Migueñ
Angel de Boer è il presidente dell’Associazione degli Psichiatri
argentini specializzati nell’assistenza ai parenti dei desaparecidos e
ai sopravvissuti; egli stesso è stato detenuto e imprigionato
lungamente assieme a un fratello di Che Guevara negli anni bui della
dittatura argentina. Ê anche un poeta.
In questo breve racconto parla della giornata dell’inaugurazione del
Museo della Memoria
Quel luogo, con
Mario
Alla fine ci sono.
In questo luogo, in questo giorno.
Sono arrivato
circa alle 10.30 dopo aver camminato lungo le cancellate coperte con le
foto di tanti compagni desaparecidos con i loro visi giovanili, che
continuano ad assomigliare così tanto al mio viso di allora.
All’entrata
principale c’erano già i membri dell’associazione degli ex detenuti
desparecidos e sono andato ad abbracciare Lidia e le sue compagne e poi
Laura, con il suo viso illuminato e il fazzoletto bianco che non
abbandona mai...
Siamo rimasti lì
insieme, molto vicini, sotto il sole caldo, ardendo per l’emozione e
l’attesa dell’atto.
Sembrava che non
mancasse nessuno, eravamo almeno trentamila e nello stesso tempo le
assenze stavano divenendo insopportabili. Forse per questo alcune
Madri, più belle che mai, raccontavano le loro storie, dei loro cari
perduti, le sofferenze e le tenerezze, quasi con naturalezza.
“Io non sapevo che
mio figlio stava qui, ma ogni volta che passavo qui davanti sentivo una
sensazione spaventosa...” “...studiava legge e adesso avrebbe 53
anni...”
“Io ero giovane,
l’ho avuto quando avevo 20 anni!” “Io l’ho cercato tanto, mi mandavano
da una parte all’altra!” “Mi è venuto un cancro a un rene e me l’hanno
levato!”
Io le ascoltavo
come fossi stato il figlio o perlomeno come se avessi potuto esserlo.
Arrivava più gente
ed eravamo premuti contro il portone, l’aria si faceva irrespirabile.
Non ricordo se prima o dopo l’atto una Madre o una Nonna, anziana, è
svenuta ai miei piedi e solo alcuni mi hanno ascoltato quando ho detto
che sono un medico per poter intervenire. L’hanno sollevata rapidamente
per aiutarla. Mi ha fatto pena, così anziana, dover vivere tutto questo.
Tutti stavamo lì
nel caldo, soffocando con quelle emozioni così intense di stare sulla
porta della ESMA, nientemeno. Dovendo percorrere per lo meno ventotto
anni di storia, di questa storia.
C’era anche un
cordone per non fare avvicinare. “Che! Non schiacciate le Madri!”
gridavano. “Come puoi pensare che le volgiamo schiacciare!”
rispondevano, in quella tensione in crescendo per quello che succedeva e
stava per succedere.
“Lasciami passare,
anch’io sono un sopravvissuto!” ha detto uno. “Qui siamo tutte schegge
dello stesso palo!” ha risposto un altro. “Ma guarda che io ho passato
parecchi anni a La Perla!” ha commentato, mi pare, il negro Juan.
Sembrava la gara
della sofferenza, prodotta dagli avvenimenti, dai ricordi e dai tanti
sentimenti che ci stavano attraversando.
C’era anche
allegria, se si può usare questo termine, un’allegria diversa da quelle
altre allegrie, quella che nasce dopo che si è vissuto qualcosa di
storico e, senza sapere perchè, stavamo qui vivi, in questo luogo e
nonostante tutto “ci potevamo contare!”
Io ne ho
approfittato per abbracciare tutti quelli che potevo, per salutare
Copani, guancia a guancia e Mario Villani, felice di vedermi di persona
perchè ci conoscevamo solo via Internet. Non lo lasciavano tranquillo
con i reportage e raccontava una e una altra volta la sua terribile
esperienza fino a quando riuscì ad uscire nel mondo dei vivi, stando
alle sue parole.
Quando è giunto il
presidente Kirchner tutto è stato veloce, improvvisamente, fuori e
dentro. I cancelli si sono aperti e io che filmavo e facevo foto non
volevo perdere niente. Improvvisamente sono passato vicino a Hebe a
alle Madri e mi sono commosso come sempre per quella forza incredibile
che trasmettono.
Il tempo, come
accade in queste situazioni sembra sempre più rapido e sempre più lento
nello stesso tempo e non lo dico per retorica. Una volta dentro mi
sembrò di essere in un’altra dimensione tra Madri, familiari e
sopravvissuti sulle scale, una parlava e non si capiva che cosa stava
dicendo, i militanti camminando senza sapere dove mettersi... Io che ho
visto Mario Villani abbracciato a una compagna che piangeva sul suo
petto ne ho approfittato per farmi abbracciare e l’aria stava diventando
strana, come le parole che nell’atrio dicevano: Scuola di Meccanica
dell’Armata, e noi che guardavamo una e un’altra volta per vedere se
erano veri i fiori e le fotografie sulle porte e le lacrime, i pianti e
le canzoni e tutti senza sapere che fare, invasi da troppe percezioni...
Dopo alcuni minuti
ho cominciato a camminare verso il cortile, entrando nella caserma quasi
per inerzia. Io e altri camminavamo in silenzio, non so se con timore o
con pudore, ma nel mio caso con perplessità, cercando di assimilare
senza riuscirci quello che sentivo e che vedevo. Mormorii e silenzi che
invece di rispetto o rabbia erano un modo i tollerare i fatti che
sapevamo erano avvenuti qui, proprio in questo luogo.
Io temevo le
allucinazioni, di ascoltare grida o lamenti di dolore... avevo paura di
svegliarmi e ritrovarmi lì, 22 o 28 anni prima e credo che a molti sia
successo lo stesso, perchè l’angoscia si palpava e si ascoltava ad ogni
passo.
Sembrava, e
continua a sembrarmi incredibile che in questo stesso spazio in altri
tempi era successo tutto quello che era accaduto e che noi adesso si
potesse stare qui.
Lo spavento e la
tristezza erano una cosa sola e poco a poco andai verso lo scenario dove
si sarebbe svolto l’atto principale. La mia mente era agitata e il
cuore mi palpitava mentre avanzavo sino a che giunse il momento nel
quale mi resi conto che l’aria era irrespirabile e rapidamente ritornai
sui miei passi per andare fuori, dove si ascoltava l’Inno nella versione
di Charlie e poi la poesia di Ana Maria, le parole dei figli dei
deparecidos e la musica che non si poteva suonare senza León, Victor e
Serrat. Io ne ho approfittato per riprendere fiato, guardare la gente,
guardare il cielo, il verde degli alberi. Ho guardato anche lungamente
e con piacere il viso di un bambino piccolo, un indio con piccoli occhi
vivaci che giocava tre le gambe di sua madre seduta al suolo, con una
bottiglia di plastica, così lontano dalla circostanza...
Il futuro è nostro
ho pensato e credo di averlo pensato tante volte. E in questo luogo, un
luogo come tanti altri hanno fatto quello che hanno fatto perchè non lo
fosse, ho pensato. Speriamo che questo bambino lo abbia, per tutti
quelli che hanno fatto quello che hanno fatto perchè fosse possibile.
Il presente
continua ad essere di lotta.
Nonostante questo
luogo.
Miguel Angel de
Boer - Comodoro Rivadavia Chubut