|
Dal "Nuovo Medioriente" di Bush a un Medioriente arabo e
"bolivariano" ?
E, sullo sfondo, Bin-Cia...
Dal Libano
All'inizio era Cuba. Non è l'affermazione agiografica di
un acritico corifeo dell'ultima rivoluzione del
millennio passato e della prima di quello nuovo. E' un
pensiero che mi viene quando, scivolando il mio pullmino
lungo il serpente di buchi e macerie che gli israeliani
hanno tracciato sulla terra libanese vivisezionata, tra
gli spettri che si agitano nella polvere dei calcinacci,
a frugare, spostare, trasportare, sgomberare,
ricostruire, vedo che qualcosa come uno su cinque ha una
maglietta con il Che. E tantissimi hanno una maglietta
inedita, fiorita tra le fucilate e i razzi sparati agli
invasori, con sopra l'inconfondibile volto sorridente
con il basco. Rosso, stavolta, non nero con la stella.
Avete indovinate, voi cubani, venezuelani,
latinoamericani, bolivariani di sangue o di elezione: è
il profilo di Hugo Chavez. E non lo troviamo accanto al
Che solo qui a Khiam, dove gli israeliani hanno
incarcerato e seviziato per 18 anni patrioti libanesi
senza mai processarli, da dove furono cacciati da
Hezbollah nel maggio del 2000 e dove si sono riavventati
con le bombe a grappolo, all'uranio, al fosforo, per
cancellare fino all'ultima pietra la testimonianza di
quelle efferatezze. E neanche solo a Bint Jbeil, la
Stalingrado di 30.000 abitanti, tutti combattenti o,
quanto meno, resistenti, che per 33 giorni hanno
impedito a uno degli eserciti più potenti del mondo di
conquistare queste loro case, queste loro terre, questa
loro dignità e che ora s'infervorano come formiche a
ridare vita a un mare di macerie. Il Che, Chavez,
qualche Fidel, perfino qualche Evo, sono stati, accanto
all'onnipresente Hassan Nasrallah e all'iniziatore del
riscatto proletario scita, Musa Sadr, l'iconografia di
questa lotta, armata qui, e di masse incollerite verso i
loro regimi codardi e collaborazionisti tra Tangeri,
Algeri, Baghdad, tra Khartum, Cairo,Sanaa e Damasco.
Un
filo rosso, non solo di colore, che ha annodato una rete
intercontinentale, con i suoi capi a unire le coscienze,
i sentimenti, gli obiettivi delle resistenze resuscitate
in tutto il mondo. E' vero, molto va attribuito al
coraggio e alla lucidità di un presidente venezuelano
che, nella sua annosa tessitura del nuovo fronte
antimperialista e anticolonialista, in piena sterminio
delle città, dei villaggi, delle infrastrutture e delle
vite in Libano, a Gaza, in Iraq, ha voluto metterla giù
dura nei confronti dei guerrieri globali e permanenti.
E' andato a Damasco, "stato canaglia" da obliterare nel
prossimo giro non fosse per la bagnata ricevuta dal
popolo libanese, e a Tehran, obiettivo strategico finale
dei signori della guerra preventiva, superata l'attuale
fase di collusione-collisione imposta da un'invincibile
resistenza irachena, da quella rinascente afghana e
dalle vittorie dei partigiani in Libano. Ed è rimasto
negli slogan, nei poster, nelle manifestazioni, nei
cuori che hanno accompagnato la travolgente
fenomenologia di questo riscatto arabo.
Qui,
tra l'Avana, Caracas, La Paz, Beirut, Baghdad, Kabul è
in atto un do ut des che vede la rinascita
latinoamericana innescata dal mezzo secolo di vittoriosa
resistenza cubana, garantita, come dice Chavez, dalla
resistenza dei popoli musulmani, trascinatori sempre più
spesso anche delle loro minoranze cristiane, resistenza
che ha preso per il collo l'idra imperialista dalle
mille teste e le ha tagliato gli artigli avidi di altre
vittime. Quante volte ho udito il leader dell'ALBA,
l'Alternativa bolivariana per le Americhe, rendere
omaggio al popolo iracheno che, in condizioni di
tragicità e ferocia imperialista senza precedenti nella
storia, con la sua resistenza, proprio come Cuba, dà
esempio e, soprattutto, tempo di crescita e
consolidamento ai paesi nel mirino degli aggressori e
rapinatori. E viceversa, quel Che sulle mille e mille
magliette dei comunisti libanesi (13 martiri nella
guerra all'aggressore) e dei loro fratelli di lotta
hezbollah, su quelle dei cristiani patrioti di Michel
Aoun, di Amal di Nabi Berri, quei Chavez e quei "patria
o muerte, grido mai logoro di un intero mondo alla
riscossa, sono come le ali di un'emancipazione politica
e ideologica che da quei simboli, da ciò che
rappresentano, ha tratto l'ispirazione e l'impulso a
fare un mondo giusto e libero. C'è di sicuro una
tradizione di solidarismo islamico nello straordinario
lavoro di sostegno e riscatto sociale degli hezbollah
nella aree da loro amministrate, oggi polverizzate da
una ferocia che s'illudeva di separare così il civile
dal combattente che lo difendeva. Solidarismo e
responsabilità sociale che ora si esaltano - Stato
libanese totalmente latitante e con le forze dell'ONU
mandate a "difendere Israele" e "disarmare hezbollah"
(!) - nel sostegno alle vittime e in un intervento
ricostruttivo che ha del prodigioso. Ma c'è una
parentela ideologica, al di là di tutte le etichette
della perversione semantica occidentale: integralismo,
fanatismo, terrorismo. Da che pulpito! A testimoniare
questo scambio non ci sono solo le magliette con le
effigi amate, ma quello che ci raccontano gli stessi
hezbollah, oltre naturalmente alle forze laiche e
progressiste, su cosa gli è venuto dalla lezione di Cuba
e del Venezuela, sia tra i loro esclusi e diseredati,
sia nell' offensiva anticapitalista e antimperialista.
