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Intanto in Palestina…
“PIOGGIA D’ESTATE” E ALTRE
DEL SIGNORE DEGLI ESERCITI
La strategia di Israele
per la Palestina e il Medio Oriente
14/03/2007
Aizzerò gli egiziani contro gli egiziani:
combatterà fratello contro fratello,
uomo
contro uomo,
città
contro città, regno contro regno.
Gli
egiziani perderanno il senno
e io
distruggerò il loro consiglio;
per
questo ricorreranno agli idoli e ai maghi,
ai
negromanti e agli indovini.
Ma io
metterò gli egiziani
In
mano a un duro padrone, un re crudele li dominerà.
Oracolo del Signore, Dio degli eserciti.
Si
prosciugheranno le acque del loro mare,
il
fiume si inaridirà e seccherà.
I suoi
canali diventeranno putridi,
diminuiranno e seccheranno i torrenti d’Egitto,
canne
e giunchi ingialliranno…
I
pescatori si lamenteranno, gemeranno
Quando
gettano l’amo nel Nilo,
quanti
stendono le reti sull’acqua saranno desolati…
Non
riuscirà all’Egitto qualunque opera faccia:
il
capo o la coda, la palma o il giunco.
In
quel giorno gli egiziani diventeranno come femmine,
tremeranno e temeranno all’agitarsi della mano
che il
Signore degli eserciti agiterà contro di loro.
Il
paese di Giuda sarà il terrore degli egiziani,
quando
se ne parlerà ne avranno spavento,
a
causa del proposito che il Signore degli Eserciti
ha
formulato sopra di esso…
Il
signore percuoterà ancora gli egiziani,
ma,
una volta colpiti, li risanerà.
Essi
faranno ritorno al Signore,
lo
serviranno con sacrifici e offerte,
faranno voti al Signore e li adempiranno.
(Isaia
19)
La
bibbia come manuale di guerra
Basta sostituire “egiziani” con
“palestinesi”, o anche “arabi”, e le indicazioni del profeta del “Dio
degli eserciti”, forse il dio più disumano che paura e protervia del
Potere abbiano mai creato, quello del sacrificio di Giacobbe, quello che
ordinava di sterminare tutti coloro che si oppongono al popolo eletto,
donne, bambini, armenti e greggi compresi, tanto che non rimanga “pietra
su pietra”, assumono un’attualità che ai compilatori della bibbia nel
VII secolo A.C. dovrebbe dare un’immensa soddisfazione. Del “paese di
Giuda” non si può dire che non ottemperi ai vaticinii dei suoi referenti
teorici e che i suoi condottieri contemporanei, Ben Gurion, Golda Meir,
Begin, Shamir, Rabin, Netaniahu, Barak, Sharon, Olmert, non si siano
attenuti rigorosamente al Verbo, fino alle recenti operazioni a
denominazione meteorologica, da “Pioggia d’estate”, simultanea alla
campagna libanese, alle successive metafore meteorologiche, succedutesi
nel corso e dopo l’invasione del Libano e l’intervento detto di pace
dell’Unifil. Invasione e intervento che avevano e hanno tra i loro scopi
anche quello di neutralizzare il legame di solidarietà politico-militare
che si era andato intessendo tra resistenza libanese e resistenza
palestinese, come esplicitato dalla cattura dei due incursori israeliani
da parte di Hezbollah, successiva a quella del soldato israeliano
catturato a Gaza nel giugno del 2006. L’Unifil, infatti, collocandosi
sul territorio del paese aggredito e avendo tra le sue regole d’ingaggio
quelle che “permettono l‘uso della forza letale per impedire o eliminare
attività ostili, incluso il traffico illegale di armi, munizioni ed
esplosivi (illegale è evidentemente solo quello che rifornisce la
Resistenza) nell’area di competenza dell’Unifil”, serve oggi a coprire
le spalle all’esercito israeliano, gravemente messo in causa dalla
guerriglia libanese, e che così può concentrare le sue forze
sull’intensificazione delle operazioni di pulizia etnica in Gaza e
Cisgiordania.
Isaia reloaded
Ma vediamo come i seguaci del “Dio degli
eserciti” hanno corrisposto alle aspettative. Dall’inizio della seconda
Intifada, innescata il 27 settembre dall’incursione del Primo Ministro
Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, fino a fine gennaio 2007,
Tsahal, l’esercito
israeliano, aveva ucciso 5050 palestinesi, ne aveva ferito e mutilato
altri 49760 e incarcerato, senza imputazioni o processo, 10.400 (Palestine
National Information Center). Tra gli uccisi un quarto erano
minorenni e 351 donne, 150 pazienti erano morti perché bloccati ai posti
di blocco, 66 furono ammazzati a bastonate dai coloni, 36 erano
infermieri o medici impegnati nei soccorsi, 9 erano giornalisti, 220
erano atleti, 848 erano insegnanti o studenti, di questi sono stati
feriti 4.792. Rachel Corrie era una giovane pacifista statunitense
schiacciata sotto una ruspa mentre difendeva le case da demolire. Dei
detenuti “amministrativi” 1.150 soffrono di patologie croniche, 1.175
sono studenti, 330 sono bambini o ragazzi, 1.806 sono insegnanti e 118
sono donne. 1.147 sono state le aggressioni a giornalisti che,
diversamente dall’Iraq, non hanno potuto ancora essere tutti
embedded, o fatti fuori.
Quanto ai danni inflitti alla società
palestinese, 645 edifici pubblici sono stati distrutti, danneggiati,
resi impraticabili, 72.437 case sono state rase al suolo o rese
impraticabili, 12 scuole e università chiuse, 359 istituti educativi
bombardati, 43 scuole trasformate in strutture dell’esercito. Al 31
luglio 2006, quindi senza calcolare le successive devastazioni delle
varie “piogge d’estate” e di altre stagioni, erano stati distrutti dai
bulldozer 80.712 dunum di terra (800 ettari), sradicati 13.572.896
alberi, demoliti 784 esercizi commerciali e 788 allevamenti aviari,
sterminati 148.209 ovini, 12.151 bovini, 899.767 polli da carne, 350.292
polli da uova, 1.650 conigli d’allevamento. Distrutti anche 15.549
alveari, 1.785 pozzi, 207 fattorie, 33.792 dunum (34 ettari) di rete
irrigua con 979.239 metri di condutture idriche, 9.547 officine e
laboratori, 432 impianti industriali. La confisca di terreni palestinesi
ammontava a 247.291 dunum. Risultato di questo corollario di un
genocidio pianificato: il 70% della popolazione palestinese vive oggi
sotto il livello di povertà, un terzo, secondo il Programma Alimentare
Mondiale dell’Onu, rischia la morte per inedia. A questo si aggiungeva
il blocco degli aiuti europei, il furto israeliano dei dazi per le
esportazioni palestinesi e dei fondi depositati nelle banche dei
territori occupati, giustificati, in perfetta assonanza con le
indicazioni israeliane, dalla libera elezione di un governo di
“terroristi”. Il Programma Alimentare delle Nazioni Unite denuncia che
nel 2006 il 46% dei palestinesi non ha potuto procurarsi il cibo di cui
aveva bisogno per non finire in malnutrizione. 150.000 dipendenti
pubblici non hanno ricevuto gli stipendi, causa il blocco dei dazi e
degli aiuti e il sequestro delle donazioni dei paesi musulmani, in un
caaso addirittura dalla borsa del Primo Ministro palestinese, sotto gli
occhi dei carabinieri italiani dislocati al valico di Rafah: ne paga le
conseguenze un milione di persone che dipendevano da tali stipendi.
