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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

 

Bella Italia, amate sponde…

FENOMENOLOGIA ITALIANA

Pensierini escatologici nel paese di Arlecchino

 

 

26/03/2007

 

 

Come ti neutralizzo il pupo

Le quattro ruote dell’italico carro – o, a essere tonitruanti, i nostri quattro cavalieri dell’Apocalisse – sono la nonviolenza (separata, col trattino, senza, a seconda di come gli gira ), l’antisemitismo, il terrorismo più o meno islamico (ma vale anche per gente come i No-Tav) e il Vaticano. La carrozza della nostra società neo-protoindustriale (siamo tornati ai tempi di Dickens) e neofeudale (vedi la classe politica e le sue neoplasie sociali) cammina su questi volani. Con le spade dei cavalieri giovannei il carro, mozzando teste a giro, si apre la strada. Nonviolenza, cambiale firmata da Fausto Bertinotti ai padroni in un revisionista convegno veneziano del 2005. Quello in cui violantescamente raccomandava di non “angelizzare” partigiani e Resistenza. Giampaolo Pansa, che intanto faceva la sua parte dissotterrando dal verminaio della propria particolarissima memoria eccidi di inermi fascisti, tosto invitò l’allora segretario del Partito della Rifondazione Comunista a una serata celebrativa, all’altezza delle frequentazioni della vipperia nazionale appassionatamente praticate dall’allora segretario rifondarolo. 

 

Il passpartout della nonviolenza

Nonviolenza che, all’indomani di Genova G8, cercò di annacquare, minchionare e disarmare un’intera generazione e, soprattutto, rinchiuse nella gabbia dei reietti quanti nel mondo, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Palestina al Libano, non si accontentavano di rispondere con una sorridente offerta di dialogo e un po’ di autocoscienza  a chi si stava dando da fare per sradicarli dal mondo. In compenso rassicurò grandemente coloro che, atlantici e confindustriali, massoni e mafiosi, cardinali e generali, dalla collera delle masse avevano subito, nel corso della storia, parecchi rovesci. Nonviolenza subito presa in sposa dall’eroe italico Arlecchino, in modo da poterla offrire in pegno, inghirlandata da gigli e santini, vuoi all’uno, vuoi all’altro dei suoi padroni e poterne ricevere in cambio licenza di derubare chi capitasse di essere più farlocco di lui.

 

I fratelli gemelli antisemitismo e terrorismo

Se la nonviolenza serve al ciclista per piegare occhi, testa e schiena rispetto a chi sta sopra, antisemitismo e terrorismo, felicemente fusi, rappresentano i due pedali che gli permettono di pestare verso il basso. Essendo, come il mio bassotto Nando insegna, la contesa escatologica perennemente quella tra bassotti e altotti, ecco che antisemitismo e terrorismo fanno in modo che le due categorie mantengano le rispettive posizioni, una in alto, l’altra in basso. Il risultato si raggiunge, sia che il terrorismo lo facciano, come succede di norma, sia che lo facciano fare. Nel primo caso abbiamo quella manifesta di Stato, detta di “intervento umanitario”, “autodifesa”, “esportazione della democrazia”, vedi la settantina di guerre, invasioni, golpe mossi dagli Usa dal 1945 a oggi. L’altra è mimetizzata, a volte si chiama “operazioni speciali”, a volte “Al Qaida”, “brigatista”, “anarcoinsurrezionalista”. E pensiamo a Piazza Fontana, o alle Torri Gemelle, e a tutto quello che se ne è tratto in termini di salvaguardia dei diritti umani, sovranità dei popoli, dilatazione della democrazia, solidarietà, impetuoso miglioramento delle condizioni dei lavoratori, libertà, pace, vita, dall’ultraliberale Patriot Act a Guantanamo, dalla cancellazione di nazioni ai provvedimenti Reale, Sciaiola, Pisanu, Amato. Quest’ultimo, ormai primo della classe nel reperire brigatisti tra i sindacalisti, stelle a cinque punte sui portoni dei notabili, terroristi tra chi affigge manifesti antiguerra, specie alla vigilia di manifestazioni dello stesso segno, motivi validi per picchiare chi si oppone a sventramenti del territorio, o a fetide discariche nei parchi nazionali, suggerire antidoping ai piccoli tossicodipendenti che prendono otto a scuola (forse dovrebbe far fare esami anticrimine a coloro che usano bambini lobotomizzati nella pubblicità per merendine tossiche e criminogeni videogiochi), irrompere nelle case dove sessi solitari si consolano con contorsioniste da divano. Già lo vediamo gonfiarsi di soddisfazione all’idea di introdurre lo statunitense Security Alert Tracking System, il biochip fissato sul lavoratore, che permette di scoprirne le cadute produttive, arma antilavoratore totale. Del resto, il nostro Ministero della Sanità (si fa per dire) non ha recentemente riammesso il Ritalin, farmaco per ridurre alla ragione, all’obbedienza e all’eccellenza, potenziali delinquenti di dodici anni? Nonostante tutte queste provvidenze democratiche,  come può ancora esserci chi osa parlare del nostro establishment, vedi l’incontinente Marco Travaglio, come di un verminaio di mafiosi, massoni, chierici e gendarmi, tutti dediti al malaffare?  

 

L’antisemitismo, invece, è una trovata davvero eccentrica, degna di Pangloss, il paradosso bipede di Voltaire. Mirato a tagliare ogni genere di attributi – dal pensiero alla lingua ad altro - al critico di una potenza mondiale, di cui non si sa mai se sia la prima o la seconda, è praticato al massimo della perfezione da coloro che se ne dicono vittime. Ne consegue un salto logico del tutto paralizzante, in cui il vero diventa il falso e viceversa. Pensate a cosa hanno subito, in termini di morte, devastazione, impoverimento, popoli come il palestinese, l’egiziano, il siriano, l’iracheno, l’algerino. Poi pensate che gli arabi sono almeno 200 milioni. Infine pensate che tutti questi sono semiti e che sono stati fatti fuori nel nome della difesa dall’antisemitismo. Mentre tra coloro che, da vox populi, notabilato e fanfare, sono identificati come vittime istituzionali dell’antisemitismo, i semiti sono davvero pochini (vedi Arthur Koestler, storico e marxista, nel suo “La tredicesima tribù”).La legge delle proporzioni, almeno quella, avrebbe dovuto dirci qualcosa.

