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Qualche riflessione su
primarie e altre derive reazionarie
RINNEGATI TRA IRAQ E
AMERICA LATINA
(ovvero: quella
Bolognina lunga 12 anni)
05/10/2005
Di ritorno da un lungo itinerario per
l’America Latina, nel giro di poche settimane la mia pila di
nefandezze dell’ex-sub-sub-comandante è arrivata a circa 50
centimetri. E sono ritagli solo di “Liberazione”e “il manifesto” e
di due fogli della disinformazione principe della borghesia,
“Corriere” e “Repubblica”, testate a lui care e dalle quali,
solitamente passando sopra le chine teste della sua base, organismi
direttivi compresi, comunica urbi et orbi i capovolgimenti
strategici e tattici che improvvisava, lungo la sua marcia su Roma
dal 1993 (segretario voluto da Cossutta, grazie), ancora in rosso,
al recente veneziano congresso dell’abiura e degli sputazzi
politico-morali-e-poco-ci-manca-anche fisici agli avversari. La
montagna è talmente piena di cose di “pessimo gusto”, e neanche un
po’ carine come quelle di Gozzano, da respingermi. Preferisco allora
rubare un brano, irrefutabile, che mi gira in testa da quando l’ho
letto nella newsletter
di Uruknet.
Se qualcuno tentasse di
violentarti, non ti difenderesti con tutte le tue forze? E poi
quello ci prova e ci riprova e tu lotti e lotti e lotti, e quello
insiste e tu tenti di fargli male per farlo andar via, stai
sanguinando e lui si accanisce e ti colpisce e ti ricolpisce per
farti cedere, hai il naso rotto, urli di dolore, spingi e scalci,
invochi aiuto, ma ti picchia di più e di più e di più, ti spezza i
denti, lo colpisci nello stomaco con tutte le tue forze, ne scorgi
il dolore sulla faccia ma lui insiste, non riesci più a vedere
dall’occhio sinistro, la gola ti brucia per le grida, c’è gente che
passa e non fa nulla, ma tu urli e lotti con ogni goccia della forza
che ti rimane, combatti con qualsiasi cosa che ti capiti a tiro, ti
rendi conto che stai rischiando la vita, lacrime e sangue sulla
faccia e sul corpo, i tuoi vestiti sono lacerati, ogni parte del
corpo ti fa male… Allora qualcuno alla finestra proprio alle tue
spalle, mentre beve tè freddo, seduto in una comoda poltrona, magari
in compagnia di Bruno Vespa, rilassato mentre contempla l’intera
scena dall’inizio, apre il battente e ti dice: ohè, ma che fai? Cosa
stai combinando? Perché usate violenza?… E tu ti senti pugnalata
alla schiena e le sue parole ti fanno più male dei colpi ricevuti,
ti chiedi sgomenta: è forse colpa mia? Come puoi permettergli di
farmi tutto questo, limitandoti ad alzare le sopracciglia? Che ti è
successo?Perché non mi aiuti? Perché non mi aiuta nessuno? Cosa ne è
della mia vita, del mio onore, della mia dignità? Che ne sarà dei
miei figli? Che ne sarà della nostra storia?
Impressionante, vero? Tragico, vero?
Ripugnante, vero? Chi riconoscete in questo brano, in questo
autentico grido di disperazione totale, in questa spaventoso atto
d’accusa? Quale infame cialtrone non si chiede più chi iniziò la
guerra, chi attacca, occupa, distrugge, massacra e chi si difende?
L’occupazione statunitense-israelo-italiana dell’Iraq uccide,
sequestra, tortura ogni giorno persone innocenti, coraggiose,
dignitose, eroiche, rade al suolo città, stupra, affama e devasta
decine e decine di migliaia di esseri umani, uomini, donne, bambini,
utilizza squadroni della morte terroristici che fanno assassinii
mirati e piazzano bombe tra la folla, come in Salvador, come in
Nicaragua, come in Guatemala, come a Cuba, come in Italia dal ’69 in
poi, come in Indonesia, a Madrid, a Londra, attribuendoli a
“terroristi islamici”, tutto per demonizzare la resistenza dei
giusti, oppressi, stuprati. Ogni giorno dalle 60 alle cento
operazioni della resistenza si oppongono a questi psicopatici
criminali e gli impediscono di divorare il loro paese, il mondo,
l’umanità. Non sono loro che hanno deciso di fare la guerra, non
hanno la minima colpa, non hanno fatto migliaia di chilometri per
portare morte, degrado, distruzione, non fanno che difendersi,
difendere la loro patria, la loro storia, le loro donne, i loro
bambini, le loro case, la loro dignità. E, dalla sua finestra, dalla
sua comoda poltrona, dalla sua bulimia di governo, dall’autoreferenzialità
più oscena, dal narcisismo cretino, qualcuno blatera supponente di
“violenza”, “caos”, “spirale guerra-terrorismo” e se la fa con i
traditori, i collaborazionisti, i rinnegati come lui, i vermi umani
e li chiama “società civile”.
