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VITTORIA! VITTORIA?
IL PROCESSO
IL SUDAN DI SABINA
22/06/2004
Vittoria! Vittoria?
Rifondazione Comunista-Sinistra Europea –
un logo tanto affascinante e innovativo da far ammutolire ogni
pretestuosa protesta contro un presunto colpo di mano che sarebbe stato
inflitto ai comunisti radunati sotto l’antico simbolo – ha vinto:
alcune centinaia di migliaia di voti in più e una percentuale che,
grazie anche all’astuta astensione dei centrodestri e destri, è balzata
avanti di un punto, 6%. Fra appena dieci elezioni, la cosca
piduista-mafioso-golpista permettendo, saremo al 16% e potremo fare,
chissà, come Craxi, l’ago della bilancia tra liberisti guerraioli di
destra e liberisti guerraioli di sinistra. Ma forse è una prospettiva
troppo radicale, meglio, nel frattempo fare comunella con l’idra
Amato-D’Alema-Rutelli-Fassino-Mastella e vedere se si può grattargli via
qualche scaglia dall’orrida corazza.
Tutto, fuorché incanaglirsi nell’osceno
connubio con quanto di quasi sinistra c’è già nelle istituzioni – quel
13% che, unito, provocherebbe un prematuro e irriguardoso incanutimento
al socio D’Alema – rischiando di venir meno a un sacro patto di
rinascita nazionale che già ha rinchiuso Cofferati - e soprattutto
quell’esasperato cofferatismo antisistema che l’incolpevole sindacalista
s’era trascinato dietro – nel ridotto felsineo. Tutti insieme al governo
nel segno di Luca Corsera di Montezemolo e del papa polacco (a proposito
di polacchi, avete visto il paginone del “manifesto” che celebrava, per
la penna di Rossanda e dei fanatici filo-slavi Dakli e Karol, la vita, e
compiangeva la morte, di Jacek Kuron, braccio destro del liberatore
Walesa e protagonista della primavera polacca? E noi che c’era sembrato
un estremista di destra, quanto il suo partito, fottuto manutengolo
della Cia e del Vaticano! Gli abbagli…Ma ricordiamo male, o era proprio
Astrid Dakli che, aggirandosi per il Kosovo – è albanese - appena dopo
78 giorni di bombe Nato all’uranio, con caccia al serbo, criminalità
organizzata UCK messa al potere dagli USA e demolizione degli antichi
monasteri tuttora in atto, non vide nulla di tutto questo e si rallegrò
della liberazione del suo Kosovo? Solo abbagli?)
Il PRC ha dunque preso il 6% . E’
certamente una vittoria. Una vittoria di Cesare. E quando vince Cesare
gioiscono, si sa, anche venditori di lucerne e gladiatori, questi ultimi
più pronti che mai alla suprema dedizione:
morituri te salutant. A
parte la celia, non si può non darne atto a quel mago che, sulla soglia
del voto, ha saputo, molto meglio di Aznar con le sue bombe di Madrid e
dell’esausto sciantoso da crociera nostrano con il suo “abbasso le
tasse”, estrarre dal cilindro ben due conigli, che quello di Alice può
andare a nascondersi: la dimensione europea, con all’occhiello
altermondisti come gli stalinisti-movimentisti del PCF, giustizieri
della Jugoslavia (jugoche?), sei antimonarchici del Granducato del
Lussemburgo, prezzemolo scandinavo vario, una dozzina di greci
collaborazionisti a tutti i costi, qualche addomesticato bolscevico
spagnolo, tedeschi che hanno in uggia Liebknecht e Luxemburg peggio che
noialtri i “padri spirituali morti non solo fisicamente” (vedi
Bertinotti sul “manifesto”). Vabbè, non era poi una novità assoluta:
l’eurocomunismo, oggi Sinistra Europea, l’aveva inventato il povero
Berlinguer per porre uno scudo sovranazionale tra sé e i compagni che lo
inseguivano, brandendo falci e martelli, dopo che Be-Be-Be-Berlinguer
aveva sposato la borghesia capitalista, prosseneta Andreotti, e invocato
su di sé, contro l’incombente pioggia di sovversivi, “l’ombrello della
Nato”. Ma tant’è, riciclare vale talvolta inventare e il buongiorno s’è
infatti visto dal mattino di lunedì 14 giugno. L’altra taumaturgia è
stata la campagna sulla nonviolenza, così, senza trattino, valore
assoluto, archetipo, afflato cosmico, legge mosaica. Anche qui nulla di
nuovissimo: prodromi ancor grezzi erano stati i giulivi flagellanti
della New Age a propulsione CIA, il tibetanesimo caro ai cultori dell’arianità
(ma stranamente sgradito ai servi della gleba sotto il tallone dei lama
che gli fregavano i bambini), i socialisti utopisti del romanticismo
ottocentesco, i ghandiani, che giustamente al rajà Mahatma attribuiscono
il merito di aver sottratto l’India alla presa dei comunisti che in
trent’anni di “terrorismo” avevano sfiancato e costretto alla fuga i
britannici con tutti i loro ghurka, e,
last but not least, Luisa
Morgantini, vera e nera musa delle braccia alzate in Palestina come nel
Kurdistan turco, in Iraq come a Cuba, in Kosovo (“salvato dai fascisti
serbi”) come in Afghanistan.
