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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

 

Una guerra per nasconderne altre

BEIRUT, BAGHDAD, GAZA: TERRORISMI SINERGICI

Il capitolo iracheno del Nuovo Medio Oriente di Bush

 

 

05/02/2007

 

Un Iraq per la ruota della morte dell’Occidente

Difficile per me scacciare l’Iraq e il suo popolo dalla linea del fronte dei pensieri e sentimenti. C’ero arrivato nel 1977, tempi del vino e delle rose, e avevo seguito quelle genti attraverso tre guerre, tre devastazioni, tre rinascite, fino all’esecuzione sommaria da parte di boia a stelle e striscie, con la stella di Davide e con il concorso di manutengoli interni ed esterni, nel nome della “Civiltà Occidentale” e delle tanto tossiche quanto presunte “radici cristiane”. E tutti noi, iracheni e coloro che li conoscevano e perciò stimavano, rispettavano, amavano, navigavamo sull’esile barchetta della verità. I nocchieri erano eroi dell’informazione come Stefano Chiarini o Seymour Hersh, sbattuti, tempestati dalle feroci procelle della diffamazione di sistema, tanto omologa da destra e sinistra, dall’alto al basso, quanto lo era prima di Copernico la convinzione che la Terra fosse piatta e che il sole le girasse attorno. E chi lo metteva in dubbio, come Ippazia di Alessandra o Galileo, ne subiva le conseguenze. Ci volle poco, per Stefano e me, per capire che l’assalto israeliano al Libano, sancito dalla “comunità internazionale” con la risoluzione Onu 1701 (“colpa degli Hezbollah: disarmiamoli!”), non solo era elemento portante del piano israelo-statunitense per il Nuovo Medio Oriente, come apertamente ammesso da Condoleezza Rice (“Il Libano? Doglie di parto del Nuovo Medio Oriente”), ma che la concentrazione dell’attenzione mondiale su quella guerra aveva anche il compito di distogliere dalle simultanee e sinergiche strategie di soluzione finale in Iraq e Palestina.

 

Mi è capitato di riflettere su queste note mentre mi trovavo in una delle terre più vivaci, antiche-giovani, amabili e integre del nostro paese, la Puglia, là dove vicoli intorcinati e balconati e abbaglianti candori di facciate, animati da odori e sorrisi di altri tempi, mi richiamano quegli angoli di Baghdad o di Basra nei quali ancora si respirava l’aria degli abassidi e, sconosciuti, per quanto distanti, ci si incontrava spontaneamente da amici sotto le volte, cupole, ai tavolacci di stamberghe antiche tanto da sembrare quelle del grande padre Harun El Rashid. Ci rendiamo conto di quale riconoscenza abbiamo offerto a coloro che a noi, sordi e ciechi sotto la ferula di una Chiesa disumanamente repressiva, riportarono i perduti Aristotele, Platone, Euclide, Archiloco e ci agevolarono verso il riscatto del Rinascimento, quelle, sì, radici sane dei nostri migliori tempi moderni?  La riconoscenza di Goffredo da Buglione o di Riccardo Cuor di Leone e delle loro carneficine nel nome di Cristo ad Acri e Gerusalemme, quella dell’agente Lawrence d’Arabia che sottrasse gli arabi ai turchi solo per portarli in ceppi al suo re, quella di Golda Meir che negava l’esistenza dei titolari della casa predata, quella dei serial-killer Badoglio e Graziani in Libia, quella del generale Schwarzkopf che mandava i suoi carri a seppellire 100.000 soldati iracheni in ritirata e con le sue bombe all’uranio faceva iniziare l’estinzione dei genitori e figli della prima scrittura, arte, musica, legge, ruota dell’umanità, quella di Ratzinger che, nel pieno della riconquista barbarica del Levante, non si perita di lanciare contro l’Islam gli ottusi e strumentali anatemi di un bizantino  che annaspava nella decomposizione del suo “impero cristiano”?

 

Lì, tra muretti a secco e ulivi che ancora ricordano l’incontro con i “mori”, ulivi che danzano, si contorcono, si abbracciano, si sbracciano verso il cielo come implorando e si ripiegano verso terra, tanto da ricadervi frantumati, ma solo per  rigermogliare nei secoli. Straziante metafora arborea della disperazione di un popolo, antico come il primo degli ulivi, e della sua incorruttibile determinazione a resistere, a rivivere, alla faccia di Alessandro Magno, dei mongoli devastatori, dei bizantini, dei turchi, dei britannici, più spietati di tutti. Come non riandare, alla vista di tanto turbinio di vicende, sofferenze, ostinazioni, a quell’Iraq di prima dell’arrivo della nostra “democrazia” e dei nostri “diritti umani”,  che nella  democrazia viveva, la sua – se democrazia è rappresentanza degli interessi e concretizzazione dei sogni dei popoli e delle persone – e nei suoi diritti umani, se per diritti umani si intendono quelli della buona e giusta vita, in cui sia garantita la salute, la conoscenza, la casa, il lavoro, la vecchiaia, la donna, il bambino, l’ambiente, il futuro. A tutti. C’era, è vero, un padre severo, ma un padre che, anche a inevitabile scapito del singolo, sapeva condurre la sua comunità alla sicurezza, all’equità e alla dignità, contro tutti i venti di tempesta che mugghiavano ai suoi confini. Quell’equità e dignità e sicurezza che mille anni di imperi lontani e spietati avevano negato alla collettività, tollerandole soltanto nei ristretti ambiti di autogoverno della tribù, dove ne era garante il più saggio, il più coraggioso, il riconosciuto migliore. L’Iraq da questa vicenda millenaria uscì con la rivoluzione anticoloniale del 1958. Di quale modello poteva dotarsi? Di quello degli oppressori che ne avevano decimato il popolo, tenendone i sopravissuti nell’ignoranza e nella negazione di ogni diritto?

Dall’Iraq, a destra e a sinistra, eurocentricamente e arrogantemente si pretendeva che si desse, di colpo, un’organizzazione istituzionale come quella che da noi ci aveva messo tre secoli e altrettante rivoluzioni a maturare e oggi già appartiene alle manifestazioni peggiori della decadenza, della corruzione e dell’iniquità. Se ne pretendeva la scopiazzatura di questo modello, purchè in posizione subordinata, a nostra disposizione, per il nostro soddisfacimento etico di padroni-maestri e, di più, per i nostri eccessi di benessere. Insomma un cavallino ammaestrato, danzante e rampante, nell’arena del Gran Circo Occidente. Messo a girare nella Ruota della Morte. E la pretesa era accompagnata dalla più massiccia e violenta campagna di diffamazione e di menzogne che popolo o classe dirigente abbia mai subito, per giustificarne il morso incastrato tra i denti, la cavezza imposto al collo, la frusta abbattuta sul groppone e, nel caso si rifiutasse alla doma, l’abbattimento come suole a Siena.

 

Chi volle la guerra Iraq-Iran?

Per sottrarsi allo tsunami di falsità, occultamenti, distorsioni che, dai tempi della rivoluzione del 1958 e, peggio, da quella del 1968, che allontanò definitivamente l’Iraq dal campo filo-occidentale, offuscano e stravolgono il ruolo dell’Iraq e del suo gruppo dirigente, occorre prenderla un po’ alla lontana. Per esempio dal cruciale rapporto tra Iraq e Iran, con Usa e Israele che tifano dalla balconata, allora come oggi interpretato e trasmesso all’opinione pubblica in versione opposta alla realtà, con il solito scopo di demonizzare coloro che per tutta la seconda metà del secolo XX furono il massimo ostacolo alla riconquista coloniale della regione del petrolio.

