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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

DIAMO RETTA A FIDEL!

(Pensando a Cuba e al Vietnam, qualche riflessione su certi integralismi e certi abbagli).

 

05/12/05

 

E’ stata una pioggia benefica di cannonate quella che Fidel Castro ha sparato giorni fa contro un fenomeno che da qualche tempo andava deturpando la bella faccia della rivoluzione cubana. Rubando il tempo ai soliti malintenzionati che ricicciano tra le pieghe della comunità filocubana internazionale ogniqualvolta scoprono, o pensano di scoprire, qualche magagna nella vita, politica e società dell’Isola Grande, il comandante ha messo in prima e più autorevole persona il dito su una piaga che molti di noi, non accecati da fanatismo fideista, avevano individuato e visto allargarsi nel corso degli ultimi anni: la comparsa di una nuova classe di gente che se la passa a Cuba senza lavorare, sguazzando tra “speculazioni, malversazioni e altre forme di arricchimento illegale”. Con l’implicita conseguenza che quanto questi nuovi ricchi, parassiti soprattutto del settore turistico e di certa burocrazia, grazie anche alla doppia valuta dollaro peso, sottraggono alla ricchezza nazionale si traduce in condizioni peggiori per il resto della popolazione.

 

Fidel non la manda a dire e punta il dito contro corrotti e corruttori, contro borsaneristi e trafficanti, contro coloro che si possono permettere di gozzovigliare in acquisti di lusso nel mercato nero (o del dollaro), ma anche contro “un gran numero di cubani che da questo mercato nero, piuttosto che dai negozi di Stato, traggono indebitamente generi di prima necessità”.Fatta la sua denuncia, il comandante ha dato il via a una grande campagna che potremmo definire di moralizzazione e bonifica  di quanto ha potuto svilupparsi approfittando delle gravissime ristrettezze derivate dal Periodo Especial, quando, con un popolo sull’orlo della sopravvivenza in seguito al  carognesco bloqueo e al dissolvimento del campo socialista, lo Stato ha dovuto piegarsi a necessità drammatiche e assolutamente prioritarie. Ora, grazie al valore di questo popolo, ma anche grazie all’espandersi dei valori della rivoluzione in ambiti più vasti nel continente indio-afro-latinoamericano, a Cuba si vive meglio e l’emergere di profittatori e corrotti non deve più essere tollerato.

 

