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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

SUB E SUB-SUB COMANDANTI

 

 

Qualcuno sta celebrando un decennale. Quello della “Insurrezione zapatista del 1. gennaio 1994”. Qualcuno l’ha celebrato facendo una cosa che agli autori deve essere sembrato uno scherzo, al “Manifesto” una truffa con conseguente figuraccia da babbeo, ai lettori del giornale una grandissima presa per il culo. Un richiamo in prima pagina e l’intera ultima  erano stati spalmati (vista la prosa al miele con chiodi di garofano, mi pare il termine giusto) di spiritosaggini, battutine, burle, canzonature, celie, amenità, motti e mottetti e soprattutto, sua massima specialità, sogni. Il titolo? Marcos a Veltroni, sotto l’occhiello Lettera dal Chapas, mentre l’intera ultima pagina si dipanava sotto la fanfarata: A Roma con gli zapatisti metropolitani. Campeggiava nel cuore della pagina (cuore, sogno, amore, dolore, corpi e mondi, sono parole su cui il maestro e i suoi allievi gareggiano tenacemente con Sanremo) l’icona dell’autore, naturalmente con tutti gli ammennicoli del decennale look d’ordinanza: passamontagna, berretto liso, pipa, cartucciera a salve, cavallo e intergalattica antenna satellitare. E, sotto, la firma. La firma del Sub per eccellenza, del  Supersub, del Sub intergalattico (intergalattiche solevano definirsi le kermesse italo-ciapaneche).

Invece niente. Abbaglio, raggiro, bidone, patacca: intimi del Sub da dieci anni, la lettera al sindaco (ma anche al prefetto e a un PM romano) l’avevano scritta  alcuni “zapatisti” di Ya Basta, nome tropicale dei Disobbedienti, a sua volta aggiornatisi dai precedenti cognomi “Tute Bianche”, “Meltin’” e “Centri Sociali del  Nord Est” (il nome d’origine se l’erano dati prima di arruolare il consulente per l’immagine dell’uomo mascherato lacandono). Non è che - segno di inesorabile invecchiamento anche del magico Sub – il Manifesto di quel giorno sia proprio andato a ruba per via di quel passamontagna con pipa e logoro berretto (come farà quel berretto a sopravvivere dopo dieci anni nella selva e senza essere messo in naftalina almeno qualche settimana all’anno?). Ma questo non ha evitato alla redazione del concorrente e affine quotidiano “Liberazione” di soffrire atroci contorcimenti di budella da invidia, per tutte le 24 ore tra il paginone e l’acida smentita della “goliardata” il mattino dopo. E’ che in contemporanea con l’apparizione del subcomandante (quanta astuzia in questa modestia che riserva agli indios il ruolo di comandanti!), al massimo pochi decimi di secondo dopo, era spuntato il sub-subcomandante – così lo definirono i media amici, quelli nemici, quelli così così - nelle meno ieratico-mistiche, ma pur sempre carismatiche, spoglie di Fausto Bertinotti. Nessuno aveva cavalcato con Marcos come Fausto. Nessuno come lui si era fatto sacerdote del nuovo zapatismo e in Italia nessuno poteva negargli un ruolo senza pari nel raccogliere intorno all’ esercito di liberazione zapatista – ohibò in armi – il fior fiore dei teenagers della media e piccola  borghesia, categoricamente non violenta. E ora, questo smacco, questo tradimento a favore di quegli estremisti del Manifesto! Avrà mica contato, nella scelta dei disobbedienti, ora disobbedienti perfino a chi li aveva accolti nel proprio grembo, nutriti al proprio seno, la considerazione vilmente utilitaristica che quel giornale vende tre volte quanto Liberazione? E le reiterate omelie di Marcos sui sogni che “superano la materia, abbattono le frontiere, superano i linguaggi diversi, varcano confini fisici e culturali, mescolano i mondi e scoprono nuovi sogni”???

Sogni infranti. La smentita del giorno dopo non fece che l’effetto di cinque gocce di Novalgina.

 

Lasciamo le baruffe teverine al loro esito e spostiamoci nella selva Lacandona  dove, una volta l’anno, si può assistere all’epifania di Marcos. Se si è fortunati. Dove il sub passi il resto del tempo, durante il quale in Chiapas non succede assolutamente nulla e dello zapatismo si colgono barbagli di sopravvivenza solo negli appositi giornaletti italiani, si sa quanto si conosce delle attività sessuali dell’Uomo Ragno. Anni fa mi accompagnai a una comitiva yabastina in pellegrinaggio verso il santuario chiapaneco. C’erano tutti i protagonisti del cicaleccio dei nonviolentissimi no-new-alter global disobbedienti. Mancava solo Luca Casarini: decisione scaltra, la sua, alla luce di quello che ci si sarebbe fatto succedere. Beppe Caccia, allora consigliere, ma poi zapatianamente assessore a Venezia, recava in braccio, come il pargolo una madonna del Perugino, un grande plastico che illustrava come nel “municipio autonomo” de La Realidad  compagni architetti, idrologi e giocolieri avrebbero portato la luce negata dallo Stato. Avvenimento realizzato con una miniturbina nel minitorrente ai piedi della comunità, prodigio della tecnologia tra i maja dimenticati da dio, dal presidente e dagli uomini (mica tanto: per le loro anime e adesioni si battevano in feroce certame i cattolici del vescovo Samuel Ruiz e gli evangelici del predicatorame integralista USA, causa, questa, di un’endemica, deprecabile conflittualità tra le comunità indios, forse più deleteria delle illusioni zapatiane e della repressione governativa).