 

Sotto le bombe iraniane in Kurdistan

Maggio 1980. Era una di quelle giornate che nel Kurdistan iracheno raggiungono il diapason dell’azzurro, tra infinità desertiche in basso vibranti di sole e azzurri nitori alpini in alto. Amici iracheni ci avevano fatto visitare Irbil, capitale storica di questi curdi, con in mezzo il cocuzzolo formato da un terrapieno coronato dalla formidabile fortezza prima moresca e poi ottomana. Sotto, un brulichio di vicoli, colori, lavori. Erano le opere del governo per dare lustro alla città rinominata capitale del Kurdistan. Già, perché fin dal 1972, il presidente Hassan al Bakr e il suo vice, Saddam, avevano concesso alla regione autonomia e autogoverno, parlamento ed esecutivo a Irbil, università curda a Sulemanieh, il curdo promosso a seconda lingua ufficiale del paese, che tutti i ragazzini dovevano imparare a scuola. Quello che percepivamo, attraversando il Kurdistan dall’araba Kirkuk, ancora non curdizzata dalle milizie del fiduciario israeliano Massud Barzani, a Mosul, era la soddisfazione di un popolo che si era visto riconoscere quanto nessuno dei paesi in cui era sparso, Siria, Iran, Turchia, aveva mai avuto: una forte autonomia, purchè non mettesse in discussione il modello economico-sociale, di stampo socialista, la difesa nazionale, la politica estera antimperialista e antisionista e la partecipazione al formidabile sviluppo di una grande nazione, al cui governo centrale partecipava con il suo Partito Democratico Curdo, insieme al partito Baath e a quello comunista. Un milione di curdi (su sei) erano scesi dalle loro montagne e da un’arretratezza millenaria per trasferirsi a Baghdad, confusi al milione di lavoratori sfuggiti alla miseria dell’Egitto dell’amerikano Sadat, per lavorare in un paese che aveva sconfitto disoccupazione, ignoranza, analfabetismo, subalternità della donna, abbandono sanitario, povertà,  e in cui il divario tra salario più basso e salario più alto era da 1 a 18 (da noi, oggi, da 1 a 280)

 

Il nostro viaggio ci portava verso il confine iraniano, lungo una strada che ancora si stava scolpendo nella roccia, sotto svettanti agglomerati di abeti. Dormimmo in un villaggio turistico costruito alla finlandese da finlandesi, le nevi si stavano sciogliendo in rivoli che infangavano i sentieri. Non chiudemmo un occhio per due notti, causa l’ininterrotto scoppio di granate. Non ci avevano avvertito, speravano che l’esperienza ci sarebbe stata risparmiata. Da diverse settimane gli iraniani provocavano sparando oltre frontiera con obici di lunga gittata. Anche quella volta. Poi, nel barbaglio di quelle nevi, ci portarono a vedere i crateri. Alcuni si aprivano dove prima c’erano case e botteghe. Solo a settembre di quell’anno Baghdad si risolse a rispondere, dopo aver offerto al chierico nuovo sovrano d’Iran, succeduto allo Shah, mille occasioni di negoziato. Offerte di pace reiterate quando, un anno dopo, l’esercito iracheno era penetrato in profondità, ma che Khomeini respinse per ben 8 anni. Lo attestano i documenti di tutte le cancellerie.

 

Iran islamista contro Fronte del Rifiuto

Ma noi eravamo venuti in Iraq per assistere a un convegno internazionale di sindacati operai e movimenti e partiti comunisti, socialisti e progressisti, associazioni di solidarietà araba, di quelli che tra l’Avana e Baghdad mantenevano vivo un tessuto di resistenti al capitalismo e all’imperialismo nuovamente affamato dopo il trauma del Vietnam. Tema della conferenza era una mobilitazione mondiale contro la resa di Camp David, quando l’egiziano Sadat e l’israeliano Begin si accordarono sulla pelle del popolo palestinese e dei suoi diritti. Si trattava di rafforzare il Fronte del Rifiuto, creato da Saddam in risposta al tradimento del Cairo e che era riuscita a strappare al concerto israelo-egiziano-statunitense ben 17 paesi arabi su 22. Era questo Fronte del Rifiuto, cui partecipavano anche le organizzazioni di sinistra palestinesi che mai sarebbero scese per la china disfattista poi percorsa dal gruppo dirigente, a costituire la spina nel fianco del  già maturo e articolato progetto espansionistico di Israele e della liquidazione di ogni residua resistenza nazionale e laica araba dal Marocco all’Iraq. Era il Fronte del Rifiuto, ultimo anello di una catena virtuosa che aveva visto succedere alla nazionalizzazione del petrolio nel 1972, il trattato di amicizia e mutua difesa con l’URSS, l’autonomia curda, un modello sociale in controtendenza all’offensiva del capitalismo predatore eufemisticamente chiamato “liberismo”, ad aver determinato le potenze occidentali a farla finita con questo Iraq laico, socialmente equo, nazionalista nel senso migliore del termine. E lo strumento prescelto era l’Iran. Decenni di menzogne politiche e mediatiche hanno da allora cercato di ribaltare questo dato, invertendo i ruoli di aggredito e aggressore. Non si fa così anche in Palestina, tra carnefice e vittima? In Jugoslavia? A Cuba? In Irlanda?  Nella Genova del G8?

 

Strozzare l’Iraq, gassare i curdi iracheni, dare la colpa a Saddam

L’ayatollah Khomeini era ritornato l’anno prima da Parigi, con un aereo statunitense, sull’onda dell’insurrezione di tutto un popolo contro la dittatura del fantoccio Usa, il raccogliticcio imperatore Reza Shah. Eliminate in un oceano di sangue tutte le componenti non “ortodosse”, nel senso del fondamentalismo scita, della rivoluzione, le vere avanguardie, i comunisti, fedayin marxisti, mujaheddin Al Khalk, islamici laici e, a finire, i curdi, speranzosi di un’autonomia ispirata a quella dei fratelli in Iraq, Khomeini si diede a predicare la scitizzazione universale e, nell’immediato, del mondo arabo, preda millenaria. L’adiacente Iraq ne era l’articolazione politica, culturale e militare più forte e rappresentativa. Faceva leva, Khomeini, sulla gerarchia scita, influente tra le masse del Sud Iraq e che, già ai tempi del suo collaborazionismo con gli inglesi, aveva dato prova di anteppore la comunanza confessionale al fascino del patriottismo e della coesione nazionale. Mentre ininterrottamente, da radio e tv iraniane, Khomeini e altri esponenti del regime  sollecitavano le masse irachene “ a rivoltarsi contro l’apostata Saddam e a rovesciare il regime iconoclasta”, sul piano delle provocazioni diplomatiche ci fu la pretesa di Tehran di annullare gli accordi sui confini conclusi ad Algeri con Baghdad nel 1975. I persiani rivendicavano la sponda occidentale dello Shatt el Arab, contro il trattato che aveva posto la linea di confine in mezzo al fiume, le isole nell’estuario che avrebbero bloccato l’apertura dell’Iraq sul Golfo, e addirittura territori nel Kurdistan iracheno. Nel frattempo, infiltravano loro attivisti tra le popolazioni del Sud, a Basra, Najaf, Kerbala, con il compito di attivare un’insurrezione. Il punto di non ritorno fu la minaccia di Khomeini di chiudere all’Iraq lo Stretto di Hormuz, sbocco del Golfo Arabo-Persico e unica via per l’export iracheno. Dunque, sua vena giugulare. Contemporaneamente il regime degli ayatollah rendeva un altro grosso favore al settore più bellicoso e reazionario delle èlite statunitensi, tenendo occupata l’ambasciata Usa a discredito di un presidente moderato, Jimmy Carter (colui che più tardi si sarebbe attirato le ire del sionismo denunciando l’apartheid dello Stato israeliano) e favorendo così la vittoria di Ronald Reagan, iniziatore della fase più rozzamente aggressiva e autocratica dell’imperialismo, al quale fu regalata la liberazione dei diplomatici in ostaggio. 

