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Una guerra per nasconderne altre
BEIRUT, BAGHDAD, GAZA: TERRORISMI SINERGICI
Il capitolo iracheno
del Nuovo Medio Oriente di Bush
05/02/2007
Un Iraq
per la ruota della morte dell’Occidente
Difficile per me scacciare l’Iraq e il suo
popolo dalla linea del fronte dei pensieri e sentimenti. C’ero arrivato
nel 1977, tempi del vino e delle rose, e avevo seguito quelle genti
attraverso tre guerre, tre devastazioni, tre rinascite, fino
all’esecuzione sommaria da parte di boia a stelle e striscie, con la
stella di Davide e con il concorso di manutengoli interni ed esterni,
nel nome della “Civiltà Occidentale” e delle tanto tossiche quanto
presunte “radici cristiane”. E tutti noi, iracheni e coloro che li
conoscevano e perciò stimavano, rispettavano, amavano, navigavamo
sull’esile barchetta della verità. I nocchieri erano eroi
dell’informazione come Stefano Chiarini o Seymour Hersh, sbattuti,
tempestati dalle feroci procelle della diffamazione di sistema, tanto
omologa da destra e sinistra, dall’alto al basso, quanto lo era prima di
Copernico la convinzione che la Terra fosse piatta e che il sole le
girasse attorno. E chi lo metteva in dubbio, come Ippazia di Alessandra
o Galileo, ne subiva le conseguenze. Ci volle poco, per Stefano e me,
per capire che l’assalto israeliano al Libano, sancito dalla “comunità
internazionale” con la risoluzione Onu 1701 (“colpa degli Hezbollah:
disarmiamoli!”), non solo era elemento portante del piano
israelo-statunitense per il Nuovo Medio Oriente, come apertamente
ammesso da Condoleezza Rice (“Il Libano? Doglie di parto del Nuovo Medio
Oriente”), ma che la concentrazione dell’attenzione mondiale su quella
guerra aveva anche il compito di distogliere dalle simultanee e
sinergiche strategie di soluzione finale in Iraq e Palestina.
Mi è capitato di riflettere su queste note
mentre mi trovavo in una delle terre più vivaci, antiche-giovani,
amabili e integre del nostro paese, la Puglia, là dove vicoli
intorcinati e balconati e abbaglianti candori di facciate, animati da
odori e sorrisi di altri tempi, mi richiamano quegli angoli di Baghdad o
di Basra nei quali ancora si respirava l’aria degli abassidi e,
sconosciuti, per quanto distanti, ci si incontrava spontaneamente da
amici sotto le volte, cupole, ai tavolacci di stamberghe antiche tanto
da sembrare quelle del grande padre Harun El Rashid. Ci rendiamo conto
di quale riconoscenza abbiamo offerto a coloro che a noi, sordi e ciechi
sotto la ferula di una Chiesa disumanamente repressiva, riportarono i
perduti Aristotele, Platone, Euclide, Archiloco e ci agevolarono verso
il riscatto del Rinascimento, quelle, sì, radici sane dei nostri
migliori tempi moderni? La riconoscenza di Goffredo da Buglione o di
Riccardo Cuor di Leone e delle loro carneficine nel nome di Cristo ad
Acri e Gerusalemme, quella dell’agente Lawrence d’Arabia che sottrasse
gli arabi ai turchi solo per portarli in ceppi al suo re, quella di
Golda Meir che negava l’esistenza dei titolari della casa predata,
quella dei serial-killer Badoglio e Graziani in Libia, quella del
generale Schwarzkopf che mandava i suoi carri a seppellire 100.000
soldati iracheni in ritirata e con le sue bombe all’uranio faceva
iniziare l’estinzione dei genitori e figli della prima scrittura, arte,
musica, legge, ruota dell’umanità, quella di Ratzinger che, nel pieno
della riconquista barbarica del Levante, non si perita di lanciare
contro l’Islam gli ottusi e strumentali anatemi di un bizantino che
annaspava nella decomposizione del suo “impero cristiano”?
Lì, tra muretti a secco e ulivi che ancora
ricordano l’incontro con i “mori”, ulivi che danzano, si contorcono, si
abbracciano, si sbracciano verso il cielo come implorando e si ripiegano
verso terra, tanto da ricadervi frantumati, ma solo per rigermogliare
nei secoli. Straziante metafora arborea della disperazione di un popolo,
antico come il primo degli ulivi, e della sua incorruttibile
determinazione a resistere, a rivivere, alla faccia di Alessandro Magno,
dei mongoli devastatori, dei bizantini, dei turchi, dei britannici, più
spietati di tutti. Come non riandare, alla vista di tanto turbinio di
vicende, sofferenze, ostinazioni, a quell’Iraq di prima dell’arrivo
della nostra “democrazia” e dei nostri “diritti umani”, che nella
democrazia viveva, la sua – se democrazia è rappresentanza degli
interessi e concretizzazione dei sogni dei popoli e delle persone – e
nei suoi diritti umani, se per diritti umani si intendono quelli della
buona e giusta vita, in cui sia garantita la salute, la conoscenza, la
casa, il lavoro, la vecchiaia, la donna, il bambino, l’ambiente, il
futuro. A tutti. C’era, è vero, un padre severo, ma un padre che, anche
a inevitabile scapito del singolo, sapeva condurre la sua comunità alla
sicurezza, all’equità e alla dignità, contro tutti i venti di tempesta
che mugghiavano ai suoi confini. Quell’equità e dignità e sicurezza che
mille anni di imperi lontani e spietati avevano negato alla
collettività, tollerandole soltanto nei ristretti ambiti di autogoverno
della tribù, dove ne era garante il più saggio, il più coraggioso, il
riconosciuto migliore. L’Iraq da questa vicenda millenaria uscì con la
rivoluzione anticoloniale del 1958. Di quale modello poteva dotarsi? Di
quello degli oppressori che ne avevano decimato il popolo, tenendone i
sopravissuti nell’ignoranza e nella negazione di ogni diritto?
Dall’Iraq, a destra e a sinistra,
eurocentricamente e arrogantemente si pretendeva che si desse, di colpo,
un’organizzazione istituzionale come quella che da noi ci aveva messo
tre secoli e altrettante rivoluzioni a maturare e oggi già appartiene
alle manifestazioni peggiori della decadenza, della corruzione e
dell’iniquità. Se ne pretendeva la scopiazzatura di questo modello,
purchè in posizione subordinata, a nostra disposizione, per il nostro
soddisfacimento etico di padroni-maestri e, di più, per i nostri eccessi
di benessere. Insomma un cavallino ammaestrato, danzante e rampante,
nell’arena del Gran Circo Occidente. Messo a girare nella Ruota della
Morte. E la pretesa era accompagnata dalla più massiccia e violenta
campagna di diffamazione e di menzogne che popolo o classe dirigente
abbia mai subito, per giustificarne il morso incastrato tra i denti, la
cavezza imposto al collo, la frusta abbattuta sul groppone e, nel caso
si rifiutasse alla doma, l’abbattimento come suole a Siena.
Chi
volle la guerra Iraq-Iran?
Per sottrarsi allo tsunami di falsità,
occultamenti, distorsioni che, dai tempi della rivoluzione del 1958 e,
peggio, da quella del 1968, che allontanò definitivamente l’Iraq dal
campo filo-occidentale, offuscano e stravolgono il ruolo dell’Iraq e del
suo gruppo dirigente, occorre prenderla un po’ alla lontana. Per esempio
dal cruciale rapporto tra Iraq e Iran, con Usa e Israele che tifano
dalla balconata, allora come oggi interpretato e trasmesso all’opinione
pubblica in versione opposta alla realtà, con il solito scopo di
demonizzare coloro che per tutta la seconda metà del secolo XX furono il
massimo ostacolo alla riconquista coloniale della regione del petrolio.