Ed ecco la morale dell’ennesima bella favola che l’isola che c’è ci racconta. Dire pane al pane e vino al vino, saper fare autocritica, affrontare con onestà errori e manchevolezze. Cose che difettano strutturalmente e storicamente a quasi tutta la sinistra italiana e di cui dunque Cuba ci offre uno splendido esempio. Dovrebbe essere una lezione per tutti coloro, tantissimi che, proclamando a ogni piè sospinto la loro adesione totalitaria a Cuba “senza se e senza ma”, esprimono magari passione, ma non rendono omaggio alla verità e, di conseguenza, a Cuba. E’ con disagio, condiviso dai compagni cubani, che ricordo certi visitatori adoranti  che già solo a vedere una pecora si esaltavano a quanto fosse più bella di quelle nostrane giacchè era cresciuta nella rivoluzione! Oppure quegli altri che se solo osavi ironizzare sugli eccessi demagogici di qualche burocrate locale, indicavi l’imperversare delle jineteras, oppure rilevavi la sostituzione dei tetti di ecologica foglia di banana con quelli micidiali di amianto, ti davano del sabotatore, sodale della CIA. Il vero amico ti dice le cose come stanno e quindi, se la tua fedeltà deve essere sicuramente senza “se”, specie in tempi in cui su Cuba, sempre più forte e contagiosa, promettono di abbattersi in misura virulenta le canagliate genocide dei terroristi nordamericani, ha anche il dovere di dire dei “ma” ogni qualvolta se ne presenti la necessità. Magari per essere smentito, magari per constatare che loro già ci avevano pensato. Mai con l’atteggiamento dell’eurocentrico grillo parlante, ma con l’affettuosa preoccupazione del compagno che, in tutto il mondo, è pari a tutti i compagni. Con cura deve essere evitato che ci si renda speculari ai diffamatori di professione, come anche agli ipocriti che, infiltratisi tra noi travestiti da amici e solidali, non perdono occasione per minare la nostra fiducia e la nostra identificazione con Cuba pompando o addirittura inventando errori, difetti, cadute, formalmente deprecati, ma intimamente goduti. Pensiamo a gente come Antonio Moscato, Roberto Massari, con il loro rancore per non poter più fare i diffusori a proprio arbitrio degli scritti del Che, o Aldo Garzia, con la sua venerazione per i dissidenti, “addirittura Premi Sakharov” (come tanti gaglioffi anticomunisti). Senza contare che, rappresentando come paradiso indefettibile una realtà complessa, ma valida, esemplare, addirittura eroica, che poi a sguardo ravvicinato non risulta e non può risultare del tutto indefettibile e paradisiaca (sappiamo bene quanto poco possa essere pranzo di gala una cosa grande, difficile e lunga come una rivoluzione), a questa realtà e ai suoi portatori e protagonisti non facciamo proprio nessun  favore. E non ci rendiamo credibili a chi si avvicina a Cuba con spirito più neutro e meno in grado di contrapporre a magagne imposte dalle asperità di una guerra di classe che non finisce mai (specie quando è alimentata da un  poderosissimo nemico pronto a ogni atrocità), la conoscenza e l’apprezzamento delle infinite conquiste di questo popolo e della sua direzione. Forse è per questo che quasi tutte le realtà organizzate che lottano al fianco di Cuba e ne disseminano il messaggio trovano così scarso riscontro tra i giovani. Abbiamo mai calcolato l’età media dei sostenitori organizzati di Cuba, vale a dire di una delle due rivoluzioni più giovani del mondo? E’ con la prosa, più che con l’epica, che si persuadono le persone serie.

 

A questo proposito non si può non mettere fortemente in discussione quanto alcuni veterani della solidarietà con il Vietnam vanno diffondendo in questi giorni in merito al succedersi di notizie davvero sconcertanti circa il cammino intrapreso ultimamente dalla Repubblica che ancora si definisce popolare. L’ultima in ordine di tempo è quella, davvero sconvolgente, relativa alle missioni militari che il governo vietnamita sta inviando nelle scuole dell’esercito aggressore e torturatore degli Stati Uniti. Si tratta di un vero e proprio programma di formazione e aggiornamento che i quadri superiori dell’”Esercito del Popolo” vanno a seguire negli USA, cioè nel paese che per quasi quindici anni aggredì, devastò e massacrò il Vietnam, ne uccise in guerra tre milioni di abitanti e ne continua ad ammazzare a centinaia di migliaia ancora oggi con gli effetti duraturi dell’Agente Orange, la diossina versata a milioni di tonnellate su tutto il paese. Un paese capofila di uno schieramento di stati canaglia che oggi stermina il popolo iracheno e domani rischia di farla finita con questo pianeta, come costantemente ripetono Fidel e Hugo Chavez. Non è che l’ultimo episodio di una vera e propria riconquista imperialista e capitalista di quello che è stato il paese-simbolo, il punto di riferimento ineguagliabile, per le lotte e le speranze di un paio di generazioni in tutto il mondo. Come Cuba, il piccolo Davide che sconfigge il mostruoso gigante. Solo che Cuba ha tenuto duro e oggi sta, per così dire, cubanizzando un intero continente…

 