E giustamente la musa ritorna, invero per
il rotto della cuffia, in Europa., dove, perfettamente equanime e
bilanciata, dannerà sia Sharon sia chi ne attacca la Gestapo, sia Bush
sia chi gli fa zompare le SS in Iraq, Con lei, in lista ovunque per ben
quattro volte, star assoluta, candidato universale, protagonista dei
punti cardinali, Bertinotti-poker. E chi lo metterebbe in discussione?
L’ho visto l’altra sera a “Ballarò”, assolutamente vincente,
carismatico, convincente. Oddio, di fronte aveva poca roba: il pozzo e
il pendolo, con Fassino nel ruolo del pendolo e il sottosegretario di
burro Sacconi in quello del pozzo, senza fondo e senz’acqua. C’era anche
Storace, ma serviva come cabaret. E’, il subcomandante Fausto,
sicuramente il più bravo. E’ anche l’unico nel PRC che si veda inondato
delle luci della ribalta. La tragedia è che lo è da sette anni; in sette
anni si è assicurato che non maturasse ed emergesse proprio nessun altro
nel suo partito. D’accordo, è monarchia assoluta, ma, caspita, se ti
viene un raffreddore o, diononvoglia, un coccolone? Dopo che hai fatto
terra bruciata, se non di corifei e yes-men, chi metterai in pista, lo
scherzo nominativo Migliore?
Poi abbiamo un supereletto Agnoletto
(persona stimabilissima) e un elettoralmente striminzito Musacchio, noto
dalle parti di Viale del Policlinico perché principe consorte
dell’autorevole Patrizia Sentinelli (Segreteria Nazionale di RC e già
connivente del Rutelli sindaco di giubileiana memoria)), cosa che,
peraltro, con l’elezione di questo “nobile compagno” (Rina Gagliardi su
“Liberazione”, non la “Gazzetta di Pyongyang” su Kim il Sung) non
c’entra un beneamato cazzo. Ha preso un mare di voti anche un periferico
disobbediente romano, Nunzio D’Erme, zompato al volo sul torpedone
“Eurotours SRL” di RC, molto presente nelle piazze, quasi del tutto
assente in Consiglio comunale (le istituzioni che schifo, faccia Rutelli),
amatissimo, per la verità, tra chi apprezza secchiate di merda su
Berlusconi (e non siamo pochi) e inni all’esercito nonviolento e
neoglobal dell’ossimorista Marcos (sono rimasti in pochissimi). Ne ha
presi anche di più, nello stesso pollaio, il plurionorevole Nichi
Vendola, un combattivo politico antimafia ed erudito umanista, con
dietro mezzo Mezzogiorno d’Italia. Poi c’è Bertinotti-poker. Per
rifondare il comunismo, quindi, su cinque uno che si dice comunista, un
altro che pure si dice comunista, ma gli viene da ridere, e tre che a
sentirsi definire comunisti chiamano i Ros. Fa niente. Abbiamo il 6%,
sicuramente grazie a D’Erme, Morgantini, Agnoletto, la Sinistra Europea
e una Nonviolenza a cui la Resistenza pare ovviamente un po’troppo “angelizzata”.
Alla fine toccava scegliere tra il disobbediente e l’obbediente. Scelta
ovvia per il padre-padrone, chi mai si metterebbe in casa uno che, sì,
gli ha portato un po’ di voti, ma alla prima fermata cambia corriera e
butta escrementi dal finestrino.E’ stata l’inglorioso cozzo di due
opportunismi, ognuno dei quali serviva congiunturalmente all’altro e
ognuno dei quali dell’altro se ne fregava altamente. Ora che poi i
fratelli di cordata saranno gli Amato, D’Alema, Fassino, Mastella,
Montezemolo, chè ti porti a tavola uno come D’Erme che non sa neanche
che il coltello si mette a destra, la forchetta a sinistra e il vino si
versa non oltre un terzo del calice?
