Bella Italia, amate sponde…
FENOMENOLOGIA
ITALIANA
Pensierini
escatologici
nel paese di
Arlecchino
26/03/2007
Come ti neutralizzo il pupo
Le quattro ruote dell’italico carro – o,
a essere tonitruanti, i nostri quattro cavalieri dell’Apocalisse –
sono la nonviolenza (separata, col trattino, senza, a seconda di come
gli gira ), l’antisemitismo, il terrorismo più o meno islamico (ma
vale anche per gente come i No-Tav) e il Vaticano. La carrozza della
nostra società neo-protoindustriale (siamo tornati ai tempi di Dickens)
e neofeudale (vedi la classe politica e le sue neoplasie sociali)
cammina su questi volani. Con le spade dei cavalieri giovannei il
carro, mozzando teste a giro, si apre la strada. Nonviolenza, cambiale
firmata da Fausto Bertinotti ai padroni in un revisionista convegno
veneziano del 2005. Quello in cui violantescamente raccomandava di non
“angelizzare” partigiani e Resistenza. Giampaolo Pansa, che intanto
faceva la sua parte dissotterrando dal verminaio della propria
particolarissima memoria eccidi di inermi fascisti, tosto invitò
l’allora segretario del Partito della Rifondazione Comunista a una
serata celebrativa, all’altezza delle frequentazioni della vipperia
nazionale appassionatamente praticate dall’allora segretario
rifondarolo.
Il passpartout della nonviolenza
Nonviolenza che, all’indomani di Genova
G8, cercò di annacquare, minchionare e disarmare un’intera generazione
e, soprattutto, rinchiuse nella gabbia dei reietti quanti nel mondo,
dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Palestina al Libano, non si
accontentavano di rispondere con una sorridente offerta di dialogo e
un po’ di autocoscienza a chi si stava dando da fare per sradicarli
dal mondo. In compenso rassicurò grandemente coloro che, atlantici e
confindustriali, massoni e mafiosi, cardinali e generali, dalla
collera delle masse avevano subito, nel corso della storia, parecchi
rovesci. Nonviolenza subito presa in sposa dall’eroe italico
Arlecchino, in modo da poterla offrire in pegno, inghirlandata da
gigli e santini, vuoi all’uno, vuoi all’altro dei suoi padroni e
poterne ricevere in cambio licenza di derubare chi capitasse di essere
più farlocco di lui.
I fratelli gemelli antisemitismo e
terrorismo
Se la nonviolenza serve al ciclista per
piegare occhi, testa e schiena rispetto a chi sta sopra, antisemitismo
e terrorismo, felicemente fusi, rappresentano i due pedali che gli
permettono di pestare verso il basso. Essendo, come il mio bassotto
Nando insegna, la contesa escatologica perennemente quella tra
bassotti e altotti, ecco che antisemitismo e terrorismo fanno in modo
che le due categorie mantengano le rispettive posizioni, una in alto,
l’altra in basso. Il risultato si raggiunge, sia che il terrorismo lo
facciano, come succede di norma, sia che lo facciano fare. Nel primo
caso abbiamo quella manifesta di Stato, detta di “intervento
umanitario”, “autodifesa”, “esportazione della democrazia”, vedi la
settantina di guerre, invasioni, golpe mossi dagli Usa dal 1945 a
oggi. L’altra è mimetizzata, a volte si chiama “operazioni speciali”,
a volte “Al Qaida”, “brigatista”, “anarcoinsurrezionalista”. E
pensiamo a Piazza Fontana, o alle Torri Gemelle, e a tutto quello che
se ne è tratto in termini di salvaguardia dei diritti umani, sovranità
dei popoli, dilatazione della democrazia, solidarietà, impetuoso
miglioramento delle condizioni dei lavoratori, libertà, pace, vita,
dall’ultraliberale Patriot Act
a Guantanamo, dalla cancellazione di nazioni ai
provvedimenti Reale, Sciaiola, Pisanu, Amato. Quest’ultimo, ormai
primo della classe nel reperire brigatisti tra i sindacalisti, stelle
a cinque punte sui portoni dei notabili, terroristi tra chi affigge
manifesti antiguerra, specie alla vigilia di manifestazioni dello
stesso segno, motivi validi per picchiare chi si oppone a sventramenti
del territorio, o a fetide discariche nei parchi nazionali, suggerire
antidoping ai piccoli tossicodipendenti che prendono otto a scuola
(forse dovrebbe far fare esami anticrimine a coloro che usano bambini
lobotomizzati nella pubblicità per merendine tossiche e criminogeni
videogiochi), irrompere nelle case dove sessi solitari si consolano
con contorsioniste da divano. Già lo vediamo gonfiarsi di
soddisfazione all’idea di introdurre lo statunitense
Security Alert Tracking System,
il biochip fissato sul lavoratore, che permette di
scoprirne le cadute produttive, arma antilavoratore totale. Del resto,
il nostro Ministero della Sanità (si fa per dire) non ha recentemente
riammesso il Ritalin,
farmaco per ridurre alla ragione, all’obbedienza e all’eccellenza,
potenziali delinquenti di dodici anni? Nonostante tutte queste
provvidenze democratiche, come può ancora esserci chi osa parlare del
nostro establishment, vedi l’incontinente Marco Travaglio, come di un
verminaio di mafiosi, massoni, chierici e gendarmi, tutti dediti al
malaffare?
L’antisemitismo, invece, è una trovata
davvero eccentrica, degna di Pangloss, il paradosso bipede di
Voltaire. Mirato a tagliare ogni genere di attributi – dal pensiero
alla lingua ad altro - al critico di una potenza mondiale, di cui non
si sa mai se sia la prima o la seconda, è praticato al massimo della
perfezione da coloro che se ne dicono vittime. Ne consegue un salto
logico del tutto paralizzante, in cui il vero diventa il falso e
viceversa. Pensate a cosa hanno subito, in termini di morte,
devastazione, impoverimento, popoli come il palestinese, l’egiziano,
il siriano, l’iracheno, l’algerino. Poi pensate che gli arabi sono
almeno 200 milioni. Infine pensate che tutti questi sono semiti e che
sono stati fatti fuori nel nome della difesa dall’antisemitismo.
Mentre tra coloro che, da vox
populi, notabilato e fanfare, sono identificati come
vittime istituzionali dell’antisemitismo, i semiti sono davvero
pochini (vedi Arthur Koestler, storico e marxista, nel suo “La
tredicesima tribù”).La legge delle proporzioni, almeno
quella, avrebbe dovuto dirci qualcosa.
