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E ora si va in Africa!
SOMALIA, SUDAN:
IL RITORNO DEL COLONIALISMO
Usa, Israele,
Italia, Europa, Vaticano: dai “selvaggi” ai “terroristi islamici”
20/03/2007
In Somalia ci arrivai nel 1991 con
Alberto, sardo tosto e cameraman temerario, pochi giorni dopo che una
rivolta nazionalpopolare aveva cacciato, il 31 gennaio, l’amico intimo e
sodale preferito di Bettino Craxi, il dittatore Siad Barre, per un
decennio filosovietico e per l’altro filoamericano. Un satrapo dei
peggiori, che il colonialismo in ritirata agevolava ad assumere la
funzione della continuità neocoloniale negli interessi propri e nei
bagordi loro. Eravamo finiti nella parte Nord di Mogadiscio, dopo
l’avventuroso viaggio su una carretta volante da Gibuti. Lì ci aveva
indirizzato dall’aeroporto il gallonato “comandante” di una polizia che
non esisteva più. Esisteva già, invece, il consueto burattino degli
ex-padroni italiani, caro anche lui al politicamente e giudiziariamente
agonizzante predecessore di Berlusconi. Era un capotribù locale di nome
Ali Mahdi che mi ricevette sotto un colonnato tipo Acropoli,
sopravvissuto tra le macerie della Mogadiscio semidistrutta. La residua
macerizzazione l’avrebbe compiuta, due anni dopo, il primo “intervento
umanitario” della serie, con tanto di carabinieri, parà e militari vari,
diventati famosi soprattutto per le torture all’elettrodo sui testicoli
e alla bottiglia in vagina e, poco dopo, per la loro precipitosa fuga
al seguito del consueto, benedetto, ultimo elicottero statunitense.
Allora Mogadiscio era divisa in sole due parti, appunto quella del
proconsole occidentale Ali Mahdi, in un caos in cui già nuotavano i
pesci pilota del pescecane-capo, futuri “signori della guerra”, e quella
al Sud, del liberatore della Somalia dalla dittatura e dal
neocolonialismo, Mohammed Farah Aidid. Ed era questa parte che per
ordine, convivenza, saggezza amministrativa, stava all’altra come Cuneo
sta al Bronx Non era questione di clan, come più tardi si sarebbe
stereotipicamente calunniata una delle poche nazioni africane a unità
etnico-confessionale, giacchè entrambi i personaggi appartenevano allo
stesso grande gruppo degli Awiya.
Fu grazie all’imbeccata di un italiano che
operava con Save the children,
l’unica Ong rimasta nel trambusto della rivoluzione – quasi tutte queste
conventicole se la danno a gambe appena la greppia si inaridisce e le
pallottole cominciano a volare – che venimmo a conoscere l’altra metà
della questione somala, quella vera, quella che ovviamente in Italia e
in Occidente già si era meritata la definizione di “tribale” ed
“estremista”. Più tardi, si sarebbe aggiunto una primizia allora ancora
poco consumata:“integralista islamico”, paradigma-alibi di “interventi
umanitari” cui non si sottrasse, in mala o buona fede, proprio nessuno
degli/delle inviati/e dei media italiani. Compresa la mia giovanissima
collega Ilaria Alpi, venuta qualche mese più tardi, che tuttavia si
riscattò alla grande quando pretese di rompere l’omertà che legava i
giornalisti al malaffare economico-militare italiano, mettendo il naso
nel più colossale e criminale traffico di rifiuti tossici e armi che ci
sia mai stato tra Nord e Sud del mondo. Come sappiamo – e piangiamo –
mal gliene incolse.
Aidid, un generale dell’ esercito somalo,
poi epurato da Barre, aveva partecipato alla lotta di liberazione del
dopoguerra contro gli italiani mandati e gli inglesi mandanti. Poi era
stato l’indiscusso leader delle formazioni che, raccolte nell’interno,
avevano assediato e poi conquistato Mogadiscio e la maggioranza degli
altri centri somali. Nell’intervista che gli feci per il TG3 mi fece un
convincente quadro del suo progetto per una Somalia integralmente
sovrana, non allineata, fuori da ogni dipendenza dalle superpotenze,
avviata su un cammino di ricostruzione nazionale lungo linee di
giustizia sociale. Mi anticipava quello che l’Occidente stava tramando e
che sarebbe successo da lì a poco: l’intervento per la riconquista di
una posizione strategia assolutamente irrinunciabile per l’imperialismo,
a cavallo tra Mar Rosso, Oceano Indiano e Golfo Arabo-Persico e alla
porta di un Corno d’Africa aperto sulla regione più ricca di risorse
minerarie e di biodiversità di tutto il continente. Fondamentale anche
come piattaforma di partenza per ridurre alla ragione i non allineati
Eritrea e Sudan. La contesa era dunque tra il fantoccio degli interessi
di rapina di stranieri ed élite somala, e l’uomo che aveva guidato una
rivoluzione nazionale contro la dittatura e la corruzione generalizzata,
concretizzata simbolicamente nelle famigerate cattedrali nel deserto,
specialità della cooperazione italiana di quei tempi. Era nell’ordine
delle cose democratiche che dovesse prevalere il primo. O chi per lui.
