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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

 

Intanto in Palestina…

“PIOGGIA D’ESTATE” E ALTRE DEL SIGNORE DEGLI ESERCITI

La strategia di Israele per la Palestina e il Medio Oriente

 

14/03/2007

 

 

Aizzerò gli egiziani contro gli egiziani:

combatterà fratello contro fratello,

uomo contro uomo,

città contro città, regno contro regno.

Gli egiziani perderanno il senno

e io distruggerò il loro consiglio;

per questo ricorreranno agli idoli e ai maghi,

ai negromanti e agli indovini.

Ma io metterò gli egiziani

In mano a un duro padrone, un re crudele li dominerà.

Oracolo del Signore, Dio degli eserciti.

Si prosciugheranno le acque del loro mare,

il fiume si inaridirà e seccherà.

I suoi canali diventeranno putridi,

diminuiranno e seccheranno i torrenti d’Egitto,

canne e giunchi ingialliranno…

I pescatori si lamenteranno, gemeranno

Quando gettano l’amo nel Nilo,

quanti stendono le reti sull’acqua saranno desolati…

Non riuscirà all’Egitto qualunque opera faccia:

il capo o la coda, la palma o il giunco.

In quel giorno gli egiziani diventeranno come femmine,

tremeranno e temeranno all’agitarsi della mano

che il Signore degli eserciti agiterà contro di loro.

Il paese di Giuda sarà il terrore degli egiziani,

quando se ne parlerà ne avranno spavento,

a causa del proposito che il Signore degli Eserciti

ha formulato sopra di esso…

Il signore percuoterà ancora gli egiziani,

ma, una volta colpiti, li risanerà.

Essi faranno ritorno al Signore,

lo serviranno con sacrifici e offerte,

faranno voti al Signore e li adempiranno.

(Isaia 19)

 

La bibbia come manuale di guerra

Basta sostituire “egiziani” con “palestinesi”, o anche “arabi”, e le indicazioni del profeta del “Dio degli eserciti”, forse il dio più disumano che paura e protervia del Potere abbiano mai creato, quello del sacrificio di Giacobbe, quello che ordinava di sterminare tutti coloro che si oppongono al popolo eletto, donne, bambini, armenti e greggi compresi, tanto che non rimanga “pietra su pietra”, assumono un’attualità che ai compilatori della bibbia nel VII secolo A.C. dovrebbe dare un’immensa soddisfazione. Del “paese di Giuda” non si può dire che non ottemperi ai vaticinii dei suoi referenti teorici e che i suoi condottieri contemporanei, Ben Gurion, Golda Meir, Begin, Shamir, Rabin, Netaniahu, Barak, Sharon, Olmert, non si siano attenuti rigorosamente al Verbo, fino alle recenti operazioni a denominazione meteorologica, da “Pioggia d’estate”, simultanea alla campagna libanese, alle successive metafore meteorologiche, succedutesi nel corso e dopo l’invasione del Libano e l’intervento detto di pace dell’Unifil. Invasione e intervento che avevano e hanno tra i loro scopi anche quello di neutralizzare il legame di solidarietà politico-militare che si era andato intessendo tra resistenza libanese e resistenza palestinese, come esplicitato dalla cattura dei due incursori israeliani da parte di Hezbollah, successiva a quella del soldato israeliano catturato a Gaza nel giugno del 2006. L’Unifil, infatti, collocandosi sul territorio del paese aggredito e avendo tra le sue regole d’ingaggio quelle che “permettono l‘uso della forza letale per impedire o eliminare attività ostili, incluso il traffico illegale di armi, munizioni ed esplosivi (illegale è evidentemente solo quello che rifornisce la Resistenza) nell’area di competenza dell’Unifil”, serve oggi a coprire le spalle all’esercito israeliano, gravemente messo in causa dalla guerriglia libanese, e che così può concentrare le sue forze sull’intensificazione delle operazioni di pulizia etnica in Gaza e Cisgiordania.

 

Isaia reloaded

Ma vediamo come i seguaci del “Dio degli eserciti” hanno corrisposto alle aspettative. Dall’inizio della seconda Intifada, innescata il 27 settembre dall’incursione del Primo Ministro Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, fino a fine gennaio 2007, Tsahal, l’esercito israeliano, aveva ucciso 5050 palestinesi, ne aveva ferito e mutilato altri 49760 e incarcerato, senza imputazioni o processo, 10.400 (Palestine National Information Center). Tra gli uccisi un quarto erano minorenni e 351 donne, 150 pazienti erano morti perché bloccati ai posti di blocco, 66 furono ammazzati a bastonate dai coloni, 36 erano infermieri o medici impegnati nei soccorsi, 9 erano giornalisti, 220 erano atleti, 848 erano insegnanti o studenti, di questi sono stati feriti 4.792. Rachel Corrie era una giovane pacifista statunitense schiacciata sotto una ruspa mentre difendeva le case da demolire. Dei detenuti “amministrativi” 1.150 soffrono di patologie croniche, 1.175 sono studenti, 330 sono bambini o ragazzi, 1.806 sono insegnanti e 118 sono donne. 1.147 sono state le aggressioni a giornalisti che, diversamente dall’Iraq, non hanno potuto ancora essere tutti embedded, o fatti fuori.  

 

Quanto ai danni inflitti alla società palestinese, 645 edifici pubblici sono stati distrutti, danneggiati, resi impraticabili, 72.437 case sono state rase al suolo o rese impraticabili, 12 scuole e università chiuse, 359 istituti educativi bombardati, 43 scuole trasformate in strutture dell’esercito. Al 31 luglio 2006, quindi senza calcolare le successive devastazioni delle varie “piogge d’estate” e di altre stagioni, erano stati distrutti dai bulldozer 80.712 dunum di terra (800 ettari), sradicati 13.572.896 alberi, demoliti 784 esercizi commerciali e 788 allevamenti aviari, sterminati 148.209 ovini, 12.151 bovini, 899.767 polli da carne, 350.292 polli da uova, 1.650 conigli d’allevamento. Distrutti anche 15.549 alveari, 1.785 pozzi, 207 fattorie, 33.792 dunum (34 ettari) di rete irrigua con 979.239 metri di condutture idriche, 9.547 officine e laboratori, 432 impianti industriali. La confisca di terreni palestinesi ammontava a 247.291 dunum. Risultato di questo corollario di un genocidio pianificato: il 70% della popolazione palestinese vive oggi sotto il livello di povertà, un terzo, secondo il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu, rischia la morte per inedia. A questo si aggiungeva il blocco degli aiuti europei, il furto israeliano dei dazi per le esportazioni palestinesi e dei fondi depositati nelle banche dei territori occupati, giustificati, in perfetta assonanza con le indicazioni israeliane, dalla libera elezione di un governo di “terroristi”. Il Programma Alimentare  delle Nazioni Unite denuncia che nel 2006 il 46% dei palestinesi non ha potuto procurarsi il cibo di cui aveva bisogno per non finire in malnutrizione. 150.000 dipendenti pubblici non hanno ricevuto gli stipendi, causa il blocco dei dazi e degli aiuti e il sequestro delle donazioni dei paesi musulmani, in un caaso addirittura dalla borsa del Primo Ministro palestinese, sotto gli occhi dei carabinieri italiani dislocati al valico di Rafah: ne paga le conseguenze un milione di persone che dipendevano da tali stipendi.

