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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

SLOBO VIVE!I SERBI ASPETTANO, LA SINISTRA ITALIANA RANTOLA.

In morte di Slobodan Milosevic, nell’anniversario del crimine Nato

 

 

14/03/2006

 

 

Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic.  Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai “Piccola Jugoslavia”,  sulla collina di Dedinje in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista  contengono una piccola  folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, “Otpor”, finanziata ed addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del narcotraffico George Soros. Tre giorni più tardi queste bande e i loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le “procuratrici” Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire: raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata “pulizia etnica” in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (Non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: “E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza”).

 

Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di una logora propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli “interventi umanitari”, Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di turbe in stracci messe a fuoco, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue  un'altra stampella delle ragioni per l’ “intervento umanitario”, Ennio Remondino, che, ricordando un gabbamondo da tavolino con le tre carte, con supponenza elargisce e mescola “il despota Milosevic”, “il presidente democratico Djindjic”, i cattivi bombardamenti Nato e i cattivissimi nazionalisti serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza retorica figura da tragedia greca, si mescola con  rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato.Non mi riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, da Ferrara a  Mieli. Fetecchie da “macellaio dei Balcani”, o ”Hitlerosevic”. Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani.. La loro dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono e, sempre più spesso, sono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-violente) i paradigmi dei carnefici, strategicamente questi puntellano e agevolano.

 

 Guardo la foto e la memoria srotola il filo della storia di un avvicinamento a Slobo  che parte dal 24 marzo e termina pochi istanti dopo lo scatto di quell’immagine. Dopo aver sbranato oltre metà della Jugoslavia, in parte anche grazie alla collaborazione di “pacifisti” come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di pace, settori cattolici, ongisti voraci e semplicemente fessi, fondata sull’assenso agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e 24 marzo le classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla soluzione finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale “di sinistra”, cosiddetto Telekabul, ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa ultrareazionario e guerresco aveva sobillato i neofascisti – ma cattolicissimi – croati contro la federazione ancora ostinatamente socialista). La donna-cannone è Botteri, il direttore del circo è Ennio Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione di redazione, da che parte stare, ci si accalora sul “dittatore”, su “pulizia etnica”, “ondate di profughi” e dunque, appunto, sull’ “intervento umanitario”.Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon. Armiamoci e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di decente c’erano rimasti solo gli operatori e i montatori, anche perché, bravi per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi giorni dopo partii, con la prima delegazione dalla parte degli aggrediti e tanto di telecamerina, per Belgrado, quella delle macerie, della morte, della fame, della sfida-sfottò dei “target” sui ponti.  Si doveva passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi doganieri, scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli sgherri razzisti di Tudjman, cari al papa, non permettevano il passaggio. Chi frequentava i serbi era infetto per l’Occidente intero. Ci accompagna e assiste un piccolo partito comunista. Attraversiamo l’inferno, la resistenza, la quinta colonna (che la “dittatura” lasciava agire e ci aveva permesso di incontrare apertamente in piena Belgrado), fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e di Zastava. I serbi non si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda europea dopo la liberazione partigiana – quella che tedeschi e statunitensi riuniti intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei documentari, delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’arma nucleare della dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera dopo sera, facevano svettare bandiere jugoslave, cartelli “target” sul cuore, canti di orgoglio, incriminazione e resistenza, contro gli strumenti tonitruanti degli stragisti Clinton, Schroeder e il chierichetto col botto D’Alema.

 

A Novi Sad i ponti erano stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva nell’uranio, la terra si scuoteva per terremoti da bombardamenti. A Belgrado il cielo si apriva ai terminator con la chimica della guerra meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci mancarono di 80 metri.  Mi è rimasta impressa la temeraria calma del compagno di viaggio, Raniero La Valle.  Una notte scampammo alla sorte dei neonati a cui le bombe avevano spento le incubatrici, fuggendo dall’albergo e dai pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti, mentre D’Alema e compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa, 16 giornalisti e tecnici della televisione serba (mai annoverati tra le sue vittime dall’associazione mercenaria Reporters Sans Frontieres). A Pancevo, la città della chimica e del petrolio, D’Alema e sodali avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi tossici, sprigionati dai loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria, terra e acque pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un ammasso uranizzato di macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i missili e nell’uranio, gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati attorno agli stabilimenti, la foja assassina degli umanitari. Ci avrebbero messo appena un anno a rimettere in piedi gran parte della fabbrica. Non solo quella. Tornammo un anno e mezzo dopo: due ponti di Novi Sad erano risorti, la Zastava era tornata a far correre due linee di montaggio. Nell’inedia e nel gelo delle sanzioni, tra le macerie delle loro case (ma migliaia erano già state ricostruite), con i corpi ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a grappolo a Nis e in tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra chimica, i serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava alla  resa. “Serbi da morire!” titolai il documentario.

