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Mentre sfasciano
corpo e anima di Palestina, Iraq e Afghanistan, fingono, a copertura,
LA TERRIBILE,
IMMINENTE, GUERRA USA-IRAN e
preparano quella vera in Libano, Siria e Sudan
18/07/2007
Il fatto è che
se non provi a cambiare
la realtà, è la realtà che cambia te,
a dispetto del simulacro che continui a esibire.
(Dino Greco, segretario della
Camera del lavoro di Brescia, defenestrato da CGIL, FIOM e PRC)
Meglio Veltroni, Draghi, Padoa Schioppa,
o Bakuba?
Verrebbe la voglia di trasferirsi a
Bakuba, a Gaza, a Jenin, a Bint Jbeil, addirittura a Kandahar. Almeno
lì le cose sono di una chiarezza da alba sul mare vista dal Monte
Fasce, sopra Genova, là dove trasluce la “Corsica dorsuta” di Montale.
Non c’è bisogno di lacerare veli di baiadere che occultano
decrepitezze, né di scrostare con la varechina ipocrisie e doppiezze
veltrusconiane, né c ‘è da arrovellarsi nel dubbio se ti si
inchiappetta con il baby oil
Johnson, piuttosto che
con una pelle di porcospino. Dalle nostre infelici parti devi vedere
cacciare con un intrigo da basso impero il migliore segretario della
più combattiva Camera del Lavoro d’Italia, punto di riferimento per
tutti coloro che non vedono nel sindacato il finto collidente e vero
colluso al banchetto dei padroni. Con l’insulto aggiunto che la
nefandezza avviene sotto lo sventolio, per molti ottundente, di
vessilli rossi, “simulacri”, come li definisce il compagno Dino Greco.
Dalle nostre parti, a paragone del sistematico rovesciamento della
realtà e del linguaggio nel loro contrario, i paradossi del paese di
Alice sembrano cinema-verità. Un Mario Draghi, topo mannaro della
finanza, virgulto della grassazione finanziaria mondiale, giannizzero
di Goldman Sachs e sodale del bandito della speculazione George Soros
(il cui International Crisis Group
viene onorato di citazioni inoppugnabili dal candido
Michelangelo Cocco del “manifesto”) viene glorificato come istituzione
tecnica sopra le parti,
al servizio dell’interesse
collettivo, mentre infila la testa della maggioranza del
popolo nella garrota della miseria. E chi applaude questo miracolato
dal Padre Pio di turno a Palazzo Chigi, cospiratore nel 1992 contro
l’economia italiana quando si accordò con la massoneria internazionale
per l’assalto alla lira che portò alla svendita del patrimonio
nazionale sotto l’egida del compare Amato, oggi progressivo
restrittore di diritti democratici con la scusa degli stadi, o dei
bulli, o dei conducenti sbronzi? Chi lo applaude? Indovinato, il
Batrace Prolassato e il Baffino da barberia, due bugiardoni in marsina
che gli autori della fiction chiamata Bibbia gli fanno un…baffo. Una
coppia che rompe le palle da quarant’anni, un tempo da stalinisti di
prima classe, poi da hooligan del 10 a 0 sociale. Una coppia di fronte
alla quale quella dei gemelli
horror polacchi Kuscinzky fa la figura degli statisti alla
Marc’Aurelio.
Chi è populista?
Dalle nostre parti l’arte del governare
consiste nel convincere il colto e l‘inclita, le plebi tutte, che
tanto sono minacciate da orchi da ogni lato che prendersela con chi
gli sfila lavoro, salario, pensione, casa, libertà, pace, risulta
proprio tempo perso, anzi collaborazionismo con i “terroristi”. E,
tolti(si) di mezzo i fustigatori autentici, i Guzzanti-Giovenale e i
Grillo-Marziale, restano a sostenere l’assunto i satirici di regime.
Come quel Michele Serra che a me personalmente pesa sul piloro fin da
quando allestiva “cuorate” buoniste in difesa del “caro amico Adriano
Sofri”. Ti pareva. Oggi le spara sul tabloid scandalistico “La
Repubblica”, sostenendo, tra tanti altri suoi soffietti al padrone,
che gli annuali 7000 morti sulle strade in buona parte sono
“fisologici” (l’auto c’è e
menomale), in parte, quelli causati dagli sbevazzoni, sono
delinquenziali. Non gli fa ombra il fatto che questi ultimi sono
qualcosa come l’un percento della mattanza, mentre il resto è opera
Fiat, Volkswagen, Mercedes, Chrysler, Honda, Ford, Citroen e via
rigurgitando dalle più grandi industrie di morte mai inventate. Gente
che riempie di segatura la testa degli esibizionisti SUV e Smart, di
stronzate di latta, dalla velocità di un missile e dalla fragilità di
un uovo, spazi che finiscono con l’assomigliare all’urna di fagioli
della Carrà e atmosfere che gareggiano con quelle delle mai
sufficientemente ricordate (a copertura dei
divertissments sionisti)
camere a gas. Vai con la colpa agli ubriachi e ottieni il duplice
effetto di consentire ai ministri di polizia e dell’insanità, Amato e
Turco (quella degli sbirri in classe), di fornire ulteriori controlli
e ceppi per il prossimo venturo Stato di polizia e di salvaguardare
reputazione e profitti del fabbricante delle armi più letali apparse
nel mondo dopo la peste bubbonica e la democrazia borghese.. Si chiama
“populismo” - altro che quello attribuito a Hugo Chavez, che invece
rovescia le cose capitaliste nel loro contrario - e consiste nel far
demagogia per gonzi: colpisco l’effetto, la vittima, al massimo il
sicario, e nutro la causa e il mandante. A forza di campagne su
drogati, ubriachi, insegnanti e statali in genere fannulloni, pedofili
come se piovesse (che aprono la strada alla repressione in rete, come
Al Qaida alle guerre), bulli, pacifisti, sfasciascuola, ultrà del
tifo, opposti estremisti, immigrati,
drop-out, maschi,
eterosessuali omofobi, islamici, cinesi, anziani pensionati a ufo,
sconsiderati da discoteca, trasportatori fumati, irregolari vari,
terroristi neanche a parlarne, le categorie da non reprimere si
riducono alle famiglie di Montezemolo e dei suoi (manzoniani) bravi.
Guardare negli armadi di costoro e scoprirvi i piani dell’irachizzazione
delle turbe ai cancelli della villa, anche a forza di auto, eroina,
discoteche, scuole berlinguerian-morattiane, birra e Moggi?