Elite clericale ed èlite sociale, uniti
nella lotta (di classe)
Quanto al Vaticano, è quella quarta
ruota (ma in retromarcia è la prima) che, svirgolando tra un prete
operaio e mille Torquemada, tra un piccolo Padre Boff e un
grosser Ratzinger, tra
un’invocazione di pace e la nomina a capo dei vescovi di un generale,
monsignor Angelo Bagnasco, già benedicente i nostri “interventisti
umanitari” in qualità di ordinario militare, tra un pianto sulla fame
nel mondo e un’incitazione a bastonare serbi e musulmani, tra una
battaglia campale per tre grammi di pre-vita e il bombardamento di chi
non si sposa in chiesa, tra un’implorazione per l’8 per mille e la
vestizione da un milione di euro del papa da parata, garantisce che
l’occhio del cocchiere sia in prevalenza girato a destra. Tanto da
garantire, pur tra svoltine e soprassalti, che non si prenda mai la
carrozzabile opposta. Il collaudatissimo strumento per ottenere questa
unidirezionalità, rigorosamente antirelativistica, confezionato a
quattro mani da Mosè e Paolo di Tarso, è, come ci ricorda la
stimolante giarrettiera a cilicio di Paola Binetti (parlamentare
margheritata abitante, come la penna nel cappello dell’alpino,
nell’orlo della tiara papale), il senso di colpa, la vera leva per
sollevare il mondo, anzi per abbatterlo. E, intanto, per far volare
alti i padroni.
Dal che si comprende il perfetto
accoppiamento di fatto tra dichiarazioni d’intenti della Chiesa
(quelle dell’Angelus) e
della politica (quelle del Programma) e, coerentemente, tra le
rispettive attuazioni. Eccola lì, bianca, corposa e luminosa, che
veleggia spedita sospinta dalle nostre attese, la nuvola del programma
dell’Unione, vincitrice nel 2006. Ed ecco la rinfrescante gelata che
ne è precipitata: “riduzione del costo della politica” – 102 ministri,
viceministri e notabili vari a 13.000 euro mensili, arrivando al
doppio con prebende, benefici e congrue; “occhio e orecchio al parere
delle popolazioni coinvolte” – infeudamenti regionali e municipali a
valvassori, valvassini, clienti, e diktat “la TAV si fa, il MOSE si fa
e mosca; “riduzione del divario tra ricchi e poveri” – da 750.000 in
su ai manager pubblici (compreso Cimoli, demolitore di FS e Alitalia),
agganciati a quella scala mobile che il coltivatore di nani e
ballerini rubò agli operai, per cui la scala mobile tolta a chi prende
1000 euro al mese è stata regalata ai Cimoli e similcimoli; per non
parlare delle robinhoodate all’incontrario del taglio dei salari e
aumento degli orari, del regalo ai plutocrati del cuneo fiscale e del
TFR, del taglio delle pensioni e della moltiplicazioni degli scalini
d’uscita (tanto viviamo più a lungo, anche se molto peggio e la
statistica è quella del mezzo pollo per tutti, dato che operai e altri
maltrattati vivono di meno, mentre Pietro Ingrao, Lidia Menaguerra,
Andreotti, gli Agnelli e affini vivono di più e Berlusconi lifta
pappagorgia e anni); “lotta al precariato” (ma viva la flessibilità:
bell’ossimoro) mentre non c’è più, al sole del centrodestrasinistra,
un giovane fuori dal giro di Lapo Elkan che abbia garanzia di
occupazione e quindi di futuro. E il papa fa sacrifici umani al
matrimonio e scaglia il pastorale contro il calo demografico… Infine,
è in arrivo la “flessibilità in uscita”, cioè, inserito nel
martirologio operaio l’articolo 18, la cacciata senza spiegazioni a
calci in culo. Quella che, a suo tempo, mi riservarono i compagni
anticipatori, Bertinotti, Curzi e Gagliardi di “Liberazione”, perché
esprimevo dubbi sulle satanizzazioni sparate da Bush e Rossanda.
Anticipatori davvero, se si pensa con quanta linearità dorotea, sotto
astute pailettes rossotinte, il cachmirato monarca del PRC abbia,
sollevando man mano l’asticella, scalato le pendici per lasciarsi
dietro uno zoccolo duro comunista e arrivare al terzo poltronone della
Repubblica. Meglio di lui ha fatto solo Napolitano. Al confronto,
Achille Occhetto fa la figura dell’apprendista: far tutto in una notte
perdendo nel contempo le truppe migliori! Ovviamente B e O si sono
ricongiunti. E non solo di fatto. Avremo il nuovo “Partito alla
sinistra del Partito Democratico”. Franco Giordano, epigonale custode
di falce e martello, dixit
Tutto questo, come il grande
privatizzatore Giuliano Amato, dunque valido ministro di polizia,
insegna, non deve riempirci di voglia di spaccare la faccia a
qualcuno, ma di sensi di inadeguatezza, da perdenti, da incapaci di
“competere nella gara della vita”. La bertinottiana “nonviolenza”
concorre. Ordigni nucleari di sensi di colpa che, a confronto, quelli
messi dalla Cia nei sotterranei delle Torri Gemelle sono petardi.
Frullate il senso di colpa del bambino, del sesso, dello scolaro, del
malato, della coppia, del moribondo, tutti terreni a coltivazione
monopolistica evangelica, con il barbuto col turbante in agguato
dietro l’angolo e ai confini e con la telecamera che vi spia anche
quando vi fate una pippa, e avrete il prodotto con cui si governa e
succhia il mondo: la paura. E qual è la figlia primogenita della
paura? L’annullamento del libero arbitrio, dell’azione e, dunque, la
sottomissione, escatologia borghese dell’umanità. E, in particolare,
dell’homo italicus,
visto che, con il papa in casa da duemila anni, l’Italia è di questo
processo uno dei laboratori più attrezzati.
Il combinato dei quattro elementi su cui
ci siamo dilungati ha saputo secernere il frutto migliore negli anni
che ci è stato dato in sorte di attraversare. Ha figliato un paradigma
ormai familiare quanto i tic di D’Alema: la guerra preventiva,
permanente, globale. Mica solo fuori casa, anche dentro. Con il
fiancheggiamento degli ausiliari mediatici. Dai “barbari” agli
“infedeli”, dai “selvaggi pagani” ai “terroristi islamici”, che
meraviglia di ontologica continuità! E noialtri restiamo sbigottiti
davanti al continuismo Berlusconi-Prodi! Le classi sono sempre quelle.
E pure la geografia è la stessa Forse è per questo che un ministro di
centrosinistra, dal compromissorio nome Berlinguer, ha voluto
estirparla dalle materie scolastiche…
EPISTEMOLOGIA DELL’INFORMAZIONE, TRA ARDITI INCURSORI E PRESIDII DELLE
RETROVIE
Il
New York Times “Standard
Aureo”?