“L’unico arabo buono è l’arabo morto ammazzato”
“Gli
arabi dovranno sparire, ma ci vuole una guerra per farlo succedere” (David
Ben Gurion, 1937) “Un popolo
palestinese non esiste… Non è vero che noi siamo venuti, li abbiamo
buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Non esistevano”
(Golda Meir, su “The Sunday Times”, 15/6/1969)
Giugno 1967. Mollati i fervori e le
amenità della Londra swinging
degli anni ’60, trascorsi con in mano il microfono della BBC alla caccia
dei Beatles, ma già anche delle rivolte civili in Irlanda del Nord,
“Paese Sera” mi spedì alla Guerra dei Sei Giorni. Arrivai in uno Stato
che tutti dicevano minacciato di essere cancellato dalla mappa
geografica, ma che intanto stava spazzando via i resti di un popolo
indigeno e mangiandosi quel 22% di Palestina che l’ONU, con la
spartizione del 1947, gli aveva lasciato. Allora gli ebrei, il 7% della
popolazione, si erano beccati il 78% del territorio. Ma non gli era
bastato. Secondo quanto ricostruito da Ilan Pappe, professore di Scienze
Politiche all’Università di Haifa, la pulizia etnica dei palestinesi
negli anni prima della Guerra dei Sei Giorni, aveva già fatto un gran
lavoro: 400 villaggi erano stati cancellati dalla carta geografica. Se
ne possono osservare, tra arbusti e muschi, i resti di bianca pietra
nelle valli sovrastate dai moderni centri israeliani; un milione di
palestinesi erano stati espropriati e cacciati.
Viaggiando su carri armati israeliani con
l’Olivetti 22 sulle ginocchia, passavo sopra villaggi arabi millenari e
tra turbe di nuovi profughi di un popolo che Golda Meir diceva non
esistere. La gran parte di quei villaggi erano stati polverizzati negli
anni successivi al 1948, quando la madre di tutti i terrorismi, le bande
Haganà, Stern, Irgun di coloro che poi furono primi ministri negli anni
’70 e ’80, facevano saltare in aria gli alberghi con dentro i mandatari
britannici, o i non sufficientemente succubi rappresentanti dell’Onu e,
successivamente, centri abitati e tutti coloro che non accettavano
istantaneamente l’invito ad andarsene.
A conquista avvenuta, dopo il 6 giugno, si
organizzarono tour ai nuovi territori. Viaggiando verso Gaza, dal
pullman vedevo corpi di soldati egiziani che si disfacevano sotto le
mazzate del sole e il becco degli avvoltoi. Al capitano di
Tsahal, che ce li indicava
con aria compiaciuta, chiesi se non fosse costume in Israele seppellire
i nemici morti in battaglia, o renderli al loro paese, come dettato
dalla Convenzione di Ginevra. Il tipo scosse le spalle e pronunciò la
frase che poi sarebbe divenuta una specie di karma israeliano: “L’unico
arabo buono è l’arabo morto ammazzato”. Non era l’espressione di un
razzismo personale, particolarmente incallito: i giornali, i manifesti,
le scritte sui muri, le dichiarazioni dei boss militari e politici,
traboccavano di arabi “cani”, “scimmie”, “ratti” e “serpenti”. Discesi
dall’autobus a Tel Aviv, chiesi al capitano se non ritenesse poco civile
la definizione data. Mi questionò se non fossi per caso antisemita.
Risposi che semmai lo era lui, visto che tutti quei arabi buoni perché
ammazzati erano semiti. Finì in rissa sul marciapiede e l’indomani fui
espulso da Israele.
Ci tornai solo per le Intifade, presto
stigmatizzate come “violente” dai liquidazionisti ontologici alla
Bertinotti, visto che non si limitavano a opporre alle granate
israeliane la maglietta sbrindellata e, addirittura, la mano col sasso.
Prima di essere buttato fuori da Israele, però, ero riuscito a sottrarre
alla democratica censura militare israeliana e a spedire al mio giornale
un pezzo, basato su confidenze palestinesi, che raccontava un obbrobrio
degno dell’atteggiamento del mio capitano. Reparti speciali israeliani,
denominati Shaked, sotto
il comando di Benyamin Ben Eliezer, “eroe della Guerra” e oggi ministro
delle infrastrutture, avevano massacrato almeno 250 egiziani e
palestinesi che si erano arresi. I poveri corpi anneriti che avevo visto
dal finestrino potevano ben essere le vittime di quell’abominio, uno dei
tanti con cui lo Stato sionista ha ignorato, oltre a 170 decisioni ONU,
ogni norma del diritto internazionale e delle convenzioni di Ginevra.
Episodio del resto non nuovo per
Tsahal, visto che nella guerra del 1956, scatenata contro
l’Egitto di Nasser, il generale Ariel Biro aveva ammazzato una
cinquantina di prigionieri egiziani, massacro poi da lui ammesso nel
1995: “Era difficile portarseli
dietro. Lo rifarei”. Episodio, anche, inserito in una pratica
del mancato rispetto per il non ebreo che si esplicita in ogni
manifestazione ufficiale e ufficiosa dello Stato e, ahinoi, spesso anche
della società israeliana. Si pensi alla tortura dei detenuti sancita
dalla Corte Suprema, si pensi ai 150 cadaveri palestinesi sequestrati,
tenuti in un cimitero cosiddetto “dei numeri” e mai restituiti ai
congiunti, violando, attraverso questa ennesima punizione collettiva, la
Quarta Convenzione di Ginevra. Si pensi alla recente norma per la quale
i palestinesi cittadini di Israele (il 22% della popolazione), oltre a
vessazioni e negazione di diritti di ogni genere, devono subire
l’affronto razzista di non poter sposare palestinesi dei territori
occupati se non al prezzo di abbandonare il paese di cui hanno la
cittadinanza.Tutti metodi poi ampiamente praticati dagli Usa, insieme ad
altri insegnamenti tratti dall’esperienza britannica in Irlanda e
israeliana in Palestina, nelle invasioni di Iraq, Somalia, Afghanistan e
nella tragica vicenda del kissingeriano“Piano Condor” per l’ America
Latina delle sanguinarie dittature militari filo-yankee.