Ma va a guardare il pelo! Cosa conterà mai
il tasso di comunismo in quel 6%! Un 6% è un 6% e il resto sono
variabili indipendenti, forse dipendenti, forse impazzite. Se lo sono
dette anche le opposizioni interne alla maggioranza, si sono rimboccate…
le maniche? No, le coperte e hanno spento la luce. Domani è un altro
giorno. Costituente. Di qua noi, “sinistra-sinistra”, come scrive
Rina-Fede-Gagliardi, di là, ma a noi giunti, loro, i “riformisti”. Ah
no? E non sono riforme il pacchetto Treu, l’art. 11 riformato a Belgrado
e in Afghanistan e in Iraq pure dall’ONU, la scuola aziendale di
Berlinguer, le privatizzazioni di ogni bendidio, la Nato allargata
all’universo mondo, la Leva riformata in professionale associazione a
delinquere planetaria, i CC quarta e impunita arma d’Italia, gli
inceneritori e tralicci Enel dell’ambientalista Chicco Testa a
punteggiare l’intero stivale, con Kyoto fatto passare per un balletto
Kabuki e il Corpo Forestale dello Stato (unica polizia che non mena, ma
protegge alberi) trasformato in gendarmeria municipale nelle regioni del
pre-leghista Bassanini… Riformisti della più bell’acqua, c’è poco da
sfrucugliare. Tanto quanto gli altri, quelli della nonviolenza, della
“spirale guerra-terrorismo”, del “partito femminista, ecologista,
pacifista, democratico” e dell’”ispirazione liberaldemocratica”, sono la
“sinistra-sinistra” , come scrive su “Liberazione” una signora
all’orecchio del capo, Rina-Emilio-Gagliardi.
Compagni, c’è chi non si mette buono buono
neanche con un 1% tondo tondo in più Tocca rassegnarsi. “L’unico modo
per essere liberi è essere contro (Josè Martì). “Sparate sul quartier
generale”, sennò quelli s’abituano (Mao Tse Tung).
Il Processo.
Kafka non c’entra. Anzi, c’entra: quelli
che stanno di qua, come l’infelice signor K., o come Pinocchio davanti
al giudice del paese di Acchiappacitrulli, non hanno la benché minima
speranza di sfangarla.
Né di Venere né di Marte non si sposa e
non si parte. Per i processi, tuttavia, ogni giorno è buono. Ce lo
confermano Carla del Ponte e Giuseppe Stalin. Ma anche Rosangela Mura,
che presiede il tribunale del partito, chiamato umanitariamente
“Collegio di Garanzia”. Vogliamo o no essere, oltrechè garantisti,
garantiti? Non è per essere garantiti che conduciamo epiche lotte da
almeno un secolo? Giustamente anche i capi di un partito hanno diritto a
essere garantiti. Per loro l’articolo 18 deve essere come il bambù per i
Panda. Infatti sono molti più di quindici, mentre noi irriverenti non
arriviamo ai quattro gatti. E così, disciplinatamente, proprio un bel
martedì è partita la mia incriminazione e mi sono ritrovato, sì, sulla
seggiola dell’imputato, però attorno a un tavolo democraticamente tondo,
nessuno scranno del giudice, nessuna solenne toga di Pubblico Ministero,
come invece in occasione di quei 150 processi per reati di stampa che
nel corso del mio sparare inchiostro contro eminenti e notabili mi sono
meritato (allora venni peraltro assolto per aver “diffamato” presidenti
dell’Enel, delle FFSS, delle FFAA, della mafia, della massoneria, dei
governi stragisti, del neofascismo. Oggi, pare, avrei fatto di peggio).
Il bunker dei grandi delinquenti, però, c’era. Un’angusta cella
premonitrice, senza finestra sull’esterno, ma fiancheggiata da un cupo
corridoio, su e giù percorso da Chicca Perugia, nostra segreteria
federale. Non mi ha degnato di uno sguardo, ma visto che non lo ha fatto
neanche durante dieci giorni in Palestina, dove pur vivevamo,
viaggiavamo, pranzavamo e subivamo i gas israeliani fusi gli uni agli
altri, e neanche in due anni di riunioni e manifestazioni di partito, ne
ho dedotto che non mi conosceva. Del resto, quello di far finta di non
conoscersi è pratica statutaria di chi sta nella luce del Signore nei
confronti degli infedeli smarriti nell’oscurità) .