 

Sotto il controllo di un presunto “dittatore”, alla faccia degli infiltrati, dei demonizzatori, di morte e rovina, dei governanti avversi che le libere elezioni del “despota” avevano installato nelle maggiori città del paese, nonostante il sabotaggio al servizio del nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione filo-imperialista, la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava aggiustando addosso i vestiti laceri.. A scandalo di una sinistra italiana miseramente subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo “Meglio serbi che servi”. Quella “sinistra” preferiva fraternizzare con i sedicenti oppositori “democratici” di Radio B-92, della televisione di Vuk Draskovic (oggi ministro agli ordini di Solana), “Studio B”, entrambi del circuito europeo Cia di “Radio Liberty”, entrambi foraggiati da George Soros, con un’alleanza civica assetata di libero mercato, garantita da pretoriani Nato, chiamata “Zayedno” Ma, soprattutto, si era gemellata con l’altra articolazione Cia, il mix sottoproletari-fichi dei quartieri alti di “Otpor”, appena reduce da corsi di eversione tenutigli a Budapest e a Sofia da generali Usa. Eversione “non-violenta” fino al rovesciamento del governo legittimo, ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni, nell’epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra, giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione del cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e poi invase il parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel settembre 2000, la vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo venivano cestinati dal redattore capo di Liberazione, Salvatore Cannavò. Cestinò anche le mie interviste ai capi di Otpor che esibivano grande fierezza per essere i fiduciari “dell’intelligence di una grande paese come l’America” e dichiaravano di auspicare l’avvento di una “democrazia all’americana” in cui una “manodopera a basso costo serba avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane” e la si sarebbe fatta  finita con la “demagogia della garanzia del lavoro, della sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti”. Il compagno trotzkista Cannavò fu invece svelto a invitare “i compagni di Otpor” agli appuntamenti no-global.

 

Tornai ancora a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la Jugoslavia, l’Europa, la pace, la verità avevano perso. Si poteva espandere a macchia di vetriolo, senza più oppositori, l’infame inganno di una “pulizia etnica” nel Kosovo, con la quale si volle giustificare la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti Nato e l’espulsione di 300.000 serbi innocenti ad opera degli ascari Nato e stragisti narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava, smembrata una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la penetrazioni, bellica o con le “rivoluzioni colorate” tipo Otpor, verso Est, verso gli idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel braccio della morte dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei più onesti ed equilibrati uomini di Stato del nostro tempo, la strada era stata aperta per il terrorismo imperialista globale e permanente. A mio avviso, soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella irachena, dove una Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla sua dirigenza, ha bloccato l’avanzata dei mostri, a Slobodan Milosevic possono essere imputati solo due errori. Aveva resistito all’infame ricatto di Rambouillet e quel gesto di forza e di dignità aveva mobilitato il suo popolo alla resistenza. Le due rese successive di Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivate dall’impegno, questo sì umanitario, a salvaguardare la sopravvivenza di genti che avevano sofferto l’indicibile da un ventennale ostracismo internazionale, dalle sanzioni e dalle guerre. Possiamo immaginare, alla luce della vittoriosa guerra di popolo irachena, cosa sarebbe successo nella Serbia della cacciata di sua propria mano della Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i mercenari della Nato a misurarsi con un esercito di popolo pratico di ogni anfratto della sua terra e collaudato dal confronto con l’allora più potente esercito d’Europa. Certo sangue, lacrime, sacrifici inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del carnefice planetario sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale governo europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più criminale?

