|
DA BAGHDAD A
CLICHY-SOUS-BOIS PASSANDO PER DADA.
LA
RIVOLTA TRADITA
DELLA BANLIEUE
Non sono per niente un critico d’arte, ma
considero gli artisti - pittori, scultori, poeti, cinematografari,
creativi vari - compagni di strada dei giornalisti, benintendendo che
questi ultimi sono quelli che più frequentemente sono “compagni che
sbagliano” o, meglio, che deformano e mentono. Conoscete forse un
cronista migliore di Toulouse Lautrec, o un elzevirista all’altezza di
Fidia?
L’arte racconta il suo tempo, la vita,
gli accidenti, i sogni, le voglie, le paure, l’inconscio, le lotte, le
infamie, le bellezze, proprio come si suppone che lo facciano, nel loro
infinitamente più piccolo, i giornalisti. I giornalisti, ma non solo.
Quella parte di umanità che si fa protagonista, come gli artisti, di una
fase, anche solo di un momento significativo, interpreta qualcosa che la
gente in genere non afferra, ma che stava nell’aria, nel respiro, nel
sangue. E quel qualcosa lo racconta al mondo, con il suo agire, i suoi
corpi, le sue barricate, i suoi proclami e le sue imprecazioni, i suoi
martiri. Così in Francia, come sempre foriera di rotture e cose nuove,
in questo autunno-inverno dello scontento e della rivolta.
Gli artisti sono come il platonico mondo
delle idee rispetto alla bruta realtà di noialtri prosatori. E ne hai
consapevolezza andando di questi tempi a vederli in quel mostro tanto
spocchioso quanto già invecchiato e arrugginito, il Beaubourg, che il
devastatore di ambienti per eccellenza ha piantato nel cuore di uno dei
più bei quartieri di Parigi. Un intruglio di ferro e vetro che della
supposta grandeur fa
interpretazione da videogioco. Lì è in corso una megamostra del Dada, o
dadaismo, di quella espressione di creatività che spunta a Zurigo nel
1916 e poi, come soleva, si proietta a Parigi, diventa un manifesto, fa
volare una bufera di stracci, per poi estinguersi, o piuttosto evolversi
in surrealismo, nei primi anni ’20. Se ne parla come di un fenomeno
essenzialmente francese solo perché il capofila si chiamava Duchamp e,
lui pronube, Parigi divenne la capitale del movimento, anche se poi
moltissimi erano forestieri: Man Ray, Picabia, Tristan Zara, Max Ernst e
gli un po’ forzatamente acquisiti satirici tedeschi Dix e Grosz… E se ne
esalta la natura del tutto originale grazie al noto chauvinismo dei
galli, visto che in Italia da tempo era esploso il Futurismo, che di
rotture ne aveva già fatte di simili, ma più vaste, consapevoli e
profonde, tanto da informare di sé gran parte del globo terracqueo.
Perché parlare di Dada nel contesto di una
visita alla banlieue apparentemente assopita dopo la grande rivolta? Di
questo Dada, così chiamato perché si raffigurava come neonato
balbettante (dada…dada) che, spoglio di tutto il passato, di ogni
tradizione, soprattutto formale, andava a inventarsi una comunicazione
estetica e psicologica interamente inedita, senza motivazione, senza
progetto ( si fa per dire), ma affidata solo a un’istintiva spontaneità?
Il movimento si risolse in molte trovatine ad effetto (non dissimili dal
pop e op della seconda metà del Novecento), ma anche in intelligente
rotture come gli spaesanti filmati di Picabia, dagli effetti speciali
poveri e mirabolanti, o nei più consapevoli gesti di denuncia
dell’esistente che sono gli spietati morsi grafici dati dai tedeschi
Grosz e Dix alla borghesia, ai generali, ai preti, ai capitalisti della
purulenta Germania di Weimar. Ma perché vedendo questi scarabocchi, i
calligrammi di Apollinaire presi a versetti sacri dal gruppo, i
primissimi dipinti informali, i primi autentici sputi sulle marsine di
una maniera incartapecorita, post-impressionista e non ancora picassiana,
ma anche su quello che di buono millenni di piuttosto rigidi (in
Occidente) parametri estetici e paradigmi comunicativi avevano espresso,
veniva abbastanza facile il riferimento a quanto era successo nelle
periferie delle grandi città francesi? Qui come c’era una possente
spinta a far piazza pulita, a liberarsi dell’edificio
socio-politico-culturale nel quale ti trovavi ristretto, far tabula
rasa, ricominciare tutto daccapo, affidarsi all’istinto, al gesto
spontaneo ed estetico, gettare, bruciare tutto facendo affidamento solo
su quanto ti bolliva sotto la pelle.