 

Gli abitanti del municipio ci accolsero con silenziosa gentilezza; alcuni giovanotti col fazzoletto sul viso durante i dibattiti “ufficiali”, ma senza subito dopo, lamentavano l’incuria dei governativi, le porcate dei paramilitari, la manomorta di latifondisti, narcotrafficanti e disboscatori. Gli zapatiani forestieri ciancicavano spagnolo e sguazzavano nel torrente per misurare la velocità della corrente con la corsa di un mio similbassotto gonfiato. Il prete movimentato Vitaliano della Sala propagò il verbo rivelato celebrando la messa in un capanno. Per colazione mangiammo avocados come non se ne trovano e, nel pomeriggio, ci accomiatammo da un grande palco con sotto la folla dei battimani e, sopra, tre indios che suonavano una malinconica melodia. Era più o meno la terza volta che gli zapatiani inauguravano la turbina. Ce ne sarebbero volute altre tre, o giù di lì - e gli indios non ne potevano più -  per installarla e accendere finalmente qualche lampadina. Marcos, però,  non rispose alle nostre vibranti attese e non considerò che quella fosse un’occasione degna per rientrare nella selva e uscirne a La Realidad.

 

Giracchiammo  ancora per qualche giorno per la selva. A Polò, un accampamento di cartone, della miseria e di un’incredibile forza di sopravvivenza, con indios tuttavia fieri, deportati da varie comunità, fummo celebrati da una banda di ottoni e tamburi da far piangere il cuore e da alcuni caccicchi con le penne. Don Vitaliano reciprocò con la favola di Mosè, del Mar Rosso e della terra promessa e sbalordì non poco i nativi. Poi forzammo un posto di blocco governativo sulla strada verso Taniperlas, una comunità lacerata dalle botte tra cattolici (zapatisti?) ed evangelici (paramilitari), distante una sessantina di chilometri. Proseguimmo a piedi sotto una canicola sui 45°, fino a quando non si verificò una falcidie di marciatori che cadevano lungo l’asfalto ribollente in preda a collassi e svenimenti. Ricomparvero, come per miracolo (o per combine), i nostri pulmini e fummo in grado di giungere alla meta e di proteggere per due ore lacrimanti donne dall’assalto di energumeni con machete e manganelli. Compiuta l’impresa, ce ne venimmo via mentre, nei nuvoloni di polvere alle nostre spalle, vedemmo i bastonatori avventarsi sulle donne che avevano osato illustrarci le loro angustie. Ciò non ci impedì di sentirci molto solidali e molto zapatisti, ma ci procurò l’immediata espulsione dal Messico, con effetti di gloria e vittimismo che si propagarono a dimensioni intergalattiche. Scopo e media raggiunti. Ya Basta potè gonfiarsi come la famosa rana di Esopo.

 

Seguirono anni di silenzio e di declino, sull’una e sull’altra sponda dell’ intergalattismo zapatiano. In Chiapas il sub si avvolse di silenzio fino a quando una memorabile marcia a Città del Messico, in occasione della nomina del  nuovo americanissimo presidente Fox, non fu coronata dalla deposizione di tutte le armi da parte dell’EZLN, dal fioretto di Marcos di essere da lì in poi rigorosamente non violento (lo era sempre stato), dalla sua educata preghiera di un capitalismo meno devastante, della rinuncia perpetua alla biasimevole ed arcaica lotta per il potere. In Italia, gli zapatiani s’impegnarono a morte nella disobbedienza, entusiasticamente approvati dal sub-sub, salvo a volte esercitare un minimo di “forza” non violenta nei confronti di vetrine, bancomat e di qualche disobbediente alla disobbedienza. Rimasero i sogni, qualche saggio di Rossana Rossanda, del subcomandante Fausto e di qualche altro irriducibile. E una storica fregatura anche al Manifesto.