 

“L’unico arabo buono è l’arabo morto ammazzato”

“Gli arabi dovranno sparire, ma ci vuole una guerra per farlo succedere” (David Ben Gurion, 1937) “Un popolo palestinese non esiste… Non è vero che noi siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Non esistevano” (Golda Meir, su “The Sunday Times”, 15/6/1969)

Giugno 1967. Mollati i fervori e le amenità della Londra swinging degli anni ’60, trascorsi con in mano il microfono della BBC alla caccia dei Beatles, ma già anche delle rivolte civili in Irlanda del Nord, “Paese Sera” mi spedì alla Guerra dei Sei Giorni. Arrivai in uno Stato che tutti dicevano minacciato di essere cancellato dalla mappa geografica, ma che intanto stava spazzando via i resti di un popolo indigeno e mangiandosi quel 22% di Palestina che l’ONU, con la spartizione del 1947, gli aveva lasciato. Allora gli ebrei, il 7% della popolazione, si erano beccati il 78% del territorio. Ma non gli era bastato. Secondo quanto ricostruito da Ilan Pappe, professore di Scienze Politiche all’Università di Haifa, la pulizia etnica dei palestinesi negli anni prima della Guerra dei Sei Giorni, aveva già fatto un gran lavoro: 400 villaggi erano stati cancellati dalla carta geografica. Se ne possono osservare, tra arbusti e muschi, i resti di bianca pietra nelle valli sovrastate dai moderni centri israeliani; un milione di palestinesi erano stati espropriati e cacciati.

 

Viaggiando su carri armati israeliani con l’Olivetti 22 sulle ginocchia, passavo sopra villaggi arabi millenari  e tra turbe di nuovi profughi di un popolo che Golda Meir diceva non esistere. La gran parte di quei villaggi erano stati polverizzati negli anni successivi al 1948, quando la madre di tutti i terrorismi, le bande Haganà, Stern, Irgun di coloro che poi furono primi ministri negli anni ’70 e ’80, facevano saltare in aria gli alberghi con dentro i mandatari britannici, o i non sufficientemente succubi rappresentanti dell’Onu e, successivamente, centri abitati e tutti coloro che non accettavano istantaneamente l’invito ad andarsene. 

 

A conquista avvenuta, dopo il 6 giugno, si organizzarono tour ai nuovi territori. Viaggiando verso Gaza, dal pullman vedevo corpi di soldati egiziani che si disfacevano sotto le mazzate del sole e il becco degli avvoltoi. Al capitano di Tsahal, che ce li indicava con aria compiaciuta, chiesi se non fosse costume in Israele seppellire i nemici morti in battaglia, o renderli al  loro paese, come dettato dalla Convenzione di Ginevra. Il tipo scosse le spalle e pronunciò la frase che poi sarebbe divenuta una specie di karma israeliano: “L’unico arabo buono è l’arabo morto ammazzato”. Non era l’espressione di un razzismo personale, particolarmente incallito: i giornali, i manifesti, le scritte sui muri, le dichiarazioni dei boss militari e politici, traboccavano di arabi “cani”, “scimmie”, “ratti” e “serpenti”. Discesi dall’autobus a Tel Aviv, chiesi al capitano se non ritenesse poco civile la definizione data. Mi questionò se non fossi per caso antisemita. Risposi che semmai lo era lui, visto che tutti quei arabi buoni perché ammazzati erano semiti. Finì in rissa sul marciapiede e l’indomani fui espulso da Israele.

Ci tornai solo per le Intifade, presto stigmatizzate come “violente” dai liquidazionisti ontologici alla Bertinotti, visto che non si limitavano a opporre alle granate israeliane la maglietta sbrindellata e, addirittura, la mano col sasso. Prima di essere buttato fuori da Israele, però, ero riuscito a sottrarre alla democratica censura militare israeliana e a spedire al mio giornale un pezzo, basato su confidenze palestinesi, che raccontava  un obbrobrio degno dell’atteggiamento del mio capitano. Reparti speciali israeliani, denominati Shaked, sotto il comando di Benyamin Ben Eliezer, “eroe della Guerra” e oggi ministro delle infrastrutture, avevano massacrato almeno 250 egiziani e palestinesi che si erano arresi. I poveri corpi anneriti che avevo visto dal finestrino potevano ben essere le vittime di quell’abominio, uno dei tanti con cui lo Stato sionista ha ignorato, oltre a 170 decisioni ONU, ogni norma del diritto internazionale e delle convenzioni di Ginevra.  Episodio del resto non nuovo per Tsahal, visto che nella guerra del 1956, scatenata contro l’Egitto di Nasser, il generale  Ariel Biro aveva ammazzato una cinquantina di prigionieri egiziani, massacro poi da lui ammesso nel 1995: “Era difficile portarseli dietro. Lo rifarei”. Episodio, anche, inserito in una pratica del mancato rispetto per il non ebreo che si esplicita in ogni manifestazione ufficiale e ufficiosa dello Stato e, ahinoi, spesso anche della società israeliana. Si pensi alla tortura dei detenuti sancita dalla Corte Suprema, si pensi ai 150 cadaveri palestinesi sequestrati, tenuti in un cimitero cosiddetto “dei numeri” e mai restituiti ai congiunti, violando, attraverso questa ennesima punizione collettiva, la Quarta Convenzione di Ginevra. Si pensi alla recente norma per la quale i palestinesi cittadini di Israele (il 22% della popolazione), oltre a vessazioni e negazione di diritti di ogni genere, devono subire l’affronto razzista di non poter sposare palestinesi dei territori occupati se non al prezzo di abbandonare il paese di cui hanno la cittadinanza.Tutti metodi poi ampiamente praticati dagli Usa, insieme ad altri insegnamenti tratti dall’esperienza britannica in Irlanda e  israeliana in Palestina, nelle invasioni di Iraq, Somalia, Afghanistan e nella tragica vicenda del kissingeriano“Piano Condor” per l’ America Latina delle sanguinarie dittature militari filo-yankee.