Un mio valido ex-collega al Tg3,
Maurizio Torrealta, poi con Sigfrido Ranucci coraggioso disvelatore
dei delitti chimico-elettronici statunitensi e israeliani a Falluja,
Abu Ghraib, Gaza e Libano Sud, in un incontro di presentazione del
loro agghiacciante documentario, ebbe a dire “Il
New York Times è il
golden standard del
giornalismo”, attribuendo al giornale Usa la palma della credibilità.
Segno di quanto possa, anche tra i migliori, lo stereotipo
dell’eccellenza della stampa anglosassone. Se non sapete l’inglese, vi
basterebbe scorrere le pagine in italiano che “La Repubblica” di quel
giornale riproduce il lunedì. Tra vascelli di copertura a varia
coloritura e umanità, ecco spuntare le corazzate dell’intossicazione
politica: dal martellamento su una Libia “derelitta e autocratica” (si
vedano al paragone le condizioni degli amiconi Egitto o Tunisia), a
una Palestina “in preda a disperati e feroci kamikaze senza speranza e
futuro”, da una ridicolizzazione della kefiah, lo scialle arabo che da
anni contrassegna i manifestanti antimperialisti, come
parure pop o copricapo
terrorista, alla demolizione di Michael Moore, il disvelatore delle
infamie neocon, come autore del genere “poveri e affranti”. Prendere
come esempio di giornalismo corretto quello anglosassone è come fare
del Sillabo di Pio IX
una costituzione democratica. Io, che ci ho vissuto in mezzo per anni,
sono ancora atterrito da quella disinformazione truffaldina,
scientificamente superficiale, occultamente propagandistica, attinta
da fonti sistematicamente non individuate, allineata e coperte con
l’esistente, spesso trasmessa da inviati obnubilati dall’alcol e dal
buonsenso che secernono le loro testate, i loro lettori e i loro hotel
di lusso. Con le debite eccezioni. Poche e quasi tutte in internet.
Qui non interessano i fumogeni e i gas
tossici che diffondono organi variamente padronali, filoisraeliani,
atlantici e con l’elmetto calcato sugli occhi, come “la Repubblica” di
De Benedetti, “Il Corriere della Sera” dell’ex-potop Paolo Mieli, “La
Stampa”, il TG5 dell’ex-lottacontinua Toni Capuozzo, la staraciana
radio Rai di Aldo Forbice, “Otto e mezzo” dell’ex-figiciotto Giuliano
Ferrara (almeno lui confesso agente Cia) e dell’islamofobo Carlo
Panella, “Porta a porta” del Maestro di Casa Bruno Vespa. Qui le cose
sono chiare. Si tratta delle voci che simboleggia il profetico
cagnetto bianco nelle etichette sul vinile. Rispetto a un’informazione
che non si identifica con i poteri esistenti, stanno dall’altra parte
e hanno le armi pesanti.
Ci riguardano più da vicino mezzi
d’informazione che si dichiarano dalla parte di chi non sta al timone
e non controlla il motore. Di chi dalle corazzate di cui sopra viene
cannoneggiato e spesso affondato. Del quotidiano del PRC “Liberazione”
non mette più neanche conto parlare, da quando il suo editore di
riferimento ne ha fatto vela alla carretta da
America’s Cup “Prodi-D’Alema-Rutelli-Montezemolo”,
per le spedizioni in Afghanistan e Libano e per le incursioni nei
salotti dorati della nostalgia protocapitalista alla
Oliver Twist, scaltramente
accompagnate dall’ossessiva ripetizione del karma “innovazione”. Tra i
chiodi che hanno chiuso la bara di quella speranza, ricordo
l’incredibile “ nostri ragazzi” del direttore Sansonetti, diretto non
solo ai professionisti di Nassiriya che sparavano sulle ambulanze, ma
addirittura ai quattro mercenari assoldati dagli strateghi
dell’uccisione dell’Iraq. Oppure gli in interrotti panegirici di Rina
Gagliardi, felicemente deputata, a far da toppe a un governo bellico,
antipopolare e antioperaio. Oppure quella gentildonna della
nonviolenza, Lidia Menapace che, da sotto al frontespizio “quotidiano
comunista”, rovescia volgarissime ingiurie su Piero Bernocchi, Cobas,
per aver lui smascherato un pacifismo militarista che si mimetizza da
“riduzione del danno”. Preoccupa, invece, la navigazione ondivaga del
“manifesto”, un giornale al quale coloro che insistono nella ricerca
di pozzi d’acqua, manco fossero nel Darfur, hanno affidato da quasi 40
anni rappresentanza e fiducia. Negli ultimi tempi alte si sono levate
le geremiadi del “manifesto” per le precarie condizioni di
sopravvivenza e forti sono state le invocazioni al soccorso dei
lettori. Lettori in calo. Ma i manifestanti contro l’ignominia
guerrafondaia e lo scempio ambientale e sociale della nuova base
d’attacco Usa a Vicenza erano 150mila. Il corteo del 17 marzo a Roma,
per il ritiro di tutti i nostri militari e delle basi, contava 30mila
decisissimi partecipanti, ambasciatori di buona parte di quel 60% di
italiani che non vogliono stare né in Afghanistan, né in Libano, né
avere tra i piedi i missili nucleari Usa e neanche un marine in
discoteca. Non c’era quella che qualche furbo o vanaglorioso definì
“la seconda potenza mondiale”, si era ritirata la coalizione dei
cosiddetti “pacifinti”: Arci, Cgil, Liliput, Beati Costruttori di
pace, Tavola della Pace, Acli, PRC, PdCI, correntone, Attac, Ong di
ogni genere… Ma pochi tra costoro sono affezionati al “manifesto”.
Amano piuttosto “la riduzione del danno”, l’intervento di pace e di
ricostruzione e i caschi blù. Semmai leggono “La Repubblica” o
“L’Unità”, giornali della meno educata delle due destre. Tra quelli di
Vicenza, invece, ce ne dovrebbero essere parecchi e tra quelli di Roma
proprio tutti. In mancanza di meglio? A volte si sente dire così. Ma
se i partecipanti alle manifestazioni nazionali a Vicenza e Roma erano
così tanti, certamente assai di più dei lettori del “manifesto”,
perché quel giornale perde lettori e va in crisi ogni qualvolta non si
rapisca un suo redattore, o scoppia una catastrofe planetaria? Perché,
come lamenta reiteratamente Valentino Parlato, si tratta di
cooperativa, manca un munifico e coinvolto padrone, ce l’hanno tutti
con loro, il clima generale è da ritirata dalla Russia?