Loro erano in tre. Pubblica Accusa.
collegio giudicante e giuria, tutto insieme. Altro che la sciagurata e
strumentale separazione delle carriere del Bushlusconi, con i magistrati
incatenati alla greppia di Previti e azzittiti dalla mordacchia di
Cirami-Schifani. Per la verità, nei primi istanti avevo congetturato che
uno dei tre sarebbe stato dalla parte del reo, tipo avvocato difensore,
quantomeno d’ufficio. Ma non era figura prevista. Forse perché, anziché
tre, avrebbero dovuto essere cinque. Magari su cinque, uno, il più
scemo, avrebbe dovuto farmi da difensore. Erano peraltro bravissimi, si
passavano la palla che neanche Totti, Del Piero, Inzaghi, fedeli al
comprovato meccanismo del poliziotto cattivo (uno dell’area
dell’Ernesto, la mia!), di quello buono e di quello super partes (due
bertinottiani doc, una accorata, uno affilato) che riduce in poltiglia
ogni interrogato meglio che Lyndie England ad Abu Ghraib.
Avevamo osato l’inosabile. A una
conferenza stampa del segretario nazionale, una messa cantata, ci
eravamo presentati, zitti zitti, con uno striscione: “Bertinot-in-my-name”.
Guai a me che mi ero fatto incantare dalla quasi wildiana sintesi
poetica dell’elaborato. Un verso affettuosamente ironico che faceva
riferimento al laboratorio di organismi geneticamente modificati messo
su dal biotecnologo di Torino. “Hai leso l’immagine del segretario e del
partito!” tuonavano i giudici-giurati-accusatori, e si capiva che
intendevano, come suole nelle monarchie assolute, “lesa maestà”. Feci
tra me, tanto immodestamente quanto spontaneamente, un raffronto. Mi
fulminò l’abisso che si apriva tra questa terrificante accusa e quella
presunta “lesa immagine” mia che mi ero azzardato di sospettare allorché
un notabile del partito, tale Ramon Mantovani, aveva intimato a chi si
era sbilanciato a invitarmi a dibattiti sulla Jugoslavia di evitare tale
tentazione, vista la mia indecente opposizione all’indiscutibile (e
perciò indiscussa) formula del partito “Né con la Nato, né con Milosevic”;
oppure quando l’epigono del Mantovani, uno chiamato addirittura
Migliore, aveva proclamato in pubblico che chi, come il sottoscritto,
invocava insieme all’incontinente popolo palestinese “Intifada fino alla
vittoria”, era da considerarsi antisemita e da cacciare dal partito; o
ancora in occasione dei miei reportage da Baghdad sotto le bombe, dopo
quarant’anni di mie ottusità mediorientali, che un
Curzi-fedele-alla-linea-della-“spirale guerra-terrorismo” seppe
bonsaizzare in “letterine al direttore”; o, anche, quando venni cacciato
dal giornale su due piedi e neanche uno straccio di art.18, avendo osato
di sospettare che quelli che, presi i dollari da Bush e fatto e
programmato di fare dirottamenti e terrorismi vari, finalizzati a
un’invasione di Cuba, non fossero proprio “dissidenti”, ma piuttosto
veri mercenari al soldo del nemico; o, infine, allorché, per spiegare
come Santoro andasse difeso alla morte, e Grimaldi, invece, a quella
(quanto meno professionale) destinato, sia Bertinotti, sia i suoi due
cavalli di razza alla testa di “Liberazione” diffusero su media vari
malignità e falsità sul mio conto, senza diritto di replica. No, in quei
casi non era “lesa immagine”, come potevo pensarlo:
ubi major minor cessat del
tutto.
Sospeso sul baratro di questo dubbio, mi
riportò sulla retta via il sottile e convincente punto di uno degli
inquisitori, uno che il cui nome Franco veniva riscattato dal cognome
Guerra, della mia area, particolare che mi colmava di orgoglio. Avevo
tentato un patetico depistaggio, da autentico leguleio: “Lo statuto”,
avevo opposto, “consente il dissenso e la critica al vertice del
partito, anche all’esterno del partito stesso”, tipo conferenze stampa
alla Stampa Estera. Niente affatto. Con argomenti inoppugnabili Franco
Guerra mi incenerì: “Per esterno
al partito – seppe proclamare solenne - s’intendono gli attivi, le
assemblee, i dibattiti all’interno
dei circoli del partito”. Pofferbacco, il fascio di luce
causidica mi annichilì, misero azzeccagarbugli che non ero altro.
