Le radici
governiste-imperialiste degli attacchi di Liberazione a Cuba e
all’America Latina
05/06/2007
Caro Sansonetti,
l’intestazione al direttore di
“Liberazione” è puramente retorica e serve solo a inserirmi
nell’uragano di lettere deprecatorie che hanno sotterrato
ad perpetuum ogni dignità
professionale e politica del soggetto. Non ha nessun senso scrivergli.
Non solo perché lui, che qualche malizioso chiama Sionetti, poi
distribuisce rampogne ed eulogie dei lettori secondo la tecnica dei
media di regime, in modo tale da creare un rapporto pro-contro che
rifletta quello tra le due ore di Santoro e le mille ore dei tg e
talkshow di regime. Anche
e soprattutto perché né Sansonetti, né gli altri direttori del
house organ della casta
regnante del PRC, contano un fico secco. Stanno a Bertinotti come Al
Maliki o Karzai stanno a Bush.
E mi sorprende, nella pur salutare
esplosione di indignazione che ha circonfuso il foglietto
scandalistico e ne ha ulteriormente frazionato il seguito politico e
ridicolizzato le vendite, che molti si siano sorpresi. Come se le
volgarità, sciatterie, sostanze tossiche, veline miamensi e merci
avariate varie vendute dalla scrivana Nocioni – sulle quali altri
hanno già steso gli opportuni coccodrilli da fosse comuni del
giornalismo di stagione – fossero, non il semplice “balzo in avanti”
di un vetusto e noto venditore di cianfrusaglie con licenza di falso,
ma l’inusitata e subitanea involuzione di una giornalista e del
direttore che ha la faccia di difenderla (della Gagliardi, antica
condirettrice dei miei tempi, e del suo accorruomo in difesa degli
indifendibili, non mette neanche conto scrivere: l’anziana signora è
da sempre vocata al sacrificio di una qualche ipotetica identità
propria nel corso delle messe cantate al pontefice di turno).
Nel corso delle mie frequentazioni di
“Liberazione” e del PRC, da collaboratore tra il 1998 e il 2003 e da
lettore per qualche anno ancora, finchè ho retto al prolasso delle
strutture etico-deontologiche e all’inversione politica del
giornaletto, si sono alternati direttori e vicedirettori, da Chalabi
si è passati a Jaafari, da questi ad Allawi e poi ad Al Maliki e
ognuno si portava dietro i suoi famigli. Ma da quando Fausto
Bertinotti, passando da Bertinotti in Vespinotti e poi in Prodinotti e
ancora in Bertisconi, per culminare infine, glorificando in Libano la
Folgore, in Bushinotti, da quando, dopo la scissione, si è assiso
solitario sul trono imperiale sostenuto da un cooptato esercito di
cortigiani, nulla in “Liberazione” si muove che il sovrano non voglia.
Per quanto possano fingere di avere un ruolo sia Curzi, sia Gagliardi,
sia l’ex-vicedirettore Cannavò, sia Sionetti, sia lo stesso Franco
Giordano. A guardar bene, da dietro le scapole gli parte un filo
sottile che arriva tra le manone di quel tale, segretario di partito o
presidente della Camera che sia. E allora prendiamocela con il
burattinaio e abbandoniamo al loro tristo – ma ben remunerato –
destino ascari, fantocci e comprimari. E anche i reggicoda che fanno
finta di fare fronda per tenere al guinzaglio i bassotti riottosi. In
questo film le comparse e i figuranti sono ancora, dopo vari salassi,
parecchie decine di migliaia. Ci vuole poco più di un po’ di acume e
di autonomia, un po’ meno cieco affidarsi al primo imbonitore, per far
rifluire nelle loro grotte questi quattro assatanati di poltrone e
cavernicoli della coerenza e dell’etica.
Le programmate diffamazioni, negazioni,
falsificazioni di Angela Nescioni
(non è un errore) hanno radici lontane di pura per quanto malamente
mimetizzata natura governista, borghese, a tendenza
sionista-imperialista, come accennato nel titolo. Siamo nel maggio
2003 e scusate se ricordo un episodio che mi riguarda personalmente,
ma che ha significato trascendente: la mia cacciata da “Liberazione”
su due piedi, dopo quattro anni di collaborazione, per aver scritto
nella mia rubrica che quelli processati a Cuba erano terroristi
mercenari degli Usa, dei quali si era scoperto un programma di
attentati e dirottamenti che avrebbero dovuto destabilizzare il paese
e avviarne il tanto atteso rientro nei ranghi della catena di
supermercati e lupanari oligarchico-statunitensi. Era uno sgambetto
alla marcia del partito, che il suo duce si affannava ad avviare,
all’ingresso nella sfera delle compatibilità confindustriali, vaticane
e atlantiche. Una marcia che in quel momento avanzava al suono delle
fanfare anticubane del capitalismo mondiale, cui Bertinotti aggiungeva
il suo graditissimo piffero di corista di terza fila, visto che Cuba
più che mai si era posta come simbolo e innesco della resistenza dei
popoli al terrorismo imperialista, dall’America Latina all’Iraq e a
tutto il Medioriente. La foia anticubana di Bertinotti, cui Marco
Consolo, latinoamericanista del dipartimento esteri, forniva la
cosmetica copertura dei suoi personali flirt con la rivoluzione
bolivariana, era necessitata da un’ulteriore obiettivo strategico:
eliminare dall’orizzonte dei compagni nutritisi dell’illusione della
rifondazione comunista il modello cubano. Intollerabile era la
prospettiva che iscritti, militanti ed elettori ponessero a confronto
di un governo pseudodemocratico, espropriato delle sue scelte sovrane,
massacrato da predatori sociali, spedito in guerre coloniali di
rapina e sterminio, corrotto e mafizzato fino al midollo, un paese che
stava mostrando a centinaia di milioni, tra America Latina e resto del
mondo, che sconfiggere il capitalismo e bloccare l’imperialismo era
possibile. Da Fidel a Chavez era impellente cancellare dall’orizzonte
del reale e del vero una fenomenologia che rischiava di sotterrare
definitivamente la mitologia di un partito che si dice rappresentante
di lavoratori, di sfruttati e oppressi, della pace e che, nei fatti,
agisce da calmiere collaborazionista dei poteri forti. Tutto qui.