Non sarà un sondaggio scientifico – e lo
si potrebbe anche fare – ma dalle voci che arrivano da un ambiente
nazionale che frequento da un capo all’altro della penisola e di cui
incontro nutrite rappresentanze in convegni e presentazioni, “il
manifesto” perde via via quella componente dei suoi lettori che ha
sempre fatto fatica a sorbirsi i famosi buffet liberal-chic del
“quotidiano comunista”, ai quali ora pare riservata un’incontrastata
egemonia. Perde quei lettori che sono riusciti a scrostarsi di dosso
l’incapsolatura dei luoghi comuni e degli stereotipi del famigerato
“senso comune”, professionalmente coltivate dalle centrali della
disinformazione colonialista e padronale, ma che “il manifesto” spesso
non sembra voler mettere in discussione. E infine quei lettori che
hanno saltato il fosso dal sinistrissimo paternalismo colonialista ed
eurocentrismo, parenti stretti della nonviolenza bertinottiana, al
riconoscimento che la catarsi, ormai da un secolo, nasce e viene
portata avanti nel mondo altro, quello non cristiano, nelle versioni
protestante e cattolica, quello non occidentale. Come insegna lo
strumentalmente accantonato Frantz Fanon dei “Dannati della Terra”.
Se lo rilegga Giuliana Sgrena, inviata del “manifesto” nel mondo
musulmano, quando scrive di Algeria. Pecchiamo di obsoleto e patetico
terzomondismo? Pecchiamo.
Maestri del pensiero?
Cito solo alcune clamorose e
politicamente decisive “cadute”. Rossana Rossanda, riconosciuta
maestra del pensiero critico, se non antagonista, che, con una
spocchia non eccezionale tra gli augusti intelletti del giornale,
piomba su una lotta emblematica come quella contro la catastrofica e
demenziale opera “Mose”, accertata devastatrice di Venezia e della
laguna, avallando un’impresa dai più evidenti e clientelari interessi
speculativi, denunciati dai migliori esperti e da masse di cittadini
onesti. Ancora la Rossanda che, di fronte al 60% degli italiani
contrari alla conquista dell’Afghanistan, traditi dal 99,9% dei
parlamentari che votano a suo favore, non trova di meglio che
inzeppare un paginone per sgridare e sbertucciare “le anime belle” dei
senatori Nando Rossi e Franco Turigliatto. Persone che hanno sfidato
aggressioni verbali, bastonature ed espulsioni staliniane, pur di non
rinnegare ciò per cui si sono impegnati davanti ai loro elettori e
alla propria non italiota coscienza. Di fronte a civili, seppure
severe critiche ai giri di valzer di questo monumento della Sinistra,
avreste dovuto sentire la bufera di risentimenti e sdegno contro chi
aveva osato “maltrattarla”. E, a seguire, Giuliana Sgrena, non scevra
da accenti islamofobici e avalli alle mistificazioni sul “terrorismo
islamico”, che riesce, riferendo dall’Afghanistan, bombardato,
massacrato, derubato, corrotto, dalle forze di occupazioni, a sentire
esclusivamente voci di signore e signori che auspicano la permanenza
di tali forze, quanto meno per “garantire la sicurezza”. Quando ogni
giorno, un popolo intero manifesta la sua sacrosanta repulsa
dell’invasione e manomissione straniera. E al “manifesto”, giustamente
preoccupato per la condizione delle donne in Afghanistan, sfugge anche
ogni occasione per recuperare dagli archivi di una storia pur recente
un dato non del tutto insignificante: dai 15 ai trent’anni fa, quel
paese era governato da forze progressiste, partiti comunisti, e le
donne vi godevano di diritti non distanti dai nostri, per quanto
miseri questi siano, facevano i magistrati, i ministri e i medici e la
ragazze andavano tutte a scuola. Senza burka. Questo, prima che gli
Usa aizzassero fanatici islamisti, da loro indottrinati e armati, per
buttare all’aria tutto e riportare il paese a una condizione che
avrebbe loro permesso di farne carne di porco.
“Il manifesto”, “quotidiano comunista”?
Non è tanto quella esuberante metà del
giornale che, con pagine culturali, a volte raffinate e appassionanti,
spesso astruse e cervellotiche (più Foucault e meno fesserie
destrutturaliste alla Baudrillard, per favore), ti ammaestra il pupo
facendolo sentire irrimediabilmente scemo ed escluso, quanto i vuoti
di dubbio circa le mine antiuomo della propaganda imperialista. Vuoti
che, volenti o nolenti, contribuiscono all’effetto letale di quegli
ordigni. Un esempio che grida vendetta: tutto il pianeta ruota intorno
all’11 settembre, la vicenda che ha introdotto, fornendogli un alibi
cosmico, quella che potrebbe essere la fine dell’umanità e, intanto, è
la fine di popoli e della libertà di tutti. Di fronte alle voragini
urlanti della teorizzazione ufficiale su quel fatto epocale, dal
governo Usa rigidamente blindata (e su quelli analoghi, successivi, a
rinforzo), di fronte all’occultamento di testimonianze vitali e
dirette, di fronte a incongruenze clamorose, come il blocco per due
ore e mezza di una reazione da parte dell’aeronautica che pure ogni
giorno eseguiva esercitazioni simulate finalizzate all’evento, o il
presidente che non viene messo in sicurezza e continua a farfugliare
le sue fesserie in una scuola elementare, di fronte a questo e a mille
altre assurdità e balle, nel mondo e, soprattutto, negli Usa è
cresciuto un poderoso e autorevole “movimento per la verità
sull’11/9”.
11
settembre? Tranquilli, tutto apposto.
Cosa fa “il manifesto” nella contingenza
per cui, su un evento su cui viaggia un mondo in preda all’Aids
bellico e che deciderà del futuro di tutti noi e dei nostri figli, si
scontrano due versioni diametralmente opposte, da ciascuna delle quali
discendono conseguenze di portata globale sulla pace, sulla vita,
sulla giustizia, non meno di quanto provocato dalle Termopoli,
dall’Editto di Costantino, dal meteorite che cancellò i dinosauri?