Sinistre per Israele
Fausto Coen, direttore di “Paese Sera” non
credette possibile una tale nefandezza e mi spedì un telex furibondo.
Allora anche la Sinistra era schierata con il “popolo di sopravvissuti
tornato nella terra degli avi e minacciato di essere ributtato in mare
da ondate di oscurantisi arabi”. E pensare che già allora, grazie agli
enormi aiuti USA, quelli che tuttora tengono in piedi lo Stato
dell’apartheid, Israele era il sesto più potente esercito del mondo e
disponeva di almeno 200 delle attuali 400 bombe nucleari, senza aver mai
aderito ai trattati di non proliferazione e aver mai ammesso le
ispezioni dell’AIEA, quelle che Washington e Tel Aviv giornalmente
sollecitano a mettere il naso nell’arricchimento dell’uranio – fino a
prova contraria a fini civili - dell’Iran. L’Europa si nettava la
coscienza dalla Shoa, scaricandone sugli innocenti arabi, già tragiche
vittime del colonialismo europeo, la vendetta ebraica. Oggi la storia si
ripete, mai in farsa, ma in un’escalation
di crimini e complicità internazionali. Allora, comunque, la
linea del giornale cambiò e diventò più equilibrata, Coen dovette
andarsene e il mio scoop fu corroborato, seppure molti anni più tardi,
da un documentario israeliano e da vari militari di
Tsahal pentiti. Oggi, dopo
uragani di aggressività “difensiva” israeliana siamo tornati al punto di
partenza. La “Sinistra per Israele”, manifestatasi nelle piazze di Roma
con protagonisti come Walter Veltroni e Giuliano Ferrara, è
l’espressione più stupefacente del rovesciamento delle posizioni di
questi ex, contro ogni equità etico-politico-giuridica.
Ahmadinejad parla di
cancellare lo Stato sionista, Olmert cancella il popolo palestinese per
davvero
Per il primo ministro iraniano, come
sempre impegnato su più fronti - di collusione-collisione con gli
angloamericani a scapito dell’Iraq unito, di appoggio alla resistenza
nazionale libanese e a Hamas, di intesa con la Siria per impedire la
rinascita nazionale dell’Iraq e contenere l’espansione di Israele -
l’aggressione al Libano è l’occasione per augurarsi la cancellazione
dalla mappa geografica dello Stato Sionista. Badate bene, dello “Stato”,
non della sua gente. Dello Stato, come ampiamente esplicitato da
Ahmadimejad, ma non riportato dai media occidentali impegnati in una
nuova satanizzazione colonialista. Dello Stato in quanto “Stato degli
ebrei”, come lo ha definito ancora nel febbraio 2007 il premier Prodi
sotto dettatura dell’ospite Olmert, cioè Stato monoetnico e
monoconfessionale, Stato dell’apartheid costituzionale, dei palestinesi
israeliani ridotti a untermenschen,
subumani, e dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania esclusi e rimossi.
L’ermeneutica di Israele, dal progetto di Hertzl alla realizzazione di
Ben Gurion e alle successive aggressioni, liquidazioni, espansioni, non
può che produrre questa valutazione. Naturalmente l’esternazione del
dirigente persiano sollevò uno tsunami di indignazione in tutto
l’Occidente, tanto da servire sostanzialmente, non a far riflettere
sulla natura di quell’architettura statale, già definita razzista dall’Onu
nel vertice di Durban, ma a demonizzare i musulmani, dall’esponente più
potente a discendere per li rami, fino a Hezbollah, Hamas, la Resistenza
irachena. E questo, proprio nel momento in cui Israele a Nord assaliva
il Libano e ne disintegrava l’agibilità statale e il tessuto sociale ed
economico e, a Sud, con l’operazione “Pioggia d’Estate”, si apprestava a
chiudere i conti con Gaza, prima, e con la Cisgiordania poi. La barbarie
con la quale si procedette, nella fase iniziale della penetrazione in
Libano, contro i cittadini di Gaza, già vessati da decenni di
occupazione, assassinii mirati, assedio per fame e sete, paralisi
economica, distruzione di centri abitati nella fase iniziale della
penetrazione in Libano, si pensava coperta dal giubilo occidentale per i
trionfi dell’esercito notoriamente invincibile e per la liquidazione di
un altro nido del “terrorismo islamico”. Solo stavolta l’Europa ebbe un
sussulto di perplessità. L’accanimento israeliano nella fase finale, con
l’offensiva delle ultime 72 ore, fallita anche quella, e la relativa
pioggia di un milione di bombe a grappolo, era l’espressione di una
frustrazione al limite della nevrosi, sul tipo delle accentuate nequizie
della cosca Bush nella fase dell’evidente declino. Il vento, però,
cambiò ancora, a tregua israelo-libanese conclusa (dopo i rinvii voluti
da Bush e anche da D’Alema, con quella sua fasulla “conferenza di pace”
a Roma), quando “l’effetto Shoa” fu rilanciato da una ben sincronizzata
orchestra mediatica internazionale e tutti fummo invitati a compiacerci
con un Israele che aveva finalmente accettato di porre fine al
versamento di sangue. Vi si accodarono tutti coloro che si supponevano
rappresentanti delle istanze di uguaglianza e giustizia. Perfino entità
organizzate che si situavano all’interno del fronte antimperialista e
antisionista si dichiararono disponibili a sostenere elettoralmente il
sindaco Veltroni, colui nel quale Israele e i suoi sostenitori nella
comunità ebraica vedono il più risoluto loro alleato.Vennero a crearsi
le circostanze perché, all’ombra di questa benevolenza, il governo
israeliano accentuasse a livelli parossistici la repressione a Gaza –
bombardamenti indiscriminati, incursioni stragiste, sequestro e
detenzione di ministri e parlamentari eletti, infiltrazione di
provocatori - per arrivare alla tanto sospirata guerra civile
palestinese che, oltre a dissanguare ulteriormente quel popolo, portasse
alla liquidazione, con Hamas e Jihad, di ogni resistenza ai piani di
colonizzazione-espulsione-liquidazione. Progetto condiviso sul piano
pratico e diplomatico da Italia, Europa e cosiddetta “comunità
internazionale”, cioè l’insieme dei paesi neo-protocapitalisti
partecipi, in minore o maggiore misura, della controffensiva
colonialista e imperialista. Ancora una volta si manifestava lo
spudorato sistema dei due pesi e due misure, che vedeva questi aggregati
negare riconoscimento al governo legittimamente eletto di Hamas, mentre
sosteneva il governo libanese di Fuad Sinora, reso illegittimo dalla
defezione dei ministri dell’opposizione in segno di protesta contro le
privatizzazion di ogni cosa e la svendita del paese ordinata dagli Stati
“donatori” (di crediti). A tale ipocrisia si sottraeva in Occidente il
solo Hugo Chavez. Il governo del Venezuela bolivariano, infatti, oltre a
non risparmiare critiche ai guerrafondai israeliani, al punto da
ritirare il proprio ambasciatore, invitava formalmente il movimento
Hamas a visitare Caracas, sfidando così la propaganda Usa che già aveva
indiziato il Venezuela di ospitare “cellule del terrorismo islamico”.