Difatti, l’invasione di marines, bersaglieri e professionisti esteri
vari, lanciata sotto la sarcastica denominazione di
Restore Hope, “ricostruisci
la speranza” (1992-1994), che costò al popolo somalo 10.000 morti e finì
in un’ingloriosa fuga tipo Saigon, non senza aver versato all’Occidente
colonialista il solito tributo di molto sangue altrui e di poco sangue
proprio, aveva l’obiettivo di eliminare Aidid e il suo progetto di
emancipazione nazionale. Aidid cadde in combattimento contro i briganti
“signori della guerra”, nel 1996.
Ilaria Alpi e la nostra Cooperazione: altro “mistero d’Italia”
Dalla scia dei massacri euro-statunitensi,
benedetti ancora una volta da quell’Onu che alcuni si ostinano ad
invocare come toccasana dell’”unilateralismo” Usa, emersero, soluzione B
nel caso che la riconquista militare fosse fallita, i cosiddetti
“signori della guerra”. Gente a cui i partenti avevano affidato il
compito di far uccidere fra di loro i propri seguaci, così mantenendo il
paese, salvo alcune fette a Nord (Somaliland, Puntland), già in mano a
fiduciari anglostatunitensi, in uno stato di perenne anarchia,
sottosviluppo e frammentazione. Da quella scia non emersero, invece, le
testimonianze di Ilaria Alpi e di Miran Khrovatin, suo operatore, come
erano state registrate nei diari e blocchi-notes della coraggiosa
giornalista. Sparirono nel volo dell’aeronautica militare italiana da
Mogadiscio a Roma, mentre le testimonianze oneste furono fatte evaporare
nel solito processo del solito “porto delle nebbie” romano. A essere
condannato fu solo un povero ragazzo somalo che si era illuso di poter
venire a Roma per raccontare a giudici onesti i suoi ricordi di come i
due furono assassinati, al di là di tutte le balle dei vari ominicchi e
faccendieri che da sempre si muovono in Somalia come vermi nelle
carogne. Ma tutti sapevamo, come Pasolini sapeva di Piazza Fontana, che
Ilaria aveva bruciato i suoi 26 anni per aver scoperto uno dei massimi
crimini di uno Stato della malavita: l’interramento in Somalia (a
partire da una cosca spezzina e con transito per un’altra a Trapani) di
scorie nucleari e tossiche da tutta Europa, mentre, in cambio, Siad
Barre riceveva armamenti e prebende varie. Già a me avevano riferito a
Mogadiscio che nell’area desertica dove venne costruita un’inutile
autostrada della Cooperazione italiana c’era stata una spaventosa moria
di bestiame, almeno 40.000 capi, e di tantissimi pastori e contadini,
“probabilmente per le radiazioni e le esalazioni di quanto era stato
sepolto sotto l’asfalto”.
Fare bella figura fregando…
Per i lunghi mesi in cui, dopo la caduta
del tiranno amico di Craxi, la popolazione somala era in preda alla
guerra civile e a ogni genere di drammatica carenza, l’Italia, già
potenza coloniale e poi mandataria e, infine, definita “nazione sorella”
della Somalia, non mosse un dito. I somali se li portava via a decine la
dissenteria, la malaria, la tubercolosi, la fame. Qualche televisione
mostrava le fila sconfinate di madri rinsecchite con i bimbetti gonfi al
seno, ma lì per tutto quel tempo c’erano rimaste solo gli svizzeri di
Save the children e
Medicins sans frontieres.
Non mi ricordo quante volte dovetti buttare gli occhi per terra in
risposta alla disperata domanda “Ma l’Italia, nostra amica, che fa?”
Poi, d’un tratto, fece. Sotto i miei occhi e quelli affossati in cupe
grotte dei bambini somali. E il fatto merita di essere ricordato: ci
sono le carte legali e le testimonianze di
Save the children. Un giorno
della primavera 1991 un grosso aereo da trasporto atterra a Mogadiscio.