 

Sinistre per Israele

Fausto Coen, direttore di “Paese Sera” non credette possibile una tale nefandezza e mi spedì un telex furibondo. Allora anche la Sinistra era schierata con il “popolo di sopravvissuti tornato nella terra degli avi e minacciato di essere ributtato in mare  da ondate di oscurantisi arabi”. E pensare che già allora, grazie agli enormi aiuti USA, quelli che tuttora tengono in piedi lo Stato dell’apartheid, Israele era il sesto più potente esercito del mondo e disponeva di almeno 200 delle attuali 400 bombe nucleari, senza aver mai aderito ai trattati di non proliferazione e aver mai ammesso le ispezioni dell’AIEA, quelle che Washington e Tel Aviv giornalmente sollecitano a mettere il naso nell’arricchimento dell’uranio – fino a prova contraria  a fini civili - dell’Iran. L’Europa si nettava la coscienza dalla Shoa, scaricandone sugli innocenti arabi, già tragiche vittime del colonialismo europeo, la vendetta ebraica. Oggi la storia si ripete, mai in farsa, ma in un’escalation di crimini e complicità internazionali. Allora, comunque, la linea del giornale cambiò e diventò più equilibrata, Coen dovette andarsene e il mio scoop  fu corroborato, seppure molti anni più tardi, da un documentario israeliano e da vari militari  di Tsahal  pentiti. Oggi, dopo uragani di aggressività “difensiva” israeliana siamo tornati al punto di partenza. La “Sinistra per Israele”, manifestatasi nelle piazze di Roma con protagonisti come Walter Veltroni e Giuliano Ferrara, è l’espressione più stupefacente del rovesciamento delle posizioni di questi ex, contro ogni equità etico-politico-giuridica.

 

Ahmadinejad parla di cancellare lo Stato sionista, Olmert cancella il popolo palestinese per davvero

Per il primo ministro iraniano, come sempre impegnato su più fronti - di collusione-collisione con gli angloamericani a scapito dell’Iraq unito, di appoggio alla resistenza nazionale libanese e a Hamas, di intesa con la Siria per impedire la rinascita nazionale dell’Iraq e contenere l’espansione di Israele - l’aggressione al Libano è l’occasione per  augurarsi la cancellazione dalla mappa geografica dello Stato Sionista. Badate bene, dello “Stato”, non della sua gente. Dello Stato, come ampiamente esplicitato da Ahmadimejad, ma non riportato dai media occidentali impegnati in una nuova satanizzazione colonialista. Dello Stato in quanto “Stato degli ebrei”, come lo ha definito ancora nel febbraio 2007 il premier Prodi sotto dettatura dell’ospite Olmert, cioè Stato monoetnico e monoconfessionale, Stato dell’apartheid costituzionale, dei palestinesi israeliani ridotti a untermenschen, subumani, e dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania esclusi e rimossi. L’ermeneutica di Israele, dal progetto di Hertzl alla realizzazione di Ben Gurion e alle successive aggressioni, liquidazioni, espansioni, non può che produrre questa valutazione. Naturalmente l’esternazione del dirigente persiano sollevò uno tsunami di indignazione in tutto l’Occidente, tanto da servire sostanzialmente, non a far riflettere sulla natura di quell’architettura statale, già definita razzista dall’Onu nel vertice di Durban, ma a demonizzare i musulmani, dall’esponente più potente a discendere per li rami, fino a Hezbollah, Hamas, la Resistenza irachena. E questo, proprio nel momento in cui Israele a Nord assaliva il Libano e ne disintegrava l’agibilità statale e il tessuto sociale ed economico e, a Sud, con l’operazione “Pioggia d’Estate”, si apprestava a chiudere i conti con Gaza, prima, e con la Cisgiordania poi. La barbarie con la quale si procedette, nella fase iniziale della penetrazione in Libano, contro i cittadini di Gaza, già vessati da decenni di occupazione, assassinii mirati, assedio per fame e sete, paralisi economica, distruzione di centri abitati nella fase iniziale della penetrazione in Libano, si pensava coperta dal giubilo occidentale per i trionfi dell’esercito notoriamente invincibile e per la liquidazione di un altro nido del “terrorismo islamico”. Solo stavolta l’Europa ebbe un sussulto di perplessità. L’accanimento israeliano nella fase finale, con l’offensiva delle ultime 72 ore, fallita anche quella, e la relativa pioggia di un milione di bombe a grappolo, era l’espressione di una frustrazione al limite della nevrosi, sul tipo delle accentuate nequizie della cosca Bush nella fase dell’evidente declino. Il vento, però, cambiò ancora, a tregua israelo-libanese conclusa (dopo i rinvii voluti da Bush e anche da D’Alema, con quella sua fasulla “conferenza di pace” a Roma), quando “l’effetto Shoa” fu rilanciato da una ben sincronizzata orchestra mediatica internazionale e tutti fummo invitati a compiacerci con un Israele che aveva finalmente accettato di porre fine al versamento di sangue. Vi si accodarono tutti coloro che si supponevano rappresentanti delle istanze di uguaglianza e giustizia. Perfino entità organizzate che si situavano all’interno del fronte antimperialista e antisionista si dichiararono disponibili a sostenere elettoralmente il sindaco Veltroni, colui nel quale Israele e i suoi sostenitori nella comunità ebraica vedono il più risoluto loro alleato.Vennero a crearsi le circostanze perché, all’ombra di questa benevolenza, il governo israeliano accentuasse a livelli parossistici la repressione a Gaza – bombardamenti indiscriminati, incursioni stragiste, sequestro e detenzione di ministri e parlamentari eletti, infiltrazione di provocatori - per arrivare alla tanto sospirata guerra civile palestinese che, oltre a dissanguare ulteriormente quel popolo, portasse alla liquidazione, con Hamas e Jihad, di ogni resistenza ai piani di colonizzazione-espulsione-liquidazione. Progetto condiviso sul piano pratico e diplomatico da Italia, Europa e cosiddetta “comunità internazionale”, cioè l’insieme dei paesi neo-protocapitalisti partecipi, in minore o maggiore misura, della controffensiva colonialista e imperialista. Ancora una volta si manifestava lo spudorato sistema dei due pesi e due misure, che vedeva questi aggregati negare riconoscimento al governo legittimamente eletto di Hamas, mentre sosteneva il governo libanese di Fuad Sinora, reso illegittimo dalla defezione dei ministri dell’opposizione in  segno di protesta contro le privatizzazion di ogni cosa e la svendita del paese ordinata dagli Stati “donatori” (di crediti). A tale ipocrisia si sottraeva in Occidente il solo Hugo Chavez. Il governo del Venezuela bolivariano, infatti, oltre a non risparmiare critiche ai guerrafondai israeliani, al punto da ritirare il proprio ambasciatore, invitava formalmente il movimento Hamas a visitare Caracas, sfidando così la propaganda Usa che già aveva indiziato il Venezuela di ospitare “cellule del terrorismo islamico”.