Dioceneguardi! Guardate la prima pagina del foglio-guastatore della
Partito Democratico (ragione sociale che cela il suo contrario), data
16 luglio 2007. Titolo di testa a cinque colonne:
Pedofilia, ecco la rete degli orchi
(che poi finisce giudiziariamente in niente). Titolo in neretto della
stessa misura: “Strade, basta
stragi dell’alcol”. Titolo contiguo (in tutti i sensi):
Ritorna Osama. Foto
titolata sulla necessità pensionistica di stroncare i vecchi per
nascondere la strage di regime dei giovani e, per finire in gloria,
editoriale di dannazione dei migranti:
Integrazione fallita. E
poi dicevano la “Pravda”! Il panico è assicurato. Poi seguirà, con la
solita cadenza, la campagna Aids (che se ne mangia un decimo di quelli
che spariscono in Medioriente), qualche aviaria, qualche Imam pronto a
mettere nitroglicerina negli zainetti dell’asilo.
Mamma, ho perso il Dakli!
E’ la stampa, bellezza. E visto che di
stampa parliamo, il solito pensierino per il “manifesto”. Sollievo per
l’assenza – prematuramente terminata con un panegirico ai “dissidenti”
russi, infiltrati Cia e cultori dello zar compresi - dell’albanese
Astrit Dakli, il “sovietologo”, e delle sue fobie antislave che gli
meritano addirittura il rango di solista nel coro dei piagnoni sulla
scomparsa della giornalista del circuito Cia “Radio
Liberty”, Politovskaja, sulla montatura antisovietica dei
terroristi di Stato inglesi a proposito della polonizzazione del
fellone Litvinenko, ovviamente ucciso da maestri della provocazione,
sulle infamie dello “Stato di polizia di Putin”, ovviamente colpevole
di aver sottratto il paese alle grinfie dell’Occidente e dei suoi
picciotti locali e di avergli ridato ruolo e dignità. Questo
vessillifero del Lebensraum
albanese sta raccontando un viaggio attraverso l’ex-Unione Sovietica
sul sito internet del “quotidiano comunista”. Per evitare quel sito
come la varicella, basta ricordarci il pittoresco quadretto che
l’anticomunista travestito da antirusso tratteggiò del Kosovo,
all’indomani della macelleria Nato e delle stragi Uck, quando ce la
fece a non vedere uno solo dei 150 monasteri medievali inceneriti, né
a incrociare uno solo dei 300mila serbi, rom e ebrei puliti
etnicamente dalla Nato-Uck. E’ la stampa, bellezza.
La guerra-fumogeno Usa-Israele contro
l’Iran
Veniamo a noi, al nostro tema. Il 9
aprile 2007 scadeva, annunciato da mille “inconfutabili” segnali,
l’ennesimo termine “certo” per “l’inevitabile” guerra Usa-Iran. Forse
nucleare. Gli altri erano stati annunciati, sempre con apocalittici
strombazzamenti mediatici, a dicembre, settembre, giugno, per poi
essere riassorbiti dalla polvere delle bufale appassite. Regolarmente
succedevano invece altri fattacci, tipo l’assalto USraeliano al
Libano, lo sprofondamento di Bush, l’avanzata dei democratici
statunitensi, picchi di carnaio di Stato e di successi resistenziali
in Iraq, efferatezze israeliane a Gaza, l’ennesima carneficina di
civili in Afghanistan, bombe Usa e scherani etiopici addosso a una
popolazione somala che stava rimettendosi in piedi, porcherie
elettorali in Messico (coadiuvate dall’uomo mascherato del Ciapas);
mobilitazione di mascalzoni e grulli in vista dell’intervento
“umanitario” in Sudan, altro stato arabo e petrolifero da sbranare…
Poi, quatto quatto, nel luglio 2007, l’armagheddon Usa-Iran finisce
nel salottino del chatting
diplomatico, al suo nucleare ci si riferisce con indulgenza, El
Baradei (AIEA) ne parla poco e bene, semmai c’è qualche attrito di
sciacalli attorno alle spoglie irachene, nulla che non possa essere
risolto con qualche schiaffo agli ascari locali e con qualche
discreto tè tra Condoleezza e l’omologo persiano. Succede perché lo
Stato Maggiore della criminalità organizzata occidentale pensa di
potersi permettere un’attenuazione della psicosi iraniana perché ha da
mostrare qualcosa che rasserena il volgo: la segregazione e il
progressivo annichilimento per fame dei “terroristi di Hamas” e nuovi,
spaziosi boulevard di pace per gli assennati amici di Fatah, in corso
di conversione a valanga, tutti iscritti ai corsi di rieducazione
dell’Alta Scuola del Tradimento di Abu Olmert. O forse si azzittisce
solo perché, in Iraq, o fili con i persiani, o, se tra i nemici devi
annoverare anche i soci persiani, ti tocca farti evacuare dai soliti
ultimi elicotteri sul tetto dell’ambasciata.
Addio Hawatmeh, buongiorno Kalachnikov
E qui mi arriva una stilettata alle
viscere. Naief Hawatmeh, leader dalla fondazione nel 1969 del
gloriosissimo Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina,
sotto i cui vessilli, con quelli del FPLP e di un Fatah ancora non
ancora ridotto a zerbinotto pezzente, abbiamo marciato nei decenni ((Fe-Fe-Fedayin!),
lo incontrai nel gennaio del 1970 ad Amman. Le sette colline della
capitale giordana erano imbiancate. La neve risaliva i gradini della
pensioncina sul Jebel Hussein, ovviamente priva di stufe, ma con
fornelli. Affabili e ciarlieri, emissari del prestigioso capo del FDPL
venivano a trovarci, sondarci. Trovavano tè, portavano mele.