Di fronte al compiacimento dei media  statunitensi devoti ai nazisionisti di Bush e allo sconcerto degli autentici amici del Vietnam, c’è chi, in particolare su “Liberazione”, giornale di ogni paradosso e di ogni depravazione, si è voluto spendere in un’appassionata, addirittura trionfalistica difesa del Vietnam e, perfino, nella riaffermazione categorica delle sue virtù politiche che spiegherebbero la “sorprendente rapidità con cui oggi il Vietnam sta risalendo dal sottosviluppo e sconfiggendo la povertà”. Forse del voltagabbanismo i capi di RC hanno fatto la massima delle virtù. L’antico sostenitore del Vietnam combattente si esercita in autentiche acrobazie logiche e al tempo stesso in una commovente buonafede e in tantissimo malofideismo, per rivendicare intelligenza politica e coerenza socialista alle dolorose e sicuramente non indispensabili – checchè si voglia giustificare - svolte verso un capitalismo senza se e senza ma, se non per il fatto che qui lo governa un partito unico. Rasenta un’ingenuità degna di miglior causa quando arriva a chiedersi se “c’è qualcuno sano di mente che pensa sul serio che il Vietnam, dopo trent’anni di guerra contro le più grandi potenze imperialiste del pianeta, sia ora in procinto di stringere un’alleanza militare con gli Stati Uniti, in vista di una futura guerra contro la Cina?” Perché, i popoli dell’Est europeo non hanno lottato contro il nazismo prima versione e ora sono complici di quello seconda versione? E arriva, il Nostro, forse inconsapevole, al rovesciamento dell’assunto quando si esalta alla constatazione che il Vietnam “sta entrando nel temutissimo club delle tigri asiatiche, guidate ora da due stati governati dai comunisti…” Pensate: tigri asiatiche, quintessenza del capitalismo più selvaggio, ingrassatosi sulla pelle dell’alienazione psicofisica di sconfinati eserciti di operai e contadini e crollato miseramente al primo colpo di spillo imperialista, guidate da “comunisti”! Comunisti che guidano esplosioni capitaliste? Ma che comunisti sarebbero? Pare di sognare. Ma forse, a far superare al nostro “veterano vietnamita” (corrente L’Ernesto di Rifondazione Comunista) contraddizioni, al tempo logiche e di classe, di proporzioni elefantiache è quel meccanismo funambolico che consentì al partito d’origine, nei tempi della deriva, a vedersi doppio e ossimorico “partito di lotta e di governo” e che oggi permette ai suoi compagni di area di deprecare Bertinotti col caffè del mattino, per allinearsi ai suoi contorcimenti destrorsi con la tisana della notte.

 

Caro compagno Sergio, io nel Vietnam, anche da me amato, ci sono stato qualche anno fa e di quella sbronza bertinottiana, che ti fa passare per emancipazione la restaurazione del mercato, delle privatizzazioni, dello sfruttamento –  qui spietato – dell’uomo sull’uomo, ho avuto presentimento assai lucido attraversando il paese dal profondo e dimenticato Nord fino al Sud, già rutilante di corruzione e illimitata speculazione. Ma proprio in quei giorni ci fu un soprassalto del partito, forse ancor più dell’esercito, per tentare di raddrizzare una barra che tanta parte dei proletari vietnamiti denunciavano, per quanto potevano in una società dal controllo ferreo, perigliosamente pencolante a destra. Fui testimone – per quanto seguito e impedito passo per passo da nugoli di “compagni” dell’intelligence, cosa che non capita a Cuba - di sanguinose insurrezioni di contadini nella regione intorno ad Hanoi che durarono settimane, innescate da una condizione di progressiva esclusione dai limitati successi economici di vastissime categorie e, nello specifico, dall’allestimento di giganteschi campi da golf a cingere l’intera capitale a beneficio soprattutto dei dipendenti – stranieri e ascari - della multinazionali recentemente installate. Già solo emotivamente, non poteva essere sopportato che protervi vampiri a stelle e striscie potessero sollazzarsi nel più snobisticamente fasullo degli sport, su terre insanguinate e avvalenate dagli stessi o dai loro predecessori, sotto il pendere ammutolito di una bandiera rossa con stella gialla.