Dalla sua pancia escono beni, farmaci, viveri di ogni genere. Il
velivolo porta i colori italiani. L’Italia ha finalmente avuto un
sussulto di coscienza? Macchè. Quell’aereo è stato noleggiato a
Nairobi, nel vicino Kenya, proprio dalla Ong svizzera rimasta a
presidiare lo sfacelo. E’ Save the
children che lo aveva, a costi altissimi, imbottito di
rifornimenti. Ma c’era stato un colpo di mano, poi finito davanti alla
magistratura keniota. Colpo di mano all’italiana. Nostri rappresentanti
diplomatici, kenioti conniventi, s’erano impadroniti dell’aereo e di
tutto il suo contenuto, gli avevano dipinto sopra il tondino tricolore e
lo avevano portato a Mogadiscio. Bellissima figura. Raccontai la cosa in
diretta nello Speciale del Tg3. I testimoni somali presenti
confermarono. Il sottosegretario con delega per l’Africa, Mario
Raffaelli (PSI), ebbe uno scatto di nervi e ci accusò di essere una
cosca di bugiardi. Mario Raffaelli è tuttora l’uomo dell’Italia per
quella regione, ora che a Mogadiscio, dopo la breve tregua di unità
nazionale realizzata dalle “Corti Islamiche”, si è insediato un nuovo
gruppo di personaggi cari all’Occidente.
Una Nato a stelle e strisce per l’Africa
Il progetto Usa era maturato nel corso
della seconda guerra all’Iraq, dato che la bonanza petrolifera che ci si
attendeva da quell’ecatombe si era volatilizzata nelle esplosioni degli
oleodotti e pozzi ad opera dei mujaheddin iracheni. Era stato
ulteriormente accelerato dalla politica antiamericana di Hugo Chavez,
che faceva presagire rischi ai rifornimenti petroliferi dal quel paese
in evoluzione rivoluzionaria. Il progetto era un nuovo comando di
combattimento unificato, il Comando dell’Africa (Africom), con un’area
estesa di responsabilità che include l’intero continente, fino allora
diviso tra Comando Europeo, Pacifico e Centrale. Questo Comando,
dislocato in Africa e che ha come principale forza d’intervento rapido
la 173ma Divisione Aerotrasportata, ora destinata all’infelice Vicenza,
diventa pienamente operativo nel settembre 2008. Intanto il Pentagono lo
sta facendo crescere rapidamente attraverso un’intensa attività militare
in Africa, dove ha stipulato accordi militari con Marocco, Algeria,
Tunisia, Mauritania, Mali, Nigeria, Senegal, Gibuti e Ciad. In molti di
questi paesi gli Usa addestrano forze armate locali, sistematicamente
favorendo le élite militari e reprimendo i processi di sviluppo ed
emancipazione, provocando guerre e vendendo armi. Nello strategico
Corno, nell’ Etiopia del fido vassallo Meles Zenawi, altro brutale
dittatore e guerrafondaio, e a Gibuti, gli Usa hanno addirittura
dislocato la Task Force 88, unità segreta per “operazioni speciali”.
Obiettivo dell’Eucom è di integrare le forze armate di questi paesi in
un unico sistema di comando, controllo, comunicazioni e informazioni,
denominato C3IS, ossia nella catena di comando del Pentagono. Come in
Afghanistan, come con la Nato. Corollario del progetto sono le basi
militari, soprattutto in Ghana e in altri paesi dell’Africa Occidentale.
Mentre dal Golfo di Guinea proviene il 15% del petrolio importato dagli
Usa, la sponda opposta, orientale, è presidiata per il controllo dello
scacchiere Oceano Indiano, Golfo, Mar Rosso e, all’interno, dei grandi
detentori della ricchezze minerarie africane: Sudan e Congo.
Corti Islamiche: un virgulto schiacciato dagli stivali
etiopico-statunitensi
Questo spiega la tempestività e brutalità
dell’intervento Usa, con l’uso dell’ascaro etiopico, contro quella
normalizzazione della Somalia che nel 2006, grazie all’avvento delle
Corti Islamiche, associazione di religiosi relativamente moderati e a
forte coscienza nazionalista, dopo 15 anni di caos pianificato aveva
visto la sconfitta dei boss mafiosi dei traffici e della guerra
endemica. E aveva dato a Mogadiscio e a gran parte della Somalia la
possibilità di tornare a respirare, vivere in pace, lavorare, evolversi.