La mia colpa era dimostrata in tutta la
sua inverecondia. Ma non fu l’unica. Ne avevo fatte di peggio. In uno
degli scritti che s’intitolano come questo, avevo presentato due
candidature afferenti la Palestina, paese da me frequentato per quarant’anni
e dai cui invasori rimediai botte, gassificazioni ed espulsioni. Si
trattava, per Rifondazione, della nota Luisa Morgantini, già
europarlamentare ultrapacifista, e di Bassam Saleh, compagno di Fatah e
presidente della Comunità palestinese, che invece era stato ospitato
nelle liste dei Comunisti Italiani. Mi sono assai famigliari, da anni,
ambedue, sia per lunghi e preziosi viaggi tra la disperazione
palestinese e il razzismo genocida israeliano, con la prima, sia per
condivisione di lotte e marce e dibattiti con il secondo, più spesso che
no osteggiati dal partito perché privi di candidi gigli sullo striscione
d’apertura e bandiere israeliane al vento. Ne feci due ritratti. Essendo
veterano, anche se per pochi, nobilissimamente violenti mesi, della
lotta dei fedayin tra Giordania, Libano e territori occupati, mi venne
qualche apprezzamento poco caloroso nei confronti di un pacifismo
integrale predicato sia a Golia che a Davide, pacifismo equanime che
però a Davide pare sottrarre la fionda, senza peraltro togliere a Golìa
nulla della sua rambesca determinazione di schiacciare i piccolini.
Meschino e fazioso: avrei dovuto celebrare con ceri e apologie gli
“accordi di Ginevra”, tanto cari a Morgantini, come a tutti i
nonviolenti, senza fare concessioni a un Bassam che, intemperante e
incontentabile, insieme a 8 milioni di palestinesi, fuori e dentro la
loro patria, le carte di Ginevra le appallottolava poiché, ancora una
volta, lasciavano nella merda 4 milioni di profughi, negavano confini
certi, continuità territoriale, sovranità, difesa, indipendenza
economica, politica e militare al popolo espropriato e sterminato. Non
solo, pur senza pronunciarmi per l’uno o per l’altro, né dando
indicazione di voto alcuna, avrei mosso un’indebita critica all’occhiuta
candidata. Occhiuta perché, nel bailamme jugoslavo, tra bombe a tappeto
Nato, tagliagole albanesi del Kossovo, pulitori etnici croati, affiliati
musulmani Cia di Osama, narcotrafficanti pseudoribelli e pilastri
dell’economia statunitense, ONG impegnate in bordelli e traffici di
corpi, Morgantini riuscì a individuare il vero pericolo, a inchiodare
l’autentico mostro balcanico: i serbi di Milosevic, cioè quasi tutti
quanti. E a Podgorica, capitale del regno mafioso del boss Milo
Djukanovic, allestì, con le “donne in nero” di Belgrado, componenti di
un arcipelago filo-occidentale foraggiato da George Soros (noto killer
di economie non obbedienti al FMI e destabilizzatore di socialismi), un
tempestivo, opportuno e sacrosanto “Seminario sul fascismo serbo”.
Dissi questo e lasciai libertà di voto.
Ahi, il delitto! I guardiani dello Statuto, che impone sostegno degli
iscritti alle liste elettorali del partito, percepirono in filigrana,
con acume impareggiabile, una mia quasi scoperta simpatia per Bassam e
me ne fecero giusta imputazione-amputazione. Obbiettai uggiolando: “Ma
sono le liste che vanno sostenute, che c’entrano i candidati, oltretutto
indipendenti, mica ho intimato di votare per i cossuttiani. E poi un
lettore potrebbe anche simpatizzare con chi invita a dialogare con gli
“Abrahms” di Sharon e chi riesce a stanare fascismi serbi che solo
Clinton, D’Alema, Hashim Thaci, il PCF e Mantovani sapevano esistere.
Pretestuosità, contorcimenti, miserie.
Chinai il capo e l’offersi al boia. A lui
la scelta: mannaia o rogo. La Costituzione Europea potrà anche svilire e
negare le “radici cristiane” del continente. Quelle, ormai
cristianissime, del partito, il Collegio di Garanzia no!
Il Sudan di Sabina
Vale la pena raccontare come capitai per
la prima volta in Sudan. Correva l’anno 1971. Fresco come un bucaneve,
giravo il mondo e scrivevo e fotografavo di guerre e rivoluzioni per
giornali di sinistra come “Giorni-Vie Nuove”, “Astrolabio”, “Sette
Giorni”. I giornali di sinistra pagano poco e a soprassalti: serve a
mantenere alto il morale dell’inviato e persuasivo il carattere
progressista della testata. Dopo essermi fatto tutta l’Eritrea a piedi
con il Fronte di Liberazione Eritreo (quello buono; l’altro, l’FPLE,
cristiano, ma caro ai marxisti e oggi al potere con USA e Israele, s’è
visto come è andato a finire), le esauste risorse mi avevano costretto
nell’ostello della gioventù di Khartum. Incrociai un giovane funzionario
del Ministero dell’Informazione, militante del Baath, panarabo,
nazionalista e socialista (quello al potere in Siria e con Saddam in
Iraq), determinato a far sentire alle sinistre terzomondiste in Italia
le ragioni della rivoluzione sudanese. Quella del colonello Ghaafar
Nimeiry, emulo di Nasser e dei Giovani Ufficiali della grande
decolonizzazione araba. Mi prese con sé su una jeep e mi fece
attraversare mezzo Sudan all’inseguimento del presidente che visitava
città, villaggi, aziende, progetti di sviluppo. Lo beccammo nel sud,
nella città di Wau, mentre cenava a una tavolatona all’aperto con
ministri e notabili locali. Mi inserii tra frutta e whisky (Sudan allora
laicizzato e dunque sbevazzone) e venni accolto dal Raìs e avvolto da
una calda notte equatoriale, frastornata di cicale e di racconti del
presidente che si spensero solo alle prime luci dell’alba.