Tirato per i capelli? Non so, a me è
venuto così. E come il Dada trovò poi maturazione in un’interpretazione
originale ma compiuta dello
Zeitgeist , con il grandissimo surrealismo, massima novità in
quattromila anni di creatività artistica, dal conscio all’inconscio,
dall’apparente alle ombre proiettate sulla roccia della grotta
platonica, così a me pare si possa auspicare e aspettare, a tempo
debito, una fioritura di eversioni e realizzazioni che germogli dai semi
lanciati nelle periferie francesi durante quelle fatidiche tre settimane
di novembre. Non è forse lecito dedurre dall’impronta lasciata dal Che e
dai suoi compagni nel suolo della foresta boliviana e nel conscio e
inconscio di milioni di esclusi laggiù e nel mondo, al tempo definita
velleitaria e autodistruttiva (termini con i quali si è voluto
sterilizzare anche la rivolta francese), non è forse lecito dedurne lo
scatenamento di massa in Bolivia che ha cacciato due presidenti di
seguito e portato al trionfo del candidato della sinistra radicale e,
addirittura, indigena? Non nascono, forse, dall’esempio di Cuba,
resistente e avanzante da mezzo secolo, gli impulsi alla lotta e quella
nuova coscienza di massa che ti dice che si può? E credete davvero che
l’Iraq, la sua straordinaria resistenza a un potere che veniva detto e
percepito invincibile, non abbia niente a che fare con il sollevamento
di migliaia di figli di arabi e africani del novembre parigino? La
rivolta dei neri di Los Angeles nel 1992, che si sostituì alle gang del
sottodominio interno e dei traffici criminali, proprio come i ragazzi
della banlieue hanno infranto il controllo sociale delle bande
malavitose, qui come ovunque inesorabilmente collegate ai repressori di
Stato, una rivolta come quella non pensate che si sia nutrita del
pensiero di Malcolm X e dell’esempio delle Pantere Nere (eliminate solo
con uno sterminio di massa) di un quarto di secolo prima? E che non
abbia trovato amplissime ragioni nella regressione razzista e
reazionaria degli anni di Reagan e Bush padre, quando si erano di nuovo
serrate le porte del riscatto appena socchiuse? E non credete che nella
banlieue in fiamme si trovi anche la risposta a un analogo arretramento
dopo gli anni del welfare includente di Mitterand e Pompidou? Diamo
tempo al tempo, le correnti della storia non è che non ci siano quando
non emergono in superficie e la riduzione della sollevazione politica a
cieca jacquerie, negandone il carattere di anticipazione, è scaltro
lavoro del potere.
Mi dicono, Aristide, Jean, Yahya, Sophian,
Kamal, amici di Bouna e Zayed, i due ragazzi fulminati sulla centralina
del trasformatore il 27 ottobre, battesimo dell’insurrezione, che quella
era una giornata come oggi: rigida e biancastra, con l’aria di
cristallo. Ideale per darsi una mossa tirando quattro calci a un
pallone. Sono tra i 15 anni (come Bouna) e i 17 (come Zayed) e portano
felpe con cappuccio e Adidas o Nike. Figure transnazionali. Hanno i
capelli a disegno geometrico, proprio Dada, scolpiti a scendere la
cresta centrale come una gradinata di Montmartre, come quelli di Bouna,
rimasto unico elemento di riconoscimento di un corpo carbonizzato.
Insieme facciamo il percorso di quel giovedì, giorno di quelle vacanze
autunnali che si fanno in Francia. Giorno di Ramadan a Cliché- Sous-Bois
e in tutte le periferie dei 10 milioni di immigrati, Ramadan che tutte
le famiglie di questo comune, appeso al vuoto che dilaga dagli estremi
contrafforti di Haussman, il rifacitore di Parigi, osservano con
precisione. C’è tempo per i ragazzi fino alle sei di sera, quando il
digiuno si rompe e tutta la famiglia, come usa da 1400 anni, sta riunita
e il pasto diventa una festa grazie all’essere tutti insieme e alla
lunga attesa. Bouna Traoré e Zayed Benna con tutti gli altri. Zayed
quasi un capetto, visto che, come la fotografia attesta, è l’unico che
sa lanciare un sasso fino al 16° piano dei palazzi dell’agglomerato
Rabelais. Non è quella italiana la periferia metropolitana francese.