 

Elite clericale ed èlite sociale, uniti nella lotta (di classe)

Quanto al Vaticano, è quella quarta ruota (ma in retromarcia è la prima) che, svirgolando tra un prete operaio e mille Torquemada, tra un piccolo Padre Boff e un grosser Ratzinger, tra un’invocazione di pace e la nomina a capo dei vescovi di un generale, monsignor Angelo Bagnasco, già benedicente i nostri “interventisti umanitari” in qualità di ordinario militare, tra un pianto sulla fame nel mondo e un’incitazione a bastonare serbi e musulmani, tra una battaglia campale per tre grammi di pre-vita e il bombardamento di chi non si sposa in chiesa, tra un’implorazione per l’8 per mille e la vestizione da un milione di euro del papa da parata, garantisce che l’occhio del cocchiere sia in prevalenza girato a destra. Tanto da garantire, pur tra svoltine e soprassalti, che non si prenda mai la carrozzabile opposta. Il collaudatissimo strumento per ottenere questa unidirezionalità, rigorosamente antirelativistica, confezionato a quattro mani da Mosè e Paolo di Tarso, è, come ci ricorda la stimolante giarrettiera a cilicio di Paola Binetti (parlamentare margheritata abitante, come la penna nel cappello dell’alpino, nell’orlo della tiara papale), il senso di colpa, la vera leva per sollevare il mondo, anzi per abbatterlo. E, intanto, per far volare alti i  padroni. 

 

Dal che si comprende il perfetto accoppiamento di fatto tra dichiarazioni d’intenti della Chiesa (quelle dell’Angelus) e della politica (quelle del Programma) e, coerentemente, tra le rispettive attuazioni. Eccola lì, bianca, corposa e luminosa, che veleggia spedita sospinta dalle nostre attese, la nuvola del programma dell’Unione, vincitrice nel 2006. Ed ecco la rinfrescante gelata che ne è precipitata: “riduzione del costo della politica” – 102 ministri, viceministri e notabili vari a 13.000 euro mensili, arrivando al doppio con prebende, benefici e congrue; “occhio e orecchio al parere delle popolazioni coinvolte” – infeudamenti regionali e municipali a valvassori, valvassini, clienti, e diktat “la TAV si fa, il MOSE si fa e mosca; “riduzione del divario tra ricchi e poveri” – da 750.000 in su ai manager pubblici (compreso Cimoli, demolitore di FS e Alitalia), agganciati a quella scala mobile che il coltivatore di nani e ballerini rubò agli operai, per cui la scala mobile tolta a chi prende 1000 euro al mese è stata regalata ai Cimoli e similcimoli; per non parlare delle robinhoodate all’incontrario del taglio dei salari e aumento degli orari, del regalo ai plutocrati del cuneo fiscale e del TFR, del taglio delle pensioni e della moltiplicazioni degli scalini d’uscita (tanto viviamo più a lungo, anche se molto peggio e la statistica è quella del mezzo pollo per tutti, dato che operai e altri maltrattati vivono di meno, mentre Pietro Ingrao, Lidia Menaguerra, Andreotti, gli Agnelli e affini vivono di più e Berlusconi lifta pappagorgia e anni); “lotta al precariato” (ma viva la flessibilità: bell’ossimoro)  mentre non c’è più, al sole del centrodestrasinistra, un giovane fuori dal giro di Lapo Elkan che abbia garanzia di occupazione e quindi di futuro. E il papa fa sacrifici umani al matrimonio e scaglia il pastorale contro il calo demografico… Infine, è in arrivo la “flessibilità in uscita”, cioè, inserito nel martirologio operaio l’articolo 18, la cacciata senza spiegazioni a calci in culo. Quella che, a suo tempo, mi riservarono i compagni anticipatori, Bertinotti, Curzi e Gagliardi di “Liberazione”, perché esprimevo dubbi sulle satanizzazioni sparate da Bush e Rossanda. Anticipatori davvero, se si pensa con quanta linearità dorotea, sotto astute pailettes rossotinte, il cachmirato monarca del PRC abbia, sollevando man mano l’asticella, scalato le pendici  per lasciarsi dietro uno zoccolo duro comunista e arrivare al terzo poltronone della Repubblica. Meglio di lui ha fatto solo Napolitano. Al confronto, Achille Occhetto fa la figura dell’apprendista: far tutto in una notte perdendo nel contempo le truppe migliori! Ovviamente B e O si sono ricongiunti. E non solo di fatto. Avremo il nuovo “Partito alla sinistra del Partito Democratico”. Franco Giordano, epigonale custode di falce e martello, dixit  

 

Tutto questo, come il grande privatizzatore Giuliano Amato, dunque valido ministro di polizia, insegna, non deve riempirci di voglia di spaccare la faccia a qualcuno, ma di sensi di inadeguatezza, da perdenti, da incapaci di “competere nella gara della vita”. La bertinottiana “nonviolenza” concorre. Ordigni nucleari di sensi di colpa che, a confronto, quelli messi dalla Cia nei sotterranei delle Torri Gemelle sono petardi. Frullate il senso di colpa del bambino, del sesso, dello scolaro, del malato, della coppia, del moribondo, tutti terreni a coltivazione monopolistica  evangelica, con il barbuto col turbante in agguato dietro l’angolo e ai confini e con la telecamera che vi spia anche quando vi fate una pippa, e avrete il prodotto con cui si governa e succhia il mondo: la paura. E qual è la figlia primogenita della paura? L’annullamento del libero arbitrio, dell’azione e, dunque, la sottomissione, escatologia borghese dell’umanità. E, in particolare, dell’homo italicus, visto che, con il papa in casa da duemila anni, l’Italia è di questo processo uno dei laboratori più attrezzati.

 

Il combinato dei quattro elementi su cui ci siamo dilungati ha saputo secernere il frutto migliore negli anni che ci è stato dato in sorte di attraversare. Ha figliato un paradigma ormai familiare quanto i tic di D’Alema: la guerra preventiva, permanente, globale. Mica solo fuori casa, anche dentro. Con il fiancheggiamento degli ausiliari mediatici. Dai “barbari” agli “infedeli”, dai “selvaggi pagani” ai “terroristi islamici”, che meraviglia di ontologica continuità! E noialtri restiamo sbigottiti davanti al continuismo Berlusconi-Prodi! Le classi sono sempre quelle. E pure la geografia è la stessa  Forse è per questo che un ministro di centrosinistra, dal compromissorio nome Berlinguer, ha voluto estirparla dalle materie scolastiche…

 

 

EPISTEMOLOGIA DELL’INFORMAZIONE, TRA ARDITI INCURSORI E PRESIDII DELLE RETROVIE

 

Il New York Times “Standard Aureo”?

