazionalista e antimperialista, il potere di
Cara e piña (era questo il soprannome che si era meritata la sua
faccia butterata dal vaiolo) risultava scomodo alla politica di
ingerenza nordamericana sul "cortile di casa" latinoamericano. E poiché
quel narcotrafficante, mezzo buddista e mezzo spiritista stava
guadagnando in popolarità in quel piccolo paese fatto di africani,
indiani, arabi, indios cuna e di qualche bianco prepotente, Washington
non trovò migliore strumento che mandare squadriglie di micidiali B32 a
bombardare Città del Panama, capitale di una stato sovrano, producendo
migliaia di vittime civili, per riuscire a catturare, dopo più di una
settimana, il temibile Noriega, che non era a capo delle sue truppe
ribelli, ma si nascondeva, tremante, nelle sicure mura della nunziatura
apostolica.
Le vicende del Panama furono accolte a Cuba con
grandissima preoccupazione. Gli Stati Uniti, a poche miglia dall'isola
ribelle, osavano bombardare un paese sovrano e non nemico, si accanivano
sul quartiere proletario del Chorrillo, sperimentando micidiali
proiettili al fosforo bianco, producevano duemila vittime fra la
popolazione civile, si impossessavano del Presidente in carica e lo
trasportavano in Florida d'autorità, facevano giurare il gordo
Endara nei sotterranei della loro inattaccabile base di Città del Panama
e lo insediavano alla Presidenza, violavano in pochi giorni un numero
infinito di norme internazionali senza che nessuno facesse una grinza,
neanche la sinistra. Anche grazie al silenzio stampa imposto con il
semplice metodo di trattenere i giornalisti in aeroporto proibendo
l'accesso in città. Se, a poche settimana dalla caduta del muro di
Berlino, gli Stati Uniti osavano tanto, cosa o chi li avrebbe potuti
fermare nel caso avessero deciso di invadere Cuba, da trent'anni "paese
nemico" e non più garantito dal campo socialista e soprattutto
dall'Unione sovietica i cui scricchiolii si sarebbero ben presto
tramutati in un crollo?
Siamo nel dicembre del 1989. In quelle stesse
settimane, in Europa, l'attenzione è tutta volta alle drammatiche
vicende della Romania e della coppia Ceasescu le cui crudeltà vengono
brutalmente rivelate attraverso una overdose di informazione: un
reportage fotografico che sbatte in prima pagina i corpi straziati di
donne e bambini di Timisoara. I due Ceasescu vengo eliminati dopo un
processo sommarissimo mentre si inneggia alla ritrovata libertà dei
rumeni. Si è poi saputo che la documentazione del massacro di Timisoara
era un falso (ma non sappiamo ancora chi lo abbia commissionato), utile
per "giustificare" la liquidazione dell'ex dittatore e di sua moglie
senza tanti complimenti e senza badare alla tutela dei diritti di ogni
essere umano. Il successivo destino della Romania è sotto gli occhi di
tutti e l'utilizzo che di quelle maestranze a bassissimo costo fanno i
nostri industriali, anche.
Dunque la sinistra europea e la nostra sinistra non
avevano tempo da dedicare ad un'area geografica che, in fin dei conti,
da circa due secoli era appannaggio dei potenti Stati Uniti, grazie al
dictat della ottocentesca dottrina Monroe: "L'America agli americani".
Che poi quello slogan, nato in un clima di lotte per l'indipendenza
dalla madre patria — e dunque di decolonizzazione —, alla fine del
secolo ventesimo e del millennio si rivelava in modo assai chiaro latore
di una dottrina neoimperiale, sembrava la pura retorica di una sinistra
estrema e poco dialogante, come appunto si rivelava la testarda difesa
del socialismo di Fidel Castro del quale, per altro, veniva augurata
l'imminente fine che avrebbe rimosso quel fastidioso centro di
resistenza, quella voce che denunciava i mali del capitalismo, i guasti
del liberismo, lo strozzinaggio esercitato da Fondo Monetario e Banca
Mondiale, il cambio disuguale, i pericoli per la sopravvivenza
dell'umanità di una logica del profitto, il saccheggio delle risorse
naturali da parte del primo mondo e perfino il furto del patrimonio
genetico della flora e della fauna del terzo mondo.