Nasce male, malissimo sul piano sociale, recinto per sottoimpiegati,
sottopagati, esclusi etnici e sociali, ma nasce da una tradizione
urbanistica che non ha sofferto il degrado delinquenziale della nostra,
ancora salvaguardata dal razionalismo italiano e poi pervertita da
speculatori e geometri democristiani dagli anni ‘60 in su. E
Cliché-Sous-Bois, o la vicina Libry Gargan, dove c’è un campo sportivo
migliore che nel comune di Bouna e Zayed, con tanto d’erba e porte in
piedi, non è certo Tor Bella Monaca o Scampia. Apartheid di muri
invisibili, ma strade ampie, neanche l’ombra delle buche veltroniane e
rutelliane, giardini, filari d’alberi, centri sportivi, traffico
sostenibile, edificio brutti ma di qualità. Tanti locali etnici,
animatissimi. L’aggressione di classe si manifesta nell’esclusione,
nella repressione, nella militarizzazione, più che nell’orrore
urbanistico.
Alle 17 i ragazzi si avviano dal campo e,
per far prima, come ora che ripetiamo la camminata, attraversano un
cantiere edile. Da lì vicino un addetto alle pompe funebri del vicino
cimitero li nota e subito avvisa la polizia. Questa, dopo la tragedia,
si giustificherà affermando che l’uomo gli aveva espresso dei sospetti
su un’apparente volontà dei ragazzi di forzare un capannone del cantiere
per rubare chissacchè. Subito verrà la smentita, mai riportata: “Non ho
mai parlato di furti o capannoni; ho solo espresso ai poliziotti il mio
timore che i giovani, viste le numerose buche nel cantiere, si potessero
far male”. Fatto sta che una squadra di flic, ovviamente tutti
etnicamente puri francesi, si precipita sul posto. I ragazzi si avvedono
dell’inseguimento mentre stanno attraversando un campo abbandonato e,
esperti di catture poliziesche e dei successivi maltrattamenti, oltrechè
consapevoli che sarebbero finiti comunque al commissariato per ore e non
avrebbero fatto ritorno per la fine del Ramadan, beccandosi anche le
rimostranze dei genitori, si buttano in fuga. Perlopiù sono senza
documenti, i preziosi papiers,
durati tanta ignobile fatica, stanno nei cassetti di casa,
nella borsa di mom, guai
a perderli, come ai ragazzi succede.Tutti meno tre – Bouna, Zayed e il
curdo turco Muhittin – si fanno via prendere e dopo ore verranno
recuperati dalle famiglie al commissariato. Così, solo perché correvano.
I tre, determinati ad evitare come minimo l’ennesima violenta
umiliazione, essere sbattuti per terra, chiamati “pagliacci”, “negri”, o
il famoso racaille
(feccia) del ministro fascistizzante Sarkozy, ancora speranzosi di
farcela per la cena del Ramadan, raggiungono il muro di cinta del
cimitero. Ma lì si è appostata un’altra pattuglia e la morsa sta per
chiudersi. Il muro confina con una centralina elettrica e prosegue. I
tre lo superano e per mettersi definitivamente al sicuro, con la molla
della paura sotto le suole, si inerpicano sul tetto di un gabbiotto che
custodisce il trasformatore, sparendo, ormai è buio, alla vista degli
inseguitori. Lassù, l’epilogo di una vita nell’apartheid e nel terrore
dei flic.Un qualche movimento maldestro innesca una terribile scossa.
Bouna e Zayed si accendono come fiammiferi e finiscono inceneriti.
Muhittin se la cava con ustioni di terzo grado, la pelle fusa con i
vestiti e, con le ultime forze, urla l’allarme. Passano ore prima che i
gendarmi e poi i famigliari sopraggiunti, non le ambulanze o i pompieri,
mai chiamati, riescano ad individuare quel tetto maledetto e i tizzoni
umani che vi sono incollati. La sera stessa Clichy sous Bois e poi mezza
Francia metropolperiferica iniziano ad eruttare una collera di massa e
di decenni.
