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RIGURGITI DEL ’68 E ALTRI
04 febbraio 2004
Tariq Ali l’ho intervistato per il
quotidiano Lotta Continua, di cui ero direttore, agli inizi degli anni’70.
L’argomento era la guerra del Vietnam che volgeva alla vittoria dei
bassotti contro gli altotti e Tariq sparava tuoni e lampi contro
l’imperialismo yankee. Tariq Ali, pachistano più tardi definitosi
anglopachistano, a dispetto della zazzerona nero-lucido, dei baffoni
spioventi, degli occhi neri e un po’ balconati e della pelle color
dattero maturo, studente della London School of Economics, era stato
nella Gran Bretagna del ’68 quello che Sofri, Negri e Brandirali erano
stati nell’Italia del ’68 e segg., che Rudi Dutschke era stato in
Germania e che Dany Cohn-Bendit era stato in Francia. Visto che Dutschke
fu ucciso quasi subito, per la gioia dell’editore di estrema destra
Springer, tra i sopravvissuti l’anglopachistano è l’unico che milita
ancora in una sinistra dichiarantesi tale. Trotzkista, ma comunque
sinistra. Dirige addirittura un periodico storico, la
New Left Review.
Se Cohn-Bendit fa del folklore verde, dopo
aver assolto al compito principale di abbattere De Gaulle e, dunque, la
prospettiva di un’Europa sganciata dalla narcosi-necrosi atlantica e
alleata dell’URSS; se Brandirali porta le borse della vecchiaia e della
devastazione morale con la stessa disinvoltura con cui porta quelle del
governatore lombardo Formigoni; se Negri fa il
maitre à penser delle
moltitudini in fuga dall’Impero
(ma ha almeno l’intelligenza-decenza di non captare benevolenze dai
poteri immerdacchiando Lenin e Marx, come suggerisce invece lo
sbracamento “innovativo” di certi vertici rifondaroli più retrò di
Bernstein); se Sofri acquista chiavi per le porte del carcere di Pisa
vendendosi anima e culo e mettendoci del suo nello sterminio di slavi,
iracheni, palestinesi, a memoria e scorno di alcune decine di compagni
da lui guidati e caduti nella difesa di qualche angolo di piazza, di un
lavoro meno schiavista, di una speranza di rivoluzione; se questo
periodo sta diventando troppo lungo e indigeribile, ebbene Tariq Ali lo
inseriamo subito nella formazione.
L’eminente anglopachistano ha presentato
l’altra sera a una fitta folla romana di naviganti dell’arcipelago
antagonista-revisionista-innovatore-disobbediente-gruppettaro-canescioltista-governista
il suo nuovo libretto Bush in
Babilonia. Un lavoro che , con tempistica mercantile, si
aggiunge ai tanti scaturiti come funghi dopo la pioggia bombarola dei
civilizzatori anglo-americano-satellitari e che, tranne un po’ di utile
storia del paese, nulla aggiunge di nuovo o demistificante alle fandonie
che ci hanno intossicato dalla biografia di Saddam dello Zero-Zero-Zero
Magdi Allam in poi. Alla presentazione, riferita l’indomani solo dal
come sempre generoso e versatile
Liberazione, sedicente “giornale comunista”, partecipavano
anche Giulietto Chiesa e Luciana Castellina, subissati dalla pomposa
spocchia dell’anglopachistano, ma a loro volta in grado di tirargli giù
un po’ di brache senza che l’interessato, perso nell’oceano della sua
autoconsiderazione, se ne avvedesse.
Certo, Tariq Ali è molto piaciuto a molti
(ma succede perfino a Rossana Rossanda con la fetecchia Sofri). E perché
no, a prima vista ribadiva cose indubitabili: la lunga tradizione di
lotta anticolonialista del popolo iracheno, base morale, politica e
psicologica dell’attuale, formidabile resistenza; i crimini di un
genocidio israeliano del popolo palestinese che si dipanano da oltre
mezzo secolo in qua e, “visto che l’occupazione è brutta, la resistenza
non può essere bella” (e qui, senza ironia, i combattenti suicidi
palestinesi gli rendono grazie), la resistenza che non deve essere
confusa con il terrorismo, il ricatto morale e l’intimidazione
intellettuale praticata dai mille gangli del sionismo con l’accusa di
“antisemitismo” che, chissà perché (domanda retorica, direi), viene
pompata e rilanciata soprattutto da certa sinistra (Liberazione,
ti fischiano le orecchie?).