Poi finge di far comunella con chi in
America Latina (non a Cuba, per carità, quella va sistemata mandando
avanti “dissidenti”, ovviamente pagati dal mostro stragista a stelle
e striscie, e anche i propri cavalli di razza, Migliore – quello dal
nome paradosso – Moscato, o gli imbecilli che sospirano “la
resistenza irachena non ci parla”…) combatte l’imperialismo,
imperialismo che lui nega che esista (e i nazisionisti di Washington
ringraziano della mimetizzazione), chi in America Latina sta
lavorando a rovesciare il dominio straniero, a fermare la rapina
secolare di acqua e pane da parte di un’ elite nella quale lui,
invece, cerca di intrufolarsi brandendo nonviolenze, spirali
guerra-terrorismo, sputi su partigiani antichi e nuovi, frequentando
con i propri corifei la feccia della peggiore borghesia mai apparsa
nel nostro paese, coltivando nel suo partito un’ abietta e subietta
demeritocrazia, neanche un po’ scalfita dai mugugni dei marginali
appollaiati fuori dalla sua finestra e che magari a chi là sotto,
nella sua pozza di sangue, scalcia contro lo stupratore, sospirano:
dai, resisti, ne hai diritto…
Ma in America Latina, quell’America
Latina a cui lui, ancora un poco condizionato da quanto di decente
raschia il fondo di un partito sedicente comunista, con pura
strumentalità strizza l ‘occhio di sghimbescio, in quell’America
Latina di Hugo Chavez , del Che, di Fidel, di Tupac Amaru, di una
rivoluzione bolivariana cui i suoi complici in Unione tirano
coltellate nella schiena ma che va dilagando tra milioni di
oppressi, sopravvissuti, dimenticati da mezzo millennio e
risuscitati, in quell’America Latina alla Resistenza irachena si
guarda con infinita gratitudine, ammirazione e orgoglio. Gli si
riconosce con assiduità commossa il merito di aver reagito, parato i
colpi, scalciato, fatto assai male al violentatore, tanto da aver
riaperto il libro sconfinato della storia dei giusti, degli
sfruttati, dei poveri, tanto da aver lacerato il destino di morte
pianificato per il mondo dai biblici nichilisti di Tel Aviv,
Washington, Wall Street, di tutte le banche, armate o disarmate,
alla faccia del mercenariato giornalistico, di sicofanti e
manovalanza politica, di sciacalli dei “diritti umani”, della
“democrazia” e della “solidarietà”, nuovi missionari di una Chiesa
di stupratori.