 

 

Mossad: operazione “Al Qaida in Palestina”

La popolazione dei territori occupati non dava segno di cedimento generalizzato, qualsiasi misura di costrizione Israele applicasse nei suoi confronti, a Gaza in particolare (gli orrori di Jenin, Nablus e Ramallah verranno ripresi più tardi, quando l’opinione pubblica occidentale sarà distratta dal precipitare degli eventi in Afghanistan), incluse la disumana confisca delle tasse dovute ai palestinesi per le loro esportazioni e la partecipazione a blocco finanziario e assedio genocida di un’Europa ormai priva di ogni remora morale, fino all’incredibilmente tollerato, già citato, sequestro dei ministri e deputati di Hamas. Nè questa popolazione, pur provata da oltre mezzo secolo di inenarrabili persecuzioni, si disponeva a schierarsi in massa con quel gruppo dirigente, capeggiato dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), dai negoziatori disfattisti di Oslo e dall’”uomo forte” Mohammed Dahlan, losco speculatore al servizio di Cia e Mossad, che rifiutava di riconoscere il verdetto delle democratiche elezioni e che ogni singolo palestinese non clientilizzato percepiva come corrotto e capitolazionista. Il significato del consenso ad Hamas sta tutto qui, e molto meno in una fiammata di religiosità “integralista”.

 

Già nel 2002 e nel 2003 i servizi israeliani avevano tentato l’operazione che avrebbe dovuto criminalizzare la resistenza palestinese al pari di quella irachena e, al tempo stesso, innescare finalmente quella guerra civile interpalestinese che si sarebbe risolta, grazie all’appoggio armato, economico e d’intelligence israelo-americano, a vantaggio di Abu Mazen e dell’eterno progetto sionista di frammentare quanto resta della Palestina. Frammentazione foriera di ulteriori espansioni israeliane, visto che in tali condizioni di invivibilità qualsiasi popolo si sarebbe visto costretto a togliere il disturbo definitivamente. Si trattava di far spuntare a tutti i costi, tra le varie genuine schiere della Resistenza civile e armata palestinese, il bubbone Al Qaida. “Scoprire” che anche i palestinesi, come si era tentato con gli iracheni, afgani e come si teorizzava già per l’America Latina, si erano affidati allo spettro Osama Bin Laden, avrebbe eliminato ogni  dubbio di governi e opinioni pubbliche verso il paradigma di un “Israele che si difende dal terrorismo islamico”, quello delle carneficine di civili innocenti da New York a Londra, da Madrid a Casablanca e a tutto il mondo.

 

Solo che l’operazione finì malissimo. In ben due occasioni, 2002 e 2003, i servizi segreti dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), ancora non “normalizzati” dai collaborazionisti dentro Fatah, avevano scoperto l’infiltrazione di finti alqaidaisti palestinesi e autentici agenti israeliani, li avevano neutralizzati e processati, ottenendone ammissioni e prove. Non fosse stato occultato dai soliti amiconi Gianni Riotta, De Aglio, Ezio Mauro, Giuliano Ferrara, Simonetti, Paolo Mieli e affini, il fatto avrebbe dovuto suscitare anche in Italia uno scandalo di proporzioni enormi e gettare un’ulteriore luce sinistra, ma illuminante, sull’ 11 settembre e seguenti, come sul corollario dell’equidistanza bertinottiana da guerrafondai e “violenti”, formulata nei termini fuorvianti della “spirale guerra-terrorismo”.

 

Guerra civile costi quel che costi. Mentre Marwan Barghuti, il leader dell’Intifada, dal carcere…

Tre anni dopo, ci fu ancora un tentativo israeliano di evocare cellule di Al Qaida in Palestina, ma nacque fragile per i precedenti insuccessi e fu abbandonato a favore dell’inasprimento feroce delle condizioni di vita nei territori occupati e fu compensato dalla totale subordinazione a Israele e agli Usa del gruppo dirigente di Al Fatah. Subordinazione ottenuta a dispetto delle reiterate proposte di riconciliazione nazionale, finalizzata alla resistenza,  formulate dai prigionieri di tutte le fazioni nelle carceri israeliane e articolate nel 2006 dal leader dell’Intifada, arrestato (e forse venduto) nel 2002 e poi condannato all’ergastolo, Marwan Barghuti. Di Barghuti, uomo minuto e rotondetto, ma dagli occhi sorridenti e affilati e dal carisma irresistibile, ho alcuni forti ricordi. Spicca quello di una indimenticabile notte di capodanno che inaugurava il nuovo millennio e che, nell’invocazione delle masse raccolte nella piazza Al Manara di Ramallah e nell’impegno delll’amatissimo Marwan, doveva essere “l’anno dell’indipendenza”. Nei diversi incontri che avemmo, non vi fu mai un accenno di critica o di repulsa nei confronti di un’Intifada che era stata costretta ad optare anche per la lotta armata in risposta, per quanto inadeguata, al terrorismo israeliano dei carri Abrams e degli F16. Ciò potrebbe spiegare la vergognosa assenza di reazioni occidentali alla cattura di Barghuti, protetto anche dall’immunità parlamentare, e che si esplicitò in termini particolarmente deprimenti in una direzione federale del PRC a Roma, nella quale, al mio resoconto di un viaggio in Palestina, il responsabile esteri e poi capogruppo parlamentare del partito, Gennaro Migliore, oppose con foga astiosa un veto categorico: “Intifada fino alla vittoria non sarà MAI una parola d’ordine di Rifondazione!”. Pensare che quello slogan di Marwan stava riecheggiando da anni tra le masse palestinesi e le persone perbene di tutto il mondo. A tal punto si era evoluta la filosofia bertinottiana della “non-violenza”, condivisa dalle Ong in famelica attesa di nuovi banchetti allestiti dagli aggressori. Una non-violenza che si abbatteva come un’anatema sugli inermi, oppressi, esclusi, schiavizzati che osassero alzare la testa, e non faceva parola degli interventi “umanitari” in Somalia, Afghanistan o Libano, domani in Sudan, come auspicato dal microsegretario del PRC, Franco Giordano, purchè “ONU” o addirittura “Nato”, né delle industrie di armi, né delle basi Usa che vaiolizzano il territorio nazionale, né dei trattati di mutuo colonialismo con Israele e Usa.