Tutti a parlare di Sudan, di questi tempi.
E già questo dovrebbe suscitare sospetti. Da qualche mese si sono
intensificati i notiziari, i reportage sulla catastrofe umanitaria e
politica determinata nella regione occidentale del Darfur dal governo di
Omar el Bashir. Esercito e squadracce miliziane che si accaniscono su
poveri profughi, eserciti di liberazione che si sollevano a difesa delle
popolazioni discriminate quando non macellate, morti e fuggiaschi a gogò,
la fame che imperversa per colpa del regime, le agenzie umanitarie che
non glie la fanno, quelle dei diritti umani che sparano un dito sempre
più lungo e puntuto – pare il naso di Pinocchio…- verso Khartum. E
rivedo un film già visto allora. Nimeiry mi spiegò in lungo e in largo
come la sua lotta antineocoloniale avesse provocato ogni sorta di
incazzatura degli ex e neo-colonialisti: britannici, preti, europei
vari, israeliani. Dicono tutti che la guerra separatista del Sud
“animista e cristiano” (ci sono stato al Sud, a Giuba, di cristiano ci
sono quattro chiese, una marea di santini comboniani, ma il 90% della
popolazione crede ai suoi dei di acqua, terra, aria e fuoco), contro le
soperchierie degli integralisti islamici al governo, sia iniziata nel
1981. Invece iniziò vent’anni prima, con gli stessi istigatori di oggi,
appena il Sudan aveva tentato di avviarsi sulla via di una vera
indipendenza. Tagliare i fili della memoria, come quando nessuno ricorda
che gli USA tutte le guerre le hanno iniziate facendo prima un gran
botto, tipo 11 settembre, da attribuire al “nemico”. Ora tra le
“efferatezze” del Sudan manca solo un suo missile su Disneyland, con
4000 bimbetti disintegrati (e pensare che nel 1997 Khartum, che se l’era
trovato tra i piedi, offrì agli USA l’estradizione di Osama bin Laden.
Quelli risposero: non c’interessa, speditelo in Afghanistan!).
Fin da quando la rivoluzione nazionalista
e laica, con la nazionalizzazione delle risorse strategiche, con scuole
e sanità, si affermò in Sudan, negli anni ’60, inziarono i casini nel
Sud delle etnie negroidi. C’era già allora l’esercito di liberazione del
Sud (SPLA), c’era già a capo John Garang, un generale fellone diventato
gangster e combattuto più da bande rivali, in competizione per le
ricchezze minerarie e lignee dell’Equatoria, che dall’esercito
governativo. C’erano già allora le spie e le armi di Israele e Regno
Unito, poi sarebbero arrivati anche gli statunitensi. Mentre la
copertura mediatica e ideologica veniva fornita dai missionari
comboniani, dall’800 nel paese con monaci, suore, aziende, affari
finanziari e brighe eversive. Anche se allora mancava l‘appiglio
dell’”integralismo islamico” e dell’”emarginazione del Sud nero,
animista e cristiano”. In quell’anno Khartum aveva investito nel Sud,
lasciato dagli inglesi in preda al tipico sottosviluppo da colonialismo
( inglesi poi sconfitti con il generale Gordon nel 1885 in una delle
più gloriose battaglie degli oppressi contro gli oppressori) quasi la
metà del bilancio di uno Stato di cui quella regione era un sesto. E’ la
società era stata laicizzata ed emancipata: indimenticabili le donne,
alte, color fondente, con gli spacchi fino al bacino, che suonavano la
tarantella sul pentagramma dei miei pensieri.