Hugo Chavez, e con lui milioni di
cittadini di quel continente che dal Vietnam, ieri, e dall’Iraq,
oggi, stanno imparando la salvezza della guerra asimmetrica contro
l’imperialismo, una guerra sacrosanta di popolo, imbattibile e
garanzia di sopravvivenza del pianeta, compresi gli infingardi e
mistificatori subalterni che stanno alla finestra, sanno bene e,
grazie a milioni di voci rilanciate da
Telesur” , fanno sapere
a tutti coloro che non si tappano le orecchie al grido di rivolta
della Resistenza irachena, che la risposta al capitalismo
imperialista e ai suoi reggicoda “riformisti” o “riformatori”,
alternanzisti o alternativi, è la rivoluzione. Sanno bene che chi,
violentissimo e prevaricatore in tutti i suoi rapporti, tranne
quelli verso l’alto, snocciola a mo’ di rosario le invocazioni alla
nonviolenza, transitando dalle autoumiliazioni di tutte le Porta a
Porta offerte dal lupanare di regime, alle feste nere di
fidanzamento di AN, alle orge di spocchia e cattivo gusto delle
cerimonie genetliache con Valeria Marini e Cecchi Gori sottobraccio
a Berlusconi, non sarà mai e poi mai dalla loro parte, non è che un
ambiguo arnese della controrivoluzione, non fermerà mai nessuna
guerra clintoniana, bushiana, del bombarolo D’Alema, del serial
killer Sharon, di terminators futuri. Sanno bene, i compagni
latinoamericani che chi ha fermato la guerra sono stati gli
algerini, oggi postumamente denigrati dai bonzi di sinistra e dai
loro velinari, i vietnamiti, i Mau Mau, i cubani e, oggi, anche e
soprattutto gli iracheni con il concorso delle gloriose brigate
internazionali arabe. Già, i mezzi corrispondono proprio ai fini e
la rivoluzione non è un pranzo di gala. Il fucile libera e il fine è
la libertà., mentre le chiacchiere stanno a zero. Senza i partigiani
iracheni, quante guerre avremmo visto, da quali altri oceani di
sangue, da quali resistenze avremmo dovuto distogliere lo sguardo, o
pigolarvi sopra disappunto dalla comoda poltrona? Se Cuba non fosse
armata, se dieci milioni di cubani non fossero pronti a prendere a
fucilate ogni singolo invasore e stupratore, su quale altra
carneficina, a profitto della Carlyle, della Bechtel, della
Finmeccanica, avrebbe dovuto soprassedere il nostro eroe per
continuare a sedersi sugli stessi scranni insieme agli incrollabili
alleati degli Stati Uniti, “più grande democrazia del mondo”,
secondo i virgulti togliattiani D’Alema e Veltroni e, ovviamente,
secondo i radicali, al cui ritorno “Liberazione”, per la penna
dell’ancella televisiva dello spione Giuliano Ferrara Ritanna Armeni,
macella il vitello più grasso.
Hugo Chavez, ogni singolo cubano, ogni
indigeno in rivolta, ogni partigiano iracheno, classi e popoli che
hanno impresso nel destino il loro nome, sanno che guerra e
capitalismo, imperialismo, colonialismo sono sinonimi, che si tratta
di un’unica idra a tante teste e che chi vi oppone la nonviolenza
quelle teste le nutre, pettina la Medusa, lucida l’occhio al
ciclope, ci disarma e paralizza nel nome di quei diritti umani che
lasciano alla mercè dello stupratore i diritti dell’umanità: salute,
conoscenza, lavoro, dignità, solidarietà, felicità, pace, tutto
quello che o è collettivo o non è. Vadano a studiare la rivoluzione
bolivariana, a leggerne i giornali, a ascoltarne radio e tv, quei
grotteschi giornalisti “democratici” che l’altro giorno si sono
riuniti a convegno a invocare libertà alle loro indecenti
compromissioni, in buona parte appena reduci da ossessive
frequentazioni di salotti televisivi che hanno avuto la faccia come
il culo di contestare. E avreste dovuto sentire i Curzi, censore
principe da quando al TG3, per aver rivelato porcherie craxiste in
Africa, mi sbattè in cronaca nera, o mi cancellò una rubrica di
denuncia dei crimini contro l’ambiente e i popoli del Terzo Mondo
perché aveva sconvolto i gossip della conduttrice Raffai, o mi
cacciò da Liberazione perché avevo detto alcune verità non
governative su Cuba in contrasto con il diffamatore suo padrone.
Avreste dovuto sentirlo, equilibrista delle lottizzazioni RAI,
narciso autoincensante che proietta sui palazzi di Roma il video
delle sue vicende paracule, insieme alle Gruber e alle Botteri,
cavalieri della Repubblica, mallevadori senza alito di dubbi dello
stupro di Jugoslavia, orgasmatiche accoglitrici delle truppe USA a
Bagdad, arcigne e doloranti deprecatrici dei “terroristi” in Iraq e
ovunque! Avreste dovuto vederne l’indignazione quando qualcuno, un
po’ più deontologico, gli chiedeva ragione degli appiattimenti
sugli stereotipi rigurgitati dalle centrali della disinformazione,
di quel loro astuto e imbelle uso delle “fonti autorevoli”, dell’
“esperto anonimo”, delle “voci credibili”, del pappa e ciccia con
sottoprodotti della comunicazione di regime: “tribunale
dell’inquisizione”, “forche caudine”, “e il pluralismo dove lo
mettiamo?” E ancora Curzi, difensore estremo del dg Cattaneo,
ammiratore del “professionista di valore Vespa”, insistente
propugnatore di quella sozzeria che era “Affari tuoi”.