Proibendo il traffico del Khat, stupefacente anfetaminico a larghissimo
consumo e massima fonte, oltre al commercio delle armi, dei profitti dei
capimafia, riattivando un minimo di sviluppo economico con il recupero
di infrastrutture fondamentali come aeroporti, porti e vie di
comunicazione, e sostenendo allevamento e agricoltura, le Corti, sotto
la guida di Sharif Hassan Sheikh Ahmed, avevano aperto il cammino verso
il recupero della statualità, dell’unità nazionale, della dignità. Una
prospettiva intollerabile per la strategia della riconquista coloniale e
della militarizzazione continentale sotto il dominio anglosassone, con
quote per europei e israeliani. Alla demonizzazione delle Corti dà la
solita mano quella conventicola dei “diritti umani” che, come ai tempi
della “salvezza delle donne afgane”, peraltro libere ed emancipate sotto
i governi progressisti che precedettero lo scatenamento del fanatismo
integralista nel 1979, si straccia le vesti per il divieto della
proiezione nei cinema delle partite mondiali di calcio, adottato dalle
Corti per impedire che decine di migliaia di cittadini abbandonassero
per settimane l’urgente lavoro di ricostruzione e riorganizzazione dello
Stato.
Tra Gibuti e Nairobi, nel frattempo, era
stato messo in piedi un “governo di transizione”, composto da fuorusciti
di lunga data (alimentati dagli Usa) e da alcuni signori della guerra
tra i più sanguinari. Un governo privo anche della minima parvenza di
legittimazione popolare. Presidenti, primi ministri e parlamento si
erano autonominati al classico tavolo della spartizione delle faccende
ed erano stati legittimati dalla famosa “comunità internazionale”. Un
governo di malavitosi e corrotti. tipo Karzai in Afghanistan e Al Maliki
in Iraq. Una banda di ladroni, faccendieri, assassini, capeggiati da
Abdallahi Yussuf, foderati di dollari Usa, insediati a Nairobi, incapaci
anche solo di affacciarsi sul confine somalo a scanso di venire presi a
pedate, data l’assoluta mancanza di consenso popolare. Questo gabinetto
di Quisling, per avere un minimo di quella credibilità che la “comunità
internazionale” era avida di concedergli, doveva poter sedere a
Mogadiscio. Con gli Usa impegnati alla morte in Iraq e Afghanistan e
ancora lontani dalla realizzazione dell’Eucom, ci voleva un sicario. Dal
2002 l’Etiopia cristiana fruisce di un programma Usa di aiuti militari,
da utilizzare anche contro la ostinatamente renitente Eritrea. Forniti
nell’autunno 2006 anche di mezzi di ricognizione aerea e di ascolto
satellitare statunitensi, gli ascari etiopici si apprestarono a sbranare
la Somalia, preda ambita da secoli e già parzialmente mutilata con la
separazione dell’Ogaden. Contro 28.000 militari dotati di armi pesanti,
coadiuvati da cacciabombardieri Usa e sospinti dal solito coro
bianco-cristiano-democratico contro i “terrorismo di Al Qaida”, manco
questa fosse la protagonista della Guerra dei Mondi (e non un reparto
dell’intelligence Usa-Mossad), ai liberatori
pro tempore della Somalia,
muniti di soli Kalachnikov, non rimaneva che sottrarsi all’eccidio e
andare in clandestinità. Mogadiscio, bombardata a tappeto, cade alla
fine del 2006. Nel febbraio successivo, spartendo feudi e commerci tra i
redivivi signori della guerra, il regime di Yussuf può installarsi nella
capitale e offrire alla “comunità internazionale” un interlocutore tanto
poco legittimo, quanto obbediente.
Una nuova guerra asimmetrica contro l’imperialismo
La storia non finisce qui. Da allora la
resistenza si è riorganizzata, non c’è giorno o luogo in cui non
colpisce mercenari etiopici e pretoriani di regime, fin nelle loro
roccaforti più munite, come, nella primavera 2007, ripetutamente lo
stesso palazzo presidenziale del fantoccio Yussuf. Arrivano,
sponsorizzate dagli Usa, le forze “di pace” dell’Unione Africana,
principalmente prelevate da paesi clienti, come l’Uganda, ma ciò non
impedisce il dilagare di una nuova guerra asimmetrica che, come
dimostrano Iraq, Libano e Afghanistan, per l’imperialismo e le sue
marionette è invincibile. Il Nuovo Medio Oriente di Bush, che comprende
in unità geostrategica anche il Corno d’Africa, subisce un’ulteriore
crepa. Intanto il governo italiano di centrosinistra offre il suo
apporto, non solo con la piena adesione all’operato del Quisling somalo,
ma addirittura con una mossa spietata contro l’Eritrea, schieratasi con
le istanze di liberazione somale: nel febbraio del 2007 il ministero
degli esteri Massimo D’Alema sospende il lavoro umanitario dei medici
italiani in Eritrea. Ancora una volta l’Italia usa la cooperazione –
responsabile il viceministro Patrizia Sentinelli, del PRC – come
strumento di pressione e di ricatto nelle relazioni politiche con altri
Stati.