 

In ogni modo, amici, c’è poco da scherzare. Marcos non è mica solo un sub (nel senso sia che sia subordinato ai veri capi indios, sia che, tra una favola e un’apparizione, si immerga in  profondità imperscrutabili). Marcos è un autentico fenomeno contemporaneo, tutt’altro che da sottovalutare o prendere, come dal mio discorrere potrebbe sembrare, per il naso. Impresa, questa, del resto negata da un passamontagna che sale dal petto fino alle ciglia inferiori. Non per nulla coloro che al ritratto del Che hanno sostituito o, nel migliore dei casi, affiancato quello del passamontagna con pipa, abitano a centinaia gli antri sociali, le sezioni politiche e i tinelli di tanti bravi compagni. La guerriglia virtuale di Marcos non ha né scosso il Messico, incamminatosi durante la di lui campagna zapatista su sentieri ancor più reazionari, perlopiù tracciati dalle multinazionali USA, né ha portato sollievo alla sofferenza millenaria degli indios. Magari un po’ di delusione, viste le roboanti premesse del gennaio 1994 e dell’occupazione equestre di alcuni centri del Chiapas. E visto anche che, con la nascita dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (aggettivo, questo, vagamente contradditorio rispetto al conclamato disdegno verso la conquista del potere), gli endemici focolai di rivolta maja contro governo, stato e manomettitori locali e transnazionali, si erano tutti spenti, agevolando la graduale ripresa del controllo sul Chiapas di queste forze saccheggiatrici. Magari in attesa di tempi migliori, purchè per allora non sia stata  agevolata la realizzazione dei funesti progetti imperialistici su tutto il territorio: il taglio dell’istmo di Tehuantepec, in sostituzione del Canale di Panama, con il suo corredo di autostrade, ferrostrade, espropri, raffinerie, porti e aeroporti, impianti petroliferi e industriali e qualche villaggio vacanziero “tipicamente indios”; la deforestazione del polmone d’ossigeno e habitat indigeno per sostituirlo con la monocultura del cartagenico eucalipto, fomentata dalla statunitense Paper International, la ripresa del latifondo e del traffico di narcotici, miniere di uranio e pozzi di petrolio dappertutto, inevitabili basi militari USA e, dunque, il totale assoggettamento dello Stato sia al NAFTA (Trattato di libero scambio del Nord America), sia del PPP (Plan Puebla Panama), contro i quali l’EZLN si diceva originariamente sorto.

 

Che Guevara prese una motocicletta, attraversò, assorbendola per sempre, tutta la sciagura neocoloniale dell’America Latina, arrivò a Cuba, fece una rivoluzione a tuttoggi imbattuta, alla faccia di terroristi e mercenari al soldo dei gringos, travestiti da “dissidenti”, lottando in armi nientemeno che per il potere e, poi, con quattro vecchi fucili e un manipolo di pacifisti violenti, cercò di liberare  la Bolivia e ci lasciò le penne e un oceano di lacrime davvero intergalattiche. Marcos è di un’altra pasta. Come, a termini della vulgata di Fassino, Berlinguer nulla capì della modernità, invece “innervata” nell’”innovatore” Craxi,  il sub succede al Che con tutti gli attributi della modernità. Computer e telefono satellitare magari non contribuiscono molto alla liberazione dei maja, però, vuoi mettere, raggiungono e impressionano, con allegorie e incanti fiabeschi, i centri sociali Pedro e Corto Circuito, la redazione di “Liberazione” e Ignacio Ramonet. Sarà anche vero che la comunicazione a passaparola del Che, la compenetrazione con la popolazione, il controllo di foreste, anfratti e vicoli, che vinsero a Cuba, richiamano la resistenza irachena che, attaccando, anche violentemente, lo mette in quel posto alla più avanzata potenza di tutti i tempi. Sarà che l’EZLN, invece, non ha cavato un ragno dal buco in ben 10 anni. Ma chi può negare la modernità dell’informatico Marcos a cavallo, la sintesi innovatrice tra armi in spalla e non violenza, tra la rivoluzione vera del padre d’adozione Emiliano e l’esercito sopranazionale, sognatore e disobbediente?

 

