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Da
Fidel a Chavez, passando per piqueteros, Sem Terra, indios:
il nuovo asse dell’antagonismo afro-indio-latinoamericano.
Il ruolo di Lula. La minaccia Uribe e i piani USA.
Del mio lungo giro dalla
prima rivoluzione latinoamericana dei tempi nostri, lungo le
lancette dei sommovimenti sismici di questo continente in
trapasso tra adolescenza e maturità, fino al ritorno
all’isola caraibica che è, appunto, l’alfa e l’omega, la
culla e il faro, di quanto si sta muovendo nell’emisfero,
ricordo tre episodi particolarmente significativi sul ruolo
che la vicenda cubana ha nel nuovo contesto. A Buenos Aires,
in un’Argentina ancora groggy per la falcidie generazionale
operata dai generali della dittatura filo-yankee (non si
scordi mai il ruolo da protagonista di Vaticano e P2, oggi
più che mai impazzanti da noi) e per il massacro sociale ed
economico del ladrone Carlos Menem, quella festa di
piqueteros che esplode in standing ovation al canto di una
giovane compagna: “Que
mueran los yankees – que viva Fidel!”
Poi, in Brasile, un fazzoletto
di terra sotto grandi sequoie, punteggiato da baracche e
teli neri della spazzatura, dove Matheus, 20 anni, secondo
anno di agraria all’università di Campo Grande (Mato Grosso
do Sul), arrivato lì a cinque anni d’età con un’ottantina di
acampados Sem
Terra, che reclamano la terra improduttiva di un fazendero
assenteista,
per la mia telecamera si spoglia della
maglietta lacera e infila quella della festa, con il volto
del Che e la bandiera di Cuba: “Se Lula si arrende, noi,
come il Che e Fidel, non lo faremo mai!”
Infine, a Caracas, uno
qualsiasi degli episodi di mescolanza del presidente Hugo
Chavez con il suo popolo, nel quale il successore del
Libertador Simon
Bolìvar, non manca mai di raccontare la sua Cuba, il suo
Fidel, fin dalla prima visita nel ‘94, appena liberato dal
carcere di Rafael Caldera: “Mi disse Fidel: la giustizia
sociale, l’uguaglianza, la libertà noi le chiamiamo
socialismo,
voialtri laggiù le chiamate
bolivarismo. Va
benissimo così. E io gli risposi: sono d’accordo” (con tanti
saluti agli immarcescibili grilli parlanti dell’
eurocentrismo che si dilettano nel fare le pulci a chi non
rientra nei loro schemini perennemente decontestualizzati).
E la folla che gli risponde con l’urlo: “Cuba sì, yankee
no!”
Negli anni ’80, tenente
colonnello dei paracadutisti, Hugo Chavez lavora al suo
progetto rivoluzionario all’interno delle Forze Armate, ben
sapendo che, in America Latina, o tiri dalla parte delle
masse escluse l’apparato della società più forte e presente
sul territorio, o finisci come con Videla, Pinochet e, in
Venezuela, Jimenez. La sua ispirazione scaturisce, oltrechè
dalla lezione indipendentista e antioligarchica di Bolìvar,
da Gramsci e Mao Tse Tung, dall’esempio di Josè Martì e
dall’esperimento consolidato di Fidel Castro. Un filo rosso
che attraversa il processo rivoluzionario fin da quegli
esordi del “Movimento Rivoluzionario Bolivariano 200”, che
spostò a sinistra l’asse dell’esercito, più tardi bonificato
con l’immissione, al posto dei lividi creoli, di inediti
quadri meticci e indios. Filo rosso che lega l’insurrezione
fallita del 1992, nel nome di un popolo vampirizzato da
Carlos Andres Perez, il Ciancimino del Venezuela, alla
costituzione bolivariana del 1999, modellata in buona misura
su quella cubana e alle centinaia di leggi che hanno fornito
la base legale alla rivoluzione sociale: riforma agraria,
pesca, infanzia, maternità, donne, scuola, adolescenti,
anziani, lavoro, casa, ambiente, indios e loro territori,
petrolio…
Quanto al petrolio lasciatemi
ricordare, insieme alla forniture a prezzo politico a Cuba,
che hanno fatto inviperire l’oligarchia debellata, un tempo
manomettitrice brigantesca di questa massima ricchezza del
paese, una visita a El Palito, raffineria-cuore della PDVSA,
la società riconquistata da Chavez allo Stato dopo che i
golpisti della destra l’avevano utilizzata per il famigerato
paro, la
serrata padronale che doveva affamare il paese e s’illudeva
di sollevarlo contro Chavez. Della nuova struttura
“orizzontale” nel governo della compagnia petrolifera, con
gli operai partecipi del processo decisionale (non sempre
esente da tentativi restauraratori dell’immancabile residuo
burocratico), erano un bel simbolo le tre mense separate –
dirigenti, impiegati, operai – oggi riunite in una sola,
aclassista.