Sotto
le bombe iraniane in Kurdistan
Maggio 1980. Era una di quelle giornate
che nel Kurdistan iracheno raggiungono il diapason dell’azzurro, tra
infinità desertiche in basso vibranti di sole e azzurri nitori alpini in
alto. Amici iracheni ci avevano fatto visitare Irbil, capitale storica
di questi curdi, con in mezzo il cocuzzolo formato da un terrapieno
coronato dalla formidabile fortezza prima moresca e poi ottomana. Sotto,
un brulichio di vicoli, colori, lavori. Erano le opere del governo per
dare lustro alla città rinominata capitale del Kurdistan. Già, perché
fin dal 1972, il presidente Hassan al Bakr e il suo vice, Saddam,
avevano concesso alla regione autonomia e autogoverno, parlamento ed
esecutivo a Irbil, università curda a Sulemanieh, il curdo promosso a
seconda lingua ufficiale del paese, che tutti i ragazzini dovevano
imparare a scuola. Quello che percepivamo, attraversando il Kurdistan
dall’araba Kirkuk, ancora non curdizzata dalle milizie del fiduciario
israeliano Massud Barzani, a Mosul, era la soddisfazione di un popolo
che si era visto riconoscere quanto nessuno dei paesi in cui era sparso,
Siria, Iran, Turchia, aveva mai avuto: una forte autonomia, purchè non
mettesse in discussione il modello economico-sociale, di stampo
socialista, la difesa nazionale, la politica estera antimperialista e
antisionista e la partecipazione al formidabile sviluppo di una grande
nazione, al cui governo centrale partecipava con il suo Partito
Democratico Curdo, insieme al partito Baath e a quello comunista. Un
milione di curdi (su sei) erano scesi dalle loro montagne e da
un’arretratezza millenaria per trasferirsi a Baghdad, confusi al milione
di lavoratori sfuggiti alla miseria dell’Egitto dell’amerikano Sadat,
per lavorare in un paese che aveva sconfitto disoccupazione, ignoranza,
analfabetismo, subalternità della donna, abbandono sanitario, povertà,
e in cui il divario tra salario più basso e salario più alto era da 1 a
18 (da noi, oggi, da 1 a 280)
Il nostro viaggio ci portava verso il
confine iraniano, lungo una strada che ancora si stava scolpendo nella
roccia, sotto svettanti agglomerati di abeti. Dormimmo in un villaggio
turistico costruito alla finlandese da finlandesi, le nevi si stavano
sciogliendo in rivoli che infangavano i sentieri. Non chiudemmo un
occhio per due notti, causa l’ininterrotto scoppio di granate. Non ci
avevano avvertito, speravano che l’esperienza ci sarebbe stata
risparmiata. Da diverse settimane gli iraniani provocavano sparando
oltre frontiera con obici di lunga gittata. Anche quella volta. Poi, nel
barbaglio di quelle nevi, ci portarono a vedere i crateri. Alcuni si
aprivano dove prima c’erano case e botteghe. Solo a settembre di quell’anno
Baghdad si risolse a rispondere, dopo aver offerto al chierico nuovo
sovrano d’Iran, succeduto allo Shah, mille occasioni di negoziato.
Offerte di pace reiterate quando, un anno dopo, l’esercito iracheno era
penetrato in profondità, ma che Khomeini respinse per ben 8 anni. Lo
attestano i documenti di tutte le cancellerie.
Iran
islamista contro Fronte del Rifiuto
Ma noi eravamo venuti in Iraq per
assistere a un convegno internazionale di sindacati operai e movimenti e
partiti comunisti, socialisti e progressisti, associazioni di
solidarietà araba, di quelli che tra l’Avana e Baghdad mantenevano vivo
un tessuto di resistenti al capitalismo e all’imperialismo nuovamente
affamato dopo il trauma del Vietnam. Tema della conferenza era una
mobilitazione mondiale contro la resa di Camp David, quando l’egiziano
Sadat e l’israeliano Begin si accordarono sulla pelle del popolo
palestinese e dei suoi diritti. Si trattava di rafforzare il Fronte del
Rifiuto, creato da Saddam in risposta al tradimento del Cairo e che era
riuscita a strappare al concerto israelo-egiziano-statunitense ben 17
paesi arabi su 22. Era questo Fronte del Rifiuto, cui partecipavano
anche le organizzazioni di sinistra palestinesi che mai sarebbero scese
per la china disfattista poi percorsa dal gruppo dirigente, a costituire
la spina nel fianco del già maturo e articolato progetto
espansionistico di Israele e della liquidazione di ogni residua
resistenza nazionale e laica araba dal Marocco all’Iraq. Era il Fronte
del Rifiuto, ultimo anello di una catena virtuosa che aveva visto
succedere alla nazionalizzazione del petrolio nel 1972, il trattato di
amicizia e mutua difesa con l’URSS, l’autonomia curda, un modello
sociale in controtendenza all’offensiva del capitalismo predatore
eufemisticamente chiamato “liberismo”, ad aver determinato le potenze
occidentali a farla finita con questo Iraq laico, socialmente equo,
nazionalista nel senso migliore del termine. E lo strumento prescelto
era l’Iran. Decenni di menzogne politiche e mediatiche hanno da allora
cercato di ribaltare questo dato, invertendo i ruoli di aggredito e
aggressore. Non si fa così anche in Palestina, tra carnefice e vittima?
In Jugoslavia? A Cuba? In Irlanda? Nella Genova del G8?
Strozzare l’Iraq, gassare i curdi iracheni, dare la colpa a Saddam
L’ayatollah Khomeini era ritornato l’anno
prima da Parigi, con un aereo statunitense, sull’onda dell’insurrezione
di tutto un popolo contro la dittatura del fantoccio Usa, il
raccogliticcio imperatore Reza Shah. Eliminate in un oceano di sangue
tutte le componenti non “ortodosse”, nel senso del fondamentalismo scita,
della rivoluzione, le vere avanguardie, i comunisti, fedayin marxisti,
mujaheddin Al Khalk, islamici laici e, a finire, i curdi, speranzosi di
un’autonomia ispirata a quella dei fratelli in Iraq, Khomeini si diede a
predicare la scitizzazione universale e, nell’immediato, del mondo
arabo, preda millenaria. L’adiacente Iraq ne era l’articolazione
politica, culturale e militare più forte e rappresentativa. Faceva leva,
Khomeini, sulla gerarchia scita, influente tra le masse del Sud Iraq e
che, già ai tempi del suo collaborazionismo con gli inglesi, aveva dato
prova di anteppore la comunanza confessionale al fascino del
patriottismo e della coesione nazionale. Mentre ininterrottamente, da
radio e tv iraniane, Khomeini e altri esponenti del regime
sollecitavano le masse irachene “ a rivoltarsi contro l’apostata Saddam
e a rovesciare il regime iconoclasta”, sul piano delle provocazioni
diplomatiche ci fu la pretesa di Tehran di annullare gli accordi sui
confini conclusi ad Algeri con Baghdad nel 1975. I persiani
rivendicavano la sponda occidentale dello Shatt el Arab, contro il
trattato che aveva posto la linea di confine in mezzo al fiume, le isole
nell’estuario che avrebbero bloccato l’apertura dell’Iraq sul Golfo, e
addirittura territori nel Kurdistan iracheno. Nel frattempo,
infiltravano loro attivisti tra le popolazioni del Sud, a Basra, Najaf,
Kerbala, con il compito di attivare un’insurrezione. Il punto di non
ritorno fu la minaccia di Khomeini di chiudere all’Iraq lo Stretto di
Hormuz, sbocco del Golfo Arabo-Persico e unica via per l’export
iracheno. Dunque, sua vena giugulare. Contemporaneamente il regime degli
ayatollah rendeva un altro grosso favore al settore più bellicoso e
reazionario delle èlite statunitensi, tenendo occupata l’ambasciata Usa
a discredito di un presidente moderato, Jimmy Carter (colui che più
tardi si sarebbe attirato le ire del sionismo denunciando l’apartheid
dello Stato israeliano) e favorendo così la vittoria di Ronald Reagan,
iniziatore della fase più rozzamente aggressiva e autocratica
dell’imperialismo, al quale fu regalata la liberazione dei diplomatici
in ostaggio.