Mossad: operazione “Al Qaida in Palestina”
La popolazione dei territori occupati non
dava segno di cedimento generalizzato, qualsiasi misura di costrizione
Israele applicasse nei suoi confronti, a Gaza in particolare (gli orrori
di Jenin, Nablus e Ramallah verranno ripresi più tardi, quando
l’opinione pubblica occidentale sarà distratta dal precipitare degli
eventi in Afghanistan), incluse la disumana confisca delle tasse dovute
ai palestinesi per le loro esportazioni e la partecipazione a blocco
finanziario e assedio genocida di un’Europa ormai priva di ogni remora
morale, fino all’incredibilmente tollerato, già citato, sequestro dei
ministri e deputati di Hamas. Nè questa popolazione, pur provata da
oltre mezzo secolo di inenarrabili persecuzioni, si disponeva a
schierarsi in massa con quel gruppo dirigente, capeggiato dal presidente
Mahmud Abbas (Abu Mazen), dai negoziatori disfattisti di Oslo e
dall’”uomo forte” Mohammed Dahlan, losco speculatore al servizio di Cia
e Mossad, che rifiutava di riconoscere il verdetto delle democratiche
elezioni e che ogni singolo palestinese non clientilizzato percepiva
come corrotto e capitolazionista. Il significato del consenso ad Hamas
sta tutto qui, e molto meno in una fiammata di religiosità
“integralista”.
Già nel 2002 e nel 2003 i servizi
israeliani avevano tentato l’operazione che avrebbe dovuto
criminalizzare la resistenza palestinese al pari di quella irachena e,
al tempo stesso, innescare finalmente quella guerra civile
interpalestinese che si sarebbe risolta, grazie all’appoggio armato,
economico e d’intelligence israelo-americano, a vantaggio di Abu Mazen e
dell’eterno progetto sionista di frammentare quanto resta della
Palestina. Frammentazione foriera di ulteriori espansioni israeliane,
visto che in tali condizioni di invivibilità qualsiasi popolo si sarebbe
visto costretto a togliere il disturbo definitivamente. Si trattava di
far spuntare a tutti i costi, tra le varie genuine schiere della
Resistenza civile e armata palestinese, il bubbone Al Qaida. “Scoprire”
che anche i palestinesi, come si era tentato con gli iracheni, afgani e
come si teorizzava già per l’America Latina, si erano affidati allo
spettro Osama Bin Laden, avrebbe eliminato ogni dubbio di governi e
opinioni pubbliche verso il paradigma di un “Israele che si difende dal
terrorismo islamico”, quello delle carneficine di civili innocenti da
New York a Londra, da Madrid a Casablanca e a tutto il mondo.
Solo che l’operazione finì malissimo. In
ben due occasioni, 2002 e 2003, i servizi segreti dell’ANP (Autorità
Nazionale Palestinese), ancora non “normalizzati” dai collaborazionisti
dentro Fatah, avevano scoperto l’infiltrazione di finti alqaidaisti
palestinesi e autentici agenti israeliani, li avevano neutralizzati e
processati, ottenendone ammissioni e prove. Non fosse stato occultato
dai soliti amiconi Gianni Riotta, De Aglio, Ezio Mauro, Giuliano
Ferrara, Simonetti, Paolo Mieli e affini, il fatto avrebbe dovuto
suscitare anche in Italia uno scandalo di proporzioni enormi e gettare
un’ulteriore luce sinistra, ma illuminante, sull’ 11 settembre e
seguenti, come sul corollario dell’equidistanza bertinottiana da
guerrafondai e “violenti”, formulata nei termini fuorvianti della
“spirale guerra-terrorismo”.
Guerra civile costi quel che costi. Mentre Marwan Barghuti, il leader
dell’Intifada, dal carcere…
Tre anni dopo, ci fu ancora un tentativo
israeliano di evocare cellule di Al Qaida in Palestina, ma nacque
fragile per i precedenti insuccessi e fu abbandonato a favore
dell’inasprimento feroce delle condizioni di vita nei territori occupati
e fu compensato dalla totale subordinazione a Israele e agli Usa del
gruppo dirigente di Al Fatah. Subordinazione ottenuta a dispetto delle
reiterate proposte di riconciliazione nazionale, finalizzata alla
resistenza, formulate dai prigionieri di tutte le fazioni nelle carceri
israeliane e articolate nel 2006 dal leader dell’Intifada, arrestato (e
forse venduto) nel 2002 e poi condannato all’ergastolo, Marwan Barghuti.
Di Barghuti, uomo minuto e rotondetto, ma dagli occhi sorridenti e
affilati e dal carisma irresistibile, ho alcuni forti ricordi. Spicca
quello di una indimenticabile notte di capodanno che inaugurava il nuovo
millennio e che, nell’invocazione delle masse raccolte nella piazza Al
Manara di Ramallah e nell’impegno delll’amatissimo Marwan, doveva essere
“l’anno dell’indipendenza”. Nei diversi incontri che avemmo, non vi fu
mai un accenno di critica o di repulsa nei confronti di un’Intifada che
era stata costretta ad optare anche per la lotta armata in risposta, per
quanto inadeguata, al terrorismo israeliano dei carri Abrams e degli
F16. Ciò potrebbe spiegare la vergognosa assenza di reazioni occidentali
alla cattura di Barghuti, protetto anche dall’immunità parlamentare, e
che si esplicitò in termini particolarmente deprimenti in una direzione
federale del PRC a Roma, nella quale, al mio resoconto di un viaggio in
Palestina, il responsabile esteri e poi capogruppo parlamentare del
partito, Gennaro Migliore, oppose con foga astiosa un veto categorico:
“Intifada fino alla vittoria non sarà MAI una parola d’ordine di
Rifondazione!”. Pensare che quello slogan di Marwan stava riecheggiando
da anni tra le masse palestinesi e le persone perbene di tutto il mondo.