Antonio Serra, dirigente e
riorganizzatore della raffineria, comunista, è sicuro che
l’imperialismo e i suoi fantocci nella regione presto o
tardi tenteranno il colpo di forza per impadronirsi della
ricchezza energetica del paese e per bloccare il processo
rivoluzionario, con i suoi effetti contagiosi sull’intero
continente, ma ha anche piena fiducia in un popolo che si
sta attrezzando, alla maniera cubana, vedi Plaja Giron, ad
affrontare minacce del genere.
Nell’Incontro mondiale degli
intellettuali in difesa dell’umanità e nel Congresso
bolivariano dei popoli, il tema che attraversava entrambe le
manifestazioni di Caracas era l’unificazione bolivariana
dell’America del Sud e del Caribe, a concretizzazione del
sogno, appunto, di Bolìvar e di Martì. E tanta eco e
passione ha già suscitato, nei sei anni di rivoluzione
bolivariana, tra le masse del continente e tra le sue
avanguardie, questo messaggio e la sua implicazione
antimperialista, rivolta in primo luogo al nemico
principale, gli USA con il loro ALCA (progetto di
ricolonizzazione latinoamericana), ma anche ai succedanei
neocolonialisti europei , da costringere anche i governanti
più riluttanti e filo-yankee, per quanti retropensieri
nutrissero, a sottoscrivere un impegno per la “Comunità
Sudamericana degli Stati”. E’ accaduto a Ayacucho, Perù
(luogo della definitiva disfatta spagnola ad opera del
giovanissimo maresciallo Sucre), nel dicembre scorso. E’
sicuramente la forza del messaggio di riscatto partito e
rafforzato da Cuba e rilanciato dal Venezuela ad aver
permesso al fronte progressista (Venezuela, Argentina,
Brasile, l’Uruguay con il Frente Amplio di Tabarè Vasquez e
dei gloriosi Tupamaros, il nuovo Panama di Torrijos) di
imporre la sua egemonia sullo schieramento conservatore di
Perù, Bolivia, Ecuador, le Guayane, Colombia, con nel mezzo
il Cile cerchiobottista di Lagos.
Cuba, non ultima delle
vecchie rivoluzioni impossibili, residuato di una vicenda
sconfitta nel Novecento con la caduta dell’URSS, lo
sbrindellamento del blocco est-europeo, la corruzione o
disintegrazione degli Stati progressisti della nazione araba
e del Sud del mondo, la murdochizzazione della Cina, come
definiscono Cuba dirigenti della Sinistra, anche
“alternativa” ma all’orecchio della manipolazione
informativa occidentale; Cuba, invece, prima rivoluzione
socialista del Nuovo Mondo, di
Nuestra America,
a cui guardano nuovi governi, nuovi movimenti, nuove volontà
che vanno ben al di là dell’”altro mondo possibile” nella
Porto Alegre significativamente sconfitta dalla Destra e
dove Chavez, acclamato più di tutti, ha rimesso all’ordine
del giorno, tra chi rischiava di confinarsi nel correttivo
altermondialista, le parole “antimperialismo” e
“rivoluzione”. “Un’altra rivoluzione è possibile!” si legge
sui muri della città, in alternativa a un altro slogan, più
vecchio e più vago.
Di Cuba Chavez e poi Lula, con
tutti i suoi ripiegamenti su altri fronti, e Nestor Kirchner
in Argentina, hanno rotto l’isolamento di mezzo secolo,
oltre al tiepido appoggio dato dal Messico e tradito dall’amerikano
Fox, Marcos o non Marcos (un personaggio fuori da questo
processo). Ma il presidente venezuelano è andato ben oltre
le forniture di petrolio, ricambiate dall’impegno
internazionalista di migliaia di medici e insegnanti cubani
operanti nel grandioso processo di alfabetizzazione e
sanitarizzazione del Venezuela, modellato proprio
sull’esempio cubano (che nel mondo in via di sviluppo aveva
avuto l’eguale nel solo Iraq pre-invasione barbarica).