 

Nel settembre 1980 il governo di Baghdad aveva denunciato all’Onu, alla Conferenza Islamica e al Movimento dei Non Allineati ben 941 violazioni armate 

del proprio territorio. Il ministro degli esteri iracheno chiedeva l’ennesimo incontro con l’omologo iraniano. Per tutta risposta il concistoro di Tehran chiudeva all’Iraq il traffico sullo Shatt El Arab, una condanna a morte, e scatenava pesanti bombardamenti su quattro città di confine. Fu l’inizio di una guerra alla quale Kissinger augurò di dissanguare i due popoli e che costò un milione di morti (www.uruknet.de/?s1=1&p=30714&s2=17). Alla fine, nel 1988, l’esercito iraniano utilizzò ripetutamente l’arma chimica contro quello iracheno. Lo documentarono tutti i media, poi lo dimenticarono. Accadde anche a Halabja, spunto per una delle accuse più infamanti a Saddam: aver gassato la propria gente. Come risulta da testimoni e relazioni di tutti i servizi segreti interessati, su Halabja finirono, involontariamente, sospinti da un vento maligno, gas sparati dai persiani contro gli iracheni. Non furono certo 8000 le vittime (8000 è una cifra di repertorio, suona bene, funziona anche per la truffa di Sebrenica, in Bosnia), ma alcune decine. Però fu accertato, anche dai patologi, che furono uccisi da gas al cianuro, nervino, che si sa per certo non era nelle disponibilità irachene. Divenne una delle maxiballe che dovevano incidere nelle nostre coscienze, capitalisticamente governate dalla paura, la minaccia di una specie di Gozilla arabo. Alibi per quella che invece sarebbe diventata la più spaventosa mattanza umana dei tempi moderni (New York Times, Stephen Pellettier, 31/1/2004).     

 

Uno strumento per farla finita con il mondo arabo laico e antimperialista. A sinistra si straparla di “uomo degli americani”

I rottweiler da combattimento, a cui l’Iraq aveva sottratto l’osso coloniale, erano riusciti a trovare chi si sarebbe incaricato della vendetta. Da allora, attraverso Afghanistan, Algeria, Cecenia,  Bosnia, l’utilizzo dello strumento del fanatismo islamico, sollecitato ad arte da varie agenzie statunitensi, divenne una costante nell’armamentario della  destabilizzazione e della guerra globale e permanente imperialista. E a Osama Bin Laden, vecchio strumento occidentale della guerra all’Afghanistan laico e progressista e all’Armata Rossa venuta in suo soccorso, fu dato il nuovo incarico di contribuire alla distruzione della Jugoslavia in Bosnia e in Kosovo. Islam cosiddetto politico, poi tornato utile nella guerra contro l’Iraq, al punto che Israele, mentre disintegrava con un’incursione pirata (mai sanzionata dall’Onu) la centrale nucleare irachena, Osirak, forniva piloti istruttori e ricchi armamenti a Khomeini. Si ricorderà, a dispetto dell’oblio forzoso imposto da tutta la stampa, lo scandalo Iran-Contras quando, con il ricavato della vendita di armi israeliane ai persiani, la ciurmaglia di Reagan, John Negroponte, Elliott Abrams, Oliver North (tutti neo-sion-con attivi, poi, nella mattanza irachena di oggi), istruiva, finanziava e armava i tagliagole Contras contro i patrioti in Salvador e i sandinisti del Nicaragua. Non si fa torto a nessuno quando si dice che Khomeini – allora adorato dall’ammazza-musulmani della “7”, Carlo Panella, cellula della giulianoferraresca neoplasia mediatica – finanziò e armò gli assassini del popolo salvadoregno e della rivoluzione sandinista. Sia un promemoria per coloro che ancora oggi, a sinistra, si affidano alla fede in un antagonista persiano dell’imperialismo. Oppure al mito, specialmente diffuso nella sinistra di nostalgie staliniste, di un Saddam “uomo degli americani” negli anni ’80. Mito che di solito viene fondato su una prova “inconfutabile”: la foto di Donald Rumsfeld, emissario di Reagan, e Saddam che si stringono la mano a Baghdad nel 1982. Peccato che la didascalia della foto non ricordi che Rumsfeld era nella capitale irachena per perorare la riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa, arteria di un greggio fortemente voluto da Israele. Apertura seccamente rifiutata da Saddam. L’Iran ha servito l’Occidente fin da quando Shah e Cia fecero fuori Mossadeq, il Premier che, primo nel Terzo Mondo, azzardò l’offesa suprema: la sottrazione del petrolio ai forzieri delle èlite occidentali. Oggi, con la spregiudicatezza e l’astuzia che rendono quei preti assai affini a quelli annidati in Vaticano, l’Iran, emergente potenza regionale, gioca su tutti i tavoli, con ruoli diversi e addirittura opposti in commedia, dal sostegno agli antimperialisti Hezbollah  alla collisione con gli imperialisti in Iraq, forte di un cinismo di cui sembrano capaci solo coloro che la religione ha educato ai vertici dell’ipocrisia. Vale per Tehran, come per gli eletti del Libro Sacro a Tel Aviv, come per i fondamentalisti evangelici di Washington, come per i dotati di rivelazione in San Pietro. 

 