Da allora sono passati quindici anni. Fildel Castro è
ancora al timone della sua barca e la denuncia costituita dall'esistenza
stessa dell'isola ribelle, denuncia e proposta di un altro mondo
possibile, continua ad irritare; eppure la proposta di Cuba meriterebbe
una maggiore serenità di giudizio, giacché le denuncie che da quell'sola
sono partite e partono da ormai quarantacinque anni, in contesti molto
cambiati e diversi, avrebbero potuto aiutarci a capire come si è
arrivati, nel terzo millennio, alla bancarotta dei valori più elementari
(non si tortura, non si occupa, non si bombarda indiscriminatamente, non
si impone la democrazia con la violenza, ecc., ecc.) da parte della
solitaria superpotenza che ancora molti, troppi, fra noi considerano
epitome della civiltà moderna.
Il contenzioso aperto dagli Stati Uniti contro la
Cuba rivoluzionaria, il dispiego di mezzi, di energie, di strategie, ivi
compresi i complotti per eliminare fisicamente il lider máximo,
l'invasione del territorio, gli atti di terrorismo, la
destabilizzazione, la violazione degli spazi aerei, delle onde radio e
televisive, l'occupazione della base di Guantánamo, le limitazione dei
viaggi, delle rimesse degli emigranti, insomma tutto il diabolico
apparato del bloqueo, a furia di ripetersi sembra aver stancato
tanto quanto l'argomento che a Cuba non vi sono più analfabeti e tutti
hanno diritto alla salute. Eppure dovrebbe balzare agli occhi la
sproporzione che esiste fra l'aggressore e l'aggredito, e qualcosa
avremmo dovuto capire delle reiterate denunce sporte da Cuba riguardo
alle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate
impunemente dalla superpotenza. Se si è consentito che gli Stati Uniti
praticassero contro Cuba ogni arbitrio, perché sorprendersi se questa
stessa arbitrarietà la esercitano adesso in tutt'altro scenario? Cuba (e
l'America Latina) conoscono da due secoli la spregiudicatezza yankee; il
numero di aggressioni, ingerenze, destabilizzazioni perpetrate nel
subcontinente fanno parte della loro storia. Ma quella storia non ha
interessato l'Europa più di tanto, ed ecco che il caso Cuba è stato
ricondotto ad un episodio estremo della guerra fredda, della vertenza
est-ovest, senza fare troppo caso alla partecipazione appassionata
dell'isola rivoluzionaria al grande movimento di decolonizzazione che
attraversava il mondo. È certo che l'ombrello sovietico ha permesso a
Cuba di tenersi in qualche modo al riparo dalle mire yankee che dalla
metà dell'ottocento aspettano che "come una mela matura" la Perla delle
Antille cada nelle loro mani, ma la storia di quella rivoluzione non può
essere limitata ad un ruolo di piccolo clone della rivoluzione d'ottobre
nel cuore dell'Occidente.
La rivoluzione cubana, mentre resisteva "contra
viento y marea" al nemico americano, si difendeva abilmente dalle
trappole del modello sovietico e non rinunciava ad un ruolo guida nel
Terzo Mondo e in America Latina. Ma, nel frattempo, portava avanti
l'esperienza rivoluzionaria con grande creatività, una creatività che si
è andata moltiplicando negli ultimi due decenni e che è ora di
riconoscerle, anche per dare una spiegazione alla resistenza grazie alla
quale l'isola, contro ogni previsione, ha smentito la sciocca teoria del
domino che la voleva trascinata inevitabilmente dalla caduta degli altri
paesi del socialismo reale, ha riattivato in maniera modesta ma
sufficiente l'economia nazionale e ha proseguito in un originale e
complesso cammino di cambiamenti e di sperimentazioni alla ricerca di
alternative possibili
"...
all'ordine sfruttatore, escludente, neocoloniale, depredatore che domina
il nostro continente".[1]
Secondo Martínez Heredia, ed è un'analisi che
condivido, la Cuba attuale è teatro di una transizione dopo i primi
decenni di una storia rivoluzionaria che ha visto il coraggio della
classe dirigente di liquidare l'apparato repressivo batistiano, di
abbattere l'ordine vigente, di rompere i legami neocoloniali con gli
Stati Uniti, di dar vita non ad una semplice riforma agraria ma ad una
rivoluzione della vita, di condurre una campagna di alfabetizzazione che
si è poi trasformata in educazione permanente, così come la campagna per
la salute pubblica ha trasformato il concetto stesso di medicina non
solo sancendo il diritto per tutti e quindi la gratuità, ma producendo
medici, tecnici e tecnologie pensati per la medicina di massa e
preventiva, rivolta alle necessità dei paesi poveri. Cuba è riuscita ad
avanzare con creatività, a trasformare la società in una gigantesca
scuola che è stata in grado di produrre un corpo intellettuale e di
pensiero senza paragone nella sua area geografica e nel Terzo Mondo. Per
questa ragione, è oggi in grado di scambiare medici e maestri contro
petrolio, qualcosa che i commentatori ad uso trovano scandaloso senza
spiegare per quale ragione debba avere maggior valore il petrolio che
sgorga dalle viscere della terra, di un medico o di un maestro per
formare i quali sono stati necessari anni e la cui importanza per il
miglioramento delle società non mi pare discutibile. Continua Heredia:
"Il paese
ha dato un grande esempio di ciò che è obbligatorio e possibile per un
potere e una società in transizione socialista, ha moltiplicato i suoi
sforzi quando ha avuto più personale qualificato e più risorse (...)