Riempie una pomposa e spocchiosa pagina delle scribacchiature
assolutorie di un corifeo della verità di Bush e Cheney, note fatine
dai capelli azzurri, che relega i contestatori nel girone dei
dietrologi complottisti, psicopatici e paranoici. Non l’ombra di un
dubbio, con tanti saluti a chi negli Usa viene ostracizzato e
perseguitato per documentare una verità alternativa. Gli amorazzi a
suo tempo intrattenuti dal “manifesto” con cavalieri azzurri della
tempra di John Kerry, candidato democratico, Cofferati, D’Alema e
Bertinotti, sono al confronto birichinate infantili. O senili. Come lo
è l’altra prodezza di un “quotidiano comunista”, quando celebra la
ricorrenza dell’uccisione di John Lennon come la “morte degli anni
‘60”, del resto “preannunciata dalla parabola discendente dei Beatles
fin dal 1968”. Che il migliore del quartetto avesse poi intrapreso una
strada di politicizzazione e di radicalità antisistema, che fosse
stato un portabandiera dell’irritantissima campagna contro la guerra
in Vietnam, icona per milioni, che di solito gli assassini “matti” di
antagonisti hanno qualche contatto con l’FBI e cosche analoghe, questo
all’esegeta Tommaso Pincio è sfuggito. Peccato per una giornale
“altro”. Chiudo questo paragrafo rilevando un’altra posizione di
deludent, per me, e ad altri graditissimo allineamento con la
diffamazione scientifica degli avversari dell’Occidente. Astrid Dakli,
albanese, giornalista occhiuto, all’indomani della devastazione
bombarola Nato e delle stragi di serbi fate dall’UCK, girò il Kosovo
senza notare neanche una briciola delle macerie di un centinaio di
monasteri medievali distrutti e neanche una goccia del mare di sangue
rom, serbo e albanese- non-UCK versato. L’uomo ha per costante un
antislavismo e una russofobia imperfettibili. Spesso questa fobia
nasconde un inconfessato anticomunismo. Ma restiamo alla russofobia
come, per esempio, esplode in analisi sulla Cecenia che paiono usciti
dalla penna di Marco Pannella, dove si parla di orrori russi e non ci
si ricorda di quale posta per l’Occidente, e quindi per la Cia e
simili, rappresenti quel boccone per il quale passano verso l’Europa
quasi tutti gli oleodotti dal Caspio. Ma avreste dovuto vedere i due
paginoni da Dakli curate nell’occasione della visita di Vladimir Putin
a Roma. Un florilegio di contumelie, critiche distruttrici, vituperi,
che al povero presidente russo non lasciava integro neanche un
capello. Condoleezza Rice all’indomani della sfuriata di Putin, a
Monaco, contro l’unilateralismo aggressivo degli Usa, che tra l’altro
stavano piazzando missili atomici tra i nuovi satelliti al confine con
la Russia, rispetto al Dakli furioso era sembrata un rispettoso
critico letterario. Era poco professionale inquadrare quell’obbrobrio
di Putin in una situazione che aveva visto l’Unione Sovietica cadere a
pezzi, la successiva Russia divorata da mafiosi e oligarchi appesi ai
fili del burattinaio occidentale, lo sfascio di tutto, il rischio
della scomparsa dalla storia? Era superfluo ricordare che, dopo la
sbornia eltsiniana, che aveva disintegrato il paese, quest’ometto del
famigerato KGB aveva rimesso in piedi il paese, sbaragliato i vampiri,
riconsegnato allo Stato i beni e gli strumenti della sopravvivenza e
del progresso, riconquistato un ruolo, per ora benefico perché
riequilibrante, sullo scenario internazionale, rimediato alla peggiore
povertà? Si, ma emargina i partiti minori, punta al controllo dei
media, forse ammazza giornalisti renitenti… Sembra sentir parlare Bush,
o la Bonino, di Fidel, di Saddam, di Slobo, di Arafat… Del resto, non
si tratta di eccezione. O dobbiamo ricordare il parallelismo tra “il
manifesto” e qualsivoglia giornale padronale nelle rampogne a Mugabe,
presidente dello Zimbabwe, che si è permesso di espropriare dalle
poche terre fertili del paese gli eredi bianchi del colonialismo per
darle ai veterani della liberazione. E che a volte fa picchiare
manifestanti dell’opposizione pagata da Londra, come da noi si
picchiano i No-Tav? O anche la criminalizzazione del povero Milosevic
all’indomani del golpe promosso da Washington e Berlino, che celebrava
la fine della Jugoslavia con l’apertura dal giornale il titolone
“Belgrado ride”? Parlavano di “primavera di Belgrado” ed era iniziata
la “stagione delle anime morte” che ci avrebbe portato ai fasti
paranazisti di Bush.
Viva “il manifesto” di Stefano Chiarini
Stiamo parlando di un giornale che
abbiamo amato-odiato. Amato perchè non per nulla c’era Stefano
Chiarini, c’è Manlio Dinucci, ci sono tanti altri. Ci faceva schizzare
bile quando assaltava, pecchiolianamente, il 1977, estremo tentativo
di far vivere la rivoluzione mondiale del ’68 contro la sanguinosa
repressione PCI-borghesia che poi chiuderà il discorso fino ad oggi;
quando, trent’anni dopo, senza essersi cambiato d’abito, spara
ingiurie al cianuro contro il portavoce Cobas, Piero Bernocchi, reo di
uscire dai ranghi dei pacifinti e di dare a uno pseudo-ministro del
lavoro, vero ministro del capitale, dell’”amico dei padroni”; o quando
fucila il pur confuso Luca Casarini, centri sociali del Nordest, per
aver detto pane al pane e vino al vino chiamando “collaborazionisti” i
votanti sì al rifinanziamento dell’aggressione al popolo afgano.
Comunque, un giornale che sempre abbiamo ritenuto indispensabile, per
il quale spesso ci siamo svenati e ogni giorno paghiamo un
sovrapprezzo non indifferente per trovarlo ancora in edicola. I suoi
vizi e le sue virtù sono antichi, connaturati alla nascita di un
giornale nato sotto l’egida più dell’ Ingrao criptostalinista delle
obbedienze terzinternazionaliste e della radiazione dei dissidenti
sessantottini, che del libero e coerente comunista Luigi Pintor. Gli
auguriamo lunga vita e abbiamo il dubbio che la vita gli si
allungherebbe e che i lettori tornerebbero a germogliare se si alzasse
un po’ l’asticella ai vizi e la si abbassasse alle virtù. La prima di
queste virtù indossa un nome intelligente: dubbio.
Al funerale del migliore di loro,
Stefano Chiarini, ho avuto modo di dire in pubblico un paio di cose. E
qualcuno ha arricciato il naso. Glielo faccio riarricciare: che
Stefano era uno dei pochi – due, tre, cinque in Italia? - che
praticava il vero giornalismo, cioè l’arte rivoluzionaria dello
smascheramento della menzogna; che, quando nel suo giornale litigava
con quasi tutti, era lui ad aver ragione e gli altri no, perché lui la
sapeva più lunga; e, cosa fondamentale, che, diversamente da tutti gli
altri, lui i resistenti nei vari paesi non li ha mai chiamati
terroristi. Mai. I partigiani nel mondo gli devono questo. “Il
manifesto” glielo ha consentito. Senza contare che, senza Stefano, le
vittime e i sopravvissuti di Sabra e Shatila, del più orrendo massacro
israeliano in Libano, non avrebbero avuto né sepolcro, né denuncia, né
onore, né memoria. Un uomo morto, ma un comunicatore vivo. Tra
sepolcri imbiancati.