Iran potenza regionale senza concorrenti grazie agli anglo-americani

L’alleanza tra persiani e coalizione  israelo-occidentale per la liquidazione di ogni residuo di una nazione araba sovrana, indipendente, proprietaria delle proprie risorse (che sono poi quella decisive per la sopravvivenza del capitalismo tutto), si ripropone sia nella prima che nella seconda Guerra del Golfo. Ma fu anche alimentata dai cospicui aiuti che il Congresso Usa stanziò per l’Iran, in ognuno degli anni finanziari tra l’inizio e la fine della guerra con l’Iraq. Se ne può trovare traccia nei documenti ufficiali dei National Security Archives. A destra e a sinistra si favoleggiò, invece, di un Iraq armato dagli Usa, quando in quel paese non giunse mai neppure una colt nordamericana. Si rivedano, a proposito, le immagini delle due guerre del Golfo e degli armamenti iracheni, esclusivamente sovietici e di vecchia generazione. Anche all’assalto dei trenta e passa paesi (Italia compresa) all’Iraq, reo di essersi ripreso il Kuwait, cioè la 17. provincia sottratta nel 1927 dagli inglesi, che gli rubava il petrolio da sotto il confine e ne boicottava la ripresa economica dopo il dissanguamento della guerra, abbassando drasticamente, su direttiva Usa, il prezzo del petrolio, l’Iran diede il suo contributo. Prima, sequestrando l’intera flotta aeronautica irachena che Saddam aveva trasferito a Tehran, fidando nell’ antimperialismo verbale di Khomeini e, poi, a Iraq massacrato, infiltrando nel Sud scita e nel Nord curdo migliaia di pasdaran che avrebbero dovuto completare l’opera degli alleati sollevando queste minoranze contro il governo. L’impresa, già tentata e sventata dopo la guerra Iraq-Iran, fallì per la reazione delle residue forze governative irachene e, soprattutto, per la scarsa adesione delle popolazioni coinvolte. Non vi fu allora, l’atteso appoggio ai rivoltosi da parte degli anglo-statunitensi, ma più tardi gli Usa compensarono questo “tradimento” offrendo all’Iran una vittoria strategica, liquidando d’un sol colpo i suoi nemici storici: l’Iraq laico, con un embargo genocidi di 13 anni (2 milioni di morti, di cui un terzo bambini) e la successiva occupazione-disintegrazione, e con l’Afghanistan dei Taliban polverizzato grazie al falso alibi delle Torri Gemelle..  

 

Il mondo se la prende con i “terroristi” Hezbollah e dimentica l’olocausto iracheno

Fino a quando la pulizia etnica israeliana mantenne il suo ritmo “normale” di assassini mirati, distruzione di terre e case, arresti e punizioni collettive, progetto genocida mascherato a un certo punto dal ritiro dei coloni da Gaza, che a Ariel Sharon guadagnò il riconoscimento addirittura di Bertinotti di “uomo di pace”, e fino a quando in Iraq l’inarrestabile avanzata della guerriglia saddamita e islamica equilibrava il mattatoio degli squadroni della morte allestiti da John Negroponte sul modello salvadoregno, l’attenzione del mondo riservava a questi processi una certa attenzione. Il movimento per la pace ne traeva la forza per imporsi sulle piazze e esercitare una discreta influenza su settori politico-parlamentari di opposizione al guitto dell’imperialismo Berlusconi. Ma l’annunciato ritiro del contingente italiano dall’Iraq  e poi lo scoppio della guerra al Libano sottrassero in buona misura quegli avvenimenti dallo scenario mediatico e politico e l’apparente inedito ruolo neutrale, “equivicino”, come lo definiva il nuovo governo dell’Unione col pieno consenso delle sinistre, fece ammutolire la maggioranza delle voci antiguerra e offrì agli occupanti in Iraq e Palestina il destro per accelerare verso la progettata soluzione finale. Il Libano, insomma, funzionò da schermo.

 

Da Samarra alla “soluzione finale” in Iraq, Palestina, Libano, nel segno del Nuovo Medio Oriente israelo-statunitense

Il 12 febbraio 2006 saltò per aria uno dei monumenti storici e religiosi più importanti dell’Iraq e di tutto l’Islam: la cupola d’oro della moschea di Samarra.

Non ci fu mezzo d’informazione, da destra a sinistra, che riportasse un dettaglio decisivo di quella vicenda: il fatto che elementi armati del Ministero degli interni, coperti da reparti Usa, la sera prima erano penetrati nel tempio e vi erano rimasti per diverse ore. Con ogni verosimiglianza per allestire il botto. Una guerra civile tra sunniti e sciti che nelle intenzioni degli occupanti – e secondo il piano commissionato dall’Amministrazione Bush alla Rand Corporation, intitolato “Strategia Usa nel mondo islamico dopo l’11/9” -  avrebbe dovuto portare alla tripartizione del paese tra Nord curdo, sotto protettorato israeliano (garante dei rifornimenti petroliferi a Tel Aviv), centro sunnita, inoffensivo, privo di risorse  e tenuto in ceppi da basi e controlli Usa (all’italiana),  Sud scita, di obbedienza congiunta iraniano-angloamericana, era stata fino a quel momento ostacolata dalla radicata cultura interconfessionale del popolo iracheno. Conviene qui anche ricordare l’analogo “Piano sionista per il Medio Oriente” elaborato nel 1982 dal consigliere militare di Begin, Oded Yinon, che, assunto dal governo israeliano, prevedeva una strategia di lunga lena per la disarticolazione dell’intero mondo arabo attraverso la promozione di conflitti tribali, religiosi, etnici, fino allora sopiti nella tradizione della tolleranza islamica e dell’ideale panarabo. 

 

Il vecchio strumento Al  Qaida per la divisione dell’Iraq e contro la Resistenza

Da secoli, sunniti, sciti, ebrei, turcomanni, assiri, cristiani, curdi avevano convissuto senza tensioni, la stragrande maggioranza dei matrimoni erano misti e misti erano i quartieri di Baghdad e delle maggiori città. Furono gli attentati del Mossad, negli anni ’50, a sconvolgere la secolare convivenza degli ebrei d’Iraq e ad avviare una deportazione che li sradicò da una terra di armonia e tolleranza per sprofondarli, sefarditi, in una condizione di subalternità ai dominanti ashkenaziti di origine europea. Ci volle un tale Pantarelli, giornalista del “manifesto”, a definire deliranti le affermazioni, condivise da tutti i conoscitori e dal collega Stefano Chiarini, secondo cui sotto Saddam le religioni presenti erano rispettate e onorate alla pari. Lo Stato laico del Baath aveva garantito la sicurezza e il rispetto di tutte le confessioni. La consapevolezza di appartenere a una grande comunità nazionale, parte integrante del più grande contesto storico e culturale del mondo arabo, aveva negato il successo all’operazione negropontiano-iraniana di frantumare il paese per linee etnico-confessionali. Quante volte, prima, durante e dopo l’aggressione mi sono sentito ripetere “Siamo prima iracheni e poi sunniti, sciti, cristiani…”  Merito di chi aveva saputo costruire una nazione intorno a valori condivisi e dare autostima a un popolo percosso da abusi secolari. I successivi governi fantoccio dei collaborazionisti sciti, con personaggi religiosi e politici tutti indistintamente legati all’Iran (e spesso addirittura di origini iraniane), pur disponendo di milizie addestrate, armate e finanziate in armonica intesa da Tehran, Washington e Tel Aviv, e pur compiendo un numero terrificante di provocazioni stragiste nei diversi ambiti, non erano riusciti a scatenare l’armagheddon decisivo. E’ vero che l’occupante aveva fatto di tutto, rubando, incendiando e disperdendo al vento le testimonianze di sei millenni di civiltà, distruggendo musei e biblioteche, devastando e rapinando siti archeologici ineguagliabili. E’ vero che, con input dei servizi israeliani, l’Iraq aveva subito la decapitazione della sua intellighenzia, con migliaia di accademici, scienziati, medici, ingegneri, professionisti, assassinati e costretti a espatriare; è vero che le condizioni di vita della popolazione erano ridotte, in mancanza di infrastrutture, servizi essenziali, elementi basilari per la sussistenza (cibo, farmaci, acqua potabile, energia), a livelli di inenarrabile degrado. Ma è anche vero che ogni tentativo di aver ragione della Resistenza, diretta da forze che da decenni si erano preparate alla guerra asimmetrica e sostenuta dagli esperti quadri dell’esercito di Saddam e dalle milizie civili, si scontrava con l’appoggio della maggioranza della popolazione.  Ma, in qualche modo, né il terrorismo generalizzato, articolato sulla tecnica dell’intimidazione di massa attraverso rastrellamenti, distruzioni di case, stupri di massa, tortura sistematica di detenuti, sequestro di ostaggi famigliari per ottenere la resa dei combattenti, né la distruzione di intere città con armi proibite, da Falluja a Ramadi, ai tanti centri del cosiddetto Triangolo Sunnita, avevano avvicinato l’obiettivo della frantumazione del paese e della fine della Resistenza.