STATI UNITI, FRANCIA, GERMANIA, ISRAELE,
ITALIA, SOSTENUTI DA DESTRE, SINISTRE E PACIFISTI, ALL’ASSALTO DEL SUDAN
Darfur:
tragedia umanitaria, o nuovo tentativo di squartare il più grande paese
africano? Incominciamo con il presidente Nimeiry
C’ero arrivato in veste di
free-lance, squattrinato, ma
dotato di compagna inglese avvenente. Eravamo rientrati da una mesata di
Eritrea, mille chilometri avanti e indietro insieme al Fronte di
Liberazione Eritreo, tra deserti, semideserti, oasi, bassipiani,
altipiani, babbuini, gazzelle, cammelli, lontano dalle vie controllate
dagli occupanti etiopi. L’ostello della gioventù di Khartum ci sembrò un
cinquestelle, lindo e fronzuto com’era e dotato di banchetto di
Mus,
frappè di banana con ghiaccio che, dopo le
arsure eritree placate solo nei pozzi di acqua marrone, insieme a capre
e cammelli, rappresentava il nettare di Dioniso. Era il 1970. Ero
riuscito a fare amicizia (merito della compagna?), al ministero
dell’informazione, con un giovane e vispissimo militante del Baath,
allora grande movimento laico e socialista, accanto a quello nasseriano,
di emancipazione e unità araba. Conosciutomi parente ideologico, Saleh
mi mise sulle tracce del presidente Gaafar Nimeiry, giovane ufficiale
nasseriano che aveva preso il potere due anni prima, togliendola a una
combriccola di fiduciari degli inglesi, mai rassegnati alla perdita
della grande colonia nel 1956. Inseguii, per metà dell’immenso Sudan,
colui che allora era uno dei protagonisti dei movimenti di emancipazione
in Africa e nel mondo arabo. Lo raggiungemmo, l’inglese, Saleh e io, in
un affascinante villaggio pieno di vialetti alberati e casette popolari
bianche di recente costruzione, dove era venuto a inaugurare una scuola
(istruzione e sanità erano state nazionalizzate e rese gratuite; i padri
comboniani, massima potenza del paese dopo il padrone coloniale
britannico, non glie lo hanno mai perdonato). Saleh ci manovrò fino a
una taverna all’aperto, dove riuscì a collocarci a un tavolo in linea
ottica diretta con Nimeiry. Notai che il presidente, circondato da buona
parte del suo gabinetto, occhieggiava ripetutamente verso di noi. Perché
bianchi? Perché c’era l’inglese venusta? Gli arrivai addosso con la
macchina fotografica sul finire della cena e fui accolto con
benevolenza. Le foto si allungarono in un’intervista che, animata da un
numero imprecisato di Black Label, si protrasse fino alle cinque del
mattino, ora del nostro misero crollo. Nimeiry ancora si stava
diffondendo sulla storia di un paese che aveva dato ai britannici, con
la mitica sconfitta del Generale Gordon, la più umiliante sconfitta
della loro storia coloniale, sui grandi progetti di “rivoluzione verde”
che avrebbero trasformato un pezzo di Sudan nella Jazira del cotone, e
sulle trame dei colonialisti di ritorno, o esordienti – Usa, Gran
Bretagna, Israele e Vaticano – per impadronirsi del Sud in odore di gran
petrolio.
Fummo promossi da ostellati in ospiti a
quattro stelle del Governo e due giorni dopo un aereo zeppo di ufficiali
ci portò a Juba, capitale del Sud che, due anni dopo l’indipendenza, i
cospiratori esterni, validamente agevolati dal cliente confinante,
Uganda, già avevano aizzato alla rivolta, facendo leva su una presunta
minoranza cristiana e su un’effettiva minoranza nera e animista.
Altissimi Dinka seminudi allestirono una fantasmagorico spettacolo e ci
garantirono di trovarsi meglio in una grande nazione multietnica,
rispettata ed economicamente agibile, piuttosto che in un frammento di
territorio vampirizzato dalle potenze imperialiste e, come dimostrato
nel resto dell’Africa dei proconsoli occidentali, rinchiuso in un
sottosviluppo perenne. Il Nilo percosse una nostra fragiletta
imbarcazione e ci riservò un tète a tète inquietante con la colossale
testa di un ippopotamo. Tutto ci apparve tranquillo nonostante che sulla
stampa occidentale imperversasse un
Sudan’s People Liberation Army (SPLA) a difesa della
cristianità contro l’oppressione musulmana del Nord arabo. Due anni
dopo, gli accordi di Addis Abeba posero fine, con grave scorno dei
mestatori nel torbido, alla “guerra civile”. Che sarebbe ripresa, però,
sempre con alle spalle i soliti sponsor, anni dopo, poco prima che il
generale Omar Al Bachir nel 1989 togliesse il potere all’aristocratico
emissario locale degli inglesi, Al Mahdi.