Poi ci furono le trattative, i
compromessi, gli accordi di pace. Ma regolarmente la rivolta si
riaccendeva, anche se più tra rivali della secessione che tra questi e
il potere centrale. Così per tutti gli anni ’70 e ’80. Coloro che da
fuori rimestavano nel sangue e nei progetti di rapina, non si
rassegnavano a lasciare in piedi e unito il più grande paese arabo e
dell’Africa. Finalmente ora, nel 2004, rinunciato alla Sharìa per tutti,
accordata una vasta autonomia al Sud, comprensiva della gestione di
buona parte dei proventi petroliferi (petrolio sospettato al tempo di
Nimeiry, confermato quando un golpe portò al potere una spia degli
inglesi, il Mahdi, iniziato ad estrarre da cinesi, canadesi ed europei
sotto l’attuale governo di Bashir), concordato un referendum su
indipendenza o unità entro sei anni, il governo riteneva di poter far
godere a uno dei popoli più evoluti e gentili del mondo la sua meritata
dose di progresso e pace. Niente. Grandi paesi del Terzo Mondo, grandi
unità di diversi, grandi potenzialità non possono restare in vita.
L’imperialismo preferisce la Croazia fascistizzata, la Bosnia mafizzata,
il Kosovo snaturato, il Kurdistan narcotrafficante, gli sciti
sprofondati nel Medioevo, i sunniti alla fame, e magari i padani con per
capitale l’ombelico di Bossi e per confine là dove arriva il raglio di
Castelli, preferisce tutto questo a ciò che storia, solidarietà, destino
e progetto comune avevano messo insieme. In particolare, l’imperialismo
e il suo rostro sionista hanno sul piloro la nazione araba, ancora
rabbrividiscono al pensiero di cosa fece negli anni ’50 e ’60 ai cugini
inglesi, agli alleati francesi, perfino agli straccioni all’iprite
italiani. Sennò cosa avrebbe miscelato in provetta a fare,
l’imperialismo, uno Stato ebraico là dove da millenni stavano
palestinesi? Sennò a cosa servirebbe mai il Piano neocon-neonazi del
“Grande Medioriente” dal Marocco all’Afghanistan (Iran, Turchia e
Afghanistan con la nazione araba non c’entrano niente, ma servono a
diluirla), il genocidio dei renitenti palestinesi, dei troppo arabi
iracheni, gli attentati Cia-Mossad in Arabia Saudita, Turchia, Marocco,
la mazzetta di 3 miliardi di dollari all’anno allo stalliere Mubarak, le
sanzioni alla Libia, il terrorismo “islamico-Cia” in Algeria e, ora, il
perenne terremoto innescato da Langley in Sudan?
Perciò, appena conclusa in Kenya la pace
nel Sud, ecco che i mastini da guerra, addestrati da San Pietro, Mosè e
Mickey Mouse, sono ripartiti alla carica nell’ovest. Il coro si va
facendo assordante, strepitano tutti: come sempre, i comboniani
forniscono l’indiscutibile testimonianza oculare e informazione
obiettiva, ONU e FAO, preoccupate, parlano di difficoltà nel far
arrivare i rifornimenti, Amnesty International e ONG ancora più occhiute
sollevano i vessilli dei diritti umani finiti nelle sabbie roventi della
repressione islamista. E subito spuntano ben due “eserciti di
liberazione nazionale”, tipo UCK kosovaro, chissà da chi muniti di armi
moderne, e subito appaiono milizie terroristiche che agiscono per conto
del governo e commettono stragi di innocenti (e magari sono gruppi di
autoprotezione aiutati, sì, dal governo, ma contro le provocazioni degli
eversori mercenari del complotto imperialista). E subito c’è anche un
paese, il Chad, guardacaso miserrimo e di obbedienza statunitense, che
si presta a soccorrere i profughi – Centomila? Un milione? – ma non ha
di che nutrirli e se li vede appassire tra le mani. Non circola neanche
un inviato di qualche giornale o tivù da quelle parti, ma tutti
sfanfareggiano di indicibili massacri: centomila?, Un milione? Tre
milioni a rischio…
Così anche la giornalista, una di quelle
vere, di “Liberazione”, Sabina Morandi.
Titola “Sudan, la guerra che non fa
notizia”. Ammazza, Sabina, se non fa notizia! Ma se si sono dati tutti
appuntamento sull’imminente decapitazione del Sudan, velinari, analisti,
corsivisti, provocatori, esperti, tutti saldamente, come te, ancorati
alla loro seggiola con sguardo sul Bar Pippo. Ci fai rabbrividire, come
quei tuoi colleghi dei grandi media, vi cola sangue misto a resti
cerebrali dalla penna: “Ogni giorno le condizioni di vita uccidono tra i
sei e gli otto bambini, fra poco moriranno 300.000 persone di fame,
almeno diecimila morti nell’ultimo anno e mezzo, fra 800mila e un
milione di profughi”.
La fonte?