Un mio valido ex-collega al Tg3, Maurizio Torrealta, poi con Sigfrido Ranucci coraggioso disvelatore dei delitti chimico-elettronici statunitensi e israeliani a Falluja, Abu Ghraib, Gaza e Libano Sud, in un incontro di presentazione del loro agghiacciante documentario, ebbe a dire “Il New York Times è il golden standard del giornalismo”, attribuendo al giornale Usa la palma della credibilità. Segno di quanto possa, anche tra i migliori, lo stereotipo dell’eccellenza della stampa anglosassone. Se non sapete l’inglese, vi basterebbe scorrere le pagine in italiano che “La Repubblica” di quel giornale riproduce il lunedì. Tra vascelli di copertura a varia coloritura e umanità, ecco spuntare le corazzate dell’intossicazione politica: dal martellamento su una Libia “derelitta e autocratica” (si vedano al paragone le condizioni degli amiconi Egitto o Tunisia), a una Palestina “in preda a disperati e feroci kamikaze senza speranza e futuro”, da una ridicolizzazione della kefiah, lo scialle arabo che da anni contrassegna i manifestanti antimperialisti, come parure pop o copricapo terrorista, alla demolizione di Michael Moore, il disvelatore delle infamie neocon, come autore del genere “poveri e affranti”. Prendere come esempio di giornalismo corretto quello anglosassone è come fare del Sillabo di Pio IX una costituzione democratica. Io, che ci ho vissuto in mezzo per anni, sono ancora atterrito da quella disinformazione truffaldina, scientificamente superficiale, occultamente propagandistica, attinta da fonti sistematicamente non individuate, allineata e coperte con l’esistente, spesso trasmessa da inviati obnubilati dall’alcol e dal buonsenso che secernono le loro testate, i loro lettori e i loro hotel di lusso. Con le debite eccezioni. Poche e quasi tutte in internet.

 

Qui non interessano i fumogeni e i gas tossici che diffondono organi variamente padronali, filoisraeliani, atlantici e con l’elmetto calcato sugli occhi, come “la Repubblica” di De Benedetti, “Il Corriere della Sera” dell’ex-potop Paolo Mieli, “La Stampa”, il TG5 dell’ex-lottacontinua Toni Capuozzo, la staraciana radio Rai di Aldo Forbice, “Otto e mezzo” dell’ex-figiciotto Giuliano Ferrara (almeno lui confesso agente Cia) e dell’islamofobo Carlo Panella, “Porta a porta” del Maestro di Casa Bruno Vespa. Qui le cose sono chiare. Si tratta delle voci che simboleggia il profetico cagnetto bianco nelle etichette sul vinile. Rispetto a un’informazione che non si identifica con i poteri esistenti, stanno dall’altra parte e hanno le armi pesanti.

 

Ci riguardano più da vicino mezzi d’informazione che si dichiarano dalla parte di chi non sta al timone e non controlla il motore. Di chi dalle corazzate di cui sopra viene cannoneggiato e spesso affondato. Del quotidiano del PRC “Liberazione” non mette più neanche conto parlare, da quando il suo editore di riferimento ne ha fatto vela alla carretta da America’s Cup “Prodi-D’Alema-Rutelli-Montezemolo”, per le spedizioni in Afghanistan e Libano e per le incursioni nei salotti dorati della nostalgia protocapitalista alla Oliver Twist, scaltramente accompagnate dall’ossessiva ripetizione del karma “innovazione”. Tra i chiodi che hanno chiuso la bara di quella speranza, ricordo l’incredibile “ nostri ragazzi” del direttore Sansonetti, diretto non solo ai professionisti di Nassiriya che sparavano sulle ambulanze, ma addirittura ai quattro mercenari assoldati dagli strateghi dell’uccisione dell’Iraq. Oppure gli in interrotti panegirici di Rina Gagliardi, felicemente deputata, a far da toppe a un governo bellico, antipopolare e antioperaio. Oppure quella gentildonna della nonviolenza, Lidia Menapace che, da sotto al frontespizio “quotidiano comunista”, rovescia volgarissime ingiurie su Piero Bernocchi, Cobas, per aver lui smascherato un pacifismo militarista che si mimetizza da “riduzione del danno”. Preoccupa, invece, la navigazione ondivaga del “manifesto”, un giornale al quale coloro che insistono nella ricerca di pozzi d’acqua, manco fossero nel Darfur, hanno affidato da quasi 40 anni rappresentanza e fiducia. Negli ultimi tempi alte si sono levate le geremiadi del “manifesto” per le precarie condizioni di sopravvivenza e forti sono state le invocazioni al soccorso dei lettori. Lettori in calo. Ma i manifestanti contro l’ignominia guerrafondaia e lo scempio ambientale e sociale della nuova base d’attacco Usa a Vicenza erano 150mila. Il corteo  del 17 marzo a Roma, per il ritiro di tutti i nostri militari e delle basi, contava 30mila decisissimi partecipanti, ambasciatori di buona parte di quel 60% di italiani che non vogliono stare né in Afghanistan, né in Libano, né avere tra i piedi i missili nucleari Usa e neanche un marine in discoteca. Non c’era quella che qualche furbo o vanaglorioso definì “la seconda potenza mondiale”, si era ritirata la coalizione dei cosiddetti “pacifinti”: Arci, Cgil, Liliput, Beati Costruttori di pace, Tavola della Pace, Acli, PRC, PdCI, correntone, Attac, Ong di ogni genere… Ma pochi tra costoro sono affezionati al “manifesto”. Amano piuttosto “la riduzione del danno”, l’intervento di pace e di ricostruzione e i caschi blù. Semmai leggono “La Repubblica” o “L’Unità”, giornali della meno educata delle due destre. Tra quelli di Vicenza, invece, ce ne dovrebbero essere parecchi e tra quelli di Roma proprio tutti. In mancanza di meglio? A volte si sente dire così. Ma se i partecipanti alle manifestazioni nazionali a Vicenza e Roma erano così tanti, certamente assai di più dei lettori del “manifesto”, perché quel giornale perde lettori e va in crisi ogni qualvolta non si rapisca un suo redattore, o scoppia una catastrofe planetaria? Perché, come lamenta reiteratamente Valentino Parlato, si tratta di cooperativa, manca un munifico e coinvolto padrone, ce l’hanno tutti con loro, il clima generale è da ritirata dalla Russia?