Finisce l’insurrezione al Sud e parte,
in significativa simultaneità, quella del Darfur
All’inizio del 2003, proprio mentre
Khartum sta portando a termine negoziati di pace e concordia nazionale
con il generale John Garang, capo del SPLA, con impressionante tempismo
si scatena una lotta separatista nel Darfur, mezzo milione di chilometri
quadrati semidesertici a ovest del paese, abitati da musulmani in parte
allevatori nomadi, in parte contadini sedentari. In Sudan c’ero tornato
sul finire degli anni’90, stavolta decorosamente per il Tg3 e ci avevo
incontrato uno strano esempio di diplomatico italiano. Diversamente da
altri che avevo conosciuto, tra erre mosce, cognomi doppi e tripli e
cerimonie in feluca, questo ambasciatore era un competente, profondo e
appassionato conoscitore del paese e delle sue genti. Era anche
perfettamente consapevole, per quanto dipendente di una cancelleria
“atlantica”, dei torbidi disegni che le potenze occidentali nutrivano
sul gigante africano, già granaio del continente e ora accertato
possessore di immense riserve petrolifere, concesse, oh gravissimo
insulto, soprattutto allo sfruttamento cinese. Riserve, per l’appunto,
la cui presenza aveva fatto innescare il secessionismo del Sud
conclusosi poi, nel 2005, con un accordo a perdere accettato da Khartum
per evitare guai peggiori (l’Iraq, con cui nelle due guerre del Golfo il
Sudan si era dichiarato imperdonabilmente solidale, insegnava) e per
preservare una misura di unità nazionale: a un governo autonomo del Sud
sarebbe spettata metà degli introiti petroliferi, un referendum
sull’indipendenza totale entro sei anni e John Garang vicepresidente
nazionale e effettivo padrone della regione meridionale.
Un’altra bufala “umanitaria”: la Cap Anamur
Era l’inizio del luglio 2004 quando al
largo di Malta incrocia una grossa nave passeggeri, la “Cap Anamur”,
bandiera, società e capitano tedeschi. Segnala di essere colma di
disperati profughi del Darfur, pescati chissà dove (non lo si saprà mai)
e di essere impedita di approdare a Malta. Chiede di poter entrare a
Porto Empedocle, cosa che le autorità italiane, isospettite, non
consentono. Si scatena un autentico tsunami di solidarietà umana. La
questione del Darfur, di cui si aveva avuto sentore nei primi mesi
dell’anno precedente come di una vicenda che vedeva il governo sudanese
e le sue milizie massacrare la popolazione, schizzò alla ribalta
mondiale e, soprattutto, italiana. Tutto l’universo composito delle Ong,
delle associazioni umanitarie, dei diritti umani, i partiti di sinistra
con “L’Unità”, “il manifesto” e “Liberazione” a far da diapason, si
avventarono mediaticamente e, in molti casi anche fisicamente, sulla
nave. Chi portava generi alimentari, chi acqua, chi articoli sanitari,
chi macchine fotografiche e taccuini per registrare “negli occhi dei
profughi ancora l’orrore dei villaggi bruciati, delle donne stuprate,
delle stragi di civili in Darfur”. Il frullato umanitario che ne scaturì
venne imbottigliato dal governo Usa, tedesco, francese, italiano,
britannico, dalle centrali della propaganda imperialista, dal Vaticano e
lanciato addosso all’ONU. Questa, come di consueto, non tardò a
denunciare i misfatti di Khartum e quei “400.000 uccisi” che, se fossero
stati veri, avrebbero comportato da parte degli uccisori un ritmo
giornaliero di ammazzamenti, per soli 12 mesi, superiore a quello che
occupanti e squadroni della morte iraniani combinati non riescono a
eguagliare nella mattanza irachena di diversi anni, con tutti i loro
bombardieri, carri armati e trapani foracranio. Curiosamente, dopo altri
tre anni di supposti massacri, tali da aver dato la stura alla
tradizionale accusa Onu e Usa di “genocidio”, prodromo di ogni
invasione, le vittime continuavano a essere quelle 400mila e i profughi
sempre due milioni, di cui un decimo nel contiguo Ciad.