E' questo, forse, che sta alla base dell'armonica
coesistenza e collaborazione tra comunisti e hezbollah,
tra laici e religiose in Libano: la consapevolezza di
stare nella stessa trincea contro la reazione, le
barbarie.
Quando ero in Libano anni fa per commemorare con il
Comitato "Per non dimenticare Sabra e Shatila" di
Stefano Chiarini l'efferata strage di Sharon, erano
proprio i giorni dell'attentato alle Torri Gemelle.
Mentre in Italia ci abbiamo messo cinque anni ad
accettare qualche increspatura alla ferrea adesione alla
versione ufficiale martellata dagli stessi autori su
un'opinione pubblica, anche di sinistra, del tutto
ossequiente, qualunque esponente politico arabo
incontrato già allora marchiava l'orrenda provocazione
con la saggezza dei popoli che avevano sofferto sulla
propria pelle la natura criminale degli stati canaglia
colonialisti: "Se lo sono fatti da sè". Glielo dicevano
la storia, la logica, un cui prodest abbagliante
come un cristallo e, poi, con l'avanzare di una
coraggiosa e scrupolosissima controinformazione, i
fatti. Ed era la convinzione diffusa e ferma dei popoli
non obnubilati del Sud del mondo. Una grande conferma
della verità su quell'invenzione perfida, strumentale ed
autoassolutoria venne implicitamente da un convegno
storico voluto da Fidel Castro all'Avana nel giugno del
2005: la conferenza mondiale sul terrorismo, quello
vero, quello della Cia, della Scuola delle Americhe,
della mafia cubana, di Posada Carriles e Orlando Bosch,
di Henry Kissinger, Eliott Abrams e John Negroponte, ai
danni di un continente la cui richiesta di diritti, di
sovranità e di giustizia era stata annegata, al pari dei
popoli arabi, in un oceano di brutalità e di sangue. E
oggi a condividere la certezza che i fatti ai quali si
deve attribuire l'inizio dell'apocalisse imperialista si
è erto anche Hugo Chavez che, vista una documentazione
inoppugnabile (è disponibile a tutti nelle ricerche del
"Movimento per la verità" negli Usa e nell'agghiacciante
evidenza filmata di documentari come "In Plain sight",
"Loose change" e idel video italiano di Massimo
Mazzucco "11 settembre"), ha chiesto che si
avviasse finalmente un'indagine internazionale sui fatti
di quel giorno.
A
mortificare tutti coloro - politici, media - che,
ponendosi in posizione formalmente pacifista e,
addirittura, antimperialista, si sono invece accucciati
nel mefitico calduccio del consenso di regime, la
coraggiosa rubrica di Milena Gabanelli "Report" (Rai 3)
ha riproprosto il primo di questi documentari domenica
24 settembre. Se qualcuno avesse ancora avuto qualche
dubbio su chi avesse aperto le porte dell'inferno l'11
settembre del 2001 e successivi episodi analoghi, di
fronte a questa documentazione non se li può più
permettere. E non potrà più permettersi ambiguità e
cerchiobottismi nel valutare gli effetti che i potenti
delle armi e delle multinazionali hano voluto far
seguire alla leggenda del "terrorismo islamico": il
genocidio dei palestinesi, la distruzione nel sangue di
una civiltà e di un popolo, l'Iraq, l'attacco stragista
al Libano, la colonizzazione dell'Afghanistan e, di
seguito, la riconduzione all'ordine dell'America Latina,
Cuba e Venezuela in testa. E, conseguentemente, non
potrà più accampare riserve, dubbi, equivoci quando si
tratta di schierarsi tra chi resiste, da Cuba a Beirut,
e chi ruba, distrugge e ammazza. Il re è nudo. Non per
nulla hanno dovuto ammettere che Osama bin Laden è
morto. Morto nudo.
|