 

Incontrai Barghuti durante una conferenza congiunta  dei vecchi dirigenti reduci dall’esilio tunisino, capeggiati da Yasser Arafat, già recluso da Israele nel suo palazzo presidenziale a Ramallah, e dei nuovi quadri formatisi, sotto Barghuti, nell’Intifada 1987-1992, quella poi sterilizzata dalla megatruffa degli accordi di Oslo che privavano la Palestina di vera sovranità e viabilità economico-militare e i suoi cinque milioni di profughi del diritto al ritorno. Tornavo da violentissimi scontri all’uscita da Ramallah verso il campus di Bir Zeit, dove qualche decina di ragazzi aveva ingaggiato un reparto israeliano con sassi e fionde per rivendicare la liberazione del loro presidente, la libertà d’accesso a quella università e la fine del blocco attorno alla città. Avevo ancora addosso le macchie di sangue di qualcuno delle decina di “violenti” che erano stati colpiti dalle pallottole di risposta israeliane. Era un Arafat malmesso mentalmente e fisicamente, forse già minato da quel veleno, scoperto dagli analisti di Parigi e confermato dal consigliere di Sharon, Uri Dan. Un veleno, secondo il libro di Dan, “Ariel Sharon, un ritratto intimo”, somministrato per ordine del suo capo e che  avrebbe portato Abu Ammar alla morte (www.uruknet.info?p=29419). Ripeteva, il mitico Abu Ammar degli anni ’70, stereotipi un po’ retorici sulla “terra di tutte le religioni, la terra della pace”, su un Rabin presunto amico e presunto pacifista, sulla disponibilità all’accordo con i migliori (?) degli israeliani. Non accennava al diritto al ritorno, né allo sgombero delle colonie. Osservavo intanto Barghuti che, da un lato, lo osservava come si guarda un genitore un po’ debilitato, mentre al suo entourage di vecchi marpioni, Abu Mazen, Abu Ala, Erekat, riservava sorrisi sarcastici, venati di disprezzo. Chi  voleva, poteva già allora percepire lo iato profondo che si era andato aprendo tra dirigenti palestinesi che speravano di accomodare il proprio potere e i propri beni tra le pieghe di una sistemazione in piccoli feudi all’ombra del dilagante impero sionista, e quei giovani, scaturiti dalla lotta di popolo, che rifiutavano ogni idea di rinuncia ai diritti sanciti dalla legge internazionale e dai diritti umani.

 

Un governo di unità nazionale: anatema in Libano come in Palestina. Chi fa uso di “scudi umani”?

Ogni volta che rallentava lo scontro fratricida tra opposte fazioni palestinesi, Israele tornava a incrementare le proprie incursioni omicide, a Gaza come in una Cisgiordania meno scossa dal conflitto endogeno. Qui, anzi, si riconfermò il volto particolarmente odioso della repressione israeliana. Israele aveva ripetutamente accusato i palestinesi di farsi scudo dei propri bambini, accusa fondata esclusivamente sul fatto che, di propria iniziativa ragazzini palestinesi partecipavano al lancio di pietre, e la stessa accusa era stata lanciata contro gli Hezbollah ogni volta che le incursioni dell’aviazione con la stella di Davide avessero provocato carneficine tra civili. Si manipolava il dato manifesto che Hezbollah combatteva in difesa delle proprie case e delle proprie terre e che, dunque, i combattenti che resistevano all’invasione erano gli stessi abitanti e contadini di quella zona. Ripetutamente, invece, palestinesi e testimoni stranieri avevano denunciato l’uso di donne e bambini come scudi umani  da parte di Tsahal. Ma nemmeno la foto agghiacciante di un ragazzino palestinese, legato sul cofano di un blindato israeliano, aveva scosso dal loro complice torpore i media internazionali. Ci volle, nel marzo 2007, un eccesso di protervia delle truppe israeliane in operazione di rastrellamento a Nablus, per permettere ad alcuni operatori di riprendere queste unità mentre si facevano precedere da ragazzini, donne, in un caso da una bambina di 11 anni, Jihan Daadush, poi intervistata da Al Jazira, nelle  irruzioni  in case di presunti “terroristi”. A scanso di reazioni armate, o di trappole esplosive. Non a caso è di quei giorni di marzo il risultato di un sondaggio condotto dalla BBC in tutto il mondo che rivela come per l’opinione pubblica internazionale lo Stato che “maggiormente mette in pericolo la pace nel mondo” fosse Israele, nientemeno. In un battibaleno tutto il gigantesco sforzo di disinformazione, occultamento e vittimismo con cui i media mondiali avevano accompagnato guerre, repressioni e pulizie etniche israeliane, era andato in fumo. Del comunicato della mia vecchia emittente londinese degli anni ’60, a quel tempo più affidabile, si parlò al meglio come di una “gaffe”.