 

Non sarà un sondaggio scientifico – e lo si potrebbe anche fare – ma dalle voci che  arrivano da un ambiente nazionale che frequento da un capo all’altro della penisola e di cui incontro nutrite rappresentanze in convegni e presentazioni, “il manifesto” perde via via quella componente dei suoi lettori che ha sempre fatto fatica a sorbirsi i famosi buffet liberal-chic del “quotidiano comunista”, ai quali ora pare riservata un’incontrastata egemonia. Perde quei lettori che sono riusciti a scrostarsi di dosso l’incapsolatura dei luoghi comuni e degli stereotipi del famigerato “senso comune”, professionalmente coltivate dalle centrali della disinformazione colonialista e padronale, ma che “il manifesto” spesso non sembra voler mettere in discussione. E infine quei lettori che hanno saltato il fosso dal sinistrissimo paternalismo colonialista ed eurocentrismo, parenti stretti della nonviolenza bertinottiana, al riconoscimento che la catarsi, ormai da un secolo, nasce e viene portata avanti nel mondo altro, quello non cristiano, nelle versioni protestante e cattolica, quello non occidentale. Come insegna lo strumentalmente accantonato Frantz Fanon dei “Dannati della Terra”.  Se lo rilegga Giuliana Sgrena, inviata del “manifesto” nel mondo musulmano, quando scrive di Algeria. Pecchiamo di obsoleto e patetico terzomondismo? Pecchiamo.

 

Maestri del pensiero?

Cito solo alcune clamorose e politicamente decisive “cadute”. Rossana Rossanda, riconosciuta maestra del pensiero critico, se non antagonista, che, con una spocchia non eccezionale tra gli augusti intelletti del giornale, piomba su una lotta emblematica come quella contro la catastrofica e demenziale opera “Mose”, accertata devastatrice di Venezia e della laguna, avallando un’impresa dai più evidenti e clientelari interessi speculativi, denunciati dai migliori esperti e da masse di cittadini onesti. Ancora la Rossanda che, di fronte al 60% degli italiani contrari alla conquista dell’Afghanistan, traditi dal 99,9% dei parlamentari che votano a suo favore, non trova di meglio che inzeppare un paginone per sgridare e sbertucciare “le anime belle” dei senatori Nando Rossi e Franco Turigliatto. Persone che hanno sfidato aggressioni verbali, bastonature ed espulsioni staliniane, pur di non rinnegare ciò per cui si sono impegnati davanti ai loro elettori e alla propria non italiota coscienza. Di fronte a civili, seppure severe critiche ai giri di valzer di questo monumento della Sinistra, avreste dovuto sentire la bufera di risentimenti e sdegno contro chi aveva osato “maltrattarla”. E, a seguire, Giuliana Sgrena, non scevra da accenti islamofobici e avalli alle mistificazioni sul “terrorismo islamico”, che riesce, riferendo dall’Afghanistan, bombardato, massacrato, derubato, corrotto, dalle forze di occupazioni, a sentire esclusivamente voci di signore e signori che auspicano la permanenza di tali forze, quanto meno per “garantire la sicurezza”. Quando ogni giorno, un popolo intero manifesta la sua sacrosanta repulsa dell’invasione e manomissione straniera. E al “manifesto”, giustamente preoccupato per la condizione delle donne in Afghanistan, sfugge anche ogni occasione per recuperare dagli archivi di una storia pur recente un dato non del tutto insignificante: dai 15 ai trent’anni fa, quel paese era governato da forze progressiste, partiti comunisti, e le donne vi godevano di diritti non distanti dai nostri, per quanto miseri questi siano, facevano i magistrati, i ministri e i medici e la ragazze andavano tutte a scuola. Senza burka. Questo, prima che gli Usa aizzassero fanatici islamisti, da loro indottrinati e armati, per buttare all’aria tutto e riportare il paese a una condizione che avrebbe loro permesso di farne carne di porco.

 

“Il manifesto”, “quotidiano comunista”?

Non è tanto quella esuberante metà del giornale che, con pagine culturali, a volte raffinate e appassionanti, spesso astruse e cervellotiche (più Foucault e meno fesserie destrutturaliste alla Baudrillard, per favore), ti ammaestra il pupo facendolo sentire irrimediabilmente scemo ed escluso, quanto i vuoti di dubbio circa le mine antiuomo della propaganda imperialista. Vuoti che, volenti o nolenti, contribuiscono all’effetto letale di quegli ordigni. Un esempio che grida vendetta: tutto il pianeta ruota intorno all’11 settembre, la vicenda che ha introdotto, fornendogli un alibi cosmico, quella che potrebbe essere la fine dell’umanità e, intanto, è la fine di popoli e della libertà di tutti. Di fronte alle voragini urlanti della teorizzazione ufficiale su quel fatto epocale, dal governo Usa rigidamente blindata (e su quelli analoghi, successivi, a rinforzo), di fronte all’occultamento di testimonianze vitali e dirette, di fronte a incongruenze clamorose, come il blocco per due ore e mezza di una reazione da parte dell’aeronautica che pure ogni giorno eseguiva esercitazioni simulate finalizzate all’evento, o il presidente che non viene messo in sicurezza e continua a farfugliare le sue fesserie in una scuola elementare, di fronte a questo e a mille altre assurdità e balle, nel mondo e, soprattutto, negli Usa è cresciuto un poderoso e autorevole “movimento per la verità sull’11/9”.

 

11 settembre? Tranquilli, tutto apposto.