Human Rights Watch, figurarsi ! Basta il
tono:”Il governo Sudanese è responsabile di pulizia etnica e di crimini
contro l’umanità. Nel Darfur vige il terrore”. Vi ricorda qualcosa? Il
Kosovo forse? O le armi di distruzione di massa di Saddam? O i poveri
“dissidenti” di Cuba? O i tibetani >>>>sterminati dai cinesi? E vai,
Sabina, con le citazioni e con le fonti. Manca nessuno. Kofi Anan,
l’ONU, il Fronte di Liberazione del Darfur, le Acli (quelle che
addestrano mercenari con istruttori israeliani), Caritas, Comboniani…
Non manca che la CIA, ma c’è UsAid, che è uguale, forse peggio, chiedilo
ai latinoamericani, visto che sei capace di dar credito alla più
fetecchia delle fetecchie tra le agenzie di penetrazione imperialista
USA E un minimo di memoria storica, di sapienza geopolitica e di occhi
aperti sull’offensiva imperialista e neocoloniale contro i popoli con le
risorse, contro le grandi nazioni, contro i governi refrattari alla
prostituzione della sovranità. Quanto meno, se proprio ami
spassionatamente l’Ansa e la CNN, un microscopico dubbio!
Occhio, Sabina, stai in un giornale di
sinistra, un giornale che dovrebbe rappresentare un altro mondo, altre
verità. Invece sei uguale a “Libero”, a “Repubblica”, al New York Times”,
a Giuliano Ferrara, Gad Lerner e Paolo Mieli, “first class journalist”,
come dice Rina-Fede-Gagliardi. Forse neanche tu sei comunista e quindi,
per forza, ti manca la chiave di lettura. E poi stai accanto a chi ci
ossessiona e ci intossica un giorno sì e l’altro pure con la trappola
neocon-neonazi della “spirale guerra-terrorismo”, ch’hai da fa… Magari
se dessi un po’ retta al tuo attuale e mio antico collega Annnibale
Paloscia (non per nulla come me di scuola Paese Sera, lo ricordo per
irrorarmi un po’ della sua bravura) che dietro alle cortine di fumo
dell’Ansa e della CNN ci sa guardare, le fonti alternative le sa
trovare, la puttanata, per esempio, dei 300 ceceni a Nassiriya la sa
dimostrare falso alibi dei nostri nuovi carri e elicotteri con cannoni
da 120, per spazzare via altro che 300 civili sui ponti…Che tonfo,
Sabina! Hai concluso addirittura così: “Inutile aggiungere che
abbandonare i profughi del Darfur al loro destino sarebbe semplicemente
un crimine”. E allora vai con l’intervento umanitario! Come con i
kosovari, vero? Questa l’ha proprio dettata Rumsfeld.
Ci sono stato nel Darfur, pochi anni fa,
per il TG3, con un eccezionalmente bravo ambasciatore italiano che amava
il Sudan forse più del suo stesso paese e ne sapeva grandezze, misteri,
pericoli e nemici. C’era già allora la siccità, quella che, tra le altre
cose, noi stiamo infliggendo, con i nostri giochetti climatici, a chi
non ha i ghiacciai delle Alpi o dei poli alle spalle e i condizionatori
alle finestre. Mentre penetravamo dal semideserto in un deserto sempre
più deserto, con colonne di lunghi stracci bianchi migranti a piedi
verso Est alla ricerca di acqua, l’ambasciatore distribuiva le taniche
d’acqua ammonticchiate sul fuoristrada a gente in capanne isolate, gente
con bambini o gonfi , o stecchiti al collo, che si doveva piegare
controvento per non essere spazzata via dalla bufera di sabbia. E il
governo ne aveva già accolto quasi tre milioni (dal Sud – chissà perché
venivano tra i tagliagole islamici del Nord? – e dall’Ovest) in campi
profughi dentro e attorno a Khartum, sfamati quasi senza aiuti ONU.
Quando rientrai mi imbattevo in giornali, come quello di Sabina Morandi,
che non parlavano di sciagure naturali, o piuttosto indotte dalle
malefatte degli “sviluppati”, ma che parlavano di terribile repressione
degli agricoltori dell’Ovest e del Sud del paese, a opera di arabi
nomadi istigati dal governo islamico. Non mi restava che digrignare i
denti.
Fra poco, vedrete, ci toccherà
solidarizzare con l’Intifada sudanese, e lo faremo, come con quella
palestinese e irachena, alla faccia degli sciacalli e dei pappagalli, ma
qualcuno parlerà di terroristi integralisti all’interno della “spirale
guerra-terrorismo”. Sabina, non ci cascare. Chiedi consiglio a Annibale.
Non ne possiamo più di una stampa, presunta alternativa, che si fa
trombetta delle patacche imperiali.
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