Intervistai Re Hussein, proconsole degli inglesi ad alta valenza di
gossip. Giurò “eterna riconoscenza ai fedayin che combattevano il
mostro sionista”. Pochi mesi dopo espresse tale sentimento con un
massacro nei campi. Alto, con l’immancabile giaccone di pelle nera dei
fustaccioni palestinesi, aquilino, neanche quarant’anni, Haqwatmeh
sorrise alla nostra richiesta di entrare nel Fronte, ci fece un po’ di
domande dal rigoroso sapore marxista-leninista, ci chiese a lungo dei
moti del ’68 europeo, poi disse
tamam, va bene, seguirete un corso nella nostra base così e
così. Inorgogliositi come pupi siciliani scappati dai pupari e
proiettati sul proscenio della Scala, finimmo – italiani, francesi,
inglesi, egiziani - in una base scavata nelle colline del Nord, vicino
a Ajeloun, a due passi dal Giordano, fiume da attraversare di notte
per imboscate che avrebbero insegnato a generazioni di guerriglieri
nel mondo come va fatta la guerra asimmetrica. C’era passato anche
Jean Genet e i fedayin ne innaffiarono alcuni tra i più bei fiori
letterari. Li dentro passammo settimane e mesi. Ore di addestramento,
di discussione, di bilancio delle azioni e dei comportamenti, la
famosa “autocritica”, di narrazioni intorno al pentolino del
chai, di formazione
quadri, di spesa dai contadini simpatizzanti, di fraternizzazioni con
le pattuglie di soldati giordani, e, all’apogeo, di operazioni
notturne.
C’erano anche efflorescenze temporali di
assoluta pace e di felicità. Insieme per una causa giusta, a tutti i
costi. Spesso nel tepore notturno di maggio, trepido di attese, di
approfondimenti su cosa c’era dietro a queste facce di giovani
contadini col mitra e dietro alle nostre, con le stelle che si
potevano toccare e giocarci a palla, pensavo che forse non avrei mai
più vissuto un momento così maturo e felice. Sette anni dopo, per un
istante si potè provare qualcosa di vagamente simile: quando
cacciammo Lama, dalle parole e dai capelli tinti, dall’università Da
Occidente arrivarono nubi basse e nere. Ci chiesero di dimetterci
dalle unità combattenti poco prima di quel
Settembre Nero con cui il
re-fantoccio fece la sua prova d’ammissione al mattatoio israeliano:
2000 militanti ammazzati, campi bombardati e poi svuotati verso il
Libano. Najef ci sorrise e abbracciò: Compagni internazionalisti, la
lotta è una, continuate a casa vostra. Qualche lacrima sbirciò di
sguincio. Poi Hawatmeh diresse la sua organizzazione da Damasco. Al
figlio che ebbi tre anni dopo, diedi come secondo nome Najef. Oggi
quella nostra icona, come tante altre, come addirittura l’eroe della
resistenza di Jenin, Zakariah, che cinque volte i suoi boia hanno
tentato di assassinare, e tanti capi di Fatah e delle gloriose Brigate
dei Martiri di Al Aksa, dismessi Kalachnnikov, kufìah e fede, ha
annunciato il rientro nella sua terra sfigurata e saccheggiata e ha
piegato il capo. Poi, visto che gli israeliani lo avrebbero confinato
al domicilio coatto, ci ha ripensato. Ma il segnale era già arrivato a
mazzata su 8 milioni di palestinesi non ancora rassegnati. Di quei
giorni tra le argillose caverne sul Giordano mi è rimasto un segno
sulla mano. Avevamo imparato a smontare e rimontare il AK-47 in tempi
concorrenziali a quelli dei fedayin, con il pegno di qualche livido o
taglio. Ci fu insegnato a fare del Kalashnikov una
appendice fisica del nostro organismo e
affettivo del cuore, garanzia, in
primis, della vita, nostra e di quella dei compagni. Oggi
l’87enne Mikhail Kalashnikov è stato celebrato a Mosca per i 60 anni
della sua arma.
E pour cause.
Non tutti i Kalashnikov sono finiti in
buone mani, ma quanti esseri oppressi ne hanno fatto lo strumento del
riscatto, il passi per la conquista della cittadinanza nel mondo, una
crepitante bandiera della liberazione!
USA-Iran, una sceneggiata?
La megapsicosi bellica sul sempre
imminente scontro tra Washington e Tehran che ha contagiato il globo e
alluvionato gli spazi mediatici da almeno un paio d’anni, si basa su
un dato vero e una bufala: la realtà della feroce rivalità storica tra
i due paesi, fin dai tempi degli abbassidi e della “rivoluzione
khomeinista”, e la farsa di Saddam “amico degli americani”. Dei due
paesi l’uno diventava il “Satana” dell’altro grazie a una strategia
dell’escalation verbale
tra i due finti contendenti. Ahmadi Nejad tocca il nervo scoperto
dell’antisemitismo lanciando anatemi contro lo Stato sionista e ciò
serve a raccattargli qualche simpatia nel mondo arabo e
antimperialista. Gli Usa rispondono con un colossale assembramento
termonucleare nel Golfo, accompagnato dagli strepiti dei più
smanierati tra i giuntisti militari di Tel Aviv sul prossimo olocausto
di Israele per opera di atomiche iraniane, pronte fra trent’anni.