Tutto bello, tutto gradito, tutti a
sorridere compiaciuti. Preparato così il terreno e spogliato il pubblico
di ogni diffidenza critica, Tariq Ali ha seminato. I solchi glie li ho
tracciati io con un paio di domande che si riferivano a un argomento da
lui sollevato e a un altro da lui trascurato. Nel corso della
presentazione, aveva tracciato il solito, liturgico quadretto di Saddam
Hussein: sterminatore di curdi e comunisti, alleato della CIA che gli
forniva l’elenco dei comunisti da liquidare (sai come avrebbe fatto
senza la CIA a rovistare nei bloc notes dei cittadini iracheni!), pedina
degli Stati Uniti nel contenimento della minaccia islamica di Khomeini,
armato, finanziato dal Pentagono, baciato in bocca da Rumsfeld (allora
inviato di Reagan), oltrechè vampiro del proprio popolo e socio
dell’attentatore alle Torri Gemelle e all’impero mondiale USA, Osama Bin
Laden. E a proposito di quelle Torri, arco di trionfo, per quanto
cimiteriale, per il transito delle truppe imperiali inviate a squartare
paesi, sfoltire l’umanità e garantire risorse all’elite statunitense,
nulla aveva aggiunto.
La prima domanda era se non gli fosse
barluccicato qualche dubbio su “Saddam, uomo degli USA” al ricordo che
Aref, dittatore iracheno messo su dalla CIA nel 1963, lo aveva buttato
in galera insieme ai comunisti e baathisti che avevano cacciato la
monarchia e gli inglesi nel 1958; che, alla presa del potere nel 1968 di
baathisti e comunisti uniti, Saddam aveva collocato l’Iraq solidamente
nel campo non allineato e socialista, concludendo con l’URSS un trattato
di amicizia e mutua difesa, rinnegato da Mosca solo nel 1980, quando
Brezhnev decise di schierarsi con l’Iran integralista; che, nel 1972,
aveva nazionalizzato il petrolio e cacciato le Sette Sorelle, massimo
crimine in assoluto dal punto di vista imperialista; che poi, per la
prima volta nella storia di quel popolo, aveva concesso ai curdi
l’autonomia e l’autogoverno, sottraendo agli USA la vecchia arma di
destabilizzazione del separatismo curdo, cosa che Kissinger trovò
sommamente disidicevole, tanto che riversò montagne di dollari e di
oppio sui capitribù feudali Balzani e Talabani purchè riprendessero la
rivolta (spenta con poche scaramucce dall’esercito iracheno, e mitizzata
dai media occidentali con il “massacro di un milione di curdi”); che,
dopo la pace di Camp David tra Sadat e Begin, con cui la questione
palestinese veniva archiviata e Israele riconosciuto dominus del Medio
Oriente, Saddam riunì a Bagdad 17 paesi arabi su 22 e costituì il
“Fronte del Rifiuto” che riaprì quella questione, isolò Sadat, e offrì
un retroterra politico e finanziario per la rinascita della lotta
palestinese, prima in Libano, contro i fascisti filoisraeliani della
Falange maronita, e poi in Palestina con le due Intifade; che l’Iran di
Khomeini, armato da Israele (il ricavato venne dagli USA utilizzato per
distruggere il Nicaragua dei sandinisti tramite lo scherzetto “Iran-Contras”),
aggredì l’Iraq (e non viceversa) con la pretesa di spostare i confini
concordati nel 1975 al di là dello Shatt el Arab, con la minaccia di
chiudere all’Iraq lo Stretto di Hormuz, cordone ombelicale per gli