Trasmigriamo, aria pulita. Amici,
torno da un Venezuela dove, contro tutti i venti (che presto,
secondo le indicazioni di Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld,
diventeranno uragano) e tutti gli ancora frequenti sabotaggi
interni, di magistrature, polizie, forze armate, che non si sono
ovviamente potute bonificare in un colpo solo, nell’affanno della
costruzione di una classe politica nuova, ancora nelle fasi
dell’infanzia, dove a dispetto di tutto si parla di “socialismo del
XXI secolo”, si fa la relativa rivoluzione, si lavora giorno e
notte, sempre più stretti a Cuba, per l’Alternativa Bolivariana per
le Americhe (ALBA), si prepara la resistenza armata di popolo contro
mercenari eversori e aggressori imperialisti (un milione di
cittadini congedati nella Riserva, 2 milioni e mezzo di volontari
nella Difesa di Popolo), si lanciano avanguardie rivoluzionarie a
diffondere coscienza politica di massa (Frente Francisco De Miranda,
Coordinadora Bolivariana Democratica, tra gli altri), si
alfabetizzano e curano gli esclusi, si toglie la terra ai
latifondisti (che sparano e uccidono i contadini, ma ora interviene
la Guardia Nazionale a garantire la distribuzione), si mette in
discussione la proprietà privata, si espropriano le aziende che non
producono, o non producono in misura corretta (Pepsi Cola in testa)
e si affidano all’autogestione dei lavoratori. Vengo dal grande
Festival Mondiale della Gioventù, appuntamento antimperialista dei
bei tempi andati. Fidel lo ha fatto rinascere e l’Algeria, prima, e
il Venezuela poi lo hanno contrapposto a quei Porto Alegre
no-new-global delle ONG finanziate dalle fondazioni imperiali, dei
Lula in disarmo, degli Attac e cerchiobottisti vari, degli
opportunisti e infiltrati, dei pacifisti privi di se e di ma, del
brigante finanziario George Soros che su Liberazione viene reclutato
tra i no-global. Quel Soros che manda i suoi pretoriani di Otpor per
smantellare e recuperare agli avvoltoi la Jugoslavia e, via via, la
Georgia, l’Ucraina, il Libano, nelle varie rivoluzioni colorate che
si trascinano dietro le vivandiere del PRC e di Liberazione. Del
resto non ha detto Bertinotti che Sharon, lo sterminatore
sanguinario di pura classe nazista, va incoraggiato, solo perché è
riuscito, fuggendo a gambe levate da Gaza, a rinchiudervi un milione
e mezzo di palestinesi con un filo spinato che dalle falde
dell’acqua arriva al cielo? E di fronte a coloni isterici, ritirati
da terre altrui, rapinate e violentate (i palestinesi non potevano
scavare pozzi che fossero profonde quanto quelli degli occupanti!),
tutti, il giornalaccio del sub-sub in testa, a dimenticarsi che
intanto il macellaio di Sabra e Shatila faceva del resto della
Palestina un campo di concentramento che non sarà di forni crematori
– oggi si procede per estinzione graduale – ma qualitativamente
pochissimo ci manca.
Vengo da un quattro settembre, ultimo
dei miei giorni felici in America Latina, quando a Caracas, lungo un
chilometro della Avenida Bolivar, nel cuore della città, si dipanava
lussureggiante, colorito e schiamazzante, il grande e festoso
mercal di ogni inizio
mese, apice e sintesi dei mille e mille mercal – supermercati e
supermercatini dai prezzi ridotti fino all’80% di tutto quello che
serve per vivere, dal pane alla bistecca, dal detersivo al
giubbotto, direttamente dalle cooperative dei contadini e operai, da
campi e fabbriche socializzati, che poi impongono un calmiere anche
alla produzione-distribuzione del “libero mercato” - e, tra musiche
e file di famigliole arrapate da beni finalmente accessibili e grida
per cetrioli e farine, si vaccinavano bimbi e adulti, gratis e,
gratis, si iscrivevano i ritardatari alle liste elettorali e
funzionari comunali gli facevano i documenti d’identità e, gratis,
si misuravano viste e si rilasciavano patenti. Nel 2003 i primi
mercal servivano 300.000
bisognosi. Oggi 15 milioni. Cose mai viste. Forse nella Comune di
Parigi.