 

L’ultima mia Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo subito, a futuro oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva saputo imporre la sua agenda ai grandi, venduto e martirizzato in un paese lontano, sembra che si sia dissolta ogni capacità di reazione. Al vertice, coperte da un personaggio da incolore mezza stagione, Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e rinnegati. Era estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo “volgo disperso che nome non ha”. Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis, su cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più faceva rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il milione di senza terra, senza casa, senzapatria. Passanti infreddoliti che sembrano perdersi in un vuoto poststorico, come nella polvere volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri, manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una comunista, figlia di partigiano.Il suo sguardo mi riportava a quello di un vecchio palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio perduto. Un generoso lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, in pochi altri momenti di militanza, come “SOS Jugoslavia” e l’associazione di Trieste, e di pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla menzogna, di solidarietà, ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di disgrazie epigonali, ai possibili interventi, questi sì, umanitari, a ricordi. E, in perfetta solitudine, a una minoritarissima mobilitazione in difesa di Milosevic e della verità sullo pseudoprocesso dell’Aja. Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un pubblico offuscato dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di “sinistra”, anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore. Quasi che corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a compromettersi con la verità. Personalmente ho potuto misurare la distanza che correva tra la percezione nella base di sinistra su chi erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente riservatezza, i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta, nel desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’unica bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic, presidente della Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato oberandone il cuore malato di prove insostenibili, poi avvelenandolo. Non si poteva tollerare che continuasse a sbugiardare i suoi boia, a vincere ogni confronto e quindi a validare la sacrosanta richiesta di risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi di ripresa accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca, dove, peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto scoprire la terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con giornalisti non velinari e compromettere ulteriormente il gioco. Leggere gli atti del processo per credere.

 

Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano italiano ancora “diverso” , “il manifesto”. Messo in salvo un po’ di coscienza con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano e si riabilitano, contro ogni evidenza storica nel frattempo disponibile a chiunque, tutti gli stereotipi della gigantesca truffa. Si esonerano i mandanti della morte di Slobo, ormai inchiodati da elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di “milioni di teorie e complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio di altri tempi”; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, “uno dei protagonisti della mattanza balcanica”. Si parla, riferendosi al famoso discorso di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del Kosovo protezione dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori imperialisti, Slobo s’impegnò come nessun altro leader delle provincie a salvaguardare i pari diritti di tutte le popolazioni jugoslave, come del lancio di una grande e ipernazionalistica Serbia, avallando l’alibi dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco. Cerchiobottismo, si direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post alla menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura “campagna di terrore verso gli albanesi”, secondo quanto dettavano Giovanna Botteri e l’infiltrato radicale Antonio Russo che sparava cazzate granguignolesche di matrice Nato da un finto nascondiglio a Pristina.. L’avallo viene con quel “contropuliza etnica” con cui l’autore si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e che pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene ripetutamente offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’altra delle grandi truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo in giù,  hanno giustificato la distruzione della Jugoslavia: la “strage di Sebrenica”. Le bande Otpor, che certamente si erano trascinate dietro disillusi e illusi della sofferenza serba, oltre alle milizie armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso Di Francesco “la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il riconoscimento della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica”. Sul discorso di Kosovo Polje, che non deve aver mai letto per intero, nella sua appassionata perorazione del pluralismo e delle pari dignità, ecco che viene riesumata la bugia del lancio di una “Grande Serbia”, che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia garantitagli da Tito. Possibile che un esperto giornalista non sappia come l’unica cosa che Belgrado tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed antijugoslavo per conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto di veto sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera? L’autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros e madre Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato parallelo, albanese, etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al servizio della finanza occidentale. Con il concorso di un collega, anche lui da tramandare agli onori dei negazionisti della verità (non ci sono solo quelli dell’olocausto), il giornalista  ripercorre proprio tutte le tappe dell’intossicazione: “estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime”, “gestione di un paese solo apparentemente democratico” (dove pur si votava con una frequenza quasi maniacale tra repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi città venivano conquistate dall’opposizione e dove, in piena guerra, si andava e si veniva come Pisanu si sognerebbe di lasciar fare), fino alle infamanti “collusione con le organizzazioni illegali”. Già quelle che avrebbero contribuito a formare il famoso “tesoro di Milosevic”, mai trovato, mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che Milosevic aveva come unico cespite il suo stipendio. Non basta a riscattare tanta aderenza al diktat propagandistico degli aggressori, il finalino con cui si mette in dubbio la credibilità giuridica di un tribunale dell’Aja, creato dal vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito che milioni di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di crimini di guerra. Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le tue sparate contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una pistolettata ad acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche, di Padova, una volta fatta la megacazzata di andare, in piena guerra, a Belgrado e, ospitati dalla Tv di Stato, di sbraitare contro il governo serbo aggredito e fraternizzare con forze d’opposizione dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il gemellaggio con la radio Cia B-92, fatta allora passare per “radio di movimento”, gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero avventati, il 6 giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su coloro che alzavano bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne avessero stracciato i vessilli.   