scambi iracheni e, dunque, cappio mortale, e con continue provocazioni
armate sul confine con il Curdistan; che Israele e gli USA promossero
quel conflitto per fare in modo, nelle parole di Kissinger, “che le due
potenze regionali ostili a Israele si dissanguassero tra di loro”; che
Israele, alter ego degli USA nella regione, bombardò nel 1983 l’unica
centrale nucleare irachena; che chiunque visitasse l’Iraq negli anni
’70, ’80, ’90, poteva facilmente incappare in uno dei mille convegni,
manifestazioni, seminari che, a Bagdad, raccoglievano le forze popolari
e socialista del Terzo Mondo in funzione antimperialista; che, nella
prima come nella seconda Guerra del Golfo, non un’immagine televisiva,
non un occhio di osservatore hanno colto anche una sola arma
statunitense, ma solo antiquati armamenti sovietici o europei, a
dispetto di quanto si afferma circa il “Saddam armato dagli USA”; che
il Kuwait, 19. provincia irachena, sottratta all’Iraq dai britannici nel
1926 per togliere a un grande paese ribelle, che Churchill bombardava
con i gas, lo sbocco al mare e un bel po’ di petrolio, fu istigato dagli
USA, dopo la guerra Iraq-Iran, ad abbassare il prezzo del petrolio in
modo da ritardare il recupero economico iracheno e a rubare petrolio dal
giacimento iracheno Rummaneh, perforando trasversalmente sotto il
confine tra i due paesi; che da almeno vent’anni, dal Marocco al Golfo
arabo-persico, le masse protestano contro l’imperialismo e contro i
governi vassalli dei loro paesi nel nome e con i ritratti di Saddam
Hussein, visto da 200 milioni come protagonista della rinascita araba,
della resistenza palestinese, della lotta antimperialista.
A questa domanda, Tariq Ali risponde dalle
vertiginose altezze della sua superiore conoscenza, ribadendo l’assioma
“Saddam era l’alleato più stretto degli americani”. Punto e basta. Nella
torre d’avorio della sua apodittica sicumera, con gli occhi sideralmente
lontani dai propri piedi, l’anglopachistano inciampa vistosamente in una
contraddizione che, da sola, basta a porre fine alla questione. Saddam
sarebbe sì lo sporco e puttanesco doppiogiochista che, al di là delle
declamazione nazionaliste e di un modello sociale demagogico e populista
che in vent’anni ha dato l’alfabeto, la salute, l’istruzione, la casa,
la donna emancipata, la creatività artistica, il lavoro a tutti i 22
milioni di iracheni, se la fa sotto sotto con CIA e imperialismo (con
Israele non ha avuto il coraggio di dirlo). Però poi c’è la grandiosa
resistenza irachena contro l’occupazione di angloamericani e ascari da
quattro soldi d’elemosina. E cos’è questa resistenza, sostenuta da tutto
un popolo, se non il risultato di una maturità politica e di una
coscienza antimperialista che le generazioni oggi in lotta hanno
acquisito grazie all’esistenza di una cultura nazionale, sociale,
antimperialista, diffusa da un partito con sei milioni di iscritti e un
milione di militanti in quarant’anni di resistenza al colonialismo di
ritorno e di costruzione di una nazione socialmente progredita. E a chi
va attribuito tale risultato? Gli stereotipi dell’oratore si arenano
qui.