Nel settembre 1980 il governo di Baghdad
aveva denunciato all’Onu, alla Conferenza Islamica e al Movimento dei
Non Allineati ben 941 violazioni armate
del proprio territorio. Il ministro degli
esteri iracheno chiedeva l’ennesimo incontro con l’omologo iraniano. Per
tutta risposta il concistoro di Tehran chiudeva all’Iraq il traffico
sullo Shatt El Arab, una condanna a morte, e scatenava pesanti
bombardamenti su quattro città di confine. Fu l’inizio di una guerra
alla quale Kissinger augurò di dissanguare i due popoli e che costò un
milione di morti (www.uruknet.de/?s1=1&p=30714&s2=17).
Alla fine, nel 1988, l’esercito iraniano utilizzò ripetutamente l’arma
chimica contro quello iracheno. Lo documentarono tutti i media, poi lo
dimenticarono. Accadde anche a Halabja, spunto per una delle accuse più
infamanti a Saddam: aver gassato la propria gente. Come risulta da
testimoni e relazioni di tutti i servizi segreti interessati, su Halabja
finirono, involontariamente, sospinti da un vento maligno, gas sparati
dai persiani contro gli iracheni. Non furono certo 8000 le vittime (8000
è una cifra di repertorio, suona bene, funziona anche per la truffa di
Sebrenica, in Bosnia), ma alcune decine. Però fu accertato, anche dai
patologi, che furono uccisi da gas al cianuro, nervino, che si sa per
certo non era nelle disponibilità irachene. Divenne una delle maxiballe
che dovevano incidere nelle nostre coscienze, capitalisticamente
governate dalla paura, la minaccia di una specie di Gozilla arabo. Alibi
per quella che invece sarebbe diventata la più spaventosa mattanza umana
dei tempi moderni (New York Times,
Stephen Pellettier, 31/1/2004).
Uno
strumento per farla finita con il mondo arabo laico e antimperialista. A
sinistra si straparla di “uomo degli americani”
I rottweiler da combattimento, a cui
l’Iraq aveva sottratto l’osso coloniale, erano riusciti a trovare chi si
sarebbe incaricato della vendetta. Da allora, attraverso Afghanistan,
Algeria, Cecenia, Bosnia, l’utilizzo dello strumento del fanatismo
islamico, sollecitato ad arte da varie agenzie statunitensi, divenne una
costante nell’armamentario della destabilizzazione e della guerra
globale e permanente imperialista. E a Osama Bin Laden, vecchio
strumento occidentale della guerra all’Afghanistan laico e progressista
e all’Armata Rossa venuta in suo soccorso, fu dato il nuovo incarico di
contribuire alla distruzione della Jugoslavia in Bosnia e in Kosovo.
Islam cosiddetto politico, poi tornato utile nella guerra contro l’Iraq,
al punto che Israele, mentre disintegrava con un’incursione pirata (mai
sanzionata dall’Onu) la centrale nucleare irachena, Osirak, forniva
piloti istruttori e ricchi armamenti a Khomeini. Si ricorderà, a
dispetto dell’oblio forzoso imposto da tutta la stampa, lo scandalo
Iran-Contras quando, con il ricavato della vendita di armi israeliane ai
persiani, la ciurmaglia di Reagan, John Negroponte, Elliott Abrams,
Oliver North (tutti neo-sion-con attivi, poi, nella mattanza irachena di
oggi), istruiva, finanziava e armava i tagliagole Contras contro i
patrioti in Salvador e i sandinisti del Nicaragua. Non si fa torto a
nessuno quando si dice che Khomeini – allora adorato dall’ammazza-musulmani
della “7”, Carlo Panella, cellula della giulianoferraresca neoplasia
mediatica – finanziò e armò gli assassini del popolo salvadoregno e
della rivoluzione sandinista. Sia un promemoria per coloro che ancora
oggi, a sinistra, si affidano alla fede in un antagonista persiano
dell’imperialismo. Oppure al mito, specialmente diffuso nella sinistra
di nostalgie staliniste, di un Saddam “uomo degli americani” negli anni
’80. Mito che di solito viene fondato su una prova “inconfutabile”: la
foto di Donald Rumsfeld, emissario di Reagan, e Saddam che si stringono
la mano a Baghdad nel 1982. Peccato che la didascalia della foto non
ricordi che Rumsfeld era nella capitale irachena per perorare la
riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa, arteria di un greggio fortemente
voluto da Israele. Apertura seccamente rifiutata da Saddam. L’Iran ha
servito l’Occidente fin da quando Shah e Cia fecero fuori Mossadeq, il
Premier che, primo nel Terzo Mondo, azzardò l’offesa suprema: la
sottrazione del petrolio ai forzieri delle èlite occidentali. Oggi, con
la spregiudicatezza e l’astuzia che rendono quei preti assai affini a
quelli annidati in Vaticano, l’Iran, emergente potenza regionale, gioca
su tutti i tavoli, con ruoli diversi e addirittura opposti in commedia,
dal sostegno agli antimperialisti Hezbollah alla collisione con gli
imperialisti in Iraq, forte di un cinismo di cui sembrano capaci solo
coloro che la religione ha educato ai vertici dell’ipocrisia. Vale per
Tehran, come per gli eletti del Libro Sacro a Tel Aviv, come per i
fondamentalisti evangelici di Washington, come per i dotati di
rivelazione in San Pietro.
Iran
potenza regionale senza concorrenti grazie agli anglo-americani
L’alleanza tra persiani e coalizione
israelo-occidentale per la liquidazione di ogni residuo di una nazione
araba sovrana, indipendente, proprietaria delle proprie risorse (che
sono poi quella decisive per la sopravvivenza del capitalismo tutto), si
ripropone sia nella prima che nella seconda Guerra del Golfo. Ma fu
anche alimentata dai cospicui aiuti che il Congresso Usa stanziò per
l’Iran, in ognuno degli anni finanziari tra l’inizio e la fine della
guerra con l’Iraq. Se ne può trovare traccia nei documenti ufficiali dei
National Security Archives.
A destra e a sinistra si favoleggiò, invece, di un Iraq armato dagli
Usa, quando in quel paese non giunse mai neppure una colt nordamericana.
Si rivedano, a proposito, le immagini delle due guerre del Golfo e degli
armamenti iracheni, esclusivamente sovietici e di vecchia generazione.