A tal punto si era evoluta la filosofia bertinottiana della
“non-violenza”, condivisa dalle Ong in famelica attesa di nuovi
banchetti allestiti dagli aggressori. Una non-violenza che si abbatteva
come un’anatema sugli inermi, oppressi, esclusi, schiavizzati che
osassero alzare la testa, e non faceva parola degli interventi
“umanitari” in Somalia, Afghanistan o Libano, domani in Sudan, come
auspicato dal microsegretario del PRC, Franco Giordano, purchè “ONU” o
addirittura “Nato”, né delle industrie di armi, né delle basi Usa che
vaiolizzano il territorio nazionale, né dei trattati di mutuo
colonialismo con Israele e Usa.
Incontrai Barghuti durante una conferenza
congiunta dei vecchi dirigenti reduci dall’esilio tunisino, capeggiati
da Yasser Arafat, già recluso da Israele nel suo palazzo presidenziale a
Ramallah, e dei nuovi quadri formatisi, sotto Barghuti, nell’Intifada
1987-1992, quella poi sterilizzata dalla megatruffa degli accordi di
Oslo che privavano la Palestina di vera sovranità e viabilità
economico-militare e i suoi cinque milioni di profughi del diritto al
ritorno. Tornavo da violentissimi scontri all’uscita da Ramallah verso
il campus di Bir Zeit, dove qualche decina di ragazzi aveva ingaggiato
un reparto israeliano con sassi e fionde per rivendicare la liberazione
del loro presidente, la libertà d’accesso a quella università e la fine
del blocco attorno alla città. Avevo ancora addosso le macchie di sangue
di qualcuno delle decina di “violenti” che erano stati colpiti dalle
pallottole di risposta israeliane. Era un Arafat malmesso mentalmente e
fisicamente, forse già minato da quel veleno, scoperto dagli analisti di
Parigi e confermato dal consigliere di Sharon, Uri Dan. Un veleno,
secondo il libro di Dan, “Ariel Sharon, un ritratto intimo”,
somministrato per ordine del suo capo e che avrebbe portato Abu Ammar
alla morte (www.uruknet.info?p=29419). Ripeteva, il mitico Abu Ammar
degli anni ’70, stereotipi un po’ retorici sulla “terra di tutte le
religioni, la terra della pace”, su un Rabin presunto amico e presunto
pacifista, sulla disponibilità all’accordo con i migliori (?) degli
israeliani. Non accennava al diritto al ritorno, né allo sgombero delle
colonie. Osservavo intanto Barghuti che, da un lato, lo osservava come
si guarda un genitore un po’ debilitato, mentre al suo entourage di
vecchi marpioni, Abu Mazen, Abu Ala, Erekat, riservava sorrisi
sarcastici, venati di disprezzo. Chi voleva, poteva già allora
percepire lo iato profondo che si era andato aprendo tra dirigenti
palestinesi che speravano di accomodare il proprio potere e i propri
beni tra le pieghe di una sistemazione in piccoli feudi all’ombra del
dilagante impero sionista, e quei giovani, scaturiti dalla lotta di
popolo, che rifiutavano ogni idea di rinuncia ai diritti sanciti dalla
legge internazionale e dai diritti umani.
Un governo di unità nazionale: anatema in Libano come in Palestina. Chi
fa uso di “scudi umani”?
Ogni volta che rallentava lo scontro
fratricida tra opposte fazioni palestinesi, Israele tornava a
incrementare le proprie incursioni omicide, a Gaza come in una
Cisgiordania meno scossa dal conflitto endogeno. Qui, anzi, si
riconfermò il volto particolarmente odioso della repressione israeliana.
Israele aveva ripetutamente accusato i palestinesi di farsi scudo dei
propri bambini, accusa fondata esclusivamente sul fatto che, di propria
iniziativa ragazzini palestinesi partecipavano al lancio di pietre, e la
stessa accusa era stata lanciata contro gli Hezbollah ogni volta che le
incursioni dell’aviazione con la stella di Davide avessero provocato
carneficine tra civili. Si manipolava il dato manifesto che Hezbollah
combatteva in difesa delle proprie case e delle proprie terre e che,
dunque, i combattenti che resistevano all’invasione erano gli stessi
abitanti e contadini di quella zona. Ripetutamente, invece, palestinesi
e testimoni stranieri avevano denunciato l’uso di donne e bambini come
scudi umani da parte di Tsahal.
Ma nemmeno la foto agghiacciante di un ragazzino palestinese, legato sul
cofano di un blindato israeliano, aveva scosso dal loro complice torpore
i media internazionali. Ci volle, nel marzo 2007, un eccesso di
protervia delle truppe israeliane in operazione di rastrellamento a
Nablus, per permettere ad alcuni operatori di riprendere queste unità
mentre si facevano precedere da ragazzini, donne, in un caso da una
bambina di 11 anni, Jihan Daadush, poi intervistata da Al Jazira, nelle
irruzioni in case di presunti “terroristi”. A scanso di reazioni
armate, o di trappole esplosive. Non a caso è di quei giorni di marzo il
risultato di un sondaggio condotto dalla BBC in tutto il mondo che
rivela come per l’opinione pubblica internazionale lo Stato che
“maggiormente mette in pericolo la pace nel mondo” fosse Israele,
nientemeno. In un battibaleno tutto il gigantesco sforzo di
disinformazione, occultamento e vittimismo con cui i media mondiali
avevano accompagnato guerre, repressioni e pulizie etniche israeliane,
era andato in fumo. Del comunicato della mia vecchia emittente londinese
degli anni ’60, a quel tempo più affidabile, si parlò al meglio come di
una “gaffe”.