La seconda domanda sollevava la
drammatica, direi irresponsabile latitanza dell’informazione e della
politica di sinistra, Tariq Ali compreso, rispetto al lavoro di
smascheramento del paradigma guerra-terrorismo (in
Liberazione la famigerata
“spirale guerra-terrorismo”, inventata da Bertinotti e papagallata come
di consueto dal corteo di corifei), con particolare riferimento alla
megatruffa dell’11 settembre, condotto dalla controinformazione
internazionale e specialmente statunitense. Come può, ho chiesto, un
esponente prestigioso della sinistra antimperialista trascurare il dato,
ormai convalidato da innumerevoli ricerche, documenti, testimonianze,
falle nelle versioni ufficiali, sabotaggi delle inchieste da parte
dell’amministrazione USA, di uno spaventoso attentato attuato, sulla
scia di numerosi precedenti storici analoghi, dal potere statunitense
allo scopo di ottenere quell’ “evento traumatico tipo Pearl Harbour”
auspicato da Condoleeza Rice e da tutto il gruppo neonazista del PNAC
(Project for a New American Century) che avrebbe consentito al mostro
imperialista di schiacciare l’antagonismo sociale interno e imporre al
mondo un Quarto Reich millenario USA (almeno fino al 2050 quando,
secondo gli studi più seri, il pianeta, con questo modello di
“sviluppo”, sarà arrivato alla frutta). Come può chiudere gli occhi
davanti alla siderale bufola di un potere che potenzia il tradizionale e
espertissimo terrorismo CIA e Mossad, recluta tra poveracci
iperislamisti lobotomizzati la sua manodopera (proprio come i servizi
segreti italiani attingevano al neofascismo), bombarda i suoi e altri
cittadini per ottenere il via libera popolare alla polverizzazione
dell’Afghanistan, via d’accesso al Caucaso dei combustibili fossili,
alla Russia e alla Cina, e dell’Iraq, massima riserva petrolifera del
mondo e garanzia che la borghesia statunitense potrà, almeno fino al
2050, vivere come se avesse a disposizione non uno, ma cinque pianeti
Terra.
L’occhio di Tariq Ali divenne più cupo, ma
nulla turbò la sua
raffinata nonchalance da
gran maestro, impermeabile alle miserie del complottismo dietrologo di
chi si porta sul gobbo il fuorviante incubo di millenni di cospirazioni
e inganni cristiani, massonici, mafiosi, oligarchici e cade nel tranello
vichiano dei corsi e ricorsi. Con un gesto della mano, sollecitata da
sussiegoso fastidio, allontanò l’assurda illazione: “Li ho letto
anch’io, i documenti, i libri, le controrelazioni…” Con il cerchio della
mano che imprigionava inesorabilmente l’assurda ipotesi, finisce di
botto anche la frase. Tutto qui. Poi, però, solleva l’angolo sinistro
della bocca in un sorriso sardonico e riprende: “Sono stato tra i miei
fratelli e ci siamo chiesti se noi musulmani non fossimo abbastanza
intelligenti per fare una cosa come quella dell’11 settembre. Ebbene –
si alza anche l’altro angolo della bocca e la voce più forte sottolinea
l’attestato con sconcertante orgoglio - vi garantisco che siamo
abbastanza intelligenti…” Tariq Ali paracaduta l’occhio nero, ora
luminoso, sulla vasta platea a cercare il trionfo sul miserabile San
Tommaso. Lo ottiene. La platea applaude, come sollevata…
CONCLUSIONE
E’ una vita che constato la diabolica
abilità del nemico nell’occupare le due sponde del fiume (proprio come
voleva fare Khomeini con lo Shatt el Arab), i due aspetti dello scontro,
i due fronti del conflitto. Tipo gestire l’FBI da un lato e Al Qaida
dall’altro, o, con il MPRI (Military
Professional Resources Inc., esercito privato al soldo del
Pentagono), l’addestramento e la guerra dell’esercito regolare macedone
di qua, e l’addestramento e la guerriglia dei secessionisti albanesi di
là. O ancora i fascisti cronici e strategici: gagliardetti, rune e mazze
tra i coatti dell’alienazione suburbana, oggi cari ai filosofi e
gruppuscoli del “superamento della dicotomia destra-sinistra” (Preve,
Campo Antimperialista), a rappresentare nostalgia e folclore, e Fini, D’Alema,
Berlusconi alla corte di Sharon, a incorporare il fascismo postmoderno
dell’”Unica democrazia del Medio oriente” e dell’
Enduring Freedom
statunitense.