Anche all’assalto dei trenta e passa paesi (Italia compresa) all’Iraq,
reo di essersi ripreso il Kuwait, cioè la 17. provincia sottratta nel
1927 dagli inglesi, che gli rubava il petrolio da sotto il confine e ne
boicottava la ripresa economica dopo il dissanguamento della guerra,
abbassando drasticamente, su direttiva Usa, il prezzo del petrolio,
l’Iran diede il suo contributo. Prima, sequestrando l’intera flotta
aeronautica irachena che Saddam aveva trasferito a Tehran, fidando nell’
antimperialismo verbale di Khomeini e, poi, a Iraq massacrato,
infiltrando nel Sud scita e nel Nord curdo migliaia di pasdaran che
avrebbero dovuto completare l’opera degli alleati sollevando queste
minoranze contro il governo. L’impresa, già tentata e sventata dopo la
guerra Iraq-Iran, fallì per la reazione delle residue forze governative
irachene e, soprattutto, per la scarsa adesione delle popolazioni
coinvolte. Non vi fu allora, l’atteso appoggio ai rivoltosi da parte
degli anglo-statunitensi, ma più tardi gli Usa compensarono questo
“tradimento” offrendo all’Iran una vittoria strategica, liquidando d’un
sol colpo i suoi nemici storici: l’Iraq laico, con un embargo genocidi
di 13 anni (2 milioni di morti, di cui un terzo bambini) e la successiva
occupazione-disintegrazione, e con l’Afghanistan dei Taliban
polverizzato grazie al falso alibi delle Torri Gemelle..
Il
mondo se la prende con i “terroristi” Hezbollah e dimentica l’olocausto
iracheno
Fino a quando la pulizia etnica israeliana
mantenne il suo ritmo “normale” di assassini mirati, distruzione di
terre e case, arresti e punizioni collettive, progetto genocida
mascherato a un certo punto dal ritiro dei coloni da Gaza, che a Ariel
Sharon guadagnò il riconoscimento addirittura di Bertinotti di “uomo di
pace”, e fino a quando in Iraq l’inarrestabile avanzata della guerriglia
saddamita e islamica equilibrava il mattatoio degli squadroni della
morte allestiti da John Negroponte sul modello salvadoregno,
l’attenzione del mondo riservava a questi processi una certa attenzione.
Il movimento per la pace ne traeva la forza per imporsi sulle piazze e
esercitare una discreta influenza su settori politico-parlamentari di
opposizione al guitto dell’imperialismo Berlusconi. Ma l’annunciato
ritiro del contingente italiano dall’Iraq e poi lo scoppio della guerra
al Libano sottrassero in buona misura quegli avvenimenti dallo scenario
mediatico e politico e l’apparente inedito ruolo neutrale, “equivicino”,
come lo definiva il nuovo governo dell’Unione col pieno consenso delle
sinistre, fece ammutolire la maggioranza delle voci antiguerra e offrì
agli occupanti in Iraq e Palestina il destro per accelerare verso la
progettata soluzione finale. Il Libano, insomma, funzionò da schermo.
Da
Samarra alla “soluzione finale” in Iraq, Palestina, Libano, nel segno
del Nuovo Medio Oriente israelo-statunitense
Il 12 febbraio 2006 saltò per aria uno dei
monumenti storici e religiosi più importanti dell’Iraq e di tutto
l’Islam: la cupola d’oro della moschea di Samarra.
Non ci fu mezzo d’informazione, da destra
a sinistra, che riportasse un dettaglio decisivo di quella vicenda: il
fatto che elementi armati del Ministero degli interni, coperti da
reparti Usa, la sera prima erano penetrati nel tempio e vi erano rimasti
per diverse ore. Con ogni verosimiglianza per allestire il botto. Una
guerra civile tra sunniti e sciti che nelle intenzioni degli occupanti –
e secondo il piano commissionato dall’Amministrazione Bush alla Rand
Corporation, intitolato “Strategia Usa nel mondo islamico dopo l’11/9”
- avrebbe dovuto portare alla tripartizione del paese tra Nord curdo,
sotto protettorato israeliano (garante dei rifornimenti petroliferi a
Tel Aviv), centro sunnita, inoffensivo, privo di risorse e tenuto in
ceppi da basi e controlli Usa (all’italiana), Sud scita, di obbedienza
congiunta iraniano-angloamericana, era stata fino a quel momento
ostacolata dalla radicata cultura interconfessionale del popolo
iracheno. Conviene qui anche ricordare l’analogo “Piano sionista per il
Medio Oriente” elaborato nel 1982 dal consigliere militare di Begin,
Oded Yinon, che, assunto dal governo israeliano, prevedeva una strategia
di lunga lena per la disarticolazione dell’intero mondo arabo attraverso
la promozione di conflitti tribali, religiosi, etnici, fino allora
sopiti nella tradizione della tolleranza islamica e dell’ideale panarabo.
Il
vecchio strumento Al Qaida per la divisione dell’Iraq e contro la
Resistenza
Da secoli, sunniti, sciti, ebrei,
turcomanni, assiri, cristiani, curdi avevano convissuto senza tensioni,
la stragrande maggioranza dei matrimoni erano misti e misti erano i
quartieri di Baghdad e delle maggiori città. Furono gli attentati del
Mossad, negli anni ’50, a sconvolgere la secolare convivenza degli ebrei
d’Iraq e ad avviare una deportazione che li sradicò da una terra di
armonia e tolleranza per sprofondarli, sefarditi, in una condizione di
subalternità ai dominanti ashkenaziti di origine europea. Ci volle un
tale Pantarelli, giornalista del “manifesto”, a definire deliranti le
affermazioni, condivise da tutti i conoscitori e dal collega Stefano
Chiarini, secondo cui sotto Saddam le religioni presenti erano
rispettate e onorate alla pari. Lo Stato laico del Baath aveva garantito
la sicurezza e il rispetto di tutte le confessioni. La consapevolezza di
appartenere a una grande comunità nazionale, parte integrante del più
grande contesto storico e culturale del mondo arabo, aveva negato il
successo all’operazione negropontiano-iraniana di frantumare il paese
per linee etnico-confessionali. Quante volte, prima, durante e dopo
l’aggressione mi sono sentito ripetere “Siamo prima iracheni e poi
sunniti, sciti, cristiani…” Merito di chi aveva saputo costruire una
nazione intorno a valori condivisi e dare autostima a un popolo percosso
da abusi secolari. I successivi governi fantoccio dei collaborazionisti
sciti, con personaggi religiosi e politici tutti indistintamente legati
all’Iran (e spesso addirittura di origini iraniane), pur disponendo di
milizie addestrate, armate e finanziate in armonica intesa da Tehran,
Washington e Tel Aviv, e pur compiendo un numero terrificante di
provocazioni stragiste nei diversi ambiti, non erano riusciti a
scatenare l’armagheddon decisivo. E’ vero che l’occupante aveva fatto di
tutto, rubando, incendiando e disperdendo al vento le testimonianze di
sei millenni di civiltà, distruggendo musei e biblioteche, devastando e
rapinando siti archeologici ineguagliabili. E’ vero che, con input dei
servizi israeliani, l’Iraq aveva subito la decapitazione della sua
intellighenzia, con migliaia di accademici, scienziati, medici,
ingegneri, professionisti, assassinati e costretti a espatriare; è vero
che le condizioni di vita della popolazione erano ridotte, in mancanza
di infrastrutture, servizi essenziali, elementi basilari per la
sussistenza (cibo, farmaci, acqua potabile, energia), a livelli di
inenarrabile degrado. Ma è anche vero che ogni tentativo di aver ragione
della Resistenza, diretta da forze che da decenni si erano preparate
alla guerra asimmetrica e sostenuta dagli esperti quadri dell’esercito
di Saddam e dalle milizie civili, si scontrava con l’appoggio della
maggioranza della popolazione. Ma, in qualche modo, né il terrorismo
generalizzato, articolato sulla tecnica dell’intimidazione di massa
attraverso rastrellamenti, distruzioni di case, stupri di massa, tortura
sistematica di detenuti, sequestro di ostaggi famigliari per ottenere la
resa dei combattenti, né la distruzione di intere città con armi
proibite, da Falluja a Ramadi, ai tanti centri del cosiddetto Triangolo
Sunnita, avevano avvicinato l’obiettivo della frantumazione del paese e
della fine della Resistenza.