Si costruì la solita macchina da
intossicazione a fini colonialisti. Il Sudan, riottoso all’obbedienza
nei confronti dell’Occidente ansioso di riconquista, andava spezzettato
come tutti gli altri paesi arabi di rilievo petrolifero, minerario e
strategico. Era il progetto israeliano fin dal 1982. Così si prese a
costruire una storia raccapricciante, sul modello Sarajevo assediata, o
11 settembre, o armi di distruzione di massa: il “regime islamico del
dittatore Al Bashir” stava sterminando le popolazioni africane del
Darfur con il suo esercito, i suoi bombardieri e le sue feroci milizie
denominate “Janjawid”. Coloro che si ribellavano – il Movimento di
Liberazione del Sudan, MLS, e il Movimento per la Giustizia e
l’Uguaglianza, MJE - magari erano pure un po’ secessionisi, ma pur
sempre difensori del Darfur e vittime. Di questo paradigma era
portatrice la Cap Anamur. E poi, viva l’autodeterminazione, no?
La desertificazione mimetizzata da rivolta e repressione
L’ambasciatore di cui sopra mi portò nel
Darfur a constatare, ben cinque anni prima dello scoppio
dell’insurrezione separatista, lo spaventoso processo di
desertificazione in atto, determinato, come tutti i catastrofici
mutamenti climatici, dal demenziale modello di sviluppo capitalistico.
Incrociammo colonne di abitanti della regione in fuga verso il centro e
verso quelle risorse idriche che in Darfur si stavano esaurendo. Gente a
piedi, su somari, cammelli, con fagotti di povere cose in spalla, che,
incontrando il nostro fuoristrada, si fermavano addirittura a invocare
qualche goccio d’acqua. Erano musulmani arabi e musulmani africani,
senza distinzione. Gli uni, nomadi allevatori che avevano dovuto
abbandonare il secolare percorso di pozzo in pozzo; gli altri, contadini
sedentari cui era venuta a mancare la possibilità di irrigare anche quel
poco che serviva alla sopravvivenza. Furono costoro a ingrossare gli
accampamenti alla periferia di Khartum, nei quali il governo già
ospitava, con oneri finanziari pesanti e inadeguatamente sostenuti dalle
agenzie internazionali, un milione di profughi africani dal Sud che non
ne avevano voluto sapere di restare alla mercè delle bande del SPLA di
John Garang, spezzetate in mille frazioni, che si accanivano l’una
sull’altra per il controllo di territorio e flusso petrolifero.
Qualsiasi conoscitore della regione si rendeva conto che il conflitto
era scoppiato tra coloro che erano rimasti indietro, alla mercè della
siccità. Agricoltori organizzati nelle formazioni secessioniste, con
ampio supporto in armi, quattrini e propaganda da parte dei vampiri
fuori dalla porta (Usa, Francia, Germania, Israele e Regno Unito in
testa), contro nomadi organizzatisi nelle milizie di autodifesa Janjawid,
fedeli all’unità nazionale. Un conflitto tra indigeni per quanto
rimaneva di acqua, un conflitto innescato dai soliti noti per creare il
pretesto dell’intervento neocoloniale in Sudan. E la Cap Anamur? Si
scoprì che i trenta “profughi disperati del Darfur”, con negli occhi
ancora “l’orrore delle stragi”, non erano sudanesi, non erano mai stati
nel Darfur, non erano affatto allo stremo ed erano tutti quanti
originari di altri paesi africani, soprattutto del Ghana. Non se ne è
saputo più nulla. Ma chi ne aveva voluto sapere di più – e non si tratta
del “manifesto” o delle Ong, o dei padri comboniani che si stracciavano
le vesti sul Darfur – non aveva tardato a scoprire un’altro elemento
rivelatore: La Cap Anamur era il vascello di una società tedesca
intimamente legata a due organizzazioni di destra, note per il loro
ruolo destabilizzatore di paesi socialisti, o comunque nel mirino
dell’imperialismo: la Fondazione Konrad Adenauer e la
Gesellschaft fuer Bedrohte Voelker
(Società per i popoli minacciati). Aveva già svolto
egregiamente due compiti: quello di scorazzare nelle acque vietnamite,
negli anni ’70, alla pesca dei boat
people, quei profughi vietnamiti che gli Usa avevano
sollecitato alla fuga con la promessa del paradiso capitalista. E quello
di imbarcare, al largo della Jugoslavia in procinto di essere squartata,
i profughi albanesi del Kosovo, “in fuga dagli spiedi con cui i serbi di
Milosevic arrostivano donne e bambini”. In entrambi i casi un bel
contributo alla causa.