Non importa, in questo contesto, se Tariq
Ali sia un utile idiota, un presuntuoso stordito dalla vanità, o un
amico del giaguaro. Certo è che la sua esistenza, in termini di
costi-benefici, non può che essere gradita a chi si propone di
turlupinare e divorare il mondo. Facciamo un’ipotesi, ovviamente
onirica. Chissà se un bel giorno, all’apice della carriera di apostolo
della sinistra radicale, l’anglopachistano non sia stato convocato in
qualche ufficio dagli aromi antichi e dalla scenografia solenne. Chissà
che non gli abbiano detto: “Tariq carissimo, sono vent’anni che rompi i
coglioni tra Londra e Islamabad. Hai presente quei 15 microbiologi
impegnati nella ricerca di retrovirus e coronavirus, tutti morti
ammazzati o incidentati sul finire del 2001, tutti a conoscenza dei
nostri giochini con l’Aids, l’antrace, la SARS, e tanti altri prodigi
biologici sfoldimondo? Hai presente John Lennon? Ti ricordi del compagno
Dutschke? E d’altra parte, hai visto la carriera di Cohn Bendit o di
certi tuoi compagni italiani, o dei trotzkisti statunitensi contestatori
nel ’68 e neo-cons nazisti nel 2000? Beh, pensaci. Pensaci bene. E poi
pensa alla nostra proposta. Continua a blaterare le tue stronzate sui
poveri palestinesi, sui comprensibili kamikaze (tanto il terrore
dell’accusa di antisemitismo, diffuso dai nostri operativi, ti rende del
tutto inoffensivo), continua ad anatemizzare l’imperialismo
statunitense, parla malissimo di Berlusconi (tanto quello ormai
l’abbiamo spremuto a fondo) e di Blair, denuncia le bugie sulle ADM
irachene(tanto ormai le abbiamo ammesse tutti), fatti vindice dei
musulmani (tanto ormai abbiamo le leggi che ci permettono di sbatterli
dentro a vita senza accusa e di condannarli senza prove). Fa e di quello
che ti pare del tuo logoro armamentario di sinistra. Una sola cosa ti
chiediamo. E ti costa poco, dato che avrai accanto a te il 90% della
sinistra occidentale (quella del Sud del mondo chi l’ascolta?). Sostieni
sempre e ovunque la tesi dell’11 settembre fatto da Al Qaida e dal
fanatismo islamico, avvalla la “spirale guerra-terrorismo”, parla male
di Saddam Hussein e, se vuoi essere gentile, anche di Slobodan Milosevic
e Fidel Castro. Tanto sei trotzkista e ti costa poco. Questa è la nostra
proposta, ti sta bene?”
E’ naturalmente dietrologia pura che a
Tariq qualcuno abbia sussurrato questo accordo. Di conseguenza non si
può avere la minima idea di un’eventuale risposta. Ci dobbiamo attenere
a quanto ci ha detto presentando “Bush in Babilonia”.
Aggiungo che è tornato a onore della
nostra italica identità che alla celebrazione di Tariq Ali fossero
presenti Giulietto Chiesa e Luciana Castellina. Professionalità dell’uno
e coerenza politica dell’altra non mentono. Il primo ha amabilmente
sabotato le certezze terroristico-saddamiane del Nostro, offrendo un
quadro dell’assassinio della realtà operato dai mezzi della coppia
informazione-potere e, occhieggiando sornione verso i veri responsabili
dell’11/9, ha detto di attendersi qualche megabotto terroristico alla
luce delle difficoltà elettorali che Bush va incontrando dopo il tonfo
delle ADM e le spaventose botte rifilategli dagli iracheni. Tariq Ali
faceva finta di niente (o invocava Osama?).