Tehran ribadisce che il suo nucleare, civile, non si tocca, la
“comunità internazionale” risponde con sanzioni-burletta. Il tutto
circondato dal consueto coro fiancheggiatore, perlopiù di prefiche
parafemministe, sulla sorte nefasta delle donne col
hidjab e dei giovani
privati delle Spice Girls,
nell’opprimente medioevo degli ayatollah (mai sullo sterminio e il
commercio di donne e bambini in Iraq). Che tutto questo venga operato
dagli apparati della disinformazione colonialista, da Brzezinski a
Kissinger, dal “New York Times” alla BBC, con il corredo di detti
utili idioti, non fa sorpresa. Stupisce, invece, e vorrei tanto aver
torto, che l’apocalisse iraniano-statunitense venga accreditata anche
dalle pochissime fonti altrimenti alternative e sempre credibilissime
che costituiscono la rarissima informazione libera e professionale in
Italia e nel mondo: Michel Chossudovsky, il grande controinformatore
canadese sul terrorismo di Stato, i compagni dell’
International Action Center,
motore della mobilitazione antiguerra Usa, Giulietto Chiesa, Lucio
Manisco, la sinistra extraparlamentare e le sue nicchie
informative.Tutti, per una volta, sincroni e sintonizzati sugli
allarmismi isterici del grande megafono, perfino davanti alla
tragicommedia dei missili e radar da installare “contro Iran e Nord
Corea” sulla soglia della Russia, anziché in Turchia, Azerbajan, o Sud
Corea. E di quegli altri che, clandestinamente, Prodi ha accettato
sotto la mistificazione “Scudo spaziale” che, nella neolingua, vuol
dire primo colpo. Lucio Manisco chiude un suo articolo così: “Ecco
perché la soluzione finale contro l’Iran non solo è un’ipotesi, ma una
quasi certezza”, dove il quasi è lì solo per la stessa
cautela professionale con la quale ce lo metto io per dire che la
guerra degli Usa ai compari-rivali iraniani “quasi” non ci sarà per
almeno altri dieci anni. Alla fine della collaborazione nel pasto nudo
iracheno e, via via, arabo, la complicità potrà anche volgersi in
rivalità per l’egemonia regionale. O, forse, allora si metteranno
ancora insieme contro la Russia. La vicenda afgana insegna. Ma campa
cavallo. Intanto l’Iran erige segreti monumenti a Bush per avergli
tolto dai confini accerchiati tutti i nemici: taliban, sostituiti
dall’amico Karzai, mentre una cosca di fratelli sostituisce l’odiato
Saddam alla testa della bicolonia irachena. Dice, ma Hezbollah è
appoggiato da Tehran. E vorrei vedere se qualcuno nella casa
incendiata non accoglie il getto d’idrante anche di chi, da altre
parti, incendia in combutta con il nemico. Dice anche, Hugo Chavez,
leader della vera
rivoluzione bolivariana e miccia nel fianco degli Usa, ha visitato
Ahmadi Nejad. E volete che un Capo di Stato antimperialista non cerchi
alleanze, anche se strumentali? C’è poi sempre la prospettiva che il
popolo iraniano smascheri gli scaldini sciti, osservando quello che fa
per le masse il grande Hugo. E’ la prima volta, perciò, che mi trovo
convinto del contrario rispetto a colleghi amici stimatissimi, cui
dobbiamo il grande merito e la mostruosa fatica di lacerare
sistematicamente il menzognificio imperialista. Sotto sotto mi pare ci
debba essere in loro l’idea che, dopotutto, qualcosa di autentico ci
sia nella crociata dell’Islam contro l’Occidente, come in quella
speculare dell’Occidente contro l’Islam oscurantista ( e non
petrolifero e geostrategico). E non che si tratti di una pantomima
dietro alla quale gli autori, annidati nelle capitali dell’Impero,
nascondono l’assalto alle ricchezze dei popoli con la scusa di un
deus ex machina da loro
fabbricato (a partire dall’11 settembre 2001), a scopo di
mobilitazione alla guerra preventiva, globale e permanente al
terrorismo.
Le
parti in commedia
Sullo sfondo c’è l’altalena tra
l’aspetto collidente e quello colludente del rapporto di
collusione-collisione tra Usa e Iran sull’Iraq. Satanizzare i persiani
significa, superando la millenaria apprensione che gli arabi nutrono
di fronte al sempre rinascente espansionismo religioso e territoriale
di Tehran, rafforzare l’immagine dell’Iran tra le masse arabe
convincendole che quello è un alleato nella lotta contro
l’imperialismo yankee. E far prendere alla sinistra la cantonata
debilitante che l’Iran, preti o non preti, sia schierato nel campo
antimperialista. Magari solo perché le canta a Israele, o per quel
sequestro di decine di diplomatici Usa nel 1979. Ma si ricordi che
Khomeini li tenne fino a quando il pacifico presidente Jimmy Carter
non fosse stato battuto dal pugnace cowboy. A Reagan lì regalò nel
giorno dell’insegnamento: prima vittoria del duro hollywoodiano. Oggi
digrignare i denti contro il Grande Satana deve servire a rendere
difficile e isolata la posizione dei patrioti arabi che subiscono i
massacri degli scagnozzi di Tehran in Iraq e di coloro che nel mondo
arabo questi massacri denunciano. In effetti, come le vicende storiche
ed attuali, non mimetizzate, dimostrano, è almeno dal 1953, dopo il
rovesciamento del “nazionalista” Mossadeqh, che gli arabi hanno
correttamente individuato nell’Iran il primo e più pericoloso alleato
degli Usa e di Israele. Intanto, il castello di carte del terrorismo
bellico crolla per condizioni oggettive. Attaccare l’Iran, 60 milioni
di abitanti, potenziale bellico formidabile, popolazione che si
stringerebbe subito compatta ai suoi dirigenti, significa cacciarsi in
un inferno peggio dell’Iraq, scatenarsi contro un già imbufalito
mondo islamico che ci metterebbe un nonnulla a buttar giù satelliti
Usa alla Musharraf, Mubaraq, o Karzai. Significa passare dagli attriti
tra rapinatori in coda davanti alla cassaforte irachena, al confronto
aperto e senza esclusione di colpi, comportante la catastrofica
perdita di altri pezzi della “coalizione dei volenterosi”. Vorrebbe
dire che le forze d’occupazione, già prese per la gola da una
Resistenza indomabile e in espansione, le milizie filoiraniane, le
soldataglie mercenarie irachene, il governo scita, la gerarchia scita,
gli si rivolterebbero contro (già ci sono sibili di malumore) e non
resterebbero più al loro fianco con il compito, oggi eseguito con gran
zelo, di sostituire alla guerra di liberazione dei cinque marines
uccisi al giorno, quella carneficina interconfessionale che fa
rivoltare e voltare la testa dall’altra parte l’opinione pubblica
mondiale. Infine, salterebbe l’intero sistema dei rifornimenti e dei
prezzi petroliferi mondiali e non ne eviterebbero le conseguenze né
gli Usa, né tutto un Occidente via via più perplesso sullo stare a
ruota degli psicolabili di Washington e dei sionmannari di Tel Aviv.
Nemico a chi? Amico a chi?