Apripista coloniali con stelle e striscie, stella di Davide, croce,
falce e martello
Tutto questo, per quanto attingibile da
cento siti internet, non ha minimamente scosso la cieca fiducia degli
umanitaristi e diritticivilisti nel verbo di Washington e delle altre
centrali della riconquista coloniale. Tanto che il successore di
Bertinotti alla guida del PRC, Franco Giordano, non si peritò di
auspicare, in linea con l’ONU e le sue sanzioni, dopo il Libano anche un
intervento in Darfur. Di peggio, nei tempi del recente parlamento, non
c’era stato che l’agghiacciante appoggio dell’ex-pacifista Lidia
Menapace, sempre PRC, alla guerra all’Afghanistan sotto forma di
“riduzione del danno”. C’è da stupirsi per come tanta sinistra invecchi
così male. L’anziana signora non si è poi privata della licenza di
insultare, dalla prima pagina di “Liberazione”, un ostinatamente
antiguerra Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas, in termini che facevano
pensare a vergogna sublimata in inguria. Pare che al militarismo dei
pacifinti non ci sia limite.
Da allora è una
escalation ininterrotta di
“crimini contro l’umanità”, sanzioni economiche e diplomatiche,
sollecitazioni all’intervento militare (già collaudato dai francesi nel
Ciad, a difesa bombarola del loro proconsole Idris Déby Itno, incalzato
da una rivolta di popolo) e una corsa spasmodica tra potenze occidentali
e cristiani di varia denominazione a chi taglierà per primo, e con più
potenziale d’egemonia, il nastro della demolizione del Sudan e della
secessione del Darfur. Tutto questo, nonostante le ripetute
dimostrazioni di buona volontà di Khartum che riesce a convincere i
separatisti – oltre a tutto ferocemente ostili gli uni agli altri e
responsabili della maggior parte degli eccidi – a raccogliersi intorno a
un tavolo e a firmare un accordo di pace. L’accordo è firmato nel 2005
dal maggiore dei fronti avversari, il MLS, evidentemente meno ligio al
telecomando occidentale, ma rifiutato dal MJE, che però poi si spezzetta
in tre tronconi, di varia obbedienza estera e di natura affatto simile
all’UCK di kosovara memoria. A fine 2006, il Sudan accetta addirittura
una forza di interposizione dell’Unione Africana (UA), cui però
l’Occidente nega fondi e mezzi per condurre in porto un’azione efficace
di controllo e pacificazione, mentre insiste, soprattutto con Berlino,
Washington e Tel Aviv, per una molto più robusta forza ONU che, fino
agli inizi del 2007, il Sudan respinge come violazione della propria
sovranità. Entra in scena anche lo squalificato Tribunale dell’Aja,
attivato dalle consuete sollecitazioni, con l’incriminazione dei primi
due “criminali di guerra”, ovviamente di parte governativa. Come se i
tribunali-fantoccio che hanno processato e fatto morire Slobodan
Milosevic, o Saddam Hussein, non avessero insegnato niente, politici e
giornalisti “di sinistra” si accodano, in particolare i cattolici di
“Lettera 22”, vicini ai comboniani e cui “il manifesto” ha appaltato
buona parte della sua politica sul Terzo Mondo. I retroscena
geostrategici, geoeconomici e geopolitici, ampiamenti rivelati dalla
guerra globale preventiva e permanente, continuano a insegnare nulla a
chi non vuole imparare. Non manca a questo punto che un pronunciamento
in favore di Khartum da parte dei picari imperiali, Osama o Al Zawahiri.
Peccato che la formula d’uso anche stavolta finisca con l’essere minata
dalle intemperanze delle soldataglie Onu. E’ addirittura l’imperiale
Daily Telegraph di Londra a
dover denunciare stupri e uccisioni di ragazze e ragazzi in Darfur. Non
da parte dei Janjawid,
bensì dei caschi blù, polizia militare e personale civile dell’Unmis
(Missione Onu in Sudan). Come in Bosnia, come in Kosovo, come in
Afghanistan, come a Haiti. Il che non impedisce al neosegretario
generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, fattosi notare, appena
insediato, per non aver avuto nulla da ridire sulla scellerata
impiccagione di Saddam, di proclamare :”La crisi in Darfur è in primo
piano nella mia agenda”. Disse le stesse cose Kofi Annan, eroe
dell’autonomia Onu, quando volle agevolare lo sbranamento di Somalia,
Jugoslavia e Afghanistan. Chissà perché nessuno ventila un qualche
soccorso alle popolazioni oppresse e discriminate di Ponte di Legno e
della Val Brembana e al loro sacrosanto diritto alla secessione. Che
hanno i ribelli del Darfur che i seguaci di Calderoli non hanno?
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