Le spaventose condizioni sul filo tra un
brandello di vita e una morte in agguato dai cieli, dal mare (inibito ai
pescatori di Gaza la pesca nel mare antistante, 30% del prodotto di
quella terra, salvo volersi beccare le salve delle motovedette
israeliane), da terra, dai negozi vuoti, dai salari negati dall’ANP se
non ai propri fedeli, sono alla fin fine riuscite a minare la secolare
unità anticolonialista del popolo palestinese. Vi si aggiunsero le
provocazioni armate contro esponenti e militanti Hamas della Guardia
Pretoriana di Abu Mazen, paradossalmente pagata, istruita e armata dal
massimo alleato del nemico, gli Usa, come documentato dal sionista
neocon Elliot Abrams, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza
Nazionale, che precisò come i miliziani di Fatah venissero addestrati da
statunitensi in due campi, a Ramallah e a Gerico. Dai e dai, queste
provocazioni riuscirono a suscitare una risposta. Le milizie armate
delle varie fazioni, Al Fatah , con la sua formazione dei “Martiri di Al
Aqsa”, da un lato, Hamas, Jihad e Comitati Popolari dall’altro, si
affrontarono in tutta la striscia di Gaza e scaricarono altre vittime
sulla montagna di morti ammazzati da Israele nel corso dei 7 anni
dall’inizio della Seconda Intifada. Gli ultimi mesi del 2006 e i primi
dell’anno dopo, videro un susseguirsi di scontri e di tregue, queste
ultime a volte imposte direttamente dalla rivolta popolare contro il
demenziale scontro fratricida, come nell’occasione del clamoroso
intervento delle donne di Gaza che, contro i continui sfracelli di case
da parte di Israele, si affollarono sui tetti e davanti alle facciate,
facendosi scudi umani in una compattezza eroica che svergognava gli
istigatori e protagonisti della “guerra tra poveri”. Chi più povero, chi
meno grazie alla subalternità al dominatore: conferma del carattere di
lotta di classe, anche nel contesto di una guerra di
liberazione.
Una mano a Usa e Israele anche da Al Qaida
La crescente insofferenza della
popolazione per un conflitto che deviava dal nemico principale e, in
particolare, per l’arrendevolezza dell’ANP verso un Israele che aveva
abbandonato qualsiasi disponibilità vera al negoziato, al di là della
farsa detta Road Map del
“Quartetto Usa, Onu, Ue e Russia” (una cortina fumogena servita solo a
occultare le incessanti annessioni israeliane di territorio palestinese
e di Gerusalemme), aveva sventato il proposito di Abu Mazen di ricorrere
a elezioni anticipate per farla finita con il governo di Hamas uscito da
impeccabili elezioni democratiche. A questo punto Abu Mazen si vide
costretto a una mossa che pretendeva di dare ascolto alla richiesta
popolare per quel governo di unità nazionale che il premier di Hamas,
Ismail Haniyeh, aveva ripetutamente proposto a Fatah. Accolse il
suggerimento del re saudita, Abdallah II, e incontrò alla Mecca il
leader di Hamas, Khaled Mashaal, per riprendere il discorso del governo
di unità nazionale. Si era nel febbraio 2007 e la Segretaria di Stato,
Condoleezza Rice, di suo e per urgente input dei dirigenti israeliani,
immediatamente si precipitò in zona per esprimere, in sincrono con
Olmert, tutte le “perplessità” del suo capo circa questi, evidentemente
pericolosi, sviluppi politici palestinesi. Alla vigilia della firma alla
Mecca dell’accordo tra Mashaal e Abu Mazen, venne poi l’immancabile
provocazione israeliana, destinata, come a suo tempo la passeggiata di
Sharon sulla spianata delle moschee, a rinfocolare le tensioni: lavori
di scavo a pochi metri dalla spianata, segnale di ulteriori incursioni
territoriali fatte passare per archeologiche, con conseguenti scontri
tra palestinesi e militari israeliani. Immancabile anche, a questo
punto, l’intervento dei collateralisti Al Qaida che, con il sedicente
numero due della presunta formazione terroristica, Aiman Al Zawahiri,
attaccava con un video Hamas “per aver svenduto la causa palestinese con
la disponibilità a un governo di unità nazionale con i traditori”. Il
“telefono rosso” tra la Cia di Langley e il misterioso rifugio, presunto
nelle caverne afgane, dei generali di Al Qaida aveva funzionato. Ancora
una volta – come nel caso delle puntuali uscite di Osama e di Zawahiri
ogni volta che Bush si trovasse in difficoltà, al fine di rafforzarne il
paradigma della “guerra globale al terrorismo” – il coordinamento tra
Washington-Tel Aviv e Al Qaida era perfetto e perseguiva obiettivi
identici. Allo stesso modo nel Libano della più grave emergenza
umanitaria ed economica di ogni tempo, gli Usa si opponevano con forza
al legittimo, perché imposto dalla Costituzione, governo di unità
nazionale richiesto dalle opposizioni patriottiche. Evidentemente ogni
passo verso l’unità dei soggetti da assoggettare e obliterare è
un’intollerabile rovescio rispetto agli obiettivi strategici come
stabiliti dall’israeliano Piano Yinon, di cui parlo più avanti.
Gli Usa, d’altra parte, dovevano qualcosa
agli alleati dell’Arabia Saudita, sunniti, sponsor dell’accordo, di
fronte alla minaccia scito-iraniana alla stabilità della penisola
arabica, minaccia da loro stessi promossa in Iraq con governi a totale
controllo scita filo-iraniano . Dovevano qualcosa anche in cambio del
sostegno, anche finanziario, che l’Arabia Saudita forniva ai fantocci
degli Usa e di Israele a Beirut, in chiave anti-Hezbollah. Per cui il
sabotaggio del progetto di unità palestinese doveva mimetizzarsi nelle
rinnovate provocazioni alla guerra civile e nel pretestuoso remar contro
dello stesso Abu Mazen. Un Abu Mazen che si vedeva pasteggiare, tra
sorrisi e pacche sulle spalle, ai ricchi e cerimoniosi banchetti di
Olmert, mentre a Gaza e Nablus soldataglie israeliane irrompevano in
case da dove era sparito anche l’ultimo piatto di ceci. Ai primi di
marzo riprendono gli scontri tra le due fazioni, innescate stavolta da
un’imboscata di Fatah contro Wash Kibha, ministro del governo di Ismail
Haniyeh, proprio all’indomani della tregua totale proposta a Israele da
Hamas. Intanto Israele e la comunità internazionale continuano ad
esigere da Hamas il “riconoscimento di Israele”, che pure risulta
implicito nell’accettazione da parte della formazione islamica degli
accordi fino allora conclusi, e la inderogabile “rinuncia alla
violenza”. Rinuncia dall’esito letale, dato che priverebbe i palestinesi
dell’unica leva di pressione su Israele rimastagli. A questa pretesa
fornisce il suo contributo anche il re giordano, Abdallah, vassallo
degli Usa ancor più del padre Hussein, esigendo dal nuovo governo che
aderisca rigorosamente alla politiche di resa disegnate dal Quartetto.