Cosa fa “il manifesto” nella contingenza per cui, su un evento su cui viaggia un mondo in preda all’Aids bellico e che deciderà del futuro di tutti noi e dei nostri figli, si scontrano due versioni diametralmente opposte, da ciascuna delle quali discendono conseguenze di portata globale sulla pace, sulla vita, sulla giustizia, non meno di quanto provocato dalle Termopoli, dall’Editto di Costantino, dal meteorite che cancellò i dinosauri? Riempie una pomposa e spocchiosa pagina delle scribacchiature assolutorie di un corifeo della verità di Bush e Cheney, note fatine dai capelli azzurri, che relega i contestatori nel girone dei dietrologi complottisti, psicopatici e paranoici. Non l’ombra di un dubbio, con tanti saluti a chi negli Usa viene ostracizzato e perseguitato per documentare una verità alternativa. Gli amorazzi a suo tempo intrattenuti dal “manifesto” con cavalieri azzurri della tempra di John Kerry, candidato democratico, Cofferati, D’Alema e Bertinotti, sono al confronto birichinate infantili. O senili. Come lo è l’altra prodezza di un “quotidiano comunista”, quando celebra la ricorrenza dell’uccisione di John Lennon  come la “morte degli anni ‘60”, del resto “preannunciata dalla parabola discendente dei Beatles fin dal 1968”. Che il migliore del quartetto avesse poi intrapreso una strada di politicizzazione e di radicalità antisistema, che fosse stato un portabandiera dell’irritantissima campagna contro la guerra in Vietnam, icona per milioni, che di solito gli assassini “matti” di antagonisti hanno qualche contatto con l’FBI e cosche analoghe, questo all’esegeta Tommaso Pincio è sfuggito. Peccato per una giornale “altro”. Chiudo questo paragrafo rilevando un’altra posizione di deludent, per me, e ad altri graditissimo allineamento con la diffamazione scientifica degli avversari dell’Occidente. Astrid Dakli, albanese, giornalista occhiuto, all’indomani della devastazione bombarola Nato e delle stragi di serbi fate dall’UCK, girò il Kosovo senza notare neanche una briciola delle macerie di un centinaio di monasteri medievali distrutti e neanche una goccia del mare di sangue rom, serbo e albanese- non-UCK versato. L’uomo ha per costante un antislavismo e una russofobia imperfettibili. Spesso questa fobia nasconde un inconfessato anticomunismo. Ma restiamo alla russofobia come, per esempio, esplode in analisi sulla Cecenia che paiono usciti dalla penna di Marco Pannella, dove si parla di orrori russi e non ci si ricorda di quale posta per l’Occidente, e quindi per la Cia e simili, rappresenti quel boccone per il quale passano verso l’Europa quasi tutti gli oleodotti dal Caspio.  Ma avreste dovuto vedere i due paginoni da Dakli curate nell’occasione della visita di Vladimir Putin a Roma. Un florilegio di contumelie, critiche distruttrici, vituperi, che al povero presidente russo non lasciava integro neanche un capello. Condoleezza Rice all’indomani della sfuriata di Putin, a Monaco, contro l’unilateralismo aggressivo degli Usa, che tra l’altro stavano piazzando missili atomici tra i nuovi satelliti al confine con la Russia, rispetto al Dakli furioso era sembrata un rispettoso critico letterario. Era poco professionale inquadrare quell’obbrobrio di Putin in una situazione che aveva visto l’Unione Sovietica cadere a pezzi, la successiva Russia divorata da mafiosi e oligarchi appesi ai fili del burattinaio occidentale, lo sfascio di tutto, il rischio della scomparsa dalla storia? Era superfluo ricordare che, dopo la sbornia eltsiniana, che aveva disintegrato il paese, quest’ometto del famigerato KGB aveva rimesso in piedi il paese, sbaragliato i vampiri, riconsegnato allo Stato i beni e gli strumenti della sopravvivenza e del progresso, riconquistato un ruolo, per ora benefico perché riequilibrante, sullo scenario internazionale, rimediato alla peggiore povertà? Si, ma emargina i partiti minori, punta al controllo dei media, forse ammazza giornalisti renitenti… Sembra sentir parlare Bush, o la Bonino, di Fidel, di Saddam, di Slobo, di Arafat… Del resto, non si tratta di eccezione. O dobbiamo ricordare il parallelismo tra “il manifesto” e qualsivoglia giornale padronale nelle rampogne a Mugabe, presidente dello Zimbabwe, che si è permesso di espropriare dalle poche terre fertili del paese gli eredi bianchi del colonialismo per darle ai veterani della liberazione. E che a volte fa picchiare manifestanti dell’opposizione pagata da Londra, come da noi si picchiano i No-Tav? O anche la criminalizzazione del povero Milosevic all’indomani del golpe promosso da Washington e Berlino, che celebrava la fine della Jugoslavia con l’apertura dal giornale  il titolone “Belgrado ride”? Parlavano di “primavera di Belgrado” ed era iniziata la “stagione delle anime morte” che ci avrebbe portato ai fasti paranazisti di Bush.

 

Viva “il manifesto” di Stefano Chiarini

Stiamo parlando di un giornale che abbiamo amato-odiato. Amato perchè non per nulla c’era Stefano Chiarini, c’è Manlio Dinucci, ci sono tanti altri. Ci faceva schizzare bile quando assaltava, pecchiolianamente, il 1977, estremo tentativo di far vivere la rivoluzione mondiale del ’68 contro la sanguinosa repressione PCI-borghesia che poi chiuderà il discorso fino ad oggi; quando, trent’anni dopo, senza essersi cambiato d’abito, spara ingiurie al cianuro contro il portavoce Cobas, Piero Bernocchi, reo di uscire dai ranghi dei pacifinti e di dare a uno pseudo-ministro del lavoro, vero ministro del capitale, dell’”amico dei padroni”; o quando fucila il pur confuso Luca Casarini, centri sociali del Nordest, per aver detto pane al pane e vino al vino chiamando “collaborazionisti” i votanti sì al rifinanziamento dell’aggressione al popolo afgano. Comunque, un giornale che sempre abbiamo ritenuto indispensabile, per il quale spesso ci siamo svenati e ogni giorno paghiamo un sovrapprezzo non indifferente per trovarlo ancora in edicola. I suoi vizi e le sue virtù sono antichi, connaturati alla nascita di un giornale nato sotto l’egida più dell’ Ingrao criptostalinista delle obbedienze terzinternazionaliste e della radiazione dei dissidenti sessantottini, che del libero e coerente comunista Luigi Pintor. Gli auguriamo lunga vita e abbiamo il dubbio che la vita gli si allungherebbe e che i lettori tornerebbero a germogliare se si alzasse un po’ l’asticella ai vizi e la si abbassasse alle virtù. La prima di queste virtù indossa un nome intelligente: dubbio.

 

Al funerale del migliore di loro, Stefano Chiarini, ho avuto modo di dire in pubblico un paio di cose. E qualcuno ha arricciato il naso. Glielo faccio riarricciare: che Stefano era uno dei pochi – due, tre, cinque in Italia? - che praticava il vero giornalismo, cioè l’arte rivoluzionaria dello smascheramento della menzogna; che, quando nel suo giornale litigava con quasi tutti, era lui ad aver ragione e gli altri no, perché lui la sapeva più lunga; e, cosa fondamentale, che, diversamente da tutti gli altri, lui i resistenti nei vari paesi non li ha mai chiamati terroristi. Mai. I partigiani nel mondo gli devono questo. “Il manifesto” glielo ha consentito. Senza contare che, senza Stefano, le vittime e i sopravvissuti di Sabra e Shatila, del più orrendo massacro israeliano in Libano, non avrebbero avuto né sepolcro, né denuncia, né onore, né memoria. Un uomo morto, ma un comunicatore vivo. Tra sepolcri imbiancati.