 

Le spaventose condizioni sul filo tra un brandello di vita e una morte in agguato dai cieli, dal mare (inibito ai pescatori di Gaza la pesca nel mare antistante, 30% del prodotto di quella terra, salvo volersi beccare le salve delle motovedette israeliane), da terra, dai negozi vuoti, dai salari negati dall’ANP se non ai propri fedeli, sono alla fin fine riuscite a minare la secolare unità anticolonialista del popolo palestinese. Vi si aggiunsero le provocazioni armate contro esponenti e militanti Hamas della Guardia Pretoriana di Abu Mazen, paradossalmente pagata, istruita e armata dal massimo alleato del nemico, gli Usa, come documentato dal sionista neocon Elliot Abrams, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che precisò come i miliziani di Fatah venissero addestrati da statunitensi in due campi, a Ramallah e a Gerico.  Dai e dai, queste provocazioni riuscirono a suscitare una risposta. Le milizie armate delle varie fazioni, Al Fatah , con la sua formazione dei “Martiri di Al Aqsa”, da un lato, Hamas, Jihad e Comitati Popolari dall’altro, si affrontarono in tutta la striscia di Gaza e scaricarono altre vittime sulla montagna di morti ammazzati da Israele nel corso dei 7 anni dall’inizio della Seconda Intifada. Gli ultimi mesi del 2006 e i primi dell’anno dopo, videro un susseguirsi di scontri e di tregue, queste ultime a volte imposte direttamente dalla rivolta popolare contro il demenziale scontro fratricida, come nell’occasione del clamoroso intervento delle donne di Gaza che, contro i continui sfracelli di case da parte di Israele, si affollarono sui tetti e davanti alle facciate, facendosi scudi umani in una compattezza eroica che svergognava gli istigatori e protagonisti della “guerra tra poveri”. Chi più povero, chi meno grazie alla subalternità al dominatore: conferma del carattere di lotta di classe, anche nel contesto di una guerra di liberazione.         

 

Una mano a Usa e Israele anche da Al Qaida

La crescente insofferenza della popolazione per un conflitto che deviava dal nemico principale e, in particolare, per l’arrendevolezza dell’ANP verso un Israele che aveva abbandonato qualsiasi disponibilità vera al negoziato, al di là della farsa detta Road Map del “Quartetto Usa, Onu, Ue e Russia” (una cortina fumogena servita solo a occultare le incessanti annessioni israeliane di territorio palestinese e di Gerusalemme), aveva sventato il proposito di Abu Mazen di ricorrere a elezioni anticipate per farla finita con il governo di Hamas uscito da impeccabili elezioni democratiche. A questo punto Abu Mazen si vide costretto a una mossa che pretendeva di dare ascolto alla richiesta popolare per quel governo di unità nazionale che il premier di Hamas, Ismail Haniyeh, aveva ripetutamente proposto a Fatah. Accolse il suggerimento del re saudita, Abdallah II, e incontrò alla Mecca il leader di Hamas, Khaled Mashaal,  per riprendere il discorso del governo di unità nazionale. Si era nel febbraio 2007 e la Segretaria di Stato, Condoleezza Rice, di suo e per urgente input dei dirigenti israeliani, immediatamente si precipitò in zona per esprimere, in sincrono con Olmert, tutte le “perplessità” del suo capo circa questi, evidentemente pericolosi, sviluppi politici palestinesi. Alla vigilia della firma alla Mecca dell’accordo tra Mashaal e Abu Mazen, venne poi l’immancabile provocazione israeliana, destinata, come a suo tempo la passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee, a rinfocolare le tensioni: lavori di scavo a pochi metri dalla spianata, segnale di ulteriori incursioni territoriali fatte passare per archeologiche, con conseguenti scontri tra palestinesi e militari israeliani. Immancabile anche, a questo punto, l’intervento dei collateralisti Al Qaida che, con il sedicente numero due della presunta formazione terroristica, Aiman Al Zawahiri, attaccava con un video Hamas “per aver svenduto la causa palestinese con la disponibilità a un governo di unità nazionale con i traditori”. Il “telefono rosso” tra la Cia di Langley e il misterioso rifugio, presunto nelle caverne afgane, dei generali di Al Qaida aveva funzionato. Ancora una volta – come nel caso delle puntuali uscite di Osama e di Zawahiri ogni volta che Bush si trovasse in difficoltà, al fine di rafforzarne il paradigma della “guerra globale al terrorismo” – il coordinamento tra Washington-Tel Aviv e Al Qaida era perfetto e perseguiva obiettivi identici. Allo stesso modo nel Libano della più grave emergenza umanitaria ed economica di ogni tempo, gli Usa si opponevano con forza al legittimo, perché imposto dalla Costituzione, governo di unità nazionale richiesto dalle opposizioni patriottiche. Evidentemente ogni passo verso l’unità dei soggetti da assoggettare e obliterare è un’intollerabile rovescio rispetto agli obiettivi strategici come stabiliti dall’israeliano Piano Yinon, di cui parlo più avanti.

 

Gli Usa, d’altra parte, dovevano qualcosa agli alleati dell’Arabia Saudita, sunniti, sponsor dell’accordo, di fronte alla minaccia scito-iraniana alla stabilità della penisola arabica, minaccia da loro stessi promossa in Iraq con governi a totale controllo scita filo-iraniano . Dovevano qualcosa anche in cambio del sostegno, anche finanziario, che l’Arabia Saudita forniva ai fantocci degli Usa e di Israele a Beirut, in chiave anti-Hezbollah. Per cui il sabotaggio del progetto di unità palestinese doveva mimetizzarsi nelle rinnovate provocazioni alla guerra civile e nel pretestuoso remar contro dello stesso Abu Mazen. Un Abu Mazen che si vedeva pasteggiare, tra sorrisi e pacche sulle spalle, ai ricchi e cerimoniosi banchetti di Olmert, mentre a Gaza e Nablus soldataglie israeliane irrompevano in case da dove era sparito anche l’ultimo piatto di ceci. Ai primi di marzo riprendono gli scontri tra le due fazioni, innescate stavolta da un’imboscata di Fatah contro Wash Kibha, ministro del governo di Ismail Haniyeh, proprio all’indomani della tregua totale proposta a Israele da Hamas. Intanto Israele e la comunità internazionale continuano ad esigere da Hamas il “riconoscimento di Israele”, che pure risulta implicito nell’accettazione da parte della formazione islamica degli accordi fino allora conclusi, e la inderogabile “rinuncia alla violenza”. Rinuncia dall’esito letale, dato che priverebbe i palestinesi dell’unica leva di pressione su Israele rimastagli. A questa pretesa fornisce il suo contributo anche il re giordano, Abdallah, vassallo degli Usa ancor più del padre Hussein, esigendo dal nuovo governo che aderisca rigorosamente alla politiche di resa disegnate dal Quartetto. Una volta di più la signora della diplomazia Usa ripete la giaculatoria dei palestinesi che “devono fare di più”, proprio in concomitanza con la scalata delle incursioni assassine, della crescita delle colonie, di Gerusalemme Est soffocata da nuovi insediamenti, con la più grande di tutte le colonie, della chiusura del popolo palestinese nel campo di concentramento cinto dall’immondo muro che penetra in profondità in quanto resta della Palestina, e del ribadito rifiuto israeliano di riconoscere e tanto meno accettare uno Stato palestinese sovrano.