Una volta di più la signora della diplomazia Usa ripete la giaculatoria
dei palestinesi che “devono fare di più”, proprio in concomitanza con la
scalata delle incursioni assassine, della crescita delle colonie, di
Gerusalemme Est soffocata da nuovi insediamenti, con la più grande di
tutte le colonie, della chiusura del popolo palestinese nel campo di
concentramento cinto dall’immondo muro che penetra in profondità in
quanto resta della Palestina, e del ribadito rifiuto israeliano di
riconoscere e tanto meno accettare uno Stato palestinese sovrano.
Un piano per distruggere ogni prospettiva di ritorno all’unità araba
Ai palestinesi si apre un’estenuante
prospettiva di orrori e dispersione. Vi si potranno opporre, oltre
all’indomata volontà di resistenza della maggioranza della popolazione,
purtroppo ormai priva del decisivo apporto finanziario e politico
dell’Iraq di Saddam Hussein, un per ora non prevedibile mutamento
radicale dei rapporti di forza mondiali. Mutamento che potrebbe essere
determinato dalla crescente forza dei movimenti e governi
antimperialisti in America Latina, nonché dei giganti in crescita cinese
e russo e, soprattutto, dalla non improbabile destabilizzazione della
compattezza neocon statunitense attraverso la crescente campagna di
smascheramento del teorema dell’11 settembre e del “terrorismo
islamico”. In questa prospettiva assume una valenza determinante anche
la consapevolezza della strategia di sterminio e frantumazione
israelo-statunitense come formulata per il governo nel piano del 1982 di
Oded Yinon, consulente del ministero degli esteri israeliano,
concretizzato nell’invasione del Libano del 1982 e attualizzato da
Olmert con la nuova aggressione al Libano e con la nomina del razzista
Avigdor Lieberman, epuratore etnico conclamato, a ministro “per le
minacce strategiche”. Il documento, intitolato “Una strategia per
Israele negli anni ‘80”, che da allora traccia il cammino della politica
israeliana e che riprende lo schema colonialista elaborato
dall’establishment sionista a metà degli anni ’50 e pubblicizzato da
Kivunim, periodico del
Dipartimento per l’Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale.
Si tratta del testo più esplicito,
dettagliato e inconfutabile della strategia israeliana per il Medio
Oriente. Vi si afferma che per “sopravvivere” Israele deve, 1),
diventare la potenza regionale dominante (il che spiega le spinte
israeliane a un confronto con il rivale regionale Iran, solo
parzialmente condivise dagli Usa), e, 2), perseguire la frammentazione
e dissoluzione degli Stati arabi esistenti in minuscole e inoffensive
entità a carattere confessionale ed etnico. La prima invasione del
Libano, nel 1978, tentò di realizzare questo piano nel più minuto
dettaglio innescando il sanguinoso conflitto tra drusi, cristiani e
musulmani. La seconda invasione, nel 1982, più barbarica ed estesa,
aveva di mira, oltre al Libano, la Giordania e la Siria. Infine,
l’aggressione dell’estate 2006, con la Giordania ormai in mano a un re
che si prestava a sostenere incondizionatamente le mire israeliane,
aveva per obiettivo l’ultimo Stato renitente della regione, la Siria,
premessa per la totale depalestinizzazione della Palestina. E’ ovvio che
i palestinesi, pur non essendo obiettivo unico dei piani sionisti, sono
quello prioritario, dato che la loro presenza in quanto popolo nega
implicitamente l’essenza dello Stato sionista. Ma risulta evidente che
ogni e ciascuno Stato arabo, soprattutto quelli dotati di coesione e
storia nazionali, rafforzati nella lotta di liberazione del secolo
scorso, costituiscono un bersaglio da colpire prima o poi. Ne conseguiva
l’impellente necessità di far fuori per primo l’Iraq, influente polo e
punto di riferimento per le sopravvissute istanze nazionali e panarabe,
comprese quelle di progresso sociale e laico. Ci si è lavorato,
attraverso due guerre, un embargo e un’occupazione genocida, dal 1991 ad
oggi.
Di fronte a questa lucida e determinata
strategia israelo-statunitense, secondata dall’equivoca “passività”,
quando non complicità, europea e, fino all’avvento di Putin, da una
Russia ridotta alla mercè di un’oligarchia controllata dagli Stati
Uniti, la risposta araba e palestinese soffre di ambiguità e incoerenza.
Non ci sono, tranne che in settori palestinesi, indicazioni che gli
strateghi arabi abbiano interiorizzato il piano sionista in tutte le sue
ramificazioni. Reagiscono, invece, con incredulità e sgomento ogni volta
che una nuova fase del piano viene ad attuazione. Si veda a proposito l’ammutolimento
arabo di fronte all’assedio israeliano di Beirut. E’ tanto desolante
quanto inevitabile constatare che fino a quando la strategia israeliana
per il Medio Oriente (ma analoghe operazioni sioniste sono in corso da
decenni anche in altri scacchieri ambiti dall’imperialismo, come
l’America Latina, l’Asia e l’Africa) non verrà riconosciuta in pieno e
presa sul serio dagli arabi, più dalle masse che dagli attuali regimi
vassalli, dato che pur sempre di lotta di classe, nazionale e
internazionale, si tratta, ogni futura reazione all’aggressività
israeliana ripercorrerà i sentieri del disfattismo del mezzo secolo
trascorso. Resta da constatare, a rischio di sentire ripetere le
forsennate accuse di antisemitismo seguite alla denuncia dei paralleli
tra oppressione nazista e oppressione in Palestina formulate dall’Ucoii
(l’associazione islamica in Italia), come il piano di Oded Yinon,
riconfermato recentemente da Ze’ev Schiff, corrispondente militare del
giornale Ha’aretz, con la
proposta di dividere l’Iraq in staterelli scita, sunnita e curdo,
ripercorra quello della Germania di Hitler nei confronti dell’ Europa
Orientale. Nel periodo 1939-1941, quegli Stati furono frantumati in
entità minori, anche con il concorso dell’Italia mussoliniana che diede
il suo contributo alla spartizione della Jugoslavia con la creazione di
uno statarello fascista chiamato “Grande Albania”, precursore di quello
poi perseguito dall’alleanza occidentale attraverso le guerre balcaniche
degli anni ’90. A prevalere sulla strategia dello sminuzzamento
colonialista degli Stati fu allora solo un’alleanza su scala globale,
sotto il vessillo della guerra al nazifascismo, ma nei termini effettivi
di un conflitto interimperialista. Alleanza globale che oggi si colloca
sul lato opposto, riuscendo a trascinarsi dietro la gran parte di un
movimento di salvaguardia della pace, della libertà e della giustizia,
partiti “comunisti” italiani in testa. Il che ci dice molto sul cammino
che abbiamo compiuto dal 25 aprile ad oggi.