Le operazioni militari di quest’ultima
erano cresciute da 40 al giorno, nell’estate del 2003 a un centinaio per
tutto il 2005. Calcoli dei comandi Usa facevano ammontare a circa
200.000 i combattenti della Resistenza. La massima parte del territorio
iracheno era stata riconquistata al controllo della Resistenza e delle
grandi tribù, sunnite, scite o miste, i cui capi non facevano che
ribadire la propria solidarietà alla lotta di liberazione, per poi
vedersi sventrare le case e le famiglie da incursioni contro “cellule di
Al Qaida”. Con la distruzione della Cupola d’oro di Samarra,
rievocatrice di analoghe operazioni di occupanti coloniali, dalle bombe
dell’OAS tra i musulmani in Algeria, agli attentati dinamitardi contro
civili in Irlanda attribuiti all’Ira, ma poi confessati da agenti
britannici, lo scopo doveva essere raggiunto, anche al costo di un
pianificato tsunami di orrori e di sangue. Con il beneficio correlato
della deviazione verso lo scontro fratricida di una lotta nazionale
contro l’occupante e i suoi ascari che crescente imbarazzo e
disaffezione popolare stava causando all’amministrazione dei
fondamentalisti evangelico-sionisti attorno al debilitato Bush. E’ in
questa fase che torna sulla scena alla grande Al Qaida reclamizzata con
a capo un inafferrabile fantasma, Abu Mussa Al Zarkawi, un piccolo e
rozzo malvivente giordano del quale si proclama la morte in battaglia
solo quando le sue presunte infinite fughe per un pelo e la cattura di
un numero grottesco di suoi “bracci destri” rendono l’invenzione del
tutto ridicola. Anche perché venivano alla luce testimonianze, comprese
quelle della sua famiglia giordana a Zarka, sulla sua morte sotto le
bombe in Kurdistan nel 2003 e sul successivo funerale pubblico. Ma di
fronte all’orrore del mondo per il disvelamento della vera natura dei
responsabili statunitensi, israeliani e dei loro reggicoda ad Abu Ghraib
e alla macellazione di un popolo intero per mano degli occupanti e delle
loro milizie (mercenari italiani compresi), a chi si poteva addossare la
responsabilità se non a quell’organizzazione Cia di Osama Bin Laden
(anche lui defunto, secondo fonti giornalistiche e governative
pakistane, nel 2001, ma resuscitato da una successione di improbabili
video), che le popolazioni, le forze della Resistenza, i capitribù
dichiaravano del tutto inesistente in Iraq? Ma quando mai si può dar
credito a dei “terroristi”? E se circolavano volantini firmati “Al Qaida”,
non erano forse circolati nelle madrasse degli studenti di teologia
afgani i manuali stampati in Texas dalla succursale Cia,
National Endowment for Democracy (NED),
che incitavano alla jihad
e insegnavano come far esplodere vite e edifici?
Chi
mette le bombe: la tecnica delll’11 settembre nei mercati di Baghdad
Fu l’ambasciatore John Negroponte a
rilanciare in Iraq la “opzione Salvador”
da lui collaudata nel Centroamerica degli
anni’80. Qui il ruolo dei Contras venne assegnato, con grande
soddisfazione e sostegno materiale di Tehran, alle milizie dei partiti
sciti Dawa e
Sciri (Consiglio Supremo
della Rivoluzione Islamica in Iran), ai quali erano legati tutti i
primi ministri quisling – Al Jaafari, Alawi, Al Maliki - succedutisi dal
primo “governo provvisorio” del viceré Usa, Paul Bremer, e “legittimati”
via via da elezioni-farsa alle quali la maggioranza sunnita non
partecipava e la minoranza scita partecipava sotto la minaccia della
fatwa dell’ayatollah iraniano Al Sistani, trapiantato dall’Iran a Najaf.
E se le milizie Al Badr, dello Sciri di Abdelaziz Al Hakim, avevano
legami organici con il ministero degli interni, nelle cui segrete
venivano torturati e trucidati a centinaia resistenti veri o presunti e,
comunque, sunniti, quelle del chierico che dominava la città-sobborgo di
Sadr City (già città-modello per i profughi dal Sud uranizzato da Bush
padre, poi ridotto a fatiscente slum), Moqtada al Sadr, chiamate
“Esercito del Mahdi”, agivano da pretoriani del premier Nuri Al Maliki.
Lo scatenamento pieno di queste milizie, i cui capi si potevano
periodicamente incontrare in colloqui con i massimi dirigenti iraniani
(ci fu anche un affettuoso incontro tra Al Hakim e Bush), si realizzò,
con indiscriminata ferocia, soprattutto dopo l’attentato di Samarra. In
precedenza erano state le forze speciali degli occupanti ad assumersi il
compito, collaudato in varie guerre coloniali, della provocazione
stragista.
Si ricorderà il clamoroso episodio del
2005, quando a Basra un inconsapevole posto di blocco della
polizia-fantoccio tentò di fermare una camionetta condotta da due
“arabi” con indosso tanto di
jallabiah e kefiah.
Appena scoperto che non di arabi si trattava, ma di due agenti
britannici delle famigerate SAS (Special
Air Services), esperti disseminatori di bombe a Aden e a
Belfast, costoro aprirono il fuoco e uccisero due poliziotti. Arrestati,
nel veicolo si scoprì una vera e propria santabarbara pronta ad
esplodere con comando a distanza. Erano diretti verso l’affollata piazza
del mercato antistante una moschea. Prima che potessero essere
interrogati, una colonna di carri armati inglesi, sparando
all’impazzata, penetrò nella prigione dove erano trattenuti,
abbattendone il muro di cinta e se li portò via. Analoghi episodi furono
poi raccontati a giornalisti e testimoni vari da possessori di
autovetture a Baghdad che, essendosi vista sequestrare la macchina da
militari o poliziotti e essendo stati invitati a ritirarla qualche
giorno dopo, accidentalmente la scoprirono imbottita di esplosivo. In
due occasioni, riferite dal prestigioso giornalista dell’
Independent londinese,
Robert Fisk, ai proprietari delle auto recuperate fu detto di dirigersi
in una certa area, sempre piena di gente, un mercato o una moschea, e di
chiamare al cellulare il comando di polizia per riferire cosa stava
succedendo. In un caso il cellulare non aveva campo, il conducente si
allontanò per chiamare e in quel momento vide saltare per aria la sua
vettura; nell’altro, sempre perché il telefonino non prendeva, l’uomo
chiamò da un telefono fisso, con lo stesso risultato. Dal che non è
difficile capire chi tenesse il dito sul pulsante del terrorismo
iracheno. Con ogni certezza gli stessi che sistematicamente rapivano, e
volte uccidevano, giornalisti o pacifisti stranieri, da Giuliana Sgrena
alle Simone del “Ponte per…” (incastonate nella nostra memoria per
l’indecorosa sceneggiata della finta liberazione gestita dal
crocerossino Scelli, con il concorso di compiacenti operatori
televisivi), dai giornalisti francesi al povero statunitense Nick Berg,
processato e decapitato in un video da un Al Zarkawi che,
miracolosamente, aveva recuperato la gamba persa in Afghanistan e
parlava con l’accento arabo di uno straniero. Un attento esame del
filmato mostrò che l’ambiente delle riprese, pavimento, arredi, pareti,
tinteggiatura, erano del tutto identici agli interni di Abu Ghraib…
Tutto questo non lo vedevano, ovviamente, solo i giornalisti
embedded, arruolati, ma
anche, incredibilmente, giornalisti di sinistra come Giuliana Sgrena,
affetti da un bigottismo eurocentrico per il quale condividevano con
l’aggressore tutti gli stereotipi propagandistici, a partire dal
“terrorismo islamico” e da “Al Qaida”.