 

Quella raddrizzata imposta da un esercito non ancora dimentico e non ancora anagraficamente liberato dal “peso” dei testimoni e protagonisti della liberazione e del comunismo, comportò severe misure contro l’estensione dell’economia liberista, vincoli e addirittura ceppi legislativi, finanziari, fiscali e sindacali alle corporation, settori sottratti al privato e all’investitore e rapinatore straniero e destinati a produzioni che servissero la collettività. Fu storia di breve respiro. La correzione di linea si esaurì con la celere rimozione del segretario del partito comunista che l’aveva voluta. Oggi in Vietnam le famiglie con bambini sminuzzati dalla diossina Monsanto, passata dai campi bombardati nel sangue di padri e nonni, se la devono cavare, nel parto, nella cura, nella crescita, nella morte, da sole. Oggi la sanità gratuita è l’araba fenice e il parto di una donna il cui marito guadagna 800mila dong le costa la metà di quella cifra. Oggi in Vietnam, nelle città sei abbagliato da un consumismo idiota e feroce, quanto quello delle più desolanti oscenità dello shopping nostrano; mentre nelle campagne la povertà è sinonimo di miseria assoluta e ci vuole tutta la pazienza e l’angelica gentilezza di quel popolo a non dar fuoco a tutto quello che sa, che puzza, di Palazzo. Oggi si pavoneggiano nelle strade di Saigon e Hanoi, ingombrando e intossicando con i loro idioti suv, cialtroni agghindati da stilisti italiani e nordamericani che possono comprarsi qualsiasi stravaganza di lusso e rappresentano un due per cento della popolazione. E, come ci insegna il materialismo storico, tutto questo corrisponde a una guerra di classe. Solo che la si conduce contro contadini operai e soldati.

 

Caro compagno, ti ci vuole davvero la buona volontà di un kamikaze  per riuscire a divertirti immaginando “gli impettiti marines  di West Point che accolgono in amicizia (???) la delegazione di quell’armata popolare che ha loro inflitto la più clamorosa delle sconfitte”. Peccato che a divertirsi di più siano quei marines che, oggi, con la delegazione in visita, possono assaporare il dolce gusto della rivincita. Una rivincita capitalista, compagno, offertagli per un tozzo d’oro da un ex-vincitore passato dall’altra parte. Del resto, non credo di essere stato l’unico, alla festa dell’Ernesto dell’estate scorsa, a rimanere allibito al discorso dell’ambasciatore vietnamita, evidentemente già in forte sintonia con l’andazzo del suo governo. Tra rappresentanti palestinesi, cubani e venezuelani che ci parlavano di resistenza di popoli e classi e di avanzate verso la liberazione contro il capitalismo imperialista, il funzionario vietnamita magnificava – a noi! – le grandi e generose facilitazioni che il suo governo offriva agli investimenti delle imprese straniere: niente pesanti obblighi, niente gravosi dazi, grandi profitti…

 

Caro compagno, siamo comunisti, cerchiamo di rimanerlo, evitiamo di scimmiottare il bertinottismo, per dire revisionismo, liquidazionismo, rinnegazione, attaccandoci ai panni politici e morali a brandelli di un mito che si  è tradito da solo. Non con il governo vietnamita ci tocca stare, ma con i vietnamiti, con i proletari vietnamiti. Augurandoci che, ancora una volta, sappiano individuare il nemico e batterlo. Sempre che ci interessa restare fedeli al “nostro” Vietnam, al paese di Ho Ci Min. E se ci accade di provare nostalgia,  non indoriamo una pillola che oltre a essere amarissima è anche tossica. Non sbarriamo gli occhi sull’Est, guardiamo per una volta a occidente, la dove, grazie al fenomeno rivoluzione, sorge il sole: Cuba, Venezuela, masse indigene e latinoamericane. Oppure a Sud: una Resistenza irachena che è la più grande dai tempi di Giap e dei Vietcong. Vedrai che la nostalgia si tramuta in speranza. Una speranza da riportare al popolo vietnamita.   

 

 

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