 

18 febbraio-17 marzo: aria di 25 aprile

Mentre questi riverberi del mondo andavano incidendosi nell’hard disk, sono successe altre cose. Poche dignitose, molte criminali, moltissime fetide. Più di tutto mi ha colpito l’esecuzione, oscena come quella di Saddam Hussein, del suo vice Taha Yassin Ramadan e quella, probabile fra poco, del protagonista diplomatico dell’Iraq di allora, Tariq Aziz, detto “il volto umano dell’Iraq”. Come dire che 25 milioni di iracheni avevano la faccia disumana. Nei tempi del vino e delle rose iracheni, li avevo intervistati entrambi. Con il colto Aziz c’era pure amicizia. cresciuta sulle comuni sensibilità ed esperienze giornalistiche. Erano leader appassionati e di intuibile spessore intellettuale ed etico, di un paese che si avviava al socialismo e si sentiva avanguardia di una resistenza araba e mondiale contro la strategia di riconquista coloniale e come tale questi dirigenti la rappresentavano. Girando nei paesi arabi, da Casablanca a Basra, trovavo, dopo la scomparsa della generazione dei “giovani ufficiali”, di Nasser e dell’algerino Boumedienne, e dopo il ripiegamento dei fedayin palestinesi, che erano questi nomi, queste facce, prima fra tutte quella di Saddam, il riferimento per le giovani forze arabe, qualunque fosse il bene e il male che gli si attribuisse dalle nostre parti. Il boia assoldato dai mandanti dei più vasti genocidi del nostro tempo, non poteva esimersi dal cancellarli. Rendendoli, però, di nuovo nel loro bene e nel loro male (lo giudichino gli iracheni!), martiri, e quindi portabandiera della resistenza.

 

Keynesismo militarista e suoi corifei

L’imperialismo, stadio supremo del capitalismo, nella versione del keynesismo militarista, ha bisogno di guerre prolungate, appunto “permanenti”, come le annuncia impudicamente la loggia di Washington. Ha bisogno, come scrivono due studiosi ebrei, Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler, di “espandere la propria sfera geografica, aprire nuovi mercati per la propria sovraproduzione, acquisire le materie prime a basso o a nessun prezzo, criminalizzare e reprimere le opposizioni interne”, satanizzare i leader nemici esterni allo scopo di neutralizzarne, spesso liquidandole, le popolazioni. La guerra serve ad alimentare l’economia dei Chicago Boys, come di Olmert, come di Tremonti e Padoa Schioppa, e promette, senza più mantenere dopo l’ultimo successo della Seconda Guerra Mondiale, di far superare una recessione strutturale e, comunque, di incrementare le ricchezze di quell’1% che possiede il 40% del mondo. Recessione e crisi finale in ogni caso, al di là di sollievi congiunturali, assicurate dalla rottura del pianeta. Coloro che propongono di andare in Iraq, Afghanistan, Libano, ovunque, sono i primattori. Quelli che, eletti a sinistra, votano a favore – o si dicono malati, come il patetico “disobbediente” Francesco Caruso – sono le soubrette, le peripatetiche, i furieri, quelli che poi vanno a frugare tra i resti di cucina. Il controcanto pacifista che, prima di slacciarsi la cintura delle braghe, fanno ai guerrafondai di qua e di là dal mare, non ha nulla di diverso dai ciliegi che ho visto piantare in Alta Murgia sopra discariche in cui si erano nascoste porcherie nocive. Ne sono specialisti i seguaci, più o meno allineati, dell’ex-leader antagonista di Bertinotti nel PRC, Claudio Grassi. Nelle sue file ho militato per qualche anno anch’io. Diceva che bisognava subire le fellonie del capo “per accumulare forze”. Ovviamente in vista del dì fatale. Per tutta la durata della metempsicosi del partito, ha così coperto a sinistra l’operazione. Se quelli che ti prendono alle spalle sono i peggiori, se peggio della destra è chi a sinistra fa le politiche della destra, allora costoro sono i peggiori.

 

 Italiani catturati e sparati, Taliban fessi e narcotrafficanti

Quando rapirono il giornalista di “La Repubblica”, Daniele Mastrogiacomo, (liberato dopo mobilitazioni e negoziati che se ne fottevano dei suoi compagni afgani, pure sequestrati, uno ucciso, gli altri due catturati dai servizi di Karzai).   D’Alema, con un vociferante ministro della difesa nel taschino, si affrettò a dire che l’operazione taliban non era diretta contro gli italiani, ovviamente perché erano lì per “pacificare” e “ricostruire”, ma contro gli occidentali in genere. Già perché quelli sono i soliti rozzi beduini che acchiappano quello che capita. E’ un puro caso che quando arriva per qualche minuto a Bagram il vicepresidente Usa, loro sanno il momento esatto per metterci una bomba-finimondo. Mica leggono, quegli analfabeti, che in Italia si sta per arrivare a una votazione in bilico e risolutrice sulla spedizione afgana, quando sequestrano il giornalista itaaliano di un foglio militarista italiano, o arrivano a sparare su un convoglio di militari italiani, incursori sì, ma sempre “ di pace”… Figurarsi!  E non sanno neanche che D’Alema si pavoneggia con la cortina fumogena di una “conferenza di pace” invisa a tutti i protagonisti giacchè, se fosse seria, dovrebbe includere i taliban, e, dato che sono espressione della maggioranza della popolazione, dovrebbe portare a una sola conclusione: autodeterminazione e, dunque, partenza di tutti gli occupanti. Quella di D’Alema, accompagnata dall’umoristico suggerimento di qualche ministro di “sinistra” di pacificare il paese acquistando un po’ di oppio da trasformare in morfina, fa il paio con le ripetute “conferenze di pacificazione” in Iraq, regolarmente finite in farsa per il rifiuto del trucco da parte della Resistenza, anche qui rappresentativa, secondo un sondaggio CNN, del 75% del popolo. E a proposito di oppio, si tacciano Giuliana Sgrena e “il manifesto” quando attribuiscono ai taliban (non “taleban”, la e ce la mettono gli inglesi per dire i, e non talebani, non è un nome italiano, non si dice fedayini, azione fedayina…) la narcocoltivazione e il narcotraffico. I taliban, anche se non è educato ricordarlo, sradicarono tutto l’oppio: nel 2000 produzione zero. Oggi, dopo sei anni di occupazione Usa-alleati-signori della guerra, la produzione è di primato assoluto, quasi 7000 tonellate annue, il 90% dell’eroina mondiale, quasi tutto dalle zone controllate dagli occidentali e dal governo del fantoccio Amid Karzai e dei suoi ministri mafiosi e signori della guerra. Il 2% degli afgani che possiede il 19% del paese, cioè praticamente tutte le estensioni coltivabili a oppio, ha infatti in Karzai e nel suo regime il suo presidente e il suo governo. Del resto è risaputo da anni che quel trilione di dollari da traffico di stupefacenti in zone controllate dagli Usa (Colombia, Triangolo d’oro, la vecchia Bolivia, Afghanistan) e per rotte pure da loro controllate (Curdistan iracheno, Turchia, Kosovo, Italia, Caraibi, Centroamerica), finisce nelle grandi banche nordamericane e, quindi, nel giro ufficiale dell’economia imperialista. Quando la City Bank finanzia le campagne elettorali di Bush, si può arguire da dove vengano i fondi. Intanto la tanto decantata offensiva Nato-Isaf di primavera, “Achille”, finisce nel ridicolo di fronte a una offensiva vera e travolgente dei taliban che, dalla provincia di Helmand liberata, dilaga in tutto il paese, confortata dal crescente supporto di una popolazione che la feroce imbecillità Usa continua a massacrare nelle case e nei mercati, con una media di oltre 300 raid a settimana.