Ma poi c’è la storia. Lo Shah andava
mollato, come il fido ma esausto Somoza in Nicaragua, o gli obsoleti e
squalificati democristiani in Italia. Era il 1979 ed era il momento in
cui a Washington si stava lavorando alla creazione in laboratorio del
nuovo nemico universale, l’integralismo islamico, allora da lanciare
contro l’Armata Rossa nell’Afghanistan sfuggito agli inglesi, oggi da
sostituire allo scomparso nemico sovietico. L’urgenza era data dalla
costituzione, quell’anno, da parte del laico e socialista Saddam
Hussein, del Fronte del Rifiuto bastione di un nazionalismo arabo
antisionista altrove in ritirata, in risposta alla resa di Camp David
offerta dall’egiziano Sadat al premier Begin (entrambi Nobel per la
pace!). A tale fronte si associarono tutte le organizzazioni
palestinesi e 17 Stati arabi, volenti o nolenti, ma costretti dalla
proprio opinione pubblica esaltata dall’esempio iracheno. In più,
Baghdad era diventato il crocevia, che spesso frequentai, delle
organizzazioni politiche, associative, sindacali laiche, socialiste,
anticapitaliste e antimperialiste di tutto il mondo. Vi si
incontravano i paesi non allineati, le forze progressiste
extraparlamentari. Un bubbone da sterminare con l’antidoto Khomeini e
la grande forza militare accumulata dallo Shah, una volta che
l’ayatollah proveniente dal caldo (Parigi) avesse fatto piazza pulita
delle forze più rappresentative, ma meno affidabili, della rivoluzione
contro lo Shah: comunisti, curdi, islamomarxisti. Chi ancora fosse
convinto che l’Iraq abbia attaccato i persiani per conto di
Washington, si ricordi non solo dell’ ”Iran-contras” (soldi
khomeinisti per armi e istruttori israeliani, da impiegare contro i
sandinisti in Nicaragua), ma si vada a rileggere la cronaca dei giorni
prima del novembre 1979, quando i persiani varcarono ripetutamente il
confine con il Curdistan iracheno, appoggiati dalle bande dei
capitribù narcotrafficanti Talabani e Balzani. Troverà che Khomeini da
mesi incitava gli iracheni alla rivolta contro l’apostata,
irrimediabilmente “da impiccare”, rivendicava e teneva occupati
territori arabi nelle isole del Golfo e al di là del confine dello
Shatt el Arab, concordato nel 1975, minacciava di invadere Bahrein con
orde di svolazzanti mullah (la minaccia sta tornando di attualità) e
di chiudere alle esportazioni petrolifere irachene l’accesso al mare
e, addirittura, gli Stretti di Hormuz, collo di bottiglia del Golfo.
Si cannoneggiavano le zone di confine dell’Iraq, ci rimasi sotto per
due giorni anch’io in Curdistan, tra i monti sopra Irbil, capitale
della ,prima autonomia curda nell’intera storia di quel popolo,
concessa da Saddam nel 1972. Si allestivano attentati a Saddam. Quelli
per i quali la vittima venne poi impiccata: 145 sciti massacrati, ma
che invece erano stati processati pubblicamente per tre anni e
trovati, in parte colpevoli di lavorare per conto del giaguaro
persiano in guerra. Un terzo di quei 145 è stato scoperto vivo e
vegeto nel suo villaggio.Tutto questo riempie denunce su denunce di
Baghdad all’Onu, al Consiglio di Sicurezza, alla Lega Araba, alla
Conferenza islamica. Alla fine l’aggressione persiana si sviluppò,
pure con i gas di Halabja falsamente attribuita agli iracheni (vedi
documenti Cia in New York Times,
31/1/2003), mentre dalle nostre parti lottacontinuisti
degeneri inneggiavano ai pasdaran che mandavano bimbetti a saltare
sulle mine irachene, salvo oggi ricredersi e immerdarsi nel più becero
antislamismo sionista, sugli schermi al vetriolo dell’agente Giuliano
Ferrara. La manovra fu respinta. Saddam fu sottratto alla solidarietà
delle sinistre mondiali cucendogli addosso la giubba dell’ “uomo degli
americani”. Si poteva passare alla fase due, prima Guerra del Golfo, e
alla fase tre, liquidazione totale a partire dal 2003. Falliranno
entrambe.
Avvinti come l’edera
A questo punto gli occupanti dell’Iraq
si rivoltolano in un ginepraio da far perdere la direzione al più
astuto dei ranger della bellicosità Usa. Per far fronte a un
incessante crescendo della Resistenza – una squadra di marines e
chissà quanti contractor
uccisi al giorno, più operazioni e più verso il cuore della
cittadella del potere che nel 2004 – si era creato in provetta il
virus della “guerra civile”, pratica istituzionale di ogni
colonialismo. Con grande soddisfazione di Tehran se ne sarebbero
incaricate le milizie di Moqtada Al Sadr (che, nella divisione dei
ruoli faceva il populista “antiamericano”), dell’altro caporione
scita, Al Hakim, dei vari signorotti della corruzione
collaborazionista, i peshmerga dei banditi Barzani e Talabani, le
forze private dei ministeri sciti, le vacillanti soldataglie del
governo fantoccio. La tripartizione programmata fin dal 1982 dal
teorico della bantustanizzazione araba, Oded Yinon, consigliere del
governo israeliano, veniva agevolata dallo scontro interconfessionale,
con l’aggiunto beneficio dello spostamento del tiro di una micidiale
Resistenza dalla decimazione degli occupanti verso un bagno di sangue
tutto iracheno. E allora ecco le stragi di Stato (perlopiù eseguite
dalle milizie Al Mahdi di Moqtada) nelle più sacre moschee scite e
sunnite, a volte documentate da video degli stessi terroristi sciti
(vedi l’inestimabile
uruknet@info); l’assassinio seriale, di chiara scsuola israeliana,
di tutte le teste pensanti del paese, accademici, scienziati,
letterati, insegnanti, medici; le bombe nei mercati, i 50-100 sunniti
squartati e trapanati al giorno. Moqtada e compari procedevano alla
pulizia etnica di interi quartieri di Baghdad, protetti dai muri alla
Sharon che i padrini Usa costruivano intorno a quartieri resistenti
come Adhimiah, i curdi ripulivano la petrolifera Kirkuk della presenza
araba e turcomanna, i persiani accentuavano l’egemonia assoluta sul
regime fantoccio e sull’intero centrosud del paese, ormai un’enclave
finanziaria, industriale, commerciale e politica iraniana. A questo
punto, la tripartizione programmata dagli occupanti rischiava di
sfuggire di mano e risolversi in una partita a due, tra curdi e
iraniani.