Angloamericani e iraniani: due avvoltoi sul corpo dell’Iraq
A partire da Samarra, alle bande armate
filo-iraniane venne data totale libertà d’azione. Si distingueva per
particolare efferatezza la milizia del doppiogiochista Moqtada Al Sadr,
il giovane prete che, con due rivolte antiamericane, a Najaf e a Sadr
City di Baghdad, si era guadagnato la nomea di capopopolo scita contro
gli occupanti. Il ruolo effettivo da lui invece assunto, per conto sia
degli occupanti sia, in misura privilegiata, degli iraniani, era quello
di sterminatore di ogni presenza baathista – incessanti erano le sue
manifestazioni intorno al tribunale in cui si processavano, si fa per
dire, i dirigenti del governo legale, e nelle quali turbe di fanatici
invocavano l’esecuzione immediata di Saddam – e della pulizia etnica dei
quartieri sunniti di Baghdad. All’interno di queste operazioni assumeva
un carattere particolarmente odioso la persecuzione di Al Mahdi contro i
profughi palestinesi. Ce n’erano a Baghdad 40.000, cui Saddam aveva
costruito un quartiere di particolare pregio. Dopo le ininterrotte
irruzioni dei tagliagole di Moqtada, nell’inverno 2006-2007, ne erano
rimasti 17.000. Gli altri, o trucidati, o fuggiti verso il confine
siriano dove, al momento in cui scrivo, tuttora languono in tendopoli
esposte al gelo e alla fame, inibiti dall’entrare in Siria, dimenticati
dal mondo, anche da coloro che solidarizzano con la Palestina. Nelle
loro case vivono gli sgherri del prelato scita.
Saddam
sul patibolo, il petrolio in tasca alla criminalità occidentale
La guerra civile, funzionale alla
frammentazione del paese e all’emarginazione della Resistenza nazionale,
doveva precipitare a tutti i costi. Così a Samarra seguono, con cadenza
infernale, altre stragi, nelle moschee, nei mercati, nelle università,
nelle scuole, mentre i marines e l’aviazione Usa si occupano delle
incursioni fuori dalla “Zona Verde” in cui sta rintanata la dirigenza
degli occupanti e dei loro pseudo-governi, con spedizioni terroristiche
contro i centri di cui si sospetta che alimentino la Resistenza. La
quale, dal canto suo, riesce ancora a incrementare la sua efficacia fino
ad arrivare, agli inizi del 2007, a una media quotidiana di cinque
militari Usa caduti e di circa 120 operazioni in tutto il paese, mentre
gli elicotteri degli occupanti vengono tirati giù al ritmo di almeno uno
alla settimana. Il caos è totale, la vergogna di un olocausto
paragonabile per efferatezza ai peggiori della storia e ormai a questi
superiore per durata e dimensione splatter, intacca anche quel che
rimane del sostegno o della comprensione per la strategia della cricca
Bush, i contingenti dei paesi complici nell’occupazione si ritirano uno
dopo l’altro, le elezioni di medio termine negli Usa – stavolta non
falsate dai brogli bushiani - vanno ai democratici, i sondaggi non
fanno in tempo a seguire la rotta dei consensi a Bush, nel mondo
riprende vigore un movimento della pace depurato dei suoi elementi più
ambigui. Diventa sempre più evidente che, se ci sono vincitori in Iraq,
non sono gli Usa, ma piuttosto la Resistenza, indomata e in crescita in
tutto il paese e, per quanto riguarda il controllo politico-militare
delle istituzioni fantoccio e le pulizie etniche, il complice-rivale
Iran con i sicari sciti al centro e i peshmerga curdi nel Nord-Est. A
questo punto il rapporto tra occupanti occidentali e forze
politico-militare-religiose allineate a Tehran, risoltosi in questi mesi
nettamente a favore degli iraniani, rischia di subire una mutazione da
collusione a collisione. Anche perché incominciano a irritarsi gli
alleati storici degli Usa nella Penisola arabica, sauditi in testa, alla
cui destabilizzazione ad opera della contestazione sociale interna
concorrono ora anche gli agitatori della minoranza scita. Si rischia
un’esplosione incontrollabile di tutta la regione. E non nel senso della
ristrutturazione vaticinata dal Nuovo Medio Oriente. A Washington il
subumano nella Sala Ovale può registrare solo due soddisfazioni:
l’immonda farsa del processo e dell’ esecuzione di Saddam, “colui che ha
attentato al mio papà”, per le mani di una feccia schiamazzante, incluso
a quanto pare anche lo stesso Moqtada. Soddisfazione peraltro minata
dallo straordinario coraggio e dignità del presidente iracheno, innesco
di una vasta, commossa e rabbiosa mobilitazione panaraba. L’altra
soddisfazione la dà a lui e ai suoi sostenitori la scandalosa legge sul
petrolio approvata da un parlamento di venduti a inizio 2007. Legge che
rimedia alla nazionalizzazione dell’”uomo degli americani” con la
cessione del 75% della ricchezza irachena alle multinazionali
dell’impero, esentasse, con tutti i profitti rimpatriati, manco fossimo
nel 1920 dell’apice della rapina coloniale. C’è solo da consolarsi col
fatto che gli ininterrotti sabotaggi degli oleodotti e pozzi petroliferi
ad opera dei partigiani iracheni stanno mandando in vacca questo furto
con destrezza delle multinazionali, Eni, garantita dagli “eroi di
Nassiriya”, compresa.
Fermare
la Resistenza, contenere l’Iran. Dal piano Baker al piano Bush al piano
Baker
E’ il momento dell’Iraq
Study Group messo in piedi da Bush nell’autunno del 2006,
affidato all’ex-segretario di Stato James Baker e a Lee Hamilton e che
produce un proposta per il quale dal pantano si può sperare di uscire
soltanto con un ritorno alle armi della diplomazia e con il
coinvolgimento dei paesi vicini, Siria e Iran. La banda integralista
attorno al presidente, legata mani e piedi agli estremisti della
comunità ebraica e a Israele, nonché al complesso petrolifero e
militarindustriale, uscito enormemente rimpinguato dall’operazione Iraq,
non ne vuole sapere e induce Bush a rilanciare: altri 21.000 soldati di
un esercito che non ce la fa più, minato da demoralizzazione e droghe e
a cui vengono a mancare gli effettivi; altre migliaia di mercenari,
oltre ai centomila già impegnati nel fiancheggiamento delle truppe,
altre ondate di bombardamenti sui civili e, sul piano diplomatico, una
più accentuata aggressività verbale nei confronti dell’Iran, corroborata
da una formidabile escalation della presenza aeronavale nel Golfo e nel
Mediterraneo. Che però si deve prendere cura di Siria, Afghanistan,
Somalia e Sudan. Ma la svolta avviene anche sollecitata dai paesi
clienti degli Usa nel mondo arabo, in prevalenza sunnita, dall’Egitto
all’Arabia Saudita, preoccupati, nella loro fragilissima posizione di
regimi antipopolari, costantemente minacciati dalla contestazione di
masse diseredate e escluse, ma ancora profondamente legate all’obiettivo
panarabista, dalla travolgente avanzata dell’espansionismo scita di
marca persiana. Ignorando il piano Baker, Washington si illude ancora
una volta di poter avere ragione – attraverso l’operazione
Surge di imposizione a
qualsiasi costo della “sicurezza” a Baghdad, in qualche altro centro
del paese ormai dato per perso nella maggior parte del suo territorio –
sia della Resistenza nazionale, intatta e all’offensiva dopo oltre
quattro anni, durante i quali gli Usa hanno gettato nel conflitto tutto
quello che avevano, sia del concorrente iraniano. Gli alleati arabi, che
all’ottusità militarista teo-neo-con oppongono una ben più consapevole e
antica conoscenza delle cose nella loro regione, non si rassegnano.