18
febbraio-17 marzo: aria di 25 aprile
Mentre questi riverberi del mondo
andavano incidendosi nell’hard disk, sono successe altre cose. Poche
dignitose, molte criminali, moltissime fetide. Più di tutto mi ha
colpito l’esecuzione, oscena come quella di Saddam Hussein, del suo
vice Taha Yassin Ramadan e quella, probabile fra poco, del
protagonista diplomatico dell’Iraq di allora, Tariq Aziz, detto “il
volto umano dell’Iraq”. Come dire che 25 milioni di iracheni avevano
la faccia disumana. Nei tempi del vino e delle rose iracheni, li avevo
intervistati entrambi. Con il colto Aziz c’era pure amicizia.
cresciuta sulle comuni sensibilità ed esperienze giornalistiche. Erano
leader appassionati e di intuibile spessore intellettuale ed etico, di
un paese che si avviava al socialismo e si sentiva avanguardia di una
resistenza araba e mondiale contro la strategia di riconquista
coloniale e come tale questi dirigenti la rappresentavano. Girando nei
paesi arabi, da Casablanca a Basra, trovavo, dopo la scomparsa della
generazione dei “giovani ufficiali”, di Nasser e dell’algerino
Boumedienne, e dopo il ripiegamento dei fedayin palestinesi, che erano
questi nomi, queste facce, prima fra tutte quella di Saddam, il
riferimento per le giovani forze arabe, qualunque fosse il bene e il
male che gli si attribuisse dalle nostre parti. Il boia assoldato dai
mandanti dei più vasti genocidi del nostro tempo, non poteva esimersi
dal cancellarli. Rendendoli, però, di nuovo nel loro bene e nel loro
male (lo giudichino gli iracheni!), martiri, e quindi portabandiera
della resistenza.
Keynesismo militarista e suoi corifei
L’imperialismo, stadio supremo del
capitalismo, nella versione del keynesismo militarista, ha bisogno di
guerre prolungate, appunto “permanenti”, come le annuncia
impudicamente la loggia di Washington. Ha bisogno, come scrivono due
studiosi ebrei, Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler, di “espandere la
propria sfera geografica, aprire nuovi mercati per la propria
sovraproduzione, acquisire le materie prime a basso o a nessun prezzo,
criminalizzare e reprimere le opposizioni interne”, satanizzare i
leader nemici esterni allo scopo di neutralizzarne, spesso
liquidandole, le popolazioni. La guerra serve ad alimentare l’economia
dei Chicago Boys, come
di Olmert, come di Tremonti e Padoa Schioppa, e promette, senza più
mantenere dopo l’ultimo successo della Seconda Guerra Mondiale, di far
superare una recessione strutturale e, comunque, di incrementare le
ricchezze di quell’1% che possiede il 40% del mondo. Recessione e
crisi finale in ogni caso, al di là di sollievi congiunturali,
assicurate dalla rottura del pianeta. Coloro che propongono di andare
in Iraq, Afghanistan, Libano, ovunque, sono i primattori. Quelli che,
eletti a sinistra, votano a favore – o si dicono malati, come il
patetico “disobbediente” Francesco Caruso – sono le soubrette, le
peripatetiche, i furieri, quelli che poi vanno a frugare tra i resti
di cucina. Il controcanto pacifista che, prima di slacciarsi la
cintura delle braghe, fanno ai guerrafondai di qua e di là dal mare,
non ha nulla di diverso dai ciliegi che ho visto piantare in Alta
Murgia sopra discariche in cui si erano nascoste porcherie nocive. Ne
sono specialisti i seguaci, più o meno allineati, dell’ex-leader
antagonista di Bertinotti nel PRC, Claudio Grassi. Nelle sue file ho
militato per qualche anno anch’io. Diceva che bisognava subire le
fellonie del capo “per accumulare forze”. Ovviamente in vista del dì
fatale. Per tutta la durata della metempsicosi del partito, ha così
coperto a sinistra l’operazione. Se quelli che ti prendono alle spalle
sono i peggiori, se peggio della destra è chi a sinistra fa le
politiche della destra, allora costoro sono i peggiori.
Italiani catturati e sparati, Taliban fessi e narcotrafficanti
Quando rapirono il giornalista di “La
Repubblica”, Daniele Mastrogiacomo, (liberato dopo mobilitazioni e
negoziati che se ne fottevano dei suoi compagni afgani, pure
sequestrati, uno ucciso, gli altri due catturati dai servizi di Karzai).
D’Alema, con un vociferante ministro della difesa nel taschino, si
affrettò a dire che l’operazione taliban non era diretta contro gli
italiani, ovviamente perché erano lì per “pacificare” e “ricostruire”,
ma contro gli occidentali in genere. Già perché quelli sono i soliti
rozzi beduini che acchiappano quello che capita. E’ un puro caso che
quando arriva per qualche minuto a Bagram il vicepresidente Usa, loro
sanno il momento esatto per metterci una bomba-finimondo. Mica
leggono, quegli analfabeti, che in Italia si sta per arrivare a una
votazione in bilico e risolutrice sulla spedizione afgana, quando
sequestrano il giornalista itaaliano di un foglio militarista
italiano, o arrivano a sparare su un convoglio di militari italiani,
incursori sì, ma sempre “ di pace”… Figurarsi! E non sanno neanche
che D’Alema si pavoneggia con la cortina fumogena di una “conferenza
di pace” invisa a tutti i protagonisti giacchè, se fosse seria,
dovrebbe includere i taliban, e, dato che sono espressione della
maggioranza della popolazione, dovrebbe portare a una sola
conclusione: autodeterminazione e, dunque, partenza di tutti gli
occupanti. Quella di D’Alema, accompagnata dall’umoristico
suggerimento di qualche ministro di “sinistra” di pacificare il paese
acquistando un po’ di oppio da trasformare in morfina, fa il paio con
le ripetute “conferenze di pacificazione” in Iraq, regolarmente finite
in farsa per il rifiuto del trucco da parte della Resistenza, anche
qui rappresentativa, secondo un sondaggio CNN, del 75% del popolo. E a
proposito di oppio, si tacciano Giuliana Sgrena e “il manifesto”
quando attribuiscono ai taliban (non “taleban”, la e ce la mettono gli
inglesi per dire i, e non talebani, non è un nome italiano, non si
dice fedayini, azione fedayina…) la narcocoltivazione e il
narcotraffico. I taliban, anche se non è educato ricordarlo,
sradicarono tutto l’oppio: nel 2000 produzione zero. Oggi, dopo sei
anni di occupazione Usa-alleati-signori della guerra, la produzione è
di primato assoluto, quasi 7000 tonellate annue, il 90% dell’eroina
mondiale, quasi tutto dalle zone controllate dagli occidentali e dal
governo del fantoccio Amid Karzai e dei suoi ministri mafiosi e
signori della guerra. Il 2% degli afgani che possiede il 19% del
paese, cioè praticamente tutte le estensioni coltivabili a oppio, ha
infatti in Karzai e nel suo regime il suo presidente e il suo governo.