Marcos è bravo. Nessuno avrebbe potuto concepire una migliore reincarnazione del mito di Zorro, radicato nel primissimo cambio di personalità infantile: appare, scompare, maschera sul viso e tenuta spadaccina, perenne, arrapante mistero, mito che, per essere tale, si cambia d’abito spesso come il Davide di Donatello. Si esprime in scritti dal denso contenuto fantastico, aneddotico, finto-popolare ed esasperatamente romantico (ma con computer!), si identifica con tutto quello che nonviolentemente vuol abbellire la “globalizzazione”. Rifugge da paroloni volgari, guevariani, obsoleti, come “imperialismo”, “Stati Uniti”,  socialismo e, tanto meno, comunismo. Non s’impelaga per niente in storie ambigue e, anch’esse, un bel po’ ancien regime, come lo smembramento della Jugoslavia, il genocidio in Palestina, quell’aratura moderna che in Afghanistan ha rimpiazzato contadini con crateri, bimbi con bombe a grappolo, doppiogiochisti Al Qaida con marines, il mais con l’oppio. Poche, lievissime parole ha fatto flautate sopra quelle che erano, in effetti, masse non ignorabili, se non a costo di perdere ogni credibilità, che marciavano contro la guerra di liquidazione in Iraq. Non lo ha fatto volentieri: lì si trattava di popoli che qualche affetto per il potere loro, piuttosto che quello di Bush e della Exxon, ancora lo nutrivano. Ha anche tralasciato, il sub, di farsi coinvolgere in imprese dubbie dei suoi vicini, come l’arrischiata ostentazione della propria nazione unita da parte di Cuba, la pretesa delle Farc colombiane di strappare il potere alla dinastia a stelle e striscie che devasta il paese, la vera e propria rivoluzione di popolo nientemeno che per il potere, con tantissimi dei “suoi” indios, in Venezuela, nonché addirittura  le dilaganti e pericolosamente interetniche e nazionaliste lotte dei contadini messicani organizzati, la guerriglia di indios in altri stati della Federazione, la presa di coscienza sindacale degli operai bruciati vivi nella maquilladoras delle compagnie USA lungo il Rio Bravo. Avvedutamente e non senza un sottile gusto per il paradosso, Marcos propone popoli e genti che si mescolano, il mondo dei tanti mondi, linguaggi che s’incrociano, costumi e valori che si fondono e, poi, caramboleggia in acrobazia verso il chiuso della sua selva, gli basta che i municipi indios abbiano qualcosa da dire su come vivono e perché muoiono, mentre nazione, Stato, potere, aggregati dispersivi, vanno ignorati, lasciati al loro miserabile destino, lontani dalle isole felici dello zapatismo reale. Lontani (finchè gli gira) dalla “democrazia municipale”, tanto cara ai guru della Disobbedienza. Ma anche, curiosa coincidenza, ai cosiddetti “neocons” della corte del Bush minore… Divide et impera.

 

Ebbene? Diranno i miei piccoli lettori. Ebbene non c’è stato, dai tempi  di Jacopo Ortis, un più innovatore (per la verità vecchio come il cucco)modello di fascinazione degli adolescenti. Pensate che costruzione: l’uomo-vendicatore del mistero, dall’identità imperscrutabile e, dunque, intrigante; cavallo e cavaliere che, ben prima che al bianco cavallo di Emiliano, riportano la turbolenta emotività giovanile ai miti perenni: Zorro e l’Uomo Mascherato,  Orlando e Roncisvalle; un linguaggio da tenero liceale irromantichito da Guido Gozzano e Hans Christian Andersen; un poeta in prosa tra La Fontaine e D’Annunzio; la ribellione come categoria dell’età evolutiva, stiracchiata quanto la permanenza presso la mamma delle generazioni moderne e che però si arena nei conclusivi adattamenti della “maturità”; anziché la rivoluzione e la militanza per tutta la vita e pure per i posteri. Ribellione che all’indisputato Potere volta le spalle, Potere che, dunque, non si deve affrontare in uno scontro che storicamente e scientificamente non può non mettere a repentaglio – ohibò – sangue e vita.

 

In fondo, dopo dieci anni, Marcos non ha concluso un granchè. Ha increspato un po’ la superficie del Messico, ha subìto il ritorno dei nemici al controllo totale del Chiapas, ha lasciato qualche rettangolo sbiadito sulle pareti del mondo dove erano appese le sue immagini. Ma quelle componenti indios dell’EZLN, che ultimamente risulta si siano estraniate dal sub, non pare abbiano capito l’onirica e quindi illimitata portata dell’azione e del messaggio del loro leader. Non di conquista del Messico si tratta, e neanche di strappare le bandierine a stelle e striscie dai quattro angoli delle Americhe. Marcos resta vincitore nei sogni, che nessuna bomba laserguidata può disintegrare. La sua è la strategia dell’onirico. Forse soltanto i pierre della Quinta Strada si sarebbero potuto inventare qualcosa di meglio.

 

Quanto al sub-sub Fausto, dei sogni se ne fa pochino. Lasciato un po’ perdere lo zapatismo, se non come categoria mediatica, appunto, anche in seguito a un deciso raffreddamento verso i suoi legati in loco, è approdato in Via Nazionale dove guarda al futuro da un  balcone da cui, nei giorni soleggiati, si intravede Palazzo Chigi. Gli zapatiani intergalattici possono dormire sonni tranquilli. Che continuino a “camminare domandando”.

 

Quanto al presunto sponsor di tutto questo, quando hanno riaperto la tomba di Emiliano Zapata, lo hanno trovato rivoltato a testa in giù, da testa in su che stava.    

 

 

 

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