L’ALBA, Alternativa Bolivariana per le Americhe, lanciata da
Chavez in contrapposizione all’ALCA e ai trattati-capestro
bilaterali con cui Washington cerca di rimediare
all’incipiente fallimento dell’accordo di “libero” scambio
continentale, ha avuto una prima, esemplare prefigurazione
nell’integrazione tra Venezuela e Cuba, firmata dai due
governi nel dicembre scorso. Le colonne portanti di questa
integrazione, che impegna i settori commerciali, doganali,
sociali, finanziari, tecnologici, culturali, informativi (la
famosa “Telesur”, televisione satellitare per tutta
l’America Latina, che Chavez è andato a studiare nel Qatar,
da Al Jazira),
sono: un’effettiva partecipazione dello Stato come
regolatore e coordinatore dell’attività economica, un Piano
Continentale contro l’analfabetismo, un piano
latinoamericano di trattamento sanitario gratuito, un piano
di borse di studio nelle aree di maggiore sviluppo economico
e sociale, un Fondo di Emergenza Sociale, uno sviluppo
integrato di comunicazioni e trasporti, sostenibilità dello
sviluppo con la protezione dell’ambiente, integrazione
energetica della regione (la “Petroamerica” di Chavez), un
Fondo Latinoamericano di Investimenti e una Banca di
Sviluppo del Sud da contrapporre all’FMI, il diritto di
proprietà intellettuale per il patrimonio dei paesi
latino-americani, la lotta per la democratizzazione e la
trasparenza degli organismi internazionali oggi al servizio
dei monopoli…
Il processo va ben al di là
della stretta intesa, fratellanza, tra i due paesi
rivoluzionari. Lo si è potuto constatare in occasione del
Congresso bolivariano dei popoli, tenutosi a Caracas e in
altri centri del paese a dicembre, con la partecipazione di
tutti i grandi movimenti di massa organizzati, oggi in lotta
con oligarchie, tirannie ultracapitaliste e narcodipendenti,
mascherate da democrazie (Uribe in Colombia, Toledo in Perù,
Gutierrez in Ecuador), penetrazioni dei monopoli
euro-nordamericani e dell’apparato militare statunitense.C’erano
proprio tutti. Tra i tanti, Evo Morales, leader del
Movimento al Socialismo (MAS), secondo alle elezioni
presidenziali in Bolivia, dopo la cacciata di Sanchez de
Lozada a furor di popolo contro le privatizzazioni e
svendite di acqua e gas, e vincitore delle recenti elezioni
amministrative; i Sem Terra, in grande offensiva dopo la
mancata riforma agraria di Lula e la ripresa delle stragi ad
opera dei latifondisti brasiliani, i sindacalisti della CUT
di San Paolo, i dirigenti del movimento indigeno
dell’Ecuador, in lotta con l’indio “rinnegato” Lucio
Gutierrez, le organizzazione dei nativi peruviani e quelle
antagoniste, in armi e in lotta civile, del mafiostato
Colombia.
Un momento significativamente
immancabile, di grande tensione emotiva e portato a simbolo
del modello cubano, in ogni commissione di lavoro e nelle
plenarie, l’impegno per
los cincos, i cinque patrioti cubani
grottescamente condannati a pene pesantissime a Miami per
aver denunciato ai banditori della “guerra mondiale al
terrorismo” di Washington i complotti terroristici della
mafia cubana e, oggi cubano-venezuelana, di Miami.
Evidentemente un imperialismo
nordamericano come quello che, sotto la guida terroristica e
guerrafondaia dei neonazi intorno a Bush e con la crescente
complicità dei rinascenti imperialismi europei, sta
proponendosi di portare la “democrazia” genocida, modello
Ashcroft-Rumsfeld-Cheney-Rice-Sharon, ai cinque continenti,
non poteva non reagire con ogni mezzo a un processo di
portata epocale e di immense prospettive come quello
innescato da Cuba e dal Venezuela. Il timore di doversi
trovare di fronte a un sommovimento che, da resistenza
incrollabile a Cuba e da Blocco del cambio in Venezuela,
promette di puntare alla creazione di un blocco continentale
antagonista in quella che da Monroe, negli anni venti
dell’800, doveva essere “l’America agli americani” (leggi
“statunitensi”), costituisce, insieme alla debacle in Iraq,
la fonte della massima preoccupazione di Washington. Ne sono
espressione i multimiliardari Plan Colombia e Plan Puebla
Panama, la militarizzazione della Colombia e dell’Ecuador,
lungo un asse andino che costituisce oggi il contraltare al
fronte progressista sulla costa atlantica, con le continue
incursioni, provocazioni, gli attentati destabilizzatori in
Venezuela, la licenza concessa ad Alvaro Uribe, grazie a un
nuovo Piano Condor, di violare con imprese terroristiche e
sequestri la sovranità degli Stati vicini, il fallito colpo
di Stato contro Chavez e il successivo sabotaggio
economico, la penetrazioni di forze speciali statunitensi (contractors,
consiglieri, istruttori, commandos) e di basi militari in
tutta l’area amazzonica, le pressioni del Pentagono, delle
transnazionali USA, del FMI e della Banca Mondiale sul
governo brasiliano.