Del resto è risaputo da anni che quel trilione di dollari da traffico
di stupefacenti in zone controllate dagli Usa (Colombia, Triangolo
d’oro, la vecchia Bolivia, Afghanistan) e per rotte pure da loro
controllate (Curdistan iracheno, Turchia, Kosovo, Italia, Caraibi,
Centroamerica), finisce nelle grandi banche nordamericane e, quindi,
nel giro ufficiale dell’economia imperialista. Quando la City Bank
finanzia le campagne elettorali di Bush, si può arguire da dove
vengano i fondi. Intanto la tanto decantata offensiva Nato-Isaf di
primavera, “Achille”, finisce nel ridicolo di fronte a una offensiva
vera e travolgente dei taliban che, dalla provincia di Helmand
liberata, dilaga in tutto il paese, confortata dal crescente supporto
di una popolazione che la feroce imbecillità Usa continua a massacrare
nelle case e nei mercati, con una media di oltre 300 raid a settimana.
Iraq,
culmine della resistenza, voragine di tragedie
In perfetta sintonia, si verifica il
fiasco dell’operazione “Sicurezza a Baghdad”, nonostante la
partecipazione di un esercito iracheno, rifatto di carta, e di una
milizia Al Mahdi cui il trasformista chierico Moqtada ha intimato di
collaborare con gli occupanti (la Cia, sapendola più lunga dei media
che si affannano a vedere in Moqtada un oppositore dell’occupazione,
per quanto carnefice di sunniti e baathisti, ripetutamente aveva
impedito il suo arresto da parte di qualche sprovveduto marine). E’
sicuramente di Moqtada il podio, accanto ai primatisti Usa, del
migliore stragista in Iraq. Le sue esecuzioni al trapano negli occhi e
allo sparo alla nuca nel 2006 erano arrivati a una media di 100 al
giorno, per poi ridursi di fronte alla constatazione dannante che gli
occupanti non riuscivano a contenere tale orrore e che un iracheno su
uno rimpiangeva i tempi di Saddam. L’Iraq come la Shoah. Dopo il dato
dei 655mila civili ammazzati a metà 2006, rilevato da uno dei più seri
istituti statunitensi, nella primavera 2007 si è superato il milione
di vittime (Gideon Polya, MWC,News Network, 18/3/07), accanto al 48%
di quasi morti di fame, ai 2 milioni di profughi iracheni in Siria e
Giordania, registrati dall’UNHCR, ma abbandonati da un mondo che aveva
singhiozzato per i profughi-reclame del Kosovo e agli altri 2 milioni
di sfollati interni, fuggiti dalla pulizia etnica scito-iraniana. Il
30% dei cittadini iracheni è stato così effettivamente liquidato. E
andrebbero aggiunti coloro che galleggiano e galleggeranno per secoli
nelle 2.400 tonnellate di uranio piovute sull’Iraq nel corso delle due
guerre del Golfo.
A questa operazione genocida,
paragonabile solo alla Shoah, ma foriera di esiti anche peggiori, la
Resistenza oppone incredibilmente un costante crescendo di
operazioni. Durante gli ultimi tre mesi del 2006, gli attacchi agli
occupanti sono stati i più numerosi e mortali dall’inizio
dell’aggressione nel 2003. C’è poi un episodio della fine di marzo che
conferma la paternità di buona parte del terrorismo che falcia civili
nei mercati e nei luoghi affollati. Le televisioni arabe riferiscono
dell’ interprete iracheno di una base Usa a Baghdad che viene spedito
con la macchina a comprare materiale informatico nel mercato centrale.
L’uomo si insospettisce per le continue telefonate degli statunitensi
che gli chiedono se stia già al mercato. Si ferma in una zona priva di
edifici e gente, si allontana e risponde affermativamente alle
chiamate. Secondi dopo, la vettura esplode. L’interprete fugge in
Turchia, dove è stato intervistato. Non da media occidentali.
Palestina, un governo di unità e resa nazionale?
Mentre l’Europa delle centinaia di
malcapitati scomparsi nei cieli (e nelle camere di tortura) dei voli
segreti Cia, con accertata complicità di governi abituati a farsi
stuprare la sovranità nazionale, l’Italia di Abu Omar in prima linea
come sempre, insiste nel suo embargo alla Palestina, si consolida tra
Gaza e Ramallah il governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas. Resta
fuori solo il Fronte Popolare che sente odore di spartizione di
poltrone e di cedimento da parte della formazione islamica. Israele,
ovviamente irritatissimo, spara contro questo già di per se malfermo
governo bordate di no, cui fanno eco gli Usa. Nella situazione,
accanto al fuffoso Quartetto Usa, UE, Onu e Russia, si inserisce un
parallelo Quartetto arabo. E’ composto dai nostri amiconi Arabia
Saudita, Egitto (reduce di una legge costituzionale che fa del
vegliardo Mubarak un dittatore), Giordania e Emirati Arabi (mancano
ovviamente i principali interessati: Siria e Libano) e si assume il
compito o di portare il neogoverno unitario a un accomodamento con
Israele lungo le linee liquidazioniste di Olmert e la esigenze di
“moderazione” occidentali, o, in caso di renitenza di Hamas, di
abbandonarlo al suo destino, cioè al ritorno della risolutrice guerra
civile tra fazioni palestinesi. Toccherà vedere cose ne pensano i
palestinesi, in particolare le donne che si erano frapposte tra le
milizie che si sparavano addosso e che si erano poste sui tetti delle
case bombardate da Israele. Fosse per loro, l’unità reggerebbe e non
sarebbe pronube di resa. Ma il rapporto di forze non parrebbe a loro
favore.
Dimenticare Osama. Contro il crollo del crollo gemello, la
“confessione” di Khaled Sheikh Mohammed e la conferma della Grande
Cospirazione arabo-musulmana contro l’Occidente
Colpo gobbo all’americana, quello del
detenuto di Guantanamo, Khaled Sheikh Mohammed, arrestato in Pakistan
nel 2003 e passato per le democratiche carceri di Musharraf e il
rispettoso Camp Delta di Guantanamo, torturato per quattro anni alla
maniera che si sa, davanti a un tribunale militare senza difensore e
senza testimoni né pro, né contro, a fine marzo 2007 confessa un
armagheddon che neanche Gengis Khan. L’11 settembre l’ha organizzato
lui “dall’A alla Zeta”, pure l’attentato al
World Trade Center nel
1993 (peraltro dimostrato eseguito da un manutengolo dell’FBI), pure
quello di Bali, pure un’altra trentina di colpi del genere. E solo per
poco ha bucato l’assassinio dei presidenti Carter e Clinton, nonché
del papa, nientemeno. Stava anche per far saltare il canale di Panama.