Invece di abbandonare il progetto socialista per sopravvivere ha fatto
della sopravvivenza la base di un ambizioso progetto socialista. (...)
L'esistenza di Cuba socialista nega un'esigenza basica dell'ideologia
dominante nel mondo attuale: che sia necessario rassegnarsi al dominio
del capitalismo sull'esistenza quotidiana, l'organizzazione sociale e la
vita dei paesi in tutto il mondo. Cuba è uno scandalo, e come tale
provoca le reazioni più svariate".[2]
L'alternativa socialista cubana, basata sul generale
consenso, checché ne dicano commentatori superficiali o nemici giurati,
è viva e costituisce uno straordinario laboratorio sociale. in cui
l'immaginazione sfida la norma e sfida, soprattutto la fatalità che
condanna un paese piccolo e povero alla sottomissione e all'obbedienza.
In qualche modo, Cuba — senza altri aiuti se non quelli che lei stessa è
in grado di darsi — si è sottratta proprio a quel fatalismo che ha
prodotto una generale rimozione di qualsiasi idea socialista anche di
quelle irrinunciabili, per accettare che "valori" siano solo quelli
conservatori. Se ne lamentava Sandro Portelli all'indomani della
vittoria elettorale di Bush:
"Ma noi
abbiamo delegato l'idea stessa di 'valori' al cattolicesimo e alla
destra, tanto che non ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri,
che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia
sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale,
accoglienza, internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa
del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di
accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano le cercheremmo
nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry".[3]
Io oso affermare che, al contrario, le troveremmo
nell'apparato di idee che regge la società cubana, certo idee non tutte
compiute, non tutte linearmente affermate, ma tutte presenti
nell'orizzonte di attesa di quella società e molte vivamente presenti e
reali.
Portelli continua:
"I limiti
di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da
parte della maggioranza dell'umanità, comportano un declino e una
radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento
e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del
mondo".
Questa semplice verità, nel caso di Cuba, offre la
più esemplare delle chiavi di lettura della sua differenza, poiché la
convinzione profonda di quanto sia indispensabile modificare
radicalmente uno stile di vita in favore di un superiore principio di
giustizia ed equità spiega il perché della resistenza di un intero
paese, di una società che ha meritato uno struggente elogio di Santiago
Alba a cui lascio la parola:
"Cuba ha
capito molto bene la necessità di difendere simultaneamente l'universale
(le stelle e le leggi), il generale (l'alimentazione, la salute,
l'istruzione) e il collettivo (i mezzi di produzione e, per esempio,
quelli del trasporto) nel bel mezzo di un uragano mondiale che ha
privatizzato ormai non solo i beni generali e i beni collettivi, ma che
sta privatizzando perfino i colori, le forme e perfino l'eccellenza
morale. (...) Meno cattiva, meno violenta, meno ingiusta; questo meno di
Cuba non è semplicemente la sottrazione soddisfatta di una quota
invariabile, rassegnata, di un massimo di cattiveria; è nella storia
l'apertura qualitativa — che la chiudano o no — verso un altro mondo.
Sottrarre e resistere non significa
compiacersi di un'ingiustizia relativa: significa attraversare il
capitalismo, alle condizioni — questo sì — decise da lui, con un filo di
altro colore; incubare nell'ambiente più ostile che si possa immaginare,
l'uovo di un'altra logica. Ce la faccia o no, la mettano in ginocchio o
no, Cuba fa parte, allo stesso tempo, di questo e di un altro mondo; e
quest'altro mondo lo possiamo difendere solo lì, su quella roccia,
contro queste forze, fra queste pareti. Altrimenti, dove? Fuori dalla
storia? Senza geografia né armi né memoria né libido né strategie?"[4]
Note
-
Fernando Martínez Heredia, El corrimiento
hacia el rojo, La Habana, 2001, p. 11. Farò continuo
riferimento alle analisi di questo brillante intellettuale.
Ivi, pp. 31-33.
Sandro Portelli, Interessi americani,
"il manifesto", 6.10.04.
Santiago Alba, Cuba vive, Cuba mide, "Rebelion",
13.10.04.
ripreso da:
Cuba.
Una identità in movimento
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