Punta di lancia della
controffensiva imperialista è sempre il narcopresidente
Uribe. A lui i padrini statunitensi hanno assegnato il
compito della destabilizzazione terroristica, visto il
crollo di ogni opzione reazionaria sul piano democratico. E’
dalla Colombia che veniva il centinaio di paramilitari che
furono scoperti mentre preparavano in Venezuela un attentato
a Chavez; sono passati dalla Colombia gli esplosivi
provenienti da Miami con cui poliziotti di Caracas, al
servizio della vandea oligarchica, hanno fatto saltare in
aria a novembre Danilo Anderson, il coraggioso magistrato
che era riuscito a riallacciare i fili del golpe Cia
dell’aprile 2002; e sono stati agenti colombiani a
sequestrare in piena Caracas, insieme a militari venezuelani
corrotti da Uribe con una taglia di 1,5 milioni di dollari,
e a portare in Colombia Rodrigo Granda, responsabile
internazionale delle FARC-EP. Un atto piratesco, tipico del
nuovo Piano Condor, che violava grossolanamente la sovranità
venezuelana e il diritto internazionale, compiuto mentre
Uribe ospitava in lussuoso esilio Pedro Carmona,
protagonista del golpe d’aprile, autoproclamatosi dittatore
del Venezuela e responsabile dell’assassinio di 70 civili
che manifestavano per il loro presidente. Il risultato è
stato una tensione al calor bianco tra i due paesi, sulla
quale gli USA si sono precipitati a versare benzina, la
rottura dei rapporti commerciali e la sospensione di quelli
diplomatici.
Il regime di Uribe è
universalmente percepito come il peggiore praticante di
terrorismo di Stato dopo gli USA e Israele. La sua funzione
in America Latina assomiglia sempre di più a quella
assegnata a Israele in Medio oriente. Nel periodo medio,
alla Colombia spetta il compito di provocare un conflitto
diretto con il Venezuela. E non ci si lasci ingannare dallo
stop-and-go
che nei prossimi mesi caratterizzerà il rapporto tra i due
governi. A Uribe serve preservare un minimo di apparenze, a
Chavez ritardare il più possibile la resa dei conti, agli
USA calcolare il momento migliore per l’escalation.
Nel frattempo, per preparare il terreno, rivendicando il
diritto di intervenire ovunque per ragioni di “guerra al
terrorismo”, la dottrina Uribe implicitamente rigetta
confini riconosciuti e si riserva la possibilità di violare
frontiere nazionali senza consultare gli Stati i cui diritti
infrange. Non è lungo il passo dal disconoscimento di
confini statali, all’annessione di aree adiacenti per motivi
di “sicurezza”, o economiche. Solo nel 1992, la Colombia
rasentò la guerra quando inviò le sue navi da guerra nelle
acque venezuelane. Oggi le mire di Bogotà e del suo sponsor
nordamericano sono apertamente puntate sullo Zulia, stato
venezuelano confinante con la Colombia, massima fonte degli
idrocarburi venezuelani e uno dei due Stati della
federazione ancora governati dall’opposizione a Chavez.
Parrebbe un gioco da ragazzi provocare incidenti di
frontiere un po’ più massicci di quelli che si sono
susseguiti negli ultimi tre anni, occupare almeno una parte
dello Zulia, installarvi un governo “democratico” di
fuorusciti e, di fronte alla legittima reazione di Caracas,
invocare l’intervento dei marines. Non sono lontani nel
tempo l’invasione di Haiti, il rapimento del suo legittimo
presidente, Aristide, e l’occupazione dell’isola da parte di
forze d’occupazione statunitensi a sostegno di un governo di
criminali.