E’ solo questione di tempo prima che si accusi anche dell’uccisione di
Kennedy, dell’invenzione dell’Aids, di aver scatenato lo tsunami, di
essere il vero Jack lo squartatore e di aver compiuto la strage di
S.Valentino. Peccato che tra le fantasie dinamitarde del poveraccio
decebrato sia scivolata anche quella della bomba contro una banca, la
Plaza Bank a
Washington, che è venuta a esistenza solo nel 2006, tre anni dopo il
suo arresto. Questo grandioso teatro dell’assurdo ricorda da vicino la
valigia lasciata da Mohammed Atta, presunto attentatore capo
dell’11/9, quella mattina in un’auto noleggiata, nell’aeroporto del
Maine, zeppa di prove incriminanti: mappe, testamenti, piani
d’attacco, manuali di volo in arabo, corani.
Dalla confessione discende una pioggia
benefica su Bush e sui suoi grandi e piccoli fideiussori. La cattura
di Osama, per la quale si sono polverizzati un paio di paesi e ucciso
qualche milione di innocenti, nonostante il vecchio diabetico compare
Cia, in perpetuo bisogno di dialisi, non si fosse mai dichiarato
autore del Grande Botto, non conta più nulla, ora che Khaled l’irsuto
ha confessato. Lo si può tranquillamente lasciare nella tomba in cui i
media pachistani e lo stesso presidente Musharraf lo hanno dichiarato
sepolto nel 2001, dopo il lasciapassare ottenuto dal capostazione Cia
di Dubai, che lo aveva visitato nel locale reparto dialisi
dell’ospedale Usa. E si potranno finalmente gettare nel secchio tutti
i nastri video e audio con le sue apparizioni che tanta ilarità
avevano suscitato tra gli esperti del settore. In più si potrà ora
evitare ogni discussione sui
Patriot Act 2, 3, 4, 5, finalizzati a rendere il mondo uno
stato di polizia e a far accettare anche il recente, spaventoso
rinnovamento e ampliamento nucleare statunitense e britannico contro
terroristi vari, in prospettiva contro quelli russi e cinesi.
D’Alema,
Depretis, “società civile” e 17 marzo
D’Alema ci dice - ricorda un altro
inflessibile e competente giornalista, Lucio Manisco - che
l’alternativa è tra una ritirata generale dell’Italia dalla scena
internazionale e il ritorno di un impresentabile Berlusconi. E Manisco
argutamente richiama quell’Agostino Depretis a proposito di Triplice e
imprese coloniali, anche allora portatrici di civiltà, stabilità e
pace: rinunciarvi, lui ebbe a dire nel 1885, in nome di un pacifismo
anarcoide ed irresponsabile, avrebbe relegato l’Italia al ruolo della
Repubblica di S.Marino e riportato al potere la destra. Poi vennero
Francesco Crispi e la disfatta di Adua. A questo si allineano, con
maggiori o minori maldipancia, tutte le “sinistre”, a dimostrazione di
una classe politica, guazzabuglio rissaiolo, ma omogeneo e compatto,
affiancata dai vivandieri della “società civile” che, per esempio con
Raffaella Bolini, reggitrice dell’Arci esteri, invoca l’Onu, dato che,
si sa, nessuno meglio dell’Onu è garanzia di pacificazione e diritti
umani. Come, infatti, risulta da mezzo secolo di mascalzonate
imperialiste con al collo il passi delle Nazioni Unite. Quante alle
basi di morte Usa e Nato che butterano il territorio, bè quelle ormai
ci sono, mica si può fare come quel paesuccolo da Terzo Mondo
dell’Ecuador che, con il nuovo presidente Raffael Correa, ha dato il
benservito alla statunitense base Manta, responsabile del controllo su
tutta l’Amazzonia.
Se
non ci fossero i Cobas…
Ma la scena internazionale non è solo
quella a cui tiene amorosamente il ministro degli esteri italiano. Per
il 17 marzo 2007 il Forum Sociale di Nairobi, di cui invano frati e
cosiddetta “società civile” hanno tentato di arrestare la marcia verso
una più lucida presa di coscienza della posta in gioco, via dalle
illusioni di una correzione in meglio del capitalismo onnivoro fatto
passare per “globalizzazione”, aveva indetto una mobilitazione
mondiale contro la guerra eTUTTE le spedizioni e basi militari, per
quanto mistificate da un linguaggio pervertito, fatto proprio anche
dalle sinistre istituzionali. E così s’è vista un’altra “scena
internazionale” che di quella di D’Alema è l’opposto: a Washington un
accampamento davanti al Congresso e una marcia di centomila;
un’analoga marcia a Londra e in centinaia di altre capitali di tutti i
mondi; una manifestazione nazionale romana che, seppure decimata
dalla defezione della sempre più morigerata “società civile”, ha
denudato il re dell’opportunismo e della defezione e ha dato voce a
un’Italia non rassegnata.. Non sarà la “seconda potenza mondiale” del
furbesco New York Times,
ma sarà nel tempo la fossa di quella scena internazionale da cui D’Alema
teme il ritiro. Il salutare abisso andato aprendosi tra ceto politico
e i suoi non più rappresentati, non può non essere, nei tempi
necessari, il solco da cui, in fratellanza con le resistenze
universali, nasceranno i germogli di una nuova forza di pace e
solidarietà. Questo solco, è doveroso riconoscerlo, in Italia è stato
tracciato in prima istanza da un piccolo e combattivo sindacato,
capeggiato da chi negli ultimi quarant’anni ha sempre respinto
mediazioni a perdere e compromessi remunerativi. I Cobas di Piero
Bernocchi, ignari dell’arte italica della giravolta e delle incursioni
opportunistiche nei sicuri santuari dell’esistente, dopo aver difeso
per anni generazioni giovani, minoranza sotto attacco per vendetta sui
suoi intemperanti predecessori, dalla strategia della corruzione e
dell’ammansimento, erano rimasti praticamente soli quando si è
trattato di inibire fin dalla partenza la militarizzazione del
“governo amico”. Mosca cocchiera anche del contrasto alla macelleria
sociale del precariato, della flessibilità, delle privatizzazioni, ai
Cobas va il merito, insieme all-ex-Prc Ferrando del nuovo Partito
Comunista dei Lavoratori e alle tante realtà organizzate, anche
minime, sul territorio, di aver operato un taglio netto con la zavorra
dei “senza se ma con molti ma”. Hanno dato voce e forza ai milioni di
deistituzionalizzati in fuga dalla contaminazione trasformista che,
per la contromorale dei prìncipi dell’ipocrisia, innestataci da
Costantino in poi, pare debba essere l’inesorabile destino di questo
eterno “volgo disperso che nome non ha”. Mi pare giusto chiudere
questo lavoro rendendogli omaggio. E’ una questione di dignità,
succeda quel che deve succedere.