 

Un piano per distruggere ogni prospettiva di ritorno all’unità araba

Ai palestinesi si apre un’estenuante prospettiva di orrori e dispersione. Vi si  potranno opporre, oltre all’indomata volontà di resistenza della maggioranza della popolazione, purtroppo ormai priva del decisivo apporto finanziario e politico dell’Iraq di Saddam Hussein, un per ora non prevedibile mutamento radicale dei rapporti di forza mondiali. Mutamento che potrebbe essere determinato dalla crescente forza dei movimenti e governi antimperialisti in America Latina, nonché dei giganti in crescita cinese e russo e, soprattutto, dalla non improbabile destabilizzazione della compattezza neocon  statunitense attraverso la crescente campagna di smascheramento del teorema dell’11 settembre e del “terrorismo islamico”. In questa prospettiva assume una valenza determinante anche la consapevolezza della strategia di sterminio e frantumazione israelo-statunitense come formulata per il governo nel piano del 1982 di Oded Yinon, consulente del ministero degli esteri israeliano, concretizzato nell’invasione del Libano del 1982 e attualizzato da Olmert con la nuova aggressione al Libano e con la nomina del razzista Avigdor Lieberman, epuratore etnico conclamato, a ministro “per le minacce strategiche”. Il documento, intitolato “Una strategia per Israele negli anni ‘80”, che da allora traccia il cammino della politica israeliana e che riprende lo schema colonialista elaborato dall’establishment sionista a metà degli anni ’50 e pubblicizzato da Kivunim, periodico del Dipartimento per l’Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale.

 

Si tratta del testo più esplicito, dettagliato e inconfutabile della strategia israeliana per il Medio Oriente. Vi si afferma che per “sopravvivere” Israele deve, 1), diventare la potenza regionale dominante (il che spiega le spinte israeliane a un confronto con il rivale regionale Iran, solo parzialmente condivise dagli Usa), e, 2),  perseguire la frammentazione e dissoluzione degli Stati arabi esistenti in minuscole e inoffensive entità a carattere confessionale ed etnico. La prima invasione del Libano, nel 1978, tentò di realizzare questo piano nel più minuto dettaglio innescando il sanguinoso conflitto tra drusi, cristiani e musulmani. La seconda invasione, nel 1982, più barbarica ed estesa, aveva di mira, oltre al Libano, la Giordania  e la Siria. Infine, l’aggressione dell’estate 2006, con la Giordania ormai in mano a un re che si prestava a sostenere incondizionatamente le mire israeliane, aveva per obiettivo l’ultimo Stato renitente della regione, la Siria, premessa per la totale depalestinizzazione della Palestina. E’ ovvio che i palestinesi, pur non essendo obiettivo unico dei piani sionisti, sono quello prioritario, dato che la loro presenza in quanto popolo nega implicitamente l’essenza dello Stato sionista. Ma risulta evidente che ogni e ciascuno Stato arabo, soprattutto quelli dotati di coesione e storia nazionali, rafforzati nella lotta di liberazione del secolo scorso, costituiscono un bersaglio da colpire prima o poi. Ne conseguiva l’impellente necessità di far fuori per primo l’Iraq, influente polo e punto di riferimento per le sopravvissute istanze nazionali e panarabe, comprese quelle di progresso sociale e laico. Ci si è lavorato, attraverso due guerre, un embargo e un’occupazione genocida, dal 1991 ad oggi.

 

Di fronte a questa lucida e determinata strategia israelo-statunitense, secondata dall’equivoca “passività”, quando non complicità, europea e, fino all’avvento di Putin, da una Russia ridotta alla mercè di un’oligarchia controllata dagli Stati Uniti, la risposta araba e palestinese soffre di ambiguità e incoerenza. Non ci sono, tranne che in settori palestinesi, indicazioni che gli strateghi arabi abbiano interiorizzato il piano sionista in tutte le sue ramificazioni. Reagiscono, invece, con incredulità e sgomento ogni volta che una nuova fase del piano viene ad attuazione. Si veda a proposito l’ammutolimento arabo di fronte all’assedio israeliano di Beirut. E’ tanto desolante quanto inevitabile constatare che fino a quando la strategia israeliana per il Medio Oriente (ma analoghe operazioni sioniste sono in corso da decenni anche in altri scacchieri ambiti dall’imperialismo, come l’America Latina, l’Asia e l’Africa) non verrà riconosciuta in pieno e presa sul serio dagli arabi, più dalle masse che dagli attuali regimi vassalli, dato che pur sempre di lotta di classe, nazionale e internazionale, si tratta, ogni futura reazione all’aggressività israeliana ripercorrerà i sentieri del disfattismo del mezzo secolo trascorso. Resta da constatare, a rischio di sentire ripetere le forsennate accuse di antisemitismo seguite alla denuncia dei paralleli tra oppressione nazista e oppressione in Palestina formulate dall’Ucoii (l’associazione islamica in Italia),  come il piano di Oded Yinon, riconfermato recentemente da Ze’ev Schiff, corrispondente militare del giornale Ha’aretz, con la proposta di dividere l’Iraq in staterelli scita, sunnita e curdo, ripercorra quello della Germania di Hitler nei confronti dell’ Europa Orientale. Nel periodo 1939-1941, quegli Stati furono frantumati in entità minori, anche con il concorso dell’Italia mussoliniana che diede il suo contributo alla spartizione della Jugoslavia con  la creazione di uno statarello fascista chiamato “Grande Albania”, precursore di quello poi perseguito dall’alleanza occidentale attraverso le guerre balcaniche degli anni ’90. A prevalere sulla strategia dello sminuzzamento colonialista degli Stati fu allora solo un’alleanza su scala globale, sotto il vessillo della guerra al nazifascismo, ma nei termini effettivi di un conflitto interimperialista. Alleanza globale che oggi si colloca sul lato opposto, riuscendo a trascinarsi dietro la gran parte di un movimento di salvaguardia della pace, della libertà e della giustizia, partiti “comunisti” italiani in testa. Il che ci dice molto sul cammino che abbiamo compiuto dal 25 aprile ad oggi.