Washington ha fornito alla
Colombia aiuti militari secondi solo a quelli regalati a
Israele. Obiettivo primario – e quello che potrebbe
ritardare l’aggressione diretta alla repubblica bolivariana
– è la liquidazione del movimento guerrigliero come primo
passo per consolidare la presa sulla regione andina e il
bacino superiore dell’Amazzonia. Raggiunto questo obiettivo,
si avrebbe la pista di lancio per occupare il Venezuela o,
almeno, le sue ragioni petrolifere. Di fronte a un esercito
venezuelano, auspicabilmente bonificato con l’immissione di
molti quadri meticci e indios, di appena 40.000 effettivi
(ma Chavez sta rafforzando la Riserva e punta al modello
cubano di difesa territoriale universale), stanno forze
armate colombiane triplicate negli ultimi anni fino a
267.000 effettivi. Fortemente aumentata risulta anche la
forza da combattimento aereo, mentre sono stati introdottoti
mezzi di sofisticata guerra tecnologica per individuare e
colpire la guerriglia.
In questa luce, il rapimento
di Rodrigo Granda appare soltanto come la prova di un ampio
progetto di intensificazione delle provocazioni, finalizzato
anche a sondare la lealtà, disciplina, e efficacia del
sistema di sicurezza venezuelano. Contribuendo a rianimare
un’opposizione fascistoide asservito al colonialismo, che le
successive avanzate della rivoluzione avevano ridotto in
coma cerebrale, gli USA stanno svolgendo un programma che
punta a constatare fino a che punto si possa spingere il
Venezuela a cedere sovranità e controllo delle proprie
frontiere.
Non si conti eccessivamente,
in questo scenario, su appoggi esterni al Venezuela.
L’Argentina è lontana e ha i suoi guai, l’Uruguay è ancora
diplomaticamente e militarmente irrilevante. Quanto al
Brasile, l’ambiguità dell’attuale governo si estende anche
alla dimensione dei rapporti interlatinoamericani. Al tempo
dei colpi di Stato e di mano dell’oligarchia venezuelana, il
ministro degli esteri di Lula, Celso Amorin, organizzò un
cosiddetto “Gruppo di amici del Venezuela”. Chavez si guardò
bene dal ricorrere alla sua mediazione: era composto da
ostili dirigenti neoliberisti ibero-americani, tra i quali
Aznar di Spagna, Bush, Fox del Messico, Lagos del Cile e un
Brasile che poneva sullo stesso piano l’opposizione golpista
venezuelana e il legittimo governo di Chavez. Ora Lula ha
nuovamente offerto i suoi servizi per mediare tra Colombia,
l’aggressore, e Venezuela, l’aggredito.
Non v’è alcun dubbio che
Chavez abbia l’appoggio incondizionato della stragrande
maggioranza dei venezuelani. Sa che il popolo è disposto a
combattere per difendere la sua terra, il suo governo, la
sua rivoluzione e il diritto alla propria sovranità. La
questione della sovranità venezuelana, non è soltanto una
questione di manovre diplomatiche, ma, come per Cuba e per
l’Iraq, i grandi vincitori sugli USA, riguarda
l’organizzazione delle masse venezuelane perché diventino un
deterrente militare contro ogni aggressione armata. Altro
che i disarmanti miti New Age della non-violenza.
La carta dell’aperta
aggressione militare, con tanto di bombardamenti e sbarchi
di marines è certamente all’ordine del giorno, ma per il
momento risulta inapplicabile per l’eccessiva estensione
della copertura militare statunitense in Asia e Medio
Oriente e, come ribadisce in ogni occasione Hugo Chavez con
sensi di riconoscenza, soprattutto per la grandiosa capacità
di paralizzare e far retrocedere l’apparato repressivo degli
occupanti dimostrata in un crescendo continuo dai partigiani
iracheni.