Vengo da un Ecuador dove, appena
arrivato, mi sono ritrovato nell’insurrezione popolare indigena
delle due provincie amazzoniche – Orellana e Sucumbio – dove i
regimi oligarchici svendono ai petrolieri devastatori e genocidi le
risorse del paese in cambio della distruzione di foreste, acque,
culture, umanità. Una rivolta dagli scontri durissimi con militari
con licenza di sparare, killer dello stato d’assedio proclamato dal
tappabuchi Alfredo Palacio, sostituito a Lucio Gutierrez cacciato
dalla rivolta di popolo, partito con promesse di rifondazione dello
Stato e briglia ai rapinatori stranieri e finito con la calata di
braghe davanti a Oxy, Chevron, Agip, Repsol, Petrobras. E’ sempre
sotto Palacio che, sul modello centroamericano è stato deciso
l’affidamento agli israeliani – fornitori di guardaspalle ai
narcoboss colombiani – della sicurezza pubblica di Guayaquil ed è
stata data licenza ad altri delinquenti israeliani di reclutare
carne da cannone latinoamericana per l’Iraq, al largo della
base-gigante USA di Manta. Chiedevano gli indigeni sulle barricate e
poi, con lo stato d’assedio, i cortei delle donne imbavagliate, la
cacciata della Occidental, la rinegoziazione degli accordi con le
altre multinazionali del petrolio che oggi cedono allo Stato
nientemeno che il 13% dei loro ricavi, la riabilitazione del loro
ambiente contaminato, la valorizzazione di identità e cultura, la
restituzione delle terre, un’assemblea costituente, la cacciata dei
nordamericani e delle loro basi, strade, scuole, ospedali, la
riforma agraria, lo stop all’imperversare del Plan Colombia e delle
fumigazioni ai propri confini, insomma un’altra rivoluzione. E’
durata otto giorni e poi, contro la richiesta dei petrolieri, il
governo, con i ministri che fuggono come topi in vista della nuova
bufera popolare in arrivo, ha dovuto cedere al negoziato,
promettere, impegnarsi. Ne verrà niente o pochissimo, ma ne verrà
un’altra rivolta, un’altra cacciata del potente di turno, e così
via, fino a quando una maggiore unità – spiega Paco Velasco,
irruente e lucido direttore di “Radio La Luna”, motore primo della
comunicazione antagonista e della mobilitazione - tra ceti urbani,
in prima fila nella cacciata di Gutierrez, e indigeni risorti,
protagonisti delle rivolte andine e amazzoniche, non produca quella
nuova classe politica che in tutto il continente si va formando e
che realizzerà gli obiettivi sociali, antimperialisti e di
integrazione dell’ALBA. Dalle piane amazzoniche risaliamo
all’altopiano di Quito ed è un percorso vertiginoso di picchi rossi
nell’azzurrissima cupola, di abissi da brivido rasentati da autobus
che si fingono a Monza, di piccole comunità indios disperse nella
siccità, con le donne sgargianti di colori e mai senza bombetta in
testa e, in questo paese adolescente e dal lungo futuro, mai senza
un bimbetto che spunta dallo scialle sulla schiena, spesso insieme a
una catasta di legna, o di pannocchie. Un viaggio di dodici ore che
si arrotola nella memoria come quegli infiniti tornanti da assalto
al cielo.