 

Le operazioni militari di quest’ultima erano cresciute da 40 al giorno, nell’estate del 2003 a un centinaio per tutto il 2005. Calcoli dei comandi Usa facevano ammontare a circa 200.000 i combattenti della Resistenza. La massima parte del territorio iracheno era stata riconquistata al controllo della Resistenza e delle grandi tribù, sunnite, scite o miste, i cui capi non facevano che ribadire la propria solidarietà alla lotta di liberazione, per poi vedersi sventrare le case e le famiglie da incursioni contro “cellule di Al Qaida”. Con la distruzione della Cupola d’oro di Samarra, rievocatrice di analoghe operazioni di occupanti coloniali, dalle bombe dell’OAS tra i musulmani in Algeria, agli attentati dinamitardi contro civili in Irlanda attribuiti all’Ira, ma poi confessati da agenti britannici, lo scopo doveva essere raggiunto, anche al costo di un pianificato tsunami di orrori e di sangue. Con il beneficio correlato della deviazione verso lo scontro fratricida di una lotta nazionale contro l’occupante e i suoi ascari che crescente imbarazzo e disaffezione popolare stava causando all’amministrazione dei fondamentalisti evangelico-sionisti attorno al debilitato Bush. E’ in questa fase che torna sulla scena alla grande Al Qaida reclamizzata con a capo un inafferrabile fantasma, Abu Mussa Al Zarkawi, un piccolo e rozzo malvivente giordano del quale si proclama la morte in battaglia solo quando le sue presunte infinite fughe per un pelo e la cattura di un numero grottesco di suoi “bracci destri” rendono l’invenzione del tutto ridicola. Anche perché venivano alla luce testimonianze, comprese quelle della sua famiglia giordana a Zarka, sulla sua morte sotto le bombe in Kurdistan nel 2003 e sul successivo funerale pubblico. Ma di fronte all’orrore del mondo per il disvelamento della vera natura dei responsabili statunitensi, israeliani e dei loro reggicoda ad Abu Ghraib e alla macellazione di un popolo intero per mano degli occupanti e delle loro milizie (mercenari italiani compresi), a chi si poteva addossare la responsabilità se non a quell’organizzazione Cia di Osama Bin Laden (anche lui defunto, secondo fonti giornalistiche e governative pakistane, nel 2001, ma resuscitato da una successione di improbabili video), che le popolazioni, le forze della Resistenza, i capitribù dichiaravano del tutto inesistente in Iraq? Ma quando mai si può dar credito a dei “terroristi”? E se circolavano volantini firmati “Al Qaida”, non erano forse circolati nelle madrasse degli studenti di teologia afgani i manuali stampati in Texas dalla succursale Cia, National Endowment for Democracy (NED), che incitavano alla jihad e insegnavano come far esplodere vite e edifici?

 

Chi mette le bombe: la tecnica delll’11 settembre nei mercati di Baghdad

Fu l’ambasciatore John Negroponte a rilanciare in Iraq la “opzione Salvador”

da lui collaudata nel Centroamerica degli anni’80. Qui il ruolo dei Contras venne assegnato, con grande soddisfazione e sostegno materiale di Tehran, alle milizie dei partiti sciti Dawa e Sciri (Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iran),  ai quali erano legati tutti i primi ministri quisling – Al Jaafari, Alawi, Al Maliki - succedutisi dal primo “governo provvisorio” del viceré Usa, Paul Bremer, e “legittimati” via via da elezioni-farsa alle quali la maggioranza sunnita non partecipava e la minoranza scita partecipava sotto la minaccia della fatwa dell’ayatollah iraniano Al Sistani, trapiantato dall’Iran a Najaf. E se le milizie Al Badr, dello Sciri di Abdelaziz Al Hakim, avevano legami organici con il ministero degli interni, nelle cui segrete venivano torturati e trucidati a centinaia resistenti veri o presunti e, comunque, sunniti, quelle del chierico che dominava la città-sobborgo di Sadr City (già città-modello per i profughi dal Sud uranizzato da Bush padre, poi ridotto a fatiscente slum), Moqtada al Sadr, chiamate “Esercito del Mahdi”, agivano da pretoriani del premier Nuri Al Maliki. Lo scatenamento pieno di queste milizie, i cui capi si potevano periodicamente incontrare in colloqui con i massimi dirigenti iraniani (ci fu anche un affettuoso incontro tra Al Hakim e Bush), si realizzò, con indiscriminata ferocia, soprattutto dopo l’attentato di Samarra. In precedenza erano state le forze speciali degli occupanti ad assumersi il compito, collaudato in varie guerre coloniali, della provocazione stragista.

 

Si ricorderà il clamoroso episodio del 2005, quando a Basra un inconsapevole posto di blocco della polizia-fantoccio tentò di fermare una camionetta condotta da due “arabi” con indosso tanto di jallabiah e kefiah. Appena scoperto che non di arabi si trattava, ma di due agenti britannici delle famigerate SAS (Special Air Services), esperti disseminatori di bombe a Aden e a Belfast, costoro aprirono il fuoco e uccisero due poliziotti. Arrestati, nel veicolo si scoprì una vera e propria santabarbara pronta ad esplodere con comando a distanza. Erano diretti verso l’affollata piazza del mercato antistante una moschea. Prima che potessero essere interrogati, una colonna di carri armati inglesi, sparando all’impazzata, penetrò nella prigione dove erano trattenuti, abbattendone il muro di cinta e se li portò via. Analoghi episodi furono poi raccontati a giornalisti e testimoni vari da possessori di autovetture a Baghdad che, essendosi vista sequestrare la macchina da militari o poliziotti e essendo stati invitati a ritirarla qualche giorno dopo, accidentalmente la scoprirono imbottita di esplosivo. In due occasioni, riferite dal prestigioso giornalista dell’ Independent londinese, Robert Fisk, ai proprietari delle auto recuperate fu detto di dirigersi in una certa area, sempre piena di gente, un mercato o una moschea, e di chiamare al cellulare il comando di polizia per riferire cosa stava succedendo. In un caso il cellulare non aveva campo, il conducente si allontanò  per chiamare e in quel momento vide saltare per aria la sua vettura; nell’altro, sempre perché il telefonino non prendeva, l’uomo chiamò da un telefono fisso, con lo stesso risultato. Dal che non è difficile capire chi tenesse il dito sul pulsante del terrorismo iracheno. Con ogni certezza gli stessi che sistematicamente rapivano, e volte uccidevano, giornalisti o pacifisti stranieri, da Giuliana Sgrena alle Simone del “Ponte per…” (incastonate nella nostra memoria per l’indecorosa sceneggiata della finta liberazione gestita dal crocerossino Scelli, con il concorso di compiacenti operatori televisivi), dai giornalisti francesi al povero statunitense Nick Berg, processato e decapitato in un video da un Al Zarkawi che, miracolosamente, aveva recuperato la gamba persa in Afghanistan e parlava con l’accento arabo di uno straniero. Un attento esame del filmato mostrò che l’ambiente delle riprese, pavimento, arredi, pareti, tinteggiatura, erano del tutto identici agli interni di Abu Ghraib… Tutto questo non lo vedevano, ovviamente, solo i giornalisti embedded, arruolati, ma anche, incredibilmente, giornalisti di sinistra come Giuliana Sgrena, affetti da un bigottismo eurocentrico per il quale condividevano con l’aggressore tutti gli stereotipi propagandistici, a partire dal “terrorismo islamico” e da “Al Qaida”.