A due mesi dall’inizio di
Surge, gli Usa si accorgono
di non essere in grado di agganciare obiettivi neppure minimi nella
normalizzazione di Baghdad senza il concorso delle milizie scite. Il
premier Al Maliki, a cui Moqtada al Sadr fornisce la guardia pretoriana,
legato a doppio filo a Tehran e che doveva essere a un certo punto,
secondo gli avvertimenti di Condoleezza Rice, spodestato e sostituito da
qualcuno che esprimesse una qualche forma di “concordia nazionale” con i
coinvolgimenti dei sunniti disponibili, rimane al momento al potere e,
anzi, fa segretamente espatriare in Iran gli alleati Moqtada e Al Hakim,
dopo che questi, per rabbonire gli Usa, avevano ordinato alle proprie
formazioni armate di sostenere il “piano di sicurezza” degli occupanti.
Ma la prospettiva, reiteratamente tentata, di una “riconciliazione
nazionale” attivata da sparuti gruppetti di pseudo-oppposizione
(comunisti ortodossi e fedifraghi, peraltro gemellati al PRC di
Bertinotti, sunniti moderati, frammenti della Resistenza), regolarmente
respinta dalla vera Resistenza, come dal dignitoso e irriducibile
Consiglio degli Ulema sunniti, finisce nel nulla.
La
trincea dell’umanità
L’impasse per gli Usa è totale, con la
cancelliera tedesca Merkel, il presidente francese Chirac e addirittura
Tony Blair, che sottovoce suggeriscono di dar seguito al Piano Baker;
con la battaglia-simbolo di Surge
a Baghdad per l’affascinante Haifa Street, meraviglia degli
architetti di Saddam e sede del grandioso Museo di Arte Moderna
iracheno, che dopo quattro settimane di micidiali bombardamenti e
incursioni di marines e fantocci, resta imprendibile; con Falluja,
Ramadi e perfino Mosul nel Nord e Basra nel Sud, che tornano a essere
impraticabili per gli occupanti; con le roboanti minacce a Tehran, che
cadono nella più assoluta indifferenza iraniana e non ottengono
l’adesione di pezzi grossi come Russia e Cina e solo un timido
accompagnamento in sottofondo da parte dell’Unione Europea. Siamo a
primi di marzo e, spalle al muro, l’amministrazione Usa pare rassegnata
ad accettare il concorso diplomatico consigliato da Baker: una
conferenza che coinvolga i fantocci iracheni, sempre e comunque quinta
colonna di Tehran, l’Iran stesso, la Siria, visto come storico fattore
di equilibrio regionale, che così uscirebbe dalla tenaglia approntata
con la manomissione del Libano, altri Stati arabi e forse altre grandi
potenze. Si tratta di raggiungere un equilibrio tra amici arabi degli
Usa e avversari iraniani, peraltro complici nello sbranamento dell’Iraq,
inventandosi un interlocutore sunnita in Iraq che accetti, nel nome
della illusoria “riconciliazione nazionale”, un’equa suddivisione del
paese tra dominatori stranieri, giocoforza a egemonia Usa. Interlocutore
già affannosamente cercato varie volte, addirittura coinvolto
nell’amministrazione fantoccio, ma regolarmente privato di ogni
rappresentatività e, quindi, credibilità politica, dalla mancanza di
base sociale. Nonostante i tamburi di guerra che da Washington
continuano a rimbombare contro l’Iran, con il pretesto dello sviluppo
nucleare, ma contro il vero pericolo della sottrazione dell’Iraq al
controllo Usa, il pericolo del conflitto Usa-Iran sembra allontanarsi.
Ai generali Usa che hanno minacciato di dimettersi nel caso di
un’aggressione, è chiaro quanto agli psicopatici della guerra globale e
permanente negli Usa e, soprattutto, in Israele resta oscuro: la
capacità iraniana di mandare a ramengo qualsiasi progetto occidentale
sull’Iraq, seconda, ma forse prima, riserva mondiale di idrocarburi, non
appena un F-17 Usa si affacci dalle dune del Golfo o dai picchi nevosi
del Kurdistan. All’orizzonte, inoltre, si affaccia l’annunciata e
temutissima offensiva dei Taliban in Afghanistan, contro la quale
britannici e statunitensi rischiano di restare soli e in mutande,
nonostante il servilismo guerrafondaio del governo Prodi. Il quale
Prodi, intanto, trema all’idea che, venendo trascinato dal suo
imperatore nell’ulteriore guerra all’Iran, perderebbe anche gli ultimi
resti di un consenso sociale in veloce evaporazione. Se guerra all’Iran
ci sarà, verrà, a scanso di un pazzoide che prema il bottone, parecchio
più in là. Per adesso l’antica complicità dei tempi dello Shah e di
Khomeini resta, che piaccia o no, il jolly del gioco a carte
mediorientale. Intanto, mentre tutti si occupavano di Libano,
l’olocausto iracheno arrivava, secondo un inconfutabile studio
iracheno-americano, riconosciuto da
Lancet, la più autorevole rivista scientifica del mondo, a
657.000 morti ammazzati entro l’ottobre 2006. Da allora la mattanza ha
assunto il ritmo di circa cento torturati e ammazzati al giorno. Li si
ritrovano nei fossi lungo le strade, nei giardini, nel fiume. Perlopiù
hanno il cranio, gli occhi, il corpo trapanati. Sono quasi sempre
sunniti. Coloro che assistono al sequestro di queste vittime
concordemente riferiscono di sicari nelle uniformi del Ministero degli
Interni, o nella tenuta nera dei miliziani di Moqtada. Le stesse fonti
di Lancet fanno salire a
un milione gli uccisi a
marzo 2007. Aggiunti ai
due milioni uccisi dall’embargo, fa oltre tre milioni. Quasi tre milioni
sono anche gli iracheni che hanno dovuto lasciare il paese. Prima della
guerra gli iracheni erano 22 milioni. Meno sei. Ci ricorda qualcosa
questa cifra? Anche gli inglesi, in 40 anni di brutale dominio
coloniale, li avevano malthusianamente sfoltiti così, tra gas lanciati
dagli aerei di Churchill, inedia, malaria e tubercolosi senza
prospettiva medica. Anche allora con l’aiuto degli iraniani e della loro
quinta colonna in Iraq. Eppure hanno perso. Oggi l’Iraq, martirizzato
quanto si vuole, è tornato a essere, come ho sentito dire una volta al
presidente venezuelano Hugo Chavez, la trincea della liberazione dei
popoli.
Chi
vivrà…Iraq!
Non posso chiudere questo capitolo senza
una nota personale. Quel paese mi accompagna ogni giorno della vita.