Tanto che era addirittura l’influenza
iraniana sui burattini nei palazzi di regime a impedire che passasse
una legge con la quale gli Usa avevano pensato di assicurarsi la
totalità della bonanza petrolifera del paese. E già i soci iraniani
stavano costruendo oleodotti e raffinerie al Sud! Occorreva cambiar
marcia. Si trattava di bilanciare l’epidemia scita, ricuperando
qualcosa delle vecchie competenze militari, amministrative,
scientifiche, tecnologiche di quello che era un paese all’avanguardia
nel Terzo Mondo. Ma queste erano scomparse nel mare di sangue in cui,
dal 1991, erano stati annegati due milioni e mezzo di iracheni , o
erano disperse tra i quattro milioni di senzapatria vagolanti nei
deserti mediorientali. Del resto Moqtada non tollerava che gente che
lui aveva contribuito a sterminare tornasse ad aver qualche parola in
capitolo. Né lo consentiva il premier Nuri Al Maliki, con il fiato di
due burattinai sul collo, che però dal supporto degli sgherri di
Moqtada, in parlamento e fuori, in buona parte dipendeva. Vennero
chiamati in causa i sauditi, vacillanti sui loro troni di diamanti
sotto l’uragano scita, perché, risuscitando un orgoglio wahabita
sunnita, ponessero un argine alla voracità persiana. Si diede via
libera anche ai turchi, ai loro 200.000 armati alle soglie del
Curdistan iracheno, perché l’intero Nord non finisse in mano esclusiva
dei vicini in vena di autonomia e anche quel petrolio, oltre a quello
di Basra, non prendesse tutto verso levante anziché verso ponente. Si
mandò qualche segnale indispettito a Tehran, arrestando funzionari
d’ambasciata e armieri delle milizie scite, si lanciarono nuove
campagne diplomatiche, medianiche e mediatiche contro gli oscurantisti
in procinto di nucleizzare Israele e chissà quant’altro. E poi si
ricominciò da capo.
Surge,
surge, surge!
Muore e surge Al Qaida. Va e viene Moqtada. Ma l’Iraq cammina con la
Resistenza
Si annunciò “ripensiamo noi”. E furono
un surge dopo l’altro
(così Bush chiamava le campagne di “sicurezza”:
impeti). Da gennaio a
giugno 2003 il generale Petraeus con i suoi 30.000 soldati, freschi di
razzìe tra gli immigrati latinos
alla ricerca di pane e cittadinanza (meno il consueto 27%
di disertori e di usciti di testa), si avventò sulla Resistenza e su
quartieri e città irriducibili. Fu ferro e fuoco, follia e stragi.
Memorabile fu la battaglia di tre mesi per la grandiosa via Haifa,
splendido esempio di neorazionalismo arabo, quella dei musei, della
vita culturale e artistica esplosa dopo la rivoluzione del 1968. Un
quartiere che accarezzava i traforati balconi dei tempi di Harun Al
Rashid, lì sotto, lungo il fiume. Quartiere dai portici ombrosi e
dalle guglie a cuspide che sembravano spilli nel tessuto azzurro, dove
un tempo si passeggiava e conversava come fossimo sotto casa di
Pericle. Erano armate corazzate contro cecchini. La prime non ce la
fecero. Poi gli assedi tipo Riccardo Cuor di Leone ad Acri (tutti gli
abitanti decapitati). Bakuba, Samarra, di nuovo Fallujah, centri
abitati delle province centrali assediati per settimane: tagliate
acqua e luce, bloccati i viveri, i carburanti, i farmaci. Incursioni
stragiste contro i sopravvissuti, preferibilmente contro ospedali
ancora funzionanti, ratto di donne per il dilagante commercio della
prostituzione a beneficio degli armati di qualsiasi tipo e delle
solite ONG collaborazioniste; sequestro bambini e feriti per i
rifornimenti di organi a Malibù. Bombardamento alla cieca. Insomma,
terrorismo puro. Per l’intanto ai trapanatori di Moqtada era stato
consigliato di starsene sott’acqua. Lo stesso capobanda si rifugiò per
un po’ tra i garanti persiani. Gli occupanti a stelle e striscie
allestirono pure un paio di raid
in Sadr City, già Saddam City, roccaforte del caudillo col
turbante. Fuffa. Intanto non avanzavano di un metro nella liquidazione
di una Resistenza a favore della quale si è dichiarato, in un
sondaggio, il 93% della popolazione sopravvissuta, oltre a tutte le
tribù, quei grandi conglomerati sociali e territoriali che, nei secoli
dei domini stranieri, avevano salvaguardato autonomia, identità e
cultura. E a casa crescevano la stizza e la frustrazione per una
sconfitta prolungata all’infinito solo a beneficio di armaioli e della
manica di matti violenti attorno alla Casa Bianca. Si ricominciò da
capo. Fuori le milizie scite, dentro le milizie scite. Alternanza di
cannibali. Moqtada tornò, i suoi deputati, stampella di Al Maliki, si
dimettevano e rientravano nel parlamento come per una porta girevole,
a seconda dell’efficacia del ricatto iraniano agli occidentali.
Al
Qaida per la paura
E ricompare, eterna araba fenice senza
la quale il colonialismo come si farebbe? Al Qaida. Al Qaida che
esplode come ortiche dopo l’acquazzone. Quell’Al Qaida che il
comandante supremo a Washington, definitivamente in stato
confusionale, dichiara battuta,
no, sempre più diffusa, colpita a morte, no, ancora più forte.
In mancanza di santini del giorno dell’uomo morto da sei anni, si
ricorre a mezzi disperati: un video d’antan, Osama ringiovanito di
dieci anni rispetto all’epifania di due anni prima, con audio
registrato di blà-blà-blà sul martirio.Tra tutte le panzane la più
mediocre. Al Qaida di continente in continente, di isole britanniche
in isole filippine, di Somalia in Palestina, Libano, Iraq. Alessandro
Magno, la Spectra, i catari, la mafia gli fanno un baffo. Le più
grandi potenze del mondo, servizi segreti presenti capillarmente come
pidocchi, una tecnologia del controllo cui non sfugge nemmeno il
mozzicone di spino rimasto nelle pieghe dei pantaloni, si fanno
scoppiare in pieno aeroporto fuoristrada che questo esercito
invincibile, con piloti che fanno impallidire Superman senza aver mai
pilotato neanche un aquilone, riempie di benzina, chiodi e telefonini
inservibili. In Iraq non volendo, non potendo raccontare che la
Resistenza è più forte che quattro anni di forno crematorio nazionale
fa, non tollerando più i direttori d’orchestra iraniani che si
accusino i monaci invasati da loro armati, il rimedio rimane un Al
Qaida sempre più epigono della notte dei morti viventi. E pensare che
Zarkawi, ex-generalone, ucciso dalle bombe nel 2003, fu poi, redivivo,
colpito a morte dai marines tre anni dopo e che del suo successore,
Abu Masri, si è scoperto che sta da anni rinchiuso in un carcere
egiziano. Fa scoppiare di rabbia come ci facciamo fare fessi. Compreso
quell’ottimo Tommaso De Francesco del “manifesto”che, abbandonata per
un attimo il suo karma kosovaro della “contropulizia
etnica”, mentre non c’era stata nessuna pulizia etnica prima, ci
spiega quel che è qaedismo e quel
che non lo è. I taliban non più osamisti (e pensare che
furono proprio loro a offrirlo agli Usa nel 2001 e quelli
rifiutarono!) non lo sono, e neanche Hamas o Hezbollah, ma quelli
della “battaglia ideologica contro
gli infedeli”, quelli sì. Sull’Al Qaida iracheno, pur
smentito o comunque rifiutato da tutta la Resistenza, nonché dalle
grandi tribù dal Nord al Sud, il Nostro mantiene il riserbo. Bush
ringrazia al 50 per cento. Ma che fa. Conta aver dato un altro
surge, impeto, alla paura
universale, tanto funzionale a guerre globali e tagli di pensione.