 

Angloamericani e iraniani: due avvoltoi sul corpo dell’Iraq

A partire da Samarra, alle bande armate filo-iraniane venne data totale libertà d’azione. Si distingueva per particolare efferatezza la milizia del doppiogiochista Moqtada Al Sadr, il giovane prete che, con due rivolte antiamericane, a Najaf e a Sadr City di Baghdad, si era guadagnato la nomea di capopopolo scita contro gli occupanti. Il ruolo effettivo da lui invece assunto, per conto sia degli occupanti sia, in misura privilegiata, degli iraniani, era quello di sterminatore di ogni presenza baathista – incessanti erano le sue manifestazioni intorno al tribunale in cui si processavano, si fa per dire, i dirigenti del governo legale, e nelle quali turbe di fanatici invocavano l’esecuzione immediata di Saddam – e della pulizia etnica dei quartieri sunniti di Baghdad. All’interno di queste operazioni assumeva un carattere particolarmente odioso la persecuzione di Al Mahdi contro i profughi palestinesi. Ce n’erano a Baghdad 40.000, cui Saddam aveva costruito un quartiere di particolare pregio. Dopo le ininterrotte irruzioni dei tagliagole di Moqtada, nell’inverno 2006-2007, ne erano rimasti 17.000. Gli altri, o trucidati, o fuggiti verso il confine siriano dove, al momento in cui scrivo, tuttora languono in tendopoli esposte al gelo e alla fame, inibiti dall’entrare in Siria, dimenticati dal mondo, anche da coloro che solidarizzano con la Palestina. Nelle loro case vivono gli sgherri del prelato scita.

 

Saddam sul patibolo, il petrolio in tasca alla criminalità occidentale

La guerra civile, funzionale alla frammentazione del paese e all’emarginazione della Resistenza nazionale, doveva precipitare a tutti i costi. Così a Samarra seguono, con cadenza infernale, altre stragi, nelle moschee, nei mercati, nelle università, nelle scuole,  mentre i marines e l’aviazione Usa si occupano  delle incursioni fuori dalla “Zona Verde” in cui sta rintanata la dirigenza degli occupanti e dei loro pseudo-governi, con spedizioni terroristiche contro i centri di cui si sospetta che alimentino la Resistenza. La quale, dal canto suo, riesce ancora a incrementare la sua efficacia fino ad arrivare, agli inizi del 2007, a una media quotidiana di cinque militari Usa caduti e di circa 120 operazioni  in tutto il paese, mentre gli elicotteri degli occupanti vengono tirati giù al ritmo di almeno uno alla settimana. Il caos è totale, la vergogna di un olocausto paragonabile per efferatezza ai peggiori della storia e ormai a questi superiore per durata e dimensione splatter, intacca anche quel che rimane del sostegno o della comprensione per la strategia della cricca Bush, i contingenti dei paesi complici nell’occupazione si ritirano uno dopo l’altro, le elezioni di medio termine negli Usa – stavolta non falsate dai brogli bushiani -  vanno ai democratici, i sondaggi non fanno in tempo a seguire la rotta dei consensi a Bush, nel mondo riprende vigore un movimento della pace depurato dei suoi elementi più ambigui. Diventa sempre più evidente che, se ci sono vincitori in Iraq, non sono gli Usa, ma piuttosto la Resistenza, indomata e in crescita in tutto il paese e, per quanto riguarda il controllo politico-militare delle istituzioni fantoccio e le pulizie etniche, il complice-rivale Iran con i sicari sciti al centro e i peshmerga curdi nel Nord-Est. A questo punto il rapporto tra occupanti occidentali e forze politico-militare-religiose allineate a Tehran, risoltosi in questi mesi nettamente a favore degli iraniani, rischia di subire una mutazione da collusione a collisione. Anche perché incominciano a irritarsi gli alleati storici degli Usa nella Penisola arabica, sauditi in testa, alla cui destabilizzazione ad opera della contestazione sociale interna concorrono ora anche gli agitatori della minoranza scita. Si rischia un’esplosione incontrollabile di tutta la regione. E non nel senso della ristrutturazione vaticinata dal Nuovo Medio Oriente. A Washington il subumano nella Sala Ovale può registrare solo due soddisfazioni: l’immonda farsa del processo e dell’ esecuzione di Saddam, “colui che ha attentato al mio papà”, per le mani di una feccia schiamazzante, incluso a quanto pare anche lo stesso Moqtada. Soddisfazione peraltro minata dallo straordinario coraggio e dignità del presidente iracheno, innesco di una vasta, commossa e rabbiosa mobilitazione panaraba. L’altra soddisfazione la dà a lui e ai suoi sostenitori  la scandalosa legge sul petrolio approvata da un parlamento di venduti a inizio 2007. Legge che rimedia alla nazionalizzazione dell’”uomo degli americani” con la cessione del 75% della ricchezza irachena alle multinazionali dell’impero, esentasse, con tutti i  profitti rimpatriati, manco fossimo nel 1920 dell’apice della rapina coloniale. C’è solo da consolarsi col fatto che gli ininterrotti sabotaggi degli oleodotti e pozzi petroliferi ad opera dei partigiani iracheni stanno mandando in vacca questo furto con destrezza delle multinazionali, Eni, garantita dagli “eroi di Nassiriya”, compresa. 

 

Fermare la Resistenza, contenere l’Iran. Dal piano Baker al piano Bush al piano Baker

E’ il momento dell’Iraq Study Group messo in piedi da Bush nell’autunno del 2006, affidato all’ex-segretario di Stato James Baker e a Lee Hamilton e che produce un proposta per il quale dal pantano si può sperare di uscire soltanto con un ritorno alle armi della diplomazia e con il coinvolgimento dei paesi vicini, Siria e Iran. La banda integralista attorno al presidente, legata mani e piedi agli estremisti della comunità ebraica e a Israele, nonché al complesso petrolifero e militarindustriale, uscito enormemente rimpinguato dall’operazione Iraq, non ne vuole sapere e induce Bush a rilanciare: altri 21.000 soldati di un esercito che non ce la fa più, minato da demoralizzazione e droghe e a cui vengono a mancare gli effettivi; altre migliaia di mercenari, oltre ai centomila già impegnati nel fiancheggiamento delle truppe, altre ondate di bombardamenti sui civili e, sul piano diplomatico, una più accentuata aggressività verbale nei confronti dell’Iran, corroborata da una formidabile escalation della presenza aeronavale nel Golfo e nel Mediterraneo. Che però si deve prendere cura di Siria, Afghanistan, Somalia e Sudan. Ma la svolta avviene anche sollecitata dai paesi clienti degli Usa nel mondo arabo, in prevalenza sunnita, dall’Egitto all’Arabia Saudita, preoccupati, nella loro fragilissima posizione di regimi antipopolari, costantemente minacciati dalla contestazione di masse diseredate e escluse, ma ancora profondamente legate all’obiettivo panarabista, dalla travolgente avanzata dell’espansionismo scita di marca persiana. Ignorando il piano Baker, Washington si illude ancora una volta di poter avere ragione – attraverso l’operazione Surge di imposizione a qualsiasi costo della “sicurezza” a Baghdad,  in qualche altro centro del paese ormai dato per perso nella maggior parte del suo territorio – sia della Resistenza nazionale, intatta e all’offensiva dopo oltre quattro anni, durante i quali gli Usa hanno gettato nel conflitto tutto quello che avevano, sia del concorrente iraniano. Gli alleati arabi, che all’ottusità militarista teo-neo-con oppongono una ben più consapevole e antica conoscenza delle cose nella loro regione, non si rassegnano.