Fonte di angoscia e di affetto senza uguali. Ci ho fatto amicizia per
trent’anni, l’ho seguito nelle sue spirali di tragedie e resurrezioni,
come si possono seguire le picchiate, cabrate e impennate di un
aquilone. Che sale, ti culla nel sogno del volo, aspirazione massima
dell’uomo, metafora di un mondo di giustizia, serenità e dignità. Questo
è stato l’Iraq per tanti anni, un aquilone da risalite vertiginose, una
locomotiva come quella di Guccini. Una locomotiva contro la stagnazione
e la rassegnazione del mondo degli emiri, rubinetti d’oro e schiavi,
contro i lupi mannari che affilavano i denti alle sue porte. La
possibilità della rinascita, la possibilità di tessere il futuro con il
meglio di un passato senza uguali nella storia degli uomini. Un paese a
cui pochissimi hanno pagato il debito della verità. I licantropi della
morte e della follia lo hanno accerchiato, ciechi di buio e di abbagli
che accecano e non illuminano, hanno sventrato l’aquilone con i B-52,
con i mostri di morte Abrams hanno spinto la locomotiva della vita
nell’abisso. Hanno azzannato, lacerato, hanno squarciato un corpo che
era più bello del prigione di Michelangelo nel momento della rottura
delle catene.
Era l’8 aprile 2003. La casa era al fondo
di una strada che finiva sul Tigri, dove tra luci che facevano delle
acque scure un controcielo di stelle, tante volte avevamo cantato,
aggredito i mali del mondo là fuori oltre la Terra dei Due Fiumi,
scherzato affratellati e giurato scorno alle nuvole di tempesta che già
si infittivano all’orizzonte, sull’orlo del deserto dorato. E’ stata la
mia ultima cena con il Dottor Rhiad, le vispissime sue figlie in vista
di lauree da spendere nella pavimentazione del futuro, il figliolo che
teneva a fianco il Kalachnikov come fosse un arto, come tutti gli
iracheni d’onore in vista della battaglia. Battaglia finale, battaglia
persa nell’immediato, ma in un segno che da noi quassù, nelle nostre
paludi, s’è perso: il segno della dignità. La moglie, ricordo per
sempre, teneva nel grembiule un coltello da cucina con cui avrebbe
affrontato il primo straniero invasore che le fosse capitato. Patetica
arma in una mano che non si sarebbe alzata in segno di resa. Sorella, la
pediatra Rhiad, di quelle tre giovani donne che, nei giorni in cui
scrivo, stanno per essere impiccate per non aver voluto lasciar cadere
quel coltello, per non avere alzato quella mano. Avevano tirato fuori il
meglio, dalla penuria dell’embargo e dei bombardamenti che li
percuotevano da 20 giorni e che rintronavano anche allora, vicini ma
percepiti senza un sussulto: lo
hobbes caldo di forno, il dolcissimo e corroborante
chai, bollente nei
bicchierini svasati e orlati d’oro, i grassi pesci del fiume croccanti
di scaglie bronzate, l’ultimo agnello. Un paese agnello, ma ancora e
sempre con l’antico spirito del leone, il leone di Babilonia, il leone
della dea Ishtar. Come sta dimostrando e continuerà a dimostrare. E
Rhiad me ne rappresentava un vessillo, lui che, da quando l’embargo
terminator di noialtri negava addirittura le aspirine, aveva messo su
una sua clinichetta e lì, più con l’arte e l’amore che con la chimica,
curava gratis la crescente folla di sofferenti, di feriti, di mutilati.
Era l’ultima fiammella di un tempo in cui, come pochi al mondo, ognuno
dei 22 milioni di iracheni aveva assicurata la salute gratis, dal
cerotto al trapianto di cuore. L’ultima fiammella prima del tunnel buio
delle privatizzazioni imposte dall’invasore e dette neoliberiste, quello
tra cui ci sbattiamo noi. Quando, tra gli schianti vicini, un taxi mi
portò via, una sola cosa il Dr. Rhiad perorava: cerca di mandarmi
medicine. I gangster a stelle e striscie penetrarono anche in quella sua
casetta-clinica, sfasciarono tutto, rubarono pochi dollari contribuiti
da donatori ormai lontani, portarono via il figlio, mancarono per una
volta – le ragazze erano scampate - lo stupro strategico, impunito.
Impunito come tutto quello che una cosca criminale, lobotomizzate le
proprie genti, asserviti i famigli, dalle rive del Potomac e del
Giordano infligge all’Iraq, ai palestinesi, agli esseri umani.
Il taxi sfilava tra crateri e cumuli di
macerie, tra vuoti bui là dove solo sei mesi prima era ancora luce di
bombole e lampadine colorate, di braci nei carretti degli spiedini, di
riflessi nello specchio del grosso barbiere battutista che rallegrava la
rasatura con scintillii di cabaret, di squilli e ritmi dell’amatissimo
taroccatore. Sfilava, il taxi dall’imbottitura rifatta con stoffa di
divano e la collanina delle preghiere ciondolante davanti al santino
dell’Imam Hussein, sotto l’Hotel “Al Mansur”, poi sotto il “Palestine”,
dove i giornalisti alla Giovanna Botteri – culturalmente se non
fisicamente embedded -
celebravano l’imminente vista, dai terrazzi delle postazioni tv, dei
carri Abrams. Carri che, tra tonfi e sibili, già si sentivano
sferragliare in fondo alla grande arteria dei colori e odori e sorrisi
di Baghdad, Shara Sadun. Chissà se avrebbero continuato a brindare,
poche ore dopo, quando i gangster, punendo a cannonate chi era rimasto a
raccontare il martirio e l’eroismo di Baghdad, avevano ucciso nel
Palestine il mio collega spagnolo Cuso e, poco più in là, nella mai
embedded “Al Jazira”,
l’amico Ayoub, compagno di riprese di infamie giudaico-cristiane nelle
terre violentate della Mezzaluna, compagno di tante tazzine di bollente
chai, all’ombra delle
palme da dattero. Quattro anni dopo, i giornalisti ammazzati dai
gangster dell’occupazione-collaborazione sarebbero arrivati a 130,
perlopiù arabi, compreso quello che aveva filmato di nascosto i marines
mentre seppellivano i corpi dei loro militi ignoti, poveri immigrati del
Messico o dell’Ecuador, senza patria, diritto, tomba con bandiera a
stelle striscie. Senza nome nella lista dei 200, 3000, 4000 onorati di
menzione ufficiale. Lungo la via verso il riparo di Amman, correvo a
fianco di un pulmino. Con chi vi viaggiava condividemmo una merenda nel
posto di ristoro disintegrato fin dalla notte del 17 marzo, quando
arrivai, ma subito risorto in forma di baracchino. Erano due funzionari
del Ministero della Solidarietà Araba, portavano alle famiglie dei
martiri palestinesi quei 20.000 dollari ciascuna che Saddam, embargo o
non embargo, guerra o non guerra, aveva continuato a stanziare dal
giorno della rivoluzione all’ultimo giorno di libertà, fin sotto il naso
degli invasori. “L’uomo degli americani”…
Uscendo da Baghdad, schivando le lunghe e
nere traiettorie dei missili, sentivo addosso un odore di morte che non
veniva dai corpi squarciati, disarticolati tra buche e fossi: persone,
cammelli, capre, cani. Quei cani che gli iracheni da qualche anno,
diversamente dai popoli vicini, avevano cominciato ad amare e accogliere
in famiglia e che ora, con loro, morivano. Lo sento ancora, quell’odore.
Dovrebbe inondare il mondo. Mi diceva un grande poeta cubano: “Se
uccidiamo un albero, se uccidiamo un cane, muore un arto del mondo”.
Morendo l’Iraq moriamo tutti.
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