Castellina ha deviato verso il virulento
fracasso non violento innescato da Bertinotti e subito sussunto da
armate di sicofanti e benpensanti, ansiosi sia di mettere il culo al
caldo, dopo i gelidi rigori vissuti dai nonni e padri partigiani, sia di
sfuggire alla micidiale accusa di contiguità col terrorismo provocata da
indulgenze per i teppisti che assaltarono la bastiglia, o il Palazzo
d’Inverno, o il palazzo di Re Faruk d’Egitto, o quello dei Feisal II
d’Iraq, o quello dello Shah di Persia, o i bar dei
pieds noires ad Algeri, o le
piazze presidiate dalla Celere di Tambroni, o le camere di tortura dei
coloni in Cisgiordania; sia di rassicurare quelli con la bomba nucleare,
i gas tossici e i microbi delle pandemie, che mai più avrebbero alzato
un dito, né tanto meno inserito il classico granello di sabbia iracheno,
o colombiano, o palestinese, o venezuelano, a bloccare l’invincibile (a
priori e per definizione!) macchina tecnologia del sacrosanto monopolio
della violenza. Al più un po’ di disobbedienza discola, ma sempre nella
prospettiva di un posticino a tavola e uno strapuntino al governo.
Insomma, da tutti gli asili, i nosocomi, le case di riposo, i parchi
giochi, i lupanari, la case da gioco, gli angoli dietro la lavagna, un
solo grido si solleva verso i potenti della Terra, della Confindustria,
dei Carabinieri e dell’Ulivo: “Non lo faccio più!”
Vanno segnalati a questo proposito, nel
dibattito su Liberazione
e Manifesto,
alcune perle di convincente portata
ideologica e politica: i cioccolatini Perugina con bigliettino amoroso e
contenuto al cianuro di Niki Vendola; l’abilità archivistica di Franco
Giordano nell’enumerare tutti, ma proprio tutti, i calembour, modi di
dire, frasine ad effetto, del Movimento (un movimento ovviamente
“duraturo, permanente, globale”), evitando accuratamente di dire
qualcosa di suo; il raccapricciantemente umoristico contributo di Ramon
Mantovani (si mormora che sia un deputato del PRC), sopravvissuto a una
dura battaglia con grammatica, sintassi, stile, e, come del resto ogni
manifestazione del deus ex machina
del povero Ocalan, del tutto irrilevante per il dibattito, ma utile
pretesto per l’espressione di psicotiche frustrazioni di camerata; e il
paginone addirittura di controcopertina concesso dal “nuovo”
Manifesto a tal Romano
Màdera. Ne cito solo una “sezione aurea”: ”In realtà bisogna abbandonare
radicalmente l’idea di fare, anche simbolicamente, la guerra alla
guerra. Si tratta di superare la politica che è “contro”; anche Bush
siamo noi (sic!), ricordava già durante la prima guerra del Golfo, a
proposito di Bush padre, quel geniale (sic!) maestro buddista che è
Thich Nhat Hahn… Il suo superamento significa nientemeno che una
profondissima trasformazione del sentire e del pensare degli uomini,
secondo lo stesso spirito dei grandi profeti dell’universalismo
pacifico, da Buddha a Gesù di Nazareth…” Ma vuoi mettere Thich Nhat Hahn
con quei primitivi di Marx e Lenin! Ma vuoi mettere quella polverosa
soffitta di una storia di 6000 anni con la radiosa frescura della
New Age!
L’avessero capito i palestinesi, prima di
essere inceneriti da un Apache! Si fossero reso conto che Sharon “è
noi”, anzi, è loro! Avessero perseguito la “profondissima trasformazione
del pensare e del sentire”, secondo Buddha e Gesù di Nazareth (ma non è
quello nel cui nome si è decimata l’umanità altra, non fedele, non
obbediente, eretica o addirittura stregonesca?)! Fuor di ogni dubbio gli
statisti israeliani, da Ben Gurion a Sharon, sarebbero rimasti folgorati
sulla via di Nablus e avrebbero portato rose e insalatina al posto dei
missili Gerico! E quanto alla Palestina, avrebbero bussato e chiesto:
Scusate, possiamo accomodarci in una stanzetta della vostra casa? Che
sciocchi, questi palestinesi!
Non ci resta che scegliere: Tariq Ali, o
Romano Màdera? Insoddisfatti? Vi potete sempre fare una risata con l’On.
Ramon Mantovani. E’ quel che passa il convento.
O non ci resta che piangere?
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