Due Stati per due popoli, conferma di una “purezza etnico-confessionale
condivisa da destra a sinistra
Il progetto coltivato ostinatamente per
gran parte delle fasi della spartizione, occupazione, pulizia etnica,
dalle forze più avanzate della società palestinese e araba, lo Stato
unico, laico e plurinazionale, è stato efficacemente contrastato, non
tanto dall’emergere di un’opzione islamica, determinata dal fallimento e
dalla decimazione delle dirigenze laiche, quanto da un ben orchestrato
concorso di opinioni internazionali, dalla destra alla cosiddetta
“estrema sinistra”. Prodi, obbedendo all’ordine di Olmert di proclamare
il carattere ebraico dello Stato sionista, vi ha apposto il suggello
italiano, meglio di quanto Berlusconi non si sia mai sognato di fare.
Ovviamente con piena soddisfazione delle destre postfasciste e
fascistizzanti che, con Fini ultrà sionista per eccellenza, individuano
correttamente in Israele il modello di organizzazione statale annidato
nella propria Weltanschaung
e nei propri propositi revanscisti, alla faccia delle ricorrenti
rivelazioni sulla natura corrotta della dirigenza israeliana, quasi
interamente finita sotto inchiesta per delitti di natura sessuale,
finanziaria, economica e contro l’integrità personale. Segno di quanta
impunità induca anche a livello individuale l’impunità politica e
statale offerta dalla “comunità internazionale”
La speranza più concreta di pace e
giustizia in Medio Oriente, tuttavia, resta affidata, a una Resistenza
palestinese e araba che sappia sfuggire alla morsa di governanti
collaborazionisti e provocare, d’intesa con forti iniziative del
movimento antimperialista mondiale, come nei primi anni della seconda
Intifada, il dissesto economico e sociale della società israeliana. Fu
negli anni ’70 e ’80
Che milioni di persone acclamavano Yasser
Arafat, all’Onu e a Venezia, con in una mano il fucile e nell’altra il
ramoscello d’ulivo. Fu una generazione di giovani che percorse le strade
del mondo al grido di “fe-fe-fedayin!”
Fu alla fine di un’Intifada vittoriosa, quella dal 1987 al 1992, che
Israele si vide costretta ad accettare i negoziati di Madrid e di Oslo,
per quanto infingardi. Fu, poi, nel 2002
che Israele, sotto i colpi della
Resistenza, conobbe una crisi vicina alla quasi bancarotta del 1952: gli
investimenti stranieri erano svaporati, il flusso di emigranti, vitale
per contenere l’avanzata demografica araba, si era inaridito, i capitali
già affluiti in gran numero si erano bloccati, rivolte, blocchi
stradali, scioperi, davano il segno di un disagio di massa determinato
dall’aumento delle spese militari e dal taglio di quelle sociali, le
condizioni miserrime dell’immigrazione straniera, che aveva sostituito
la bandita manodopera palestinese, provocavano turbolenze e
insubordinazioni. Israele fu costretto ad invitare centinaia di migliaia
di immigrati russi, moltissimi dei quali non ottemperavano neppure al
dettame teologico-legale dell’integrità etnico-confessionale. Fu solo a
quel punto che Israele si acconciò a tornare a parlare di negoziati, per
quanto sempre con il suo retropensiero fisso della soluzione finale per
i palestinesi. E fu la Camp David di Barak e Arafat. Vennero altre
manovre diversive e di apparente disponibilità, come il celebrato ritiro
da Gaza, applaudite da un sistema politico-mediatico o inconsapevole, o
succube. Fu durante quella crisi che nella popolazione israeliana
ebraica si manifestarono più evidenti e robusti i segni di dissenso
verso l’intransigenza razzista del governo. E ripresero coraggio,
allora, le voci che, respingendo la scelta, fondata su identità
confessionali dichiarate inconciliabili, dei due Stati per due popoli,
individuavano come unica soluzione realistica, oltreche democratica e
antirazzista, quella dello Stato unitario plurinazionale e
pluriconfessionale. Voci poi nuovamente zittite nell’euforia sciovinista
e militarista della guerra al Libano. Ci vorrà una presa di coscienza
molto più diffusa, soprattutto tra le giovani generazioni,
sull’inderogabile necessità di convivenza dei due popoli in un
territorio così limitato e sul rispetto delle entità regionali
esistenti, perché a Israele non sia riservato un futuro di inesorabile
fascistizzazione e di perpetuo e sanguinoso conflitto con il mondo
circostante. E occorrerà anche che un’opinione di sinistra, meno
subalterna di quella che riconosceva in Sharon “l’uomo di pace”, che si
dichiara “equidistante”, che favoleggia di opposti estremismi messi
sullo stesso piano, che offusca la differenza tra torto e ragione, tra
vittima e carnefice, riprenda il sopravvento e costituisca una sponda
per quanto ancora di buono e giusto sopravvive nella società israeliana
ed ebraica mondiale.
P.S.
Nuove mete per il turismo in Israele
Una società che dovrebbe denunciare e
respingere a furor di popolo quel gruppo di avvocati e militanti
sionisti israeliani che hanno costituito recentemente “Il centro legale
israeliano” (Shurat HaDin)
e che offrono al turismo israeliano nuove attrattive, assai
significative del clima che si respira in Israele dopo la disfatta in
Libano e la rivincita esercitata sui palestinesi.
Qualche esempio del pacchetto tutto
incluso offerto da Shurat HaDin,
senza che nessuna autorità israeliana abbia avuto alcunché da rilevare:
“Vivi
otto giorni intensi nell’esplorare la lotta di Israele per la sua
sopravvivenza -
Briefing tenuto da agenti del Mossad e da comandanti dello Shin Bet -
Visita approfondita alle unità dell’Israeli Air Force che compiono gli
assassinii mirati - Dimostrazione dal vivo di incursioni di penetrazione
nel territorio arabo - Assisti a un processo a terroristi di Hamas nei
tribunali militari,,,
Poi, ovviamente, ottimi alberghi, pranzi
sociali, crociere al chiaro di luna in Galilea, gite in pullman al
fronte libanese. Tutto incluso 1.895 dollari. Neanche tanto per lo
spettacolo di un genocidio dal vivo.
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