 

Sotto la foto di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente che porta fiori ai suoi ritratti. “E tu onor di pianti Ettore avrai, ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato…” Donne, uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque. Sono tanti, sempre di più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e operai, di ex-partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito. Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi operai coperti di sangue…”e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

Era un rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi, non vili, ancora una volta con un’inadeguata ma fedelissima rappresentanza serba, ci riunimmo davanti alla prigione-fortezza di Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il  fossato e alle muraglie di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta  combattenti contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto urlando:”Slobo-Slobo”! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non c’imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che ti viene quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno dopo l’altro i suoi accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata testimoni tanto grotteschi quanto istruiti per la bisogna. Pur di impedire che l’accusa al presidente jugoslavo gli franasse addosso, ai giudici e ai governanti Nato, facendo riemergere i mai considerati crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute al popolo serbo, il tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice Del Ponte (che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, “madre del tribunale”) abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica giudiziaria e di umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua volontà e contro il diritto gli imposero avvocati d’ufficio con i quali ci si rifiuta di parlare, di cui i tuoi testimoni non si possono fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e che, con un conflitto d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello del malvivente nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici!  Nessuna autorità del diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni  come queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da ipertensione gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare un rinoceronte, l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’accusa e la riduzione a pochissimo di quelli della difesa (non per nulla Slobodan è stato fatto morire prima che fosse costretto a testimoniare il da lui citato criminale di guerra Bill Clinton, seguito poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la negazione di terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute. Milosevic, nel silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo passo, a far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre balcaniche, dei massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo si è fermato quando già aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia era a tutti gli effetti destinato nella discarica della storia.

 

Nelle ore prima di quella foto sul televisore, Slobo mi aveva raccontato un gran pezzo della vita sua e del suo paese. Un discorso la cui architettura erano fatti, date, citazioni. Ne uscivano i protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i profili che la storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori alleati e i trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in coacervo di Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne contro il governo democratico, l’ininterrotto uso dei termini “dittatore” e “despota”, le bugie sui famigliari: Mira Markovic che diventa “Lady Macbeth”, secondo un’iconografia classica degli stregoni della guerra psicologica, la stessa delle varie “Lady Antrace” o “Lady Veleno” irachene; la piccola boutique del figlio Marko che diventa la satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per bambini, magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato…Ma anche il racconto della propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’abisso di qualcosa che andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva parlato con voce piana, senza alterarsi, con qualche virata verso l’ironia, con qualche momento accorato. Poi la foto e ci siamo salutati, noi con la sensazione fredda di un qualcosa di terribilmente inesorabile, lui certo con  la stessa consapevolezza, ma senza aggravarci dandocelo ad intendere.  Curiosamente, tra i tagli di luce che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo davanti al banco di un “Tre palle un soldo”, mi sfilavano nella mente le facce dei politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci, imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni. Milosevic, alle  nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con la mano. Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo lì, ma capimmo che sapeva di essere lui ad andar via a lungo.

 

Quell’intervista, oggettivamente storica, la portai all’allora mio giornale, “Liberazione”, quello di Bertinotti. L’omologa del capo, Rina Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di chiaro tenore democratico e professionale: “Mica ci possiamo appiattire sulle posizioni di un Milosevic!”. E già, “il macellaio dei Balcani”…  Passai l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, “Corriere della Sera”, che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno espresso uno tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si erano squali-ficati a Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti, disobbedienti imbroglioni o imbrogliati, missionari, ambiguoni ed infiltrati travestiti da non-violenti,  sia gli antimperialisti. Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su Milosevic e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti? 

 

Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad amici che non si sarebbe arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la sua promessa e, come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli iniziatori di una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva additato i suoi boia e i loro fini. Ma che la morte lo abbia sconfitto è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli ignavi di allora furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i criminali puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. Così sarà, a tempo debito. Qualche serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in televisione su cosa pensasse di Slobodan Milosevic, il calciatore Sinisa Mihailovic, quello del “target” sotto la maglia, ha detto ieri, senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile, “E’ il mio presidente!

Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.   

 

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