La qual cosa non esime certo
le forze antagoniste e antimperialiste europee dal
potenziare una solidarietà e, prima ancora, un’attenzione,
finora davvero inadeguate, per i protagonisti del grande
processo di emancipazione in atto in
Nuestra America,
a partire da Cuba e dal Venezuela (dove non stupisce che
i cosiddetti riformisti italiani, capeggiati da D’Alema, non
si peritano di continuare a esprimere il massimo sostegno
alla peggiore feccia fascistoide e golpista, responsabile
del saccheggio di un paese che, al momento dell’arrivo di
Chavez, teneva l’80% della sua popolazione sotto il livello
di povertà). Rafforzare la rivolta sudamericana e del Caribe
è compito che si attua eminentemente nello scontro con i
collaborazionismi nel campo di battaglia interno a ogni
paese. L’ultracapitalismo della Crisi, tornato ad essere
coalizione imperialista, imbellettato con il termine
“globalizzazione neoliberista”, va combattuto, come ci
ricordano sempre i compagni cubani e venezuelani, in prima
istanza nel proprio ambito. E’ questa la luce che da qui
possiamo aggiungere al sorgere del sole sull’America
Latina. Non per nulla alla fine di gennaio ci è pervenuto
dal Gruppo di Coordinamento della Solidarietà con la
Rivoluzione bolivariana, a Caracas, un appello diretto alle
forze antimperialiste in tutto il mondo e che, tra vari
punti, elencava: incrementare le mobilitazione popolari in
tutte le città del mondo; sostenere la sovranità del
Venezuela e di Cuba e il rispetto dell’autodeterminazione
di questi popoli; denunciare la politica guerrafondaia del
governo USA e del suo fantoccio Uribe; denunciare l’appoggio
degli USA a gruppi terroristi a Miami e in molte parti del
mondo, nonché quello della Colombia ai gruppi paramilitari
e ai golpisti dell’11 aprile 2002; denunciare il persistente
uso di rapimenti, torture, pratiche terroriste in
violazione dei diritti umani, praticati dal governo USA in
Iraq, Afghanistan, Guantanamo e, nel proprio territorio,
contro i cinque patrioti cubani.
L’appello si chiude con la
parola d’ordine: “Viva l’unità latinoamericana!”
Resta da sottolineare una
sensazione forte per chi ha la fortuna di trascorrere brani
di vita nelle rivoluzioni dell’America afro-indio-latina e
tra i suoi larghi e combattivi movimenti di massa, le sue
organizzazioni di lotta. Ascoltare le loro interpretazioni
del mondo, seguire la loro informazione di Stato o di
movimento nei mezzi di comunicazione, studiarne le analisi
dei conflitti in atto tra ricchi e poveri, e non tra
“democrazie e terrorismo”, è come una doccia purificante e
vivificatrice su cervello e sangue. Una disintossicazione
dalle menzogne, dalle distorsioni e dagli stereotipi, non
tanto dell’informazione e disinterpretazione capitalista,
che assolve al suo compito di classe con la ferocia e il
cinismo noti, quanto della subalternità, chissà se più
pigra, opportunista, o complice, delle sinistre
istituzionali e della loro comunicazione. Quello che da noi
va cercato a fatica nelle nicchie incontaminate
dell’autentico antagonismo alla borghesia, da quelle parti è
verità corrente e scontata: quello che qui è omissione e
nascondimento, là è realtà in piena luce. Così in Ucraina
quella che da noi viene esaltata come “democrazia
arancione”, là torna ad assumere il suo vero carattere di
colpo di Stato Cia attuato attraverso i manutengoli serbi di
Otpor; i bau-bau dell’umanità, Bin Laden e Al Zarkawi -
reali, o più verisimilmente fantasmi, che siano - riemergono
nei loro veri panni di autentici agenti della
controrivoluzione statunitense, quando ancora in vita, e la
“guerra al terrorismo” in Palestina, in Iraq e nel mondo, è
sterminio imperialista delle resistenze di popoli e classi;
la “democrazia” delle osannate primarie e del voto
quinquennale nella morsa dell’intossicazione mediatica, si
rivela per dittatura della borghesia e dei suoi
sottufficiali “riformisti” o “radicali”. La viscida, ma
astuta operazione “non-violenza” e del “rifiuto del potere”
è smascherata per quello che è: una subdola strategia per
disarmare le vittime e lasciare il monopolio del potere e
della violenza ai carnefici. Trova una risposta politica,
ma, prima ancora, etica e biologica, nell’”Esercito del
popolo sovrano” in Venezuela, e nella guerra di difesa del
popolo tutto a Cuba. Ma anche nei sei milioni di cittadini
iracheni che, ricevuti a suo tempo addestramenti e armi dal
proprio legittimo governo, oggi sono diventati la prima
barriera contro la fine della civiltà, se non della vita,
dell’unica civiltà sopravvissuta, quella dei proletari e dei
popoli del “Sud”, dovunque questo “Sud” si collochi.. Parola
di Hugo Chavez. Come mi ha detto Francisco Gonzales, il
generale Pancho del
Secondo Frente di Raul Castro nella Sierra
Maestra: “Noi siamo vivi perché siamo armati”.
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