La resurrezione dei popoli nativi, in
Ecuador collegati a un combattivo 5% di afroecuadoriani, ha ovunque,
nel campo, nel barrio, nel posto di lavoro, in casa, per avanguardie
le donne. In Bolivia, dietro al discusso Evo Morales (è Chavez o
Lula?), stanno coalizzandosi per la scadenza elettorale
presidenziale del 4 dicembre le organizzazioni popolari che hanno
dimostrato la propria potenza politica e combattività nelle tre
grandi vittorie su oligarchia e multinazionali: la cacciata nel 2000
da Cochabamba della Bechtel dell’acqua privatizzata e rubata,
l’abbattimento del fascista Sanchez de Lozada nel 2003, l’espulsione
del successore fedifrago Carlos Mesa quest’anno. Ogni volta con
quelli di El Alto, immensa distesa urbano-agricola sopra La Paz, a
bloccare capitale e vie di comunicazione fino allo strangolamento
delle istituzioni, con i cocaleros ad assediare i palazzi del
potere, con i minatori a scendere dalle Ande muniti di candelotti di
dinamite per rispondere ai fucilatori di regime (80 assassinati da
Sanchez de Lozada), magari nel nome della bertinottiana
nonviolenza. E se non li avessero avuti e usati, c’è da giurare che
il ladrone de Lozada, anzichè tra i sodali di Miami, starebbe ancora
lì. C’è anche una componente indigena dalla forte identificazione
etnica, a rischio di separatezza (Felipe Quispe e i suoi), con
rivendicazioni sacrosante, ma obiettivi vagamente restauratori di
quanto era e non è più e soprattutto più non può funzionare. La
prospettiva non può che essere, nella salvaguardia dei diritti
ancestrali legittimi, l’unità di classe che, in Bolivia, in ogni
grande scontro si è realizzata e ha trionfato.
Per il Venezuela, che nello stesso 4
dicembre voterà per le legislative, a completare la hola
rivoluzionaria di Chavez, gli USA stanno allestendo contromisure:
giri dei becchini Rice e Rumsfeld tra i quisling del continente,
piani governativi per la destabilizzazione terroristica del paese
facendo leva sugli sgherri colombiani e sui rimasugli golpisti
interni; piani per sedizioni reazionarie arancioni tipo Belgrado,
Kiev, Libano; vertice di guerrafondai, da Albright ad Aznar, dalla
Fondazione Cubanoamericana di Posada Carriles a venduti come Vargas
Llosa, agli amici di Pinochet e del messicano Fox, ai reperti dei
vaticanisti di Solidarnosc-Cia. Succederà a Tallin in Estonia, il
13-14 di ottobre, per mettere a punto l’aggressione. Così per
l’Ecuador, dove infiltrati israeliani, base USA di Manta, fascisti
colombiani sbattono le rispettive bombe e sciabole, così per la
Bolivia che esce dai ceppi della schiavitù coloniale e neocoloniale,
dove si sta tentando il recupero colonialista utilizzando, da un
lato, gli impulsi secessionisti di una spaventata borghesia dell’
oriente di Santa Cruz, grande riserva di gas, petrolio e acqua del
paese e, dall’altro, la militarizzazione del Paraguay con nuove basi
statunitensi lanciate verso quello stesso oriente boliviano, in
vista di un intervento “di soccorso” a chi potrebbe aver proclamato
un governo “democratico” a Santa Cruz. Non mancheranno, fra poco, le
scoperte, prontamente riecheggiate da tutti gli sciacalli
dell’informazione complice e subalterna, di campi di addestramento
di terroristi in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Uruguay, di intrecci
tra Hugo Chavez e Osama bin Laden, di “provocazioni” dei paesi in
lotta nei confronti di quelli amici e “democratici”, di
narcoguerriglie, di brogli elettorali, di nuovi “assi del male”. E’
da tempo che i nazisionisti USA strombazzano di coaguli terroristici
alla triplice frontiera tra Brasile, Paraguay e Bolivia E non
mancherà statene certi, allora, una risposta adeguata, con ogni
forza possibile, da parte di masse e, in uno o due casi, di
governanti, che hanno preso coscienza di sé, dei propri diritti e
dei propri obiettivi. Sarà da vedere chi, allora, starà con chi
quando, all’ irachena, popoli in armi sapranno resistere e
capovolgere la storia. Una storia già splendidamente capovolta nel
1917, tanto per ricordarsi che è incominciata da tempo e non è
finita.