 

 

A due mesi dall’inizio di Surge, gli Usa si accorgono di non essere in grado di agganciare obiettivi neppure minimi nella normalizzazione di Baghdad senza il concorso delle milizie scite. Il premier Al Maliki, a cui Moqtada al Sadr fornisce la guardia pretoriana, legato a doppio filo a Tehran e che doveva essere a un  certo punto, secondo gli avvertimenti di Condoleezza Rice, spodestato e sostituito da qualcuno che esprimesse una qualche forma di “concordia nazionale” con i coinvolgimenti dei sunniti disponibili, rimane al momento al potere e, anzi, fa segretamente espatriare in Iran gli alleati Moqtada e Al Hakim, dopo che questi, per rabbonire gli Usa, avevano ordinato alle proprie formazioni armate di sostenere il “piano di sicurezza” degli occupanti. Ma la prospettiva, reiteratamente tentata, di una “riconciliazione nazionale” attivata da sparuti gruppetti di pseudo-oppposizione (comunisti ortodossi e fedifraghi, peraltro gemellati al PRC di Bertinotti, sunniti moderati, frammenti della Resistenza), regolarmente respinta dalla vera Resistenza, come dal dignitoso e irriducibile Consiglio degli Ulema sunniti, finisce nel nulla. 

 

La trincea dell’umanità

L’impasse per gli Usa è totale, con la cancelliera tedesca Merkel, il presidente francese Chirac e addirittura Tony Blair, che sottovoce suggeriscono di dar seguito al Piano Baker; con la battaglia-simbolo di Surge a Baghdad per l’affascinante Haifa Street, meraviglia degli architetti di Saddam e sede del grandioso Museo di Arte Moderna iracheno, che dopo quattro settimane di micidiali bombardamenti e incursioni di marines e fantocci, resta imprendibile; con Falluja, Ramadi e perfino Mosul nel Nord e Basra nel Sud, che tornano a essere impraticabili per gli occupanti; con le roboanti minacce a Tehran, che cadono nella più assoluta indifferenza iraniana e non ottengono l’adesione di pezzi grossi come Russia e Cina e solo un timido accompagnamento in sottofondo da parte dell’Unione Europea. Siamo a primi di marzo e, spalle al muro, l’amministrazione Usa pare rassegnata ad accettare il concorso diplomatico consigliato da Baker: una conferenza che coinvolga i fantocci iracheni, sempre e comunque quinta colonna di Tehran, l’Iran stesso, la Siria, visto come storico fattore di equilibrio regionale, che così uscirebbe dalla tenaglia approntata con la manomissione del Libano, altri Stati arabi e forse altre grandi potenze. Si tratta di raggiungere un equilibrio tra amici arabi degli Usa e avversari iraniani, peraltro complici nello sbranamento dell’Iraq, inventandosi un interlocutore sunnita in Iraq che accetti, nel nome della illusoria “riconciliazione nazionale”, un’equa suddivisione del paese tra dominatori stranieri, giocoforza a egemonia Usa. Interlocutore già affannosamente cercato varie volte, addirittura coinvolto nell’amministrazione fantoccio, ma regolarmente privato di ogni rappresentatività e, quindi, credibilità politica, dalla mancanza di base sociale. Nonostante i tamburi di guerra che da Washington continuano a rimbombare contro l’Iran, con il pretesto dello sviluppo nucleare, ma contro il vero pericolo della sottrazione dell’Iraq al controllo Usa, il pericolo del conflitto Usa-Iran sembra allontanarsi. Ai generali Usa che hanno minacciato di dimettersi nel caso di un’aggressione, è chiaro quanto agli psicopatici della guerra globale e permanente negli Usa e, soprattutto, in Israele resta oscuro: la capacità iraniana di mandare a ramengo qualsiasi progetto occidentale sull’Iraq, seconda, ma forse prima, riserva mondiale di idrocarburi, non appena un F-17 Usa si affacci dalle dune del Golfo o dai picchi nevosi del Kurdistan. All’orizzonte, inoltre, si affaccia l’annunciata e temutissima offensiva dei Taliban in Afghanistan, contro la quale britannici e statunitensi rischiano di restare soli e in mutande, nonostante il servilismo guerrafondaio del governo Prodi. Il quale Prodi, intanto, trema all’idea che, venendo trascinato dal suo imperatore nell’ulteriore guerra all’Iran, perderebbe anche gli ultimi resti di un consenso sociale in veloce evaporazione. Se guerra all’Iran ci sarà, verrà, a scanso di un pazzoide che prema il bottone, parecchio più in là. Per adesso l’antica complicità dei tempi dello Shah e di Khomeini resta, che piaccia o no, il jolly del gioco a carte mediorientale. Intanto, mentre tutti si occupavano di Libano, l’olocausto iracheno arrivava, secondo un inconfutabile studio iracheno-americano, riconosciuto da Lancet, la più autorevole rivista scientifica del mondo, a 657.000 morti ammazzati entro l’ottobre 2006. Da allora la mattanza ha assunto il ritmo di circa cento torturati e ammazzati al giorno. Li si ritrovano nei fossi lungo le strade, nei giardini, nel fiume. Perlopiù hanno il cranio, gli occhi, il corpo trapanati. Sono quasi sempre sunniti. Coloro che assistono al sequestro di queste vittime concordemente riferiscono di sicari nelle uniformi del Ministero degli Interni, o nella tenuta nera dei miliziani di Moqtada. Le stesse fonti di Lancet fanno salire a un milione gli uccisi a marzo 2007. Aggiunti ai due milioni uccisi dall’embargo, fa oltre tre milioni. Quasi tre milioni sono anche gli iracheni che hanno dovuto lasciare il paese. Prima della guerra gli iracheni erano 22 milioni. Meno sei. Ci ricorda qualcosa questa cifra? Anche gli inglesi, in 40 anni di brutale dominio coloniale, li avevano malthusianamente sfoltiti  così, tra gas lanciati dagli aerei di Churchill, inedia, malaria e tubercolosi senza prospettiva medica. Anche allora con l’aiuto degli iraniani e della loro quinta colonna in Iraq. Eppure hanno perso. Oggi l’Iraq, martirizzato quanto si vuole, è tornato a essere, come ho sentito dire una volta al presidente venezuelano Hugo Chavez, la trincea della liberazione dei popoli.     

 

Chi vivrà…Iraq!  