 

Iraq, culmine della resistenza, voragine di tragedie

In perfetta sintonia, si verifica il fiasco dell’operazione “Sicurezza a Baghdad”, nonostante la partecipazione di un esercito iracheno, rifatto di carta, e di una milizia Al Mahdi cui il trasformista chierico Moqtada ha intimato di collaborare con gli occupanti (la Cia, sapendola più lunga dei media che si affannano a vedere in Moqtada un oppositore dell’occupazione, per quanto carnefice di sunniti e baathisti, ripetutamente aveva impedito il suo arresto da parte di qualche sprovveduto marine). E’ sicuramente di Moqtada il podio, accanto ai primatisti Usa, del migliore stragista in Iraq. Le sue esecuzioni al trapano negli occhi e allo sparo alla nuca nel 2006 erano arrivati a una media di 100 al giorno, per poi ridursi di fronte alla constatazione dannante che gli occupanti non riuscivano a contenere tale orrore e che un iracheno su uno rimpiangeva i tempi di Saddam. L’Iraq come la Shoah. Dopo il dato dei 655mila civili ammazzati a metà 2006, rilevato da uno dei più seri istituti statunitensi, nella primavera 2007 si è superato il milione di vittime (Gideon Polya, MWC,News Network, 18/3/07), accanto al 48% di quasi morti di fame, ai 2 milioni di profughi iracheni in Siria e Giordania, registrati dall’UNHCR, ma abbandonati da un mondo che aveva singhiozzato per i profughi-reclame del Kosovo e agli altri 2 milioni di sfollati interni, fuggiti dalla pulizia etnica scito-iraniana. Il 30% dei cittadini iracheni è stato così effettivamente liquidato. E andrebbero aggiunti coloro che galleggiano e galleggeranno per secoli nelle 2.400 tonnellate di uranio piovute sull’Iraq nel corso delle due guerre del Golfo.

 

A questa operazione genocida, paragonabile solo alla Shoah, ma foriera di esiti anche peggiori, la Resistenza  oppone incredibilmente un costante crescendo di operazioni. Durante gli ultimi tre mesi del 2006, gli attacchi agli occupanti sono stati i più numerosi e mortali dall’inizio dell’aggressione nel 2003. C’è poi un episodio della fine di marzo che conferma la paternità di buona parte del terrorismo che falcia civili nei mercati e nei luoghi affollati. Le televisioni arabe riferiscono dell’ interprete iracheno di una base Usa a Baghdad che viene spedito con la macchina a comprare materiale informatico nel mercato centrale. L’uomo si insospettisce per le continue telefonate degli statunitensi che gli chiedono se stia già al mercato. Si ferma in una zona priva di edifici e gente, si allontana e risponde affermativamente alle chiamate. Secondi dopo, la vettura esplode. L’interprete fugge in Turchia, dove è stato intervistato. Non da media occidentali.

 

Palestina, un governo di unità e resa nazionale?

Mentre l’Europa delle centinaia di malcapitati scomparsi nei cieli (e nelle camere di tortura) dei voli segreti Cia, con accertata complicità di governi abituati a farsi stuprare la sovranità nazionale, l’Italia di Abu Omar in prima linea come sempre, insiste nel suo embargo alla Palestina, si consolida tra Gaza e Ramallah il governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas. Resta fuori solo il Fronte Popolare che sente odore di spartizione di poltrone e di cedimento da parte della formazione islamica. Israele, ovviamente irritatissimo, spara contro questo già di per se malfermo governo bordate di no, cui fanno eco gli Usa. Nella situazione, accanto al fuffoso Quartetto Usa, UE, Onu e Russia, si inserisce un parallelo Quartetto arabo. E’ composto dai nostri amiconi Arabia Saudita, Egitto (reduce di una legge costituzionale che fa del vegliardo Mubarak un dittatore), Giordania e Emirati Arabi (mancano ovviamente i principali interessati: Siria e Libano) e si assume il compito o di portare il neogoverno unitario a un accomodamento con Israele lungo le linee liquidazioniste di Olmert e la esigenze di “moderazione” occidentali, o, in caso di renitenza di Hamas, di abbandonarlo al suo destino, cioè al ritorno della risolutrice guerra civile tra fazioni palestinesi. Toccherà vedere cose ne pensano i palestinesi, in particolare le donne che si erano frapposte tra le milizie che si sparavano addosso e che si erano poste sui tetti delle case bombardate da Israele. Fosse per loro, l’unità reggerebbe e non sarebbe pronube di resa. Ma il rapporto di forze non parrebbe a loro favore.

 

Dimenticare Osama. Contro il crollo del crollo gemello, la “confessione” di Khaled Sheikh Mohammed e la conferma della Grande Cospirazione arabo-musulmana contro l’Occidente

Colpo gobbo all’americana, quello del detenuto di Guantanamo, Khaled Sheikh Mohammed, arrestato in Pakistan nel 2003 e passato per le democratiche carceri di Musharraf e il rispettoso Camp Delta di Guantanamo, torturato per quattro anni alla maniera che si sa, davanti a un tribunale militare senza difensore e senza testimoni né pro, né contro, a fine marzo 2007 confessa un armagheddon che neanche Gengis Khan. L’11 settembre l’ha organizzato lui “dall’A alla Zeta”, pure l’attentato al World Trade Center nel 1993 (peraltro dimostrato eseguito da un manutengolo dell’FBI), pure quello di Bali, pure un’altra trentina di colpi del genere. E solo per poco ha bucato l’assassinio dei presidenti Carter e Clinton, nonché del papa, nientemeno. Stava anche per far saltare il canale di Panama. E’ solo questione di tempo prima che si accusi anche dell’uccisione di Kennedy, dell’invenzione dell’Aids, di aver scatenato lo tsunami, di essere il vero Jack lo squartatore e di aver compiuto la strage di S.Valentino. Peccato che tra le fantasie dinamitarde del poveraccio decebrato sia scivolata anche quella della bomba contro una banca, la Plaza Bank a Washington,  che è venuta a esistenza solo nel 2006, tre anni dopo il suo arresto. Questo grandioso teatro dell’assurdo ricorda da vicino la valigia lasciata da Mohammed Atta, presunto attentatore capo dell’11/9, quella mattina in un’auto noleggiata, nell’aeroporto del Maine, zeppa di prove incriminanti: mappe, testamenti, piani d’attacco, manuali di volo in arabo, corani.   