 

Due Stati per due popoli, conferma di una “purezza etnico-confessionale condivisa da destra a sinistra

Il progetto coltivato ostinatamente per gran parte delle fasi della spartizione, occupazione, pulizia etnica, dalle forze più avanzate della società palestinese e araba, lo Stato unico, laico e plurinazionale, è stato efficacemente contrastato, non tanto dall’emergere di un’opzione islamica, determinata dal fallimento e dalla decimazione delle dirigenze laiche, quanto da un ben orchestrato concorso di opinioni internazionali, dalla destra alla cosiddetta “estrema sinistra”. Prodi, obbedendo all’ordine di Olmert di proclamare il carattere ebraico dello Stato sionista, vi ha apposto il suggello italiano, meglio di quanto Berlusconi non si sia mai sognato di fare. Ovviamente con piena soddisfazione delle destre postfasciste e fascistizzanti che, con Fini ultrà sionista per eccellenza, individuano correttamente in Israele il modello di organizzazione statale annidato nella propria Weltanschaung e nei propri propositi revanscisti, alla faccia delle ricorrenti rivelazioni sulla natura corrotta della dirigenza israeliana, quasi interamente finita sotto inchiesta per delitti di natura sessuale, finanziaria, economica e contro l’integrità personale. Segno di quanta impunità induca anche a livello individuale l’impunità politica e statale offerta dalla “comunità internazionale”

 

La speranza più concreta di pace e giustizia in Medio Oriente, tuttavia, resta affidata, a una Resistenza palestinese e araba che sappia sfuggire alla morsa di governanti collaborazionisti e provocare, d’intesa con forti iniziative del movimento antimperialista mondiale, come nei primi anni della seconda Intifada, il dissesto economico e sociale della società israeliana. Fu negli anni ’70 e ’80

Che milioni di persone acclamavano Yasser Arafat, all’Onu e a Venezia, con in una mano il fucile e nell’altra il ramoscello d’ulivo. Fu una generazione di giovani che percorse le strade del mondo al grido di “fe-fe-fedayin!”  Fu alla fine di un’Intifada vittoriosa, quella dal 1987 al 1992, che Israele si vide costretta ad accettare i negoziati di Madrid e di Oslo, per quanto infingardi. Fu, poi, nel 2002

che Israele, sotto i colpi della Resistenza, conobbe una crisi vicina alla quasi bancarotta del 1952: gli investimenti stranieri erano svaporati, il flusso di emigranti, vitale per contenere l’avanzata demografica araba, si era inaridito, i capitali già affluiti in gran numero si erano bloccati, rivolte, blocchi stradali, scioperi, davano il segno di un disagio di massa determinato dall’aumento delle spese militari e dal taglio di quelle sociali, le condizioni miserrime dell’immigrazione straniera, che aveva sostituito la bandita manodopera palestinese, provocavano turbolenze e insubordinazioni. Israele fu costretto ad invitare centinaia di migliaia di immigrati russi, moltissimi dei quali non ottemperavano neppure al dettame teologico-legale dell’integrità etnico-confessionale. Fu solo a quel punto che Israele si acconciò a tornare a parlare di negoziati, per quanto sempre con il suo retropensiero fisso della soluzione finale per i palestinesi. E fu la Camp David di Barak e Arafat. Vennero altre manovre diversive e di apparente disponibilità, come il celebrato ritiro da Gaza, applaudite da un sistema politico-mediatico o inconsapevole, o succube. Fu durante quella crisi che nella popolazione israeliana ebraica si manifestarono più evidenti e robusti i segni di dissenso verso l’intransigenza razzista del governo. E ripresero coraggio, allora, le voci che, respingendo la scelta, fondata su identità confessionali dichiarate inconciliabili, dei due Stati per due popoli, individuavano come unica soluzione realistica, oltreche democratica e antirazzista, quella dello Stato unitario plurinazionale e pluriconfessionale. Voci poi nuovamente zittite nell’euforia sciovinista e militarista della guerra al Libano. Ci vorrà una presa di coscienza molto più diffusa, soprattutto tra le giovani generazioni, sull’inderogabile necessità di convivenza dei due popoli in un territorio così limitato e sul rispetto delle entità regionali esistenti, perché a Israele non sia riservato un futuro di inesorabile fascistizzazione e di perpetuo e sanguinoso conflitto con il mondo circostante. E occorrerà anche che un’opinione di sinistra, meno subalterna di quella che riconosceva in Sharon “l’uomo di pace”, che si dichiara “equidistante”, che favoleggia di opposti estremismi messi sullo stesso piano, che offusca la differenza tra torto e ragione, tra vittima e carnefice, riprenda il sopravvento e costituisca una sponda per quanto ancora di buono e giusto sopravvive nella società israeliana ed ebraica mondiale.

 

 

 

P.S.

Nuove mete per il turismo in Israele

Una società che dovrebbe denunciare e respingere a furor di popolo quel gruppo di avvocati e militanti sionisti israeliani che hanno costituito recentemente “Il centro legale israeliano” (Shurat HaDin) e che offrono al turismo israeliano nuove attrattive, assai significative del clima che si respira in Israele dopo la disfatta in Libano e la rivincita esercitata sui palestinesi.

Qualche esempio del pacchetto tutto incluso offerto da Shurat HaDin, senza che nessuna autorità israeliana abbia avuto alcunché da rilevare:

Vivi otto giorni intensi nell’esplorare la lotta di Israele per la sua sopravvivenza -

Briefing tenuto da agenti del Mossad e da comandanti dello Shin Bet - Visita approfondita alle unità dell’Israeli Air Force che compiono gli assassinii mirati - Dimostrazione dal vivo di incursioni di penetrazione nel territorio arabo - Assisti a un processo a terroristi di Hamas nei tribunali militari,,,

Poi, ovviamente, ottimi alberghi, pranzi sociali, crociere al chiaro di luna in Galilea, gite in pullman al fronte libanese. Tutto incluso 1.895 dollari. Neanche tanto per lo spettacolo di un genocidio dal vivo.

 

 

info@siporcuba.it

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