E noi, intanto, ci dovremmo sbattere
per quella megaturlupinatura populista delle primarie. Primarie i
cui partecipanti si manifestano definitivamente omologati al più
retrivo dei processi antistorici: presidenzialismo, per non dire
autocrazia, bipolarismo dei due fantini sull’unico cavallo
capitalista, vittoria prendi-tutto, plebiscitarismo,
personalizzazione spinta al delirio, manipolazione fino al totale
esautoramento della volontà popolare per virtù di apparati e
quattrini. Vandea. Difatti, non si pone forse il Nostro, sotto
l’incalzare dello shock and awe
ratzingeriano, non tanto il problema della vita di 25
milioni di iracheni come di dieci milioni di cubani e via elencando
bushiani morituri, ma, con infinito rispetto per l’oppio dei popoli,
quello personale di dio, così strizzando l’occhio alle operazioni
sporche delle armate integraliste cattoliche? Qui si agita un
protagonista dal raffinato gusto stile fighetto e dal gusto becero
nelle frequentazioni mondane, trasformista più scaltro
dell’improvvido Occhetto che, volendo operare una metamorfosi dal
proletariato alla borghesia capitalista in una sola notte, si è
visto spuntare dietro un imprevisto “zoccolo duro” rifondatosi
comunista. Quest’altro ha proceduto per gradi di terremoto, da
grandioso esemplare di voltagabbana italiota, dal tremito di scala
Richter uno fino all’attuale sconquasso Richter sette. Ricordate lo
sposalizio irresolubile con il movimento dei movimenti (per la
verità solo con l’ala più morbida e compatibile) e, poco dopo, in un
testa-coda che più politicista non si può, come gli ha messo le
corna da cinicissimo marito sfarfallone. E cosa ne dite di un
fogliaccio illeggibile che offre pianure di carta a Vladimir Luxuria
e Bifo, alle intemperanze depistanti di tardofemministe dalle zanne
che neanche il più macho dei macho, a propagandisti israelo-sionisti
travestiti da esegeti letterari e, da classico collateralista che
spapagalleggia tutte le balle delle agenzie imperialiste, nasconde
in trafiletti la sofferenza e la lotta (ovviamente “terroristica”)
irachena?
Illudendo, prima e poi, via via,
saltando fossi sempre più larghi, menando sberlacce sempre più dure
a sudditi sempre più obnubilati e confusi; reggendo, con la
stronzata “guerra-terrorismo”, bordone ai killer planetari nella
loro innesco della pandemia del terrore per mezzo di autoattentati a
New York, Londra, Madrid e via massacrando per far chiedere alla
gente sicurezza (leggi dittatura); inseguendo al tempo stesso
l’altro scassacazzi del tiro a due Bush-Papa nella costruzione
gerarchica di una monarchia assoluta; prendendo il proprio seguito
in contropiede e per il culo; corrompendo un’intera categoria di
quadri e dirigenti con poltrone e prebende, intimidendo e reprimendo
gli occasionali, sempre più isolati e vani, protestatari, facendosi
cantare addosso Bandiera Rossa e l’Internazionale – spettacolo
raccapricciante nell’arena dei 7000 (erano centomila nei cortei
degli anni passati) – dopo aver dichiarato morti e sepolti Marx,
Lenin e, a bassa voce, ma a buon intenditor poche parole, i
partigiani d’ogni parte tempo. Giovanni Pesce, medaglia d’oro della
Resistenza di sessant’anni fa, proposto al Senato a vita. E un
popolo in piedi oggi, grondante sangue sulle macerie del suo paese,
culla di ogni civiltà, tradito, colpito alle spalle, chiamato
terrorista all’unisono con Bush, D’Alema, Berlusconi, Blair e
l’inferno che se li porti.
Così è, se vi pare. E, dunque,
votate, votate. Sarete in buona compagnia: la combriccola, o cosca,
o loggia, o oratorio, in cui galleggia il Nostro si appresta a
votare presidente della regione Sicilia, al posto del noto Cuffaro,
tale Pippo Baudo…
P.S. Sul Manifesto del 6 ottobre,
enorme in prima pagina, sotto il titolo “Il trionfo dell’omofobia”,
c’è la foto di una pubblicità di quell’opportunistico
fiuta-tendenze da sistema che è Oliviero Toscani. C’è un omaccione
che, da dietro, acchiappa un sorridente partner per i genitali. E’
l’esibizione di un accoppiamento omo. Pubblicità, si dispera e
indigna “Liberazione”, bandita dall’Istituto di Autodisciplina della
Pubblicità. Immaginatevi la variante etero: qualcuno prende per le
spalle una donna e, premendosela sul bassoventre, le manipola i
genitali. Potete immaginarvi le reazioni, in particolare delle
guardaspalle postfemministe del sub-sub? E poi, per maggiore
godimento, godetevi all’interno l’autopubblicità del sub-sub
tardone. Una foto eloquente: mascella volitiva, sigaro cazzuto in
erezione, aria da sfottò, espressione da figlio di puttana, faccia
da schiaffi. Un vero comunista. A quando gli schiaffi?
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