Ma andiamo un po’ più indietro. L’uomo
che, proveniente da esperienze politico-sindacali di fiancheggiamento
con riserva degli ukase padronali, si era impadronito dello zoccolo
duro antagonista sopravvissuto alla degenerazione piccista-diessina,
per farne il cavallo che lo avrebbe
innalzato, di Vespa in Vespa, al più alto soglio possibile della
carriera, aveva lanciato il suo affondo nel congresso nazionale di
Rimini, sette anni fa. Due erano stati gli strumenti principali per
avviare una mutazione genetica, astutamente graduale, che lo
sprovveduto Occhetto aveva voluto operare nel giro di 24 ore.
“L’imperialismo non esiste” e “la non-violenza è la nostra stella
polare”. Con la negazione dell’imperialismo era riuscito a confondere
la vista a chi, guardando meglio, dalla prima guerra all’Iraq, alla
Somalia e poi alla Jugoslavia, avrebbe
riconosciuto e più adeguatamente combattuto, al pari dei popoli
aggrediti e squartati, la perfetta materializzazione di ciò che Lenin
aveva definito lo stadio supremo del capitalismo. E l’élite
militarista israelo-anglo-statunitense, con i suoi ascari coltivati
tra Roma, Varsavia e Tokio, ancora gliene rende grazie. Occultato così
il mostro che minaccia la fine delle specie viventi, gli ha spianato
l’avanzata con il concetto escatologico
della non-violenza, perfetto meccanismo
del disarmo unilaterale dei subalterni sodomizzati. Non-violenza
sublimata nel silenzio sulla Nato, le basi stragiste, l’industria
bellica, e, a livello di delirio, nello strombazzamento delle virtù
della Folgore e corpi speciali vari.
Insomma, non solo i comunisti non
avrebbero più mangiato bambini, ma la
racaille della Terra
avrebbe preso serenamente schiaffi e fosforo bianco offrendo l’altra
guancia. L’alto esempio avrebbe naturalmente modificato nel profondo i
fosforizzatori e li avrebbe convinti a redimersi distribuendo aspirine
e caramelle.
Tutto questo era, da tempi biblici
rispetto alle stronzate della
Nescioni, formulato nelle pagine di “Liberazione”. Fin da
quando, nel 1999, mentre D’Alema bombardava la Jugoslavia e
l’imperialismo non esisteva più, il vicedirettore Cannavò, ora redento
leader della “Sinistra critica”, cestinava i miei pezzi da Belgrado
che delenda erat perché
dimostravano che Milosevic era tutt’altro che un dittatore, ma che
erano le tirannie oligarchiche imperialiste che frantumavano la
Jugoslavia socialista e facevano pulizia etnica e fosse comuni. E poi
titolava a
tutta trionfante prima pagina, sulla
morte della Jugoslavia, “La primavera di Belgrado”. Primavera che poi
veniva esaltata anche a Kiev e Beirut, per l’immensa soddisfazione
della National Endowment for
Democracy, un’articolazione Cia, che tali primavere
foraggiava con esperti del Pentagono, patrioti amati da Cannavò come
Otpor, e sacchi di
dollari.
Fin da quando, da Gaza e Ramallah,
citavo l’inqualificabile Maruan Barghuti che si permetteva di non
stigmatizzare la lotta armata di liberazione di quattro pezzenti
contro lo stato più guerrafondaio e poliziesco del mondo. Fin da
quando dall’Iraq riferivo che, forse, qualche balla satanizzante su
Saddam, ad uso degli invasori predatori, i media dell’editore di
riferimento Usa la diffondevano e che forse gli iracheni, con una
sanità migliore della nostra e gratuita e un’istruzione invidiata da
tutto il Terzo Mondo e gratuita, con la casa e il lavoro per tutti,
qualche diritto umano dopottutto ce l’avevano. E, rientrato a Roma,
trovavo pezzi mutilati di quanto contrastava con la vulgata
embedded e Curzi e
“l’oppositore di corte,
Claudio Grassi, che mi supplicavano di
stare al gioco, di moderarmi, di guardare altrove, magari verso gli
inceneritori, ma neanche tanto.
Cari amici, l’episodio
Nescioni su Cuba e
Venezuela non è che una casella importante del gioco dell’occhetto
prolungato nel tempo dal nostro Prodinotti, sempre più Bushinotti. E’
un ulteriore carico di deiezioni espresse dal processo fisiologico di
chi ritiene di crescere su ciò che liquida. Arriverà di peggio, prima
della sua inesorabile fine. Intanto abbiamo la fortuna che dietro a
questo maleodorante cumulo si è acceso un possente ventilatore. Si
chiama Cuba.