Il linguaggio degli amici delle due
vittime dell’accanimento persecutorio di uno Stato che deve alimentare
per i padroni l’esercito di riserva di disposti a qualsiasi
sfruttamento, compreso i traffici a rischio della loro ricchezza
segreta, sarà anche elementare. Ma è ben altrimenti consapevole e maturo
di quanto ci hanno riferito commentatori e analisti, che fossero i
paternalisti sinistri della “rivolta disperata ed autodistruttiva”, che
gli psicoterroristi destri dell’”eversione ciecamente violenta”
nell’ambito dello “scontro di civiltà”. Perché distruggere le automobili
del quartiere, i centri sportivi del quartiere, gli uffici della
assistenza sociale del quartiere, supermercati e scuole del quartiere, e
non piuttosto assediare i palazzi del potere razzista e oppressivo? Una
domanda ossessivamente ripetuta e buona solo ad inquinare la percezione
dei fatti, delle motivazioni, degli obiettivi. Buona a consolare della
propria inerte e spocchiosa assenza chi - ed è tutta la sinistra
italiana – non ha ritenuto il movimento della banlieue degno di una
visita, un contatto, un confronto, un rapporto. E con grande lucidità e
non indifferente coscienza delle cose come stanno che questi ragazzi mi
hanno spiegato: il nostro nemico diretto è il flic che qui si presenta
proprio come gli americani si presentano in Iraq: incursione,
militarizzazione, occupazione, emarginazione e repressione fino alla
morte. Un immigrato di prima, seconda o terza generazione, con tanto di
papiers, ha sessantanove possibilità più di un francese etnico di essere
bastonato, 40 volte più di essere arrestato, infinite volte più di
essere offeso e umiliato.
“Noi siamo colonizzati interni. E gli
strumenti della colonizzazione sono la guerra poliziesca da un lato e la
gabbia di un’inclusione escludente dall’altro. Un’inclusione solo
apparente, quella che ci vorrebbe far sentire in qualche maniera
partecipi della società tutta, inseriti nella corsa possibile verso i
trofei del consumismo, la moto, la macchina, l’abbigliamento alla moda
e, se sei davvero bravo, un posto di lavoro in fondo alla scala
gerarchica. In alternativa, uno spazio di sopravvivenza e connivenza sul
filo del rasoio offerto dalla malavita”. Ce lo dice la psicologa Fethi
Benslama, seconda generazione, che da anni si dedica a tempo pieno allo
studio dall’interno dei fenomeni di sofferenza e insofferenza nelle
periferie a predominanza immigrata. “Non ci si stupisca, perciò, che gli
obiettivi delle migliaia di “fuochi” siano stati le macchine, i centri
commerciali, le scuole: sono i simboli dell’addomesticamento, l’altra
faccia della repressione. Inclusione marginale e sugli aspetti più
effimeri e alienanti dello sviluppo, esclusione sostanziale sul piano
dell’identità della partecipazione, della soggettività, della politica.
L’aver compreso la corrispondenza dei due termini del binomio di
oppressione di classe è il segno di una coscienza politica, magari
istintiva, ma già sofisticata. Ed è questo comune identificare il nemico
nella sua doppia veste di esercito occupante che schiaccia e di Stato
paternalista che ti addormenta che ha saputo estendere, con una
sorprendente rete di comunicazione tra nascenti gruppi e associazioni,
nati nelle strade, la rivolta a tutto il paese. Se ne può trarre la
prospettiva che i ragazzi delle Molotov di questa stagione, potranno ben
essere le avanguardie di un movimento più organizzato e teoricamente
ferrato domani. Sono molte le strutture associative nate dalla rivolta.
Anche perché non c’è nessun altro che li rappresenti.”
La
rivolta tradita.Già,
nessun altro. Quando qualche frammento della sinistra e un po’ di gente
perbene ha cercato di mettere in piedi, a Parigi, una manifestazione
contro i metodi repressivi di Sarkozy, contro il razzismo e per
un’apertura alle ragioni della banlieu, si sono viste duemila persone.