Non posso chiudere questo capitolo senza una nota personale. Quel paese mi accompagna ogni giorno della vita. Fonte di angoscia e di affetto senza uguali. Ci ho fatto amicizia per trent’anni, l’ho seguito nelle sue spirali di tragedie e resurrezioni, come si possono seguire le picchiate, cabrate e impennate di un aquilone. Che sale, ti culla nel sogno del volo, aspirazione massima dell’uomo, metafora di un mondo di giustizia, serenità e dignità. Questo è stato l’Iraq per tanti anni, un aquilone da risalite vertiginose, una locomotiva come quella di Guccini. Una locomotiva contro la stagnazione e la rassegnazione del mondo degli emiri, rubinetti d’oro e schiavi,  contro i lupi mannari che affilavano i denti alle sue porte. La possibilità della rinascita, la possibilità di tessere il futuro con il meglio di un passato senza uguali nella storia degli uomini. Un paese a cui pochissimi hanno pagato il debito della verità. I licantropi della morte e della follia lo hanno accerchiato, ciechi di buio e di abbagli che accecano e non illuminano, hanno sventrato l’aquilone con i B-52, con i mostri di morte Abrams hanno spinto la locomotiva della vita nell’abisso. Hanno azzannato, lacerato, hanno squarciato un corpo che era più bello del prigione di Michelangelo nel momento della rottura delle catene.

 

Era l’8 aprile 2003. La casa era al fondo di una strada che finiva sul Tigri, dove tra luci che facevano delle acque scure un controcielo di stelle, tante volte avevamo cantato, aggredito i mali del mondo là fuori oltre la Terra dei Due Fiumi, scherzato affratellati e giurato scorno alle nuvole di tempesta che già si infittivano all’orizzonte, sull’orlo del deserto dorato. E’ stata la mia ultima cena con il Dottor Rhiad, le vispissime sue figlie in vista di lauree da spendere nella pavimentazione del futuro, il figliolo che teneva a fianco il Kalachnikov come fosse un arto, come tutti gli iracheni d’onore in vista della battaglia. Battaglia finale, battaglia persa nell’immediato, ma in un segno che da noi quassù, nelle nostre paludi, s’è perso: il segno della dignità. La moglie, ricordo per sempre, teneva nel grembiule un coltello da cucina con cui avrebbe affrontato il primo straniero invasore che le fosse capitato. Patetica arma in una mano che non si sarebbe alzata in segno di resa. Sorella, la pediatra Rhiad, di quelle tre giovani donne che, nei giorni in cui scrivo, stanno per essere impiccate per non aver voluto lasciar cadere quel coltello, per non avere alzato quella mano. Avevano tirato fuori il meglio, dalla penuria dell’embargo e dei bombardamenti che li percuotevano da 20 giorni e che rintronavano anche allora, vicini ma percepiti senza un sussulto: lo hobbes caldo di forno, il dolcissimo e corroborante chai, bollente nei bicchierini svasati e orlati d’oro, i grassi pesci del fiume croccanti di scaglie bronzate, l’ultimo agnello. Un paese agnello, ma ancora e sempre con l’antico spirito del leone, il leone di Babilonia, il leone della dea Ishtar. Come sta dimostrando e continuerà a dimostrare. E Rhiad me ne rappresentava un vessillo, lui che, da quando l’embargo terminator di noialtri negava addirittura le aspirine, aveva messo su una sua clinichetta e lì, più con l’arte e l’amore che con la chimica, curava gratis la crescente folla di sofferenti, di feriti, di mutilati. Era l’ultima fiammella di un tempo in cui, come pochi al mondo, ognuno dei 22 milioni di iracheni aveva assicurata la salute gratis, dal cerotto al trapianto di cuore. L’ultima fiammella prima del tunnel buio delle privatizzazioni imposte dall’invasore e dette neoliberiste, quello tra cui ci sbattiamo noi. Quando, tra gli schianti vicini, un taxi mi portò via, una sola cosa il Dr. Rhiad perorava: cerca di mandarmi medicine. I gangster a stelle e striscie penetrarono anche in quella sua casetta-clinica, sfasciarono tutto, rubarono pochi dollari contribuiti da donatori ormai lontani, portarono via il figlio, mancarono per una volta – le ragazze erano scampate - lo stupro strategico, impunito. Impunito come tutto quello che una cosca criminale, lobotomizzate le proprie genti, asserviti i famigli, dalle rive del Potomac e del Giordano infligge all’Iraq, ai palestinesi, agli esseri umani.

 

Il taxi sfilava tra crateri e cumuli di macerie, tra vuoti bui là dove solo sei mesi prima era ancora luce di bombole e lampadine colorate, di braci nei carretti degli spiedini, di riflessi nello specchio del grosso barbiere battutista che rallegrava la rasatura con scintillii di cabaret, di squilli e ritmi dell’amatissimo taroccatore. Sfilava, il taxi dall’imbottitura rifatta con stoffa di divano e la collanina delle preghiere ciondolante davanti al santino dell’Imam Hussein, sotto l’Hotel “Al Mansur”, poi sotto il “Palestine”, dove i giornalisti alla Giovanna Botteri – culturalmente se non fisicamente embedded -  celebravano l’imminente vista, dai terrazzi delle postazioni tv, dei carri Abrams. Carri che, tra tonfi e sibili, già si sentivano sferragliare in fondo alla grande arteria dei colori e odori e sorrisi di Baghdad, Shara Sadun. Chissà se avrebbero continuato a brindare, poche ore dopo, quando i gangster, punendo a cannonate chi era rimasto a raccontare il martirio e l’eroismo di Baghdad, avevano ucciso nel Palestine il mio collega spagnolo Cuso e, poco più in là, nella mai embedded “Al Jazira”, l’amico Ayoub, compagno di riprese di infamie giudaico-cristiane nelle terre violentate della Mezzaluna, compagno di tante tazzine di bollente chai, all’ombra delle palme da dattero. Quattro anni dopo, i giornalisti ammazzati dai gangster dell’occupazione-collaborazione sarebbero arrivati a 130, perlopiù arabi, compreso quello che aveva filmato di nascosto i marines mentre seppellivano i corpi dei loro militi ignoti, poveri immigrati del Messico o dell’Ecuador, senza patria, diritto, tomba con bandiera a stelle striscie. Senza nome nella lista dei 200, 3000, 4000 onorati di menzione ufficiale. Lungo la via verso il riparo di Amman, correvo a fianco di un pulmino. Con chi vi viaggiava condividemmo una merenda nel posto di ristoro disintegrato fin dalla notte del 17 marzo, quando arrivai, ma subito risorto in forma di baracchino. Erano due funzionari del Ministero della Solidarietà Araba, portavano alle famiglie dei martiri palestinesi quei 20.000 dollari ciascuna  che Saddam, embargo o non embargo, guerra o non guerra, aveva continuato a stanziare dal giorno della rivoluzione all’ultimo giorno di libertà, fin sotto il naso degli invasori. “L’uomo degli americani”…

Uscendo da Baghdad, schivando le lunghe e nere traiettorie dei missili, sentivo addosso un odore di morte che non veniva dai corpi squarciati, disarticolati tra buche e fossi: persone, cammelli, capre, cani. Quei cani che gli iracheni da qualche anno, diversamente dai popoli vicini, avevano cominciato ad amare e accogliere in famiglia e che ora, con loro, morivano. Lo sento ancora, quell’odore. Dovrebbe inondare il mondo. Mi diceva un grande poeta cubano: “Se uccidiamo un albero, se uccidiamo un cane, muore un arto del mondo”. Morendo l’Iraq moriamo tutti. 

 

 

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