Quella per cui una sposa occidentale si chiede ogni mattina se la sera
le toccherà raccogliere il marito col cucchiaino sotto qualche maceria
di Al Qaida, o tirarlo fuori da qualche lupanare elettronico di
pedopornofili, o correre dietro all’angolo per sottrarre la figlia
allo stupro del marocchino. Scoppia una tubatura d’acqua a New York e
la gente si ficca cento metri sotto terra, pensando che Osama gli sta
facendo il day after.
Intanto tutti gli abitanti del globo che non vivano tra prati inglesi
si guardano in tralice.
Contrordine, soci
Così, da luglio, si tornò alle vecchie
deleghe a Moqtada Al Sadr e alla sua epopea stragista: autobombe nei
mercati, a volte allestite direttamente dai corpi speciali
angloamericani, moschee di entrambe le confessioni che saltano, razzie
di sunniti poi sparati come bestie sull’uscio e ritrovati con il corpo
sminuzzato, o galleggianti in un Tigri che, anche grazie agli
sversamenti delle acque nere degli occupanti, da fonte millenaria di
vita, era diventato un fiume di veleni. Le centinaia di pescatori che
vivevano del fiume e, ai miei tempi, ne profumavano le rive illuminate
da bracieri ardenti e da feste di popolo, potevano aggiungersi ai
quattro milioni di spodestati e cacciati nel nulla. Samarra esplose di
nuovo. Quella volta la moschea d’oro, dopo aver perso la cupola, si
vide sgretolare i minareti. Le stesse mani, sempre alla disperata
ricerca della soluzione finale tramite guerra civile, bombardavano poi
le moschee sunnite. Gli statunitensi parevano quell’ubriaco che, con
la moglie che gli sbarra le porte di casa, barcolla di bettola in
bettola per quell’ultimo drink
che gli faccia scordare il fegato spappolato. Mentre si
aggrappavano alle farse delle conferenze di “riconciliazione
nazionale”, regolarmente irrise dai partigiani Baath e islamici al
recupero, del tutto virtuale, di esponenti dell’antico governo, con le
quali pensavano di ammaestrare sunniti e sciti tipo Abu Mazen e che
tutti sistematicamente schernivano, sempre più organizzazioni della
lotta armata si univano in fronti unitari islamico-laici,
guadagnandovi in efficacia e controllo territoriale. Izzat Ibrahim Al
Duri, il vice di Saddam che guida la guerriglia, ebbi la sorte di
intervistarlo per “The Middle East”, Alto, segaligno, rossopelo,
simile a un duro e giusto del West, si dilungò sulla congiura
iraniano-occidentale che stava allora per scatenarsi in guerra e che
prendeva di mira anche le conquiste sociali del paese pericolosamente
contagiose. Oggi, comandante riconosciuto della Resistenza, annuncia
celebrazioni su tutto il territorio nazionale per il 40° anniversario
di quella rivoluzione baathista del 1968 che avviò la nazione sulla
strada del riscatto, della dignità, della giustizia sociale, del
benessere. E, dunque, della demonizzazione imperialista.
Esempi iracheni per una Palestina unita
In Palestina, la rivoltante resa del
fantoccio Mahmud Abbas (Abu Mazen) ai trucidatori del proprio popolo,
vezzeggiato dagli aguzzini come un’ormai inoffensivo bambolotto che,
su comando, picchia il tamburo, con al seguito la processione dei
flagellanti convertiti alla teocrazia nazisionista, riceveva per
risposta le operazioni militari contro l’occupante delle forze, per la
prima volta riunite, delle Brigate dei Martiri di Abu Ali Mustafà, dei
Martiri di Al Aqsa e di Hamas, a conferma che l’unica difesa di un
popolo minacciato di estinzione è il massimo danno inflitto ai killer.
Di fronte allo sfacelo della dirigenza di Fatah e della cosca di furbi
e rinnegati che avevano inventato gli accordi di Oslo e la truffa dei
due Stati, tornavano a farsi concrete e diffuse le voci dell’unica
soluzione realistica alla permanenza di un sistema razzista ed
espansionista: lo Stato democratico unito, binazionale, con ebrei a
Kiriat Shmona e palestinesi a Gerusalemme e Tel Aviv. In Italia, il
governo che con gran gusto dell’ironia si definiva di centrosinistra,
non si accorgeva di nulla. O faceva finta. E se un D’Alema si
barcamenava tra una base di Vicenza e uno Scudo spaziale, da un lato,
e la temeraria strizzatina d’occhio a Hamas e Hezbollah, dall’altro,
pur di non restare del tutto infilzato nella
debacle dei suoi santoli,
tutto il resto della ciurmaglia bicefala del Palazzo, banda dei
diritti umani in testa, si avviava, obnubilata come i lemmi
d’Australia, al proprio salto di massa nel burrone.