Non è che le sinistre tradizionali e quelle trotzkiste si siano
dimenticate di quel dieci per cento di francesi giunti da oltremare. Non
è nemmeno che si trovino nella nota difficoltà di categorizzazione e
rappresentanza rispetto alla tradizionale analisi di classe con al
centro l’operaio fordista. E forse non le si può neppure accusare di una
trascuratezza con sottofondo razzista. E’ che, come le nostre, da D’Alema
a Bertinotti a molta parte degli extraparlamentari (pure totalmente
assenti sul campo in Francia), le sinistre francesi, inserite come sono
strategicamente nella configurazione di sistema borghese e capitalista,
hanno una maledetta paura, si direbbe ormai un’alterità antropologica,
rispetto alla radicalità, all’antagonismo assoluto, nella sostanza delle
cose ( cioè al di là di Nike e Fast Food), delle classi anagraficamente
e politicamente emergenti della banlieue. La incompatibilità di queste,
consapevoli della strumentalità idiota del discorso sulla “violenza che
non paga”, con i progetti di “fiancheggiamento correttivo” e
rigorosamente “non violento”, è assoluta.
Lo rivela anche la divaricazione totale
delle due parti rispetto alla problematica guerra e terrorismo in Iraq.
Se la diffamazione della resistenza irachena in terrorismo, a seguito
della scientifica manipolazione di quest’ultimo da parte degli autori di
guerre, è riuscita ovunque (da noi con capofila particolarmente
ripugnante Bertinotti, pur presunto erede di forze che stavano a fianco
delle lotte anticoloniali) a limitare la diversità delle sinistre a
pigolii contro la guerra globale, sempre nella fondamentale accettazione
dello sciagurato paradigma della “spirale guerra-terrorismo”, tra le
ultime generazioni di immigrati in Francia l’effetto è stato contrario.
E l’incredibile, provocatoria dichiarazione dell’Assemblea Nazionale a
sostegno del “ruolo positivo della presenza francese in Africa”, negando
addirittura l’elemento di identità che, unico in Francia, era dato dal
diritto alla rivendicazione almeno morale e politica, non ha fatto che
rafforzarlo. All’Università di Saint Denis, istituto sgrauso e
dilapidato, ma incredibilmente vivace, che nella banlieu della Parigi
Nord è fucina di elaborazione e mobilitazione per studenti e docenti
dalle pelli più varie, ma anche per tutta la comunità immigrata, la
comunicazione politica si esprime in seminari autogestiti, assemblee di
quartiere, centri culturali alternativi e un’inondazione di
pubblicazioni: Marx, Lenin, il Che, Fidel, Samir Amin, Franz Fanon,
Malcolm X, Edward Said con tanti palestinesi e un rigoglio di bollettini
di gruppi e gruppetti. La comunicazione non manca e neanche lo scambio
con realtà nel mondo arabo, in Africa, in America Latina e con le
sinistre radicali del mondo anglosassone.
Non che tutta questa cultura, questi
aggiornamenti siano necessariamente filtrati fin tra i lontani tiratori
di bocce di Lione o di Rennes. Ma l’eco di un popolo come quello
iracheno che rivendica la sua storia e, a buon diritto, sa tener testa
alla mostruosità barbarica e tecnologica della più grande potenza del
mondo, che supera le atrocità più tremende che mai siano stati inflitte
a esseri umani, è arrivata. E con questa eco, la consapevolezza che, al
di là delle differenze quantitative, le masse da soggiogare e sfruttare
– o liquidare - di questo pianeta si trovano assoggettate a una
strategia di ricolonizzazione che, interna o a spese di altro paese,
rivela caratteri assolutamente paralleli e integrati.
La “terrorristizzazione” dei partigiani
iracheni qui non è passata. E neanche, dunque, la sua alqaidizzazione.
Anzi, per la banlieue che, dopo l’incendio, oggi pare covare le energie
per un salto più lungo, i mujaheddin del paese tra i due fiumi sono
l’equivalente di quello che per la generazione giovane dai 40 ai 20 anni
fa erano i Vietcong: il fronte avanzato dove ci si gioca il destino.
Quello che ti fa sentire parte di una vicenda enorme, la sola in cui
trovi anzitutto quanto più di ogni cosa ti era sottratto: l’identità di
classe da assumere e da far riconoscere. Inevitabilmente a forza di
botte
|