 

Dalla confessione discende una pioggia benefica su Bush e sui suoi grandi e piccoli fideiussori. La cattura di Osama, per la quale si sono polverizzati un paio di paesi e ucciso qualche milione di innocenti, nonostante il vecchio diabetico compare Cia, in perpetuo bisogno di dialisi, non si fosse mai dichiarato autore del Grande Botto, non conta più nulla, ora che Khaled l’irsuto ha confessato. Lo si può tranquillamente lasciare nella tomba in cui i media pachistani e lo stesso presidente Musharraf lo hanno dichiarato sepolto nel 2001, dopo il lasciapassare ottenuto dal capostazione Cia di Dubai, che lo aveva visitato nel locale reparto dialisi dell’ospedale Usa. E si potranno finalmente gettare nel secchio tutti i nastri video e audio con le sue apparizioni che tanta ilarità avevano suscitato tra gli esperti del settore.  In più si potrà ora evitare ogni discussione sui Patriot Act 2, 3, 4, 5, finalizzati a rendere il mondo uno stato di polizia e a far accettare anche il recente, spaventoso rinnovamento e ampliamento nucleare statunitense e britannico contro terroristi vari, in prospettiva contro quelli russi e cinesi.   

 

D’Alema, Depretis, “società civile” e 17 marzo

 D’Alema ci dice - ricorda un altro inflessibile e competente giornalista, Lucio Manisco - che l’alternativa è tra una ritirata generale dell’Italia dalla scena internazionale e il ritorno di un impresentabile Berlusconi. E Manisco argutamente richiama quell’Agostino Depretis a proposito di Triplice e imprese coloniali, anche allora portatrici di civiltà, stabilità e pace: rinunciarvi, lui ebbe a dire nel 1885, in nome di un pacifismo anarcoide ed irresponsabile, avrebbe relegato l’Italia al ruolo della Repubblica di S.Marino e riportato al potere la destra. Poi vennero Francesco Crispi e la disfatta di Adua. A questo si allineano, con maggiori o minori maldipancia, tutte le “sinistre”, a dimostrazione di una classe politica, guazzabuglio rissaiolo, ma omogeneo e compatto, affiancata dai vivandieri della “società civile”  che, per esempio con Raffaella Bolini, reggitrice dell’Arci esteri, invoca l’Onu, dato che, si sa, nessuno meglio dell’Onu è garanzia di pacificazione e diritti umani. Come, infatti, risulta da mezzo secolo di mascalzonate imperialiste con al collo il passi delle Nazioni Unite. Quante alle basi di morte Usa e Nato che butterano il territorio, bè quelle ormai ci sono, mica si può fare come quel paesuccolo da Terzo Mondo dell’Ecuador che, con il nuovo presidente Raffael Correa, ha dato il benservito alla statunitense base Manta, responsabile del controllo su tutta l’Amazzonia. 

 

Se non ci fossero i Cobas…

Ma la scena internazionale non è solo quella a cui tiene amorosamente il ministro degli esteri italiano. Per il 17 marzo 2007 il Forum Sociale di Nairobi, di cui invano frati e cosiddetta “società civile” hanno tentato di arrestare la marcia verso una più lucida presa di coscienza della posta in gioco, via dalle illusioni di una correzione in meglio del capitalismo onnivoro fatto passare per “globalizzazione”, aveva indetto una mobilitazione mondiale contro la guerra eTUTTE le spedizioni e basi militari, per quanto mistificate da un linguaggio pervertito, fatto proprio anche dalle sinistre istituzionali. E così s’è vista un’altra “scena internazionale” che di quella di D’Alema è l’opposto: a Washington un accampamento davanti al Congresso e una marcia di centomila; un’analoga marcia a Londra e in centinaia di altre capitali di tutti i mondi; una manifestazione nazionale romana che, seppure  decimata dalla defezione della sempre più morigerata “società civile”, ha denudato il re dell’opportunismo e della defezione e ha dato voce a un’Italia non rassegnata.. Non sarà la “seconda potenza mondiale” del furbesco New York Times, ma sarà nel tempo la fossa di quella scena internazionale da cui D’Alema teme il ritiro. Il salutare abisso andato aprendosi tra ceto politico e i suoi non più rappresentati, non può non essere, nei tempi necessari, il solco da cui, in fratellanza con le resistenze universali, nasceranno i germogli di una nuova forza di pace e solidarietà. Questo solco, è doveroso riconoscerlo, in Italia è stato tracciato in prima istanza da un piccolo e combattivo sindacato, capeggiato da chi negli ultimi quarant’anni ha sempre respinto mediazioni a perdere e compromessi remunerativi. I Cobas di Piero Bernocchi, ignari dell’arte italica della giravolta e delle incursioni opportunistiche nei sicuri santuari dell’esistente, dopo aver difeso per anni generazioni giovani, minoranza sotto attacco per vendetta sui suoi intemperanti predecessori, dalla strategia della corruzione e dell’ammansimento, erano rimasti praticamente soli quando si è trattato di inibire fin dalla partenza la militarizzazione del “governo amico”. Mosca cocchiera anche del contrasto alla macelleria sociale del precariato, della flessibilità, delle privatizzazioni, ai Cobas va il merito, insieme all-ex-Prc Ferrando del nuovo Partito Comunista dei Lavoratori e alle tante realtà organizzate, anche minime, sul territorio, di aver operato un taglio netto con la zavorra dei “senza se ma con molti ma”. Hanno dato voce e forza ai milioni di deistituzionalizzati in fuga dalla contaminazione trasformista che, per la contromorale dei prìncipi dell’ipocrisia, innestataci da Costantino in poi, pare debba essere l’inesorabile destino di questo eterno “volgo disperso che nome non ha”. Mi pare giusto chiudere questo lavoro rendendogli omaggio. E’ una questione di dignità, succeda quel che deve succedere.   

 

 

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