Le
due, tre, cento Nassiriya del programma coloniale
Il baffino di Gallipoli, che ci tiene
alla sua barberia (presidenza delle Repubblica, o premierato “forte”,
una volta sgonfiato il vescicone Veltroni) ha capito che a dar
totalmente retta al branco di gangster con stelle a strisce, o di
Davide, si finirebbe nei guai. Cosa succederebbe in un elettorato, per
quanto imbrigliato da Amato e De Gennaro, per quanto manomesso nel
voto, che si vedrebbe arrivare in casa proprio quelle esecrate “due,
tre, cento Nassiriya” per aver dovuto la Folgore, con le “nuove regole
d’ingaggio” vaticinate dal pupazzo italiano del ventriloquo Olmert,
ammazzare e farsi ammazzare in Libano e, poi, in Siria e altrove? Già
si regge a gran fatica il macello afgano. Vuoi vedere che altre impres
del genere, a rischio sempre più elevato, ti allargano il presidio di
Vicenza alla penisola intera? Già, perché, oltre a ridurre ai
trafiletti interni (salvo quando c’è da pompare qualche eccidio dei
soci Al Qaida) l’immane orrore iracheno, che fa di Hitler un
massacratore bonsai, la simulazione bellica degli azionisti dell’
Anonima Genocidi Usa-Iran, serve anche a sottrarre alla vigilanza
degli antiguerra quanto si sta apprestando contro Siria e Sudan, Stati
arabi ancora non normalizzati, o spezzettati. Tragicamente – e qua va
tirato in ballo ancora una volta la stolta compiacenza dei sinistri
tutti verso gli stereotipi – mentre il solitario Michele Giorgio del
“manifesto” qualche luce ha saputo gettare sulla cospirazione
antisiriana che USraele e clienti vanno ordendo a forza di Al Qaida,
di tribunali Hariri e di provocazioni anti-Unifil contro Hezbollah, i
400.000 palestinesi dei campi e, obiettivo strategico, la Siria, sul
Sudan il fronte interventista è globale, va da Bush a Franco Giordano.
Hanno lavorato bene, tra strepiti su catastrofi umanitarie in Darfur,
compagnie di giro hollywoodiane, lobby parlamentari, “società civile”
e affamate Ong, per predisporci allo squartamento del Sudan. Sudan,
padrone delle acque del Nilo, di petrolio e uranio, sostenitore
dell’Iraq, amico e fornitore di una Cina da asfissiare,
imperdonabilmente, di fronte al modello ebraico, multiconfessionale e
multietnico come già la Jugoslavia e l’Urss. Ci sono il Ciad e il Mali
in mano ai francesi, Niger, Nigeria e tutto l’Ovest africano contesi
da vari occidentali, Uganda, Etiopia, Kenia alla mercè degli Usa.
Manca all’appello solo questo, che è il più grande paese del
continente e del mondo arabo. E allora si attivano tutte le formule e
formulette già collaudate in altre occasioni. Si inventano stragi
governative colossal ed esodi biblici, nelle quali, invece, su
contese endogene determinate da siccità e desertificazione (figlie dei
nostri giochetti col
clima), si sono innestate le solite finzioni etnico-confessionali,
materializzate da “movimenti di liberazione” pieni di dollari Usa,
euro e sterline. E’ successo in Jugoslavia, nell’Urss da smembrare, in
Somalia, in Iraq, in Libano. E, come sempre, l’Onu dà il suo
contributo sparando cifre di vittime a cazzo, puntando il dito contro
il governo da criminalizzare e facendo di George Clooney, Nicole
Kidman e Mino Reitano i suoi
testimonial umanitari. Ma noi, il “manifesto”, Bushisconi,
Prodinotti, i missionari, l’accademico eccelso e il bigliettaio della
corriera, siamo tutti convinti: il Darfur è un altro Kosovo, da dove
l’onesto reporter radicale Antonio Russo fingeva di vedere bambini
arrostiti allo spiedo dai serbi. In Darfur bisogna intervenire. Che lo
solleciti anche il Pinochet al cubo nella Stanza Ovale non fa
differenza. Intervenire, badate bene. Mica dicono, bombardare,
affamare, radere al suolo, rubare tutto. Sarebbe di cattivo gusto. Ci
fosse solo un minimo di coscienza politica, storica, logica e, per gli
informatori, professionale, si andrebbero a vedere le carte. Le altre
carte. Quelle degli Stati Canaglia. Ma ci siamo mai preoccupati di
leggere un testo di Milosevic (salvo che nella deformazione dei Solana
e Kouchner di turno)? Abbiamo mai analizzato un programma governativo
di Saddam, o un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Salute o
del Lavoro sulla situazione in quel paese? Abbiamo ascoltato padroni e
voci del padrone e ci siamo conformati. A dispetto di tutte le
turlupinature subite. E perché allora dovremmo scomodarci ad
ascoltare, oltre al vangelo di Langley, di Flavio Lotti, dei
comboniani di “Famiglia Cristiana”, di Giordano, anche quello che dice
il presidente sudanese, Omar el Bashir? Mica sono europei, no?
Cristiani, bianchi, occidentali, evoluti. E dunque coglioni e
complici. La nostra salvezza verrà dai “selvaggi”.
P.S. Quando ancora lavoravo a
“Liberazione”, in una puntata della rubrica “Mondocane” (allora
in linea, si fa per dire)
avevo parlato della coppia Pannella-Bonino come di “vampiri della
classe operaia”. I due dell’Avemaria, pur rappresentando
elettoralmente meno del partito maoista del Lichtenstein, ma autentici
guastatori nel nome di Wall Street e della Knesset, si stavano dando
da fare alla grande contro il referendum sull’estensione dell’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori. Annunciarono la solita querela
acchiappasoldi, non ricordo se per tremila, trentamila o trecentomila
euro. All’audace Sandro Curzi, direttore, la coda tra le gambe arrivò
fino al naso. Mi supplicò invano di fare ammenda. In qualche modo si
accomodarono. Corsero dei quattrini. Oggi la senatrice-ministro Emma
Bonino, qualcosa che solo ai pervertiti ricorda la vecchia della
casetta di Haensel e Gretel, annuncia le sue dimissioni dal governo
perché non salvaguarderebbe, ricattata dalla sinistra (sic!), lo
scalone ammazza-pensionati, i coefficienti peggiorativi e il limite
matusalemmico del lavoro per tirare il fiato. Insomma, o passa il
trucco dei giovani traditi oggi da sessantenni salvaguardati, giovani
che dovranno esibire sei decadi di vita e 36 anni di contributi,
quando a malapena riescono a raggranellare qualcosa dopo i
trenta-quaranta, o ci giochiamo la Bonino. E chi lo consentirebbe mai,
visto che da trent’anni i radicali, corifei ghandiani dei ghandiani
Bush e Olmert, fingono di essere e riescono a essere l’ago della
bilancia. L’avesse accettata quella querela, il prode “compagno
scomodo”! Quanti milioni di testi a nostra difesa avremmo avuto,
secondo voi? Certo, loro avrebbero sempre potuto portare Bush,
Montezemolo, Sharon e Francisco Pizarro.
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