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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

SUDAN-DARFUR USA, UE, Israele e Vaticano uniti nella lotta
Il complotto imperialista, la complicità pacifista

(riquadro storico)

CRONISTORIA DI UNA DESTABILIZZAZIONE COLONIALISTA

Contrariamente a quanto si va dicendo, la cosiddetta “guerra civile” sudanese non è iniziata nei primi anni ’80, e neppure nei primi anni ’60, poco dopo l’indipendenza. Questa guerra di restaurazione colonialista, mascherata, come suole, da conflitto interetnico o interconfessionale, parte subito nel 1955, un anno prima dell’indipendenza strappata alla Gran Bretagna. Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e Vaticano, utilizzando basi di partenza e appoggi garantiti via via da alterni governi collaborazionisti in Uganda, Etiopia, Kenia, Congo ed Eritrea, inventano e armano un movimento secessionista nel Sud minerario e biodiversificato del più grande paese arabo e africano. Alimentano tensioni fin lì sopite tra popolazioni minoritarie africane, che si vogliono cristiane per quanto in massima parte animiste, e maggioranza semita araba e ne fanno un gran parlare sui media complici e tra patiti dell’autodeterminazione finalizzata a frantumare grandi realtà statuali multietniche, multiconfessionali e multiculturali. La Jugoslavia risulterà mezzo secolo dopo il modello più riuscito di questa strategia che parte come “rivoluzione di velluto”, o arancione che sia e, non bastando, prosegue con la rivolta armata e si conclude con l’intervento “umanitario” dall’esterno. Grandi propagandisti della “rivolta di un Sud minacciato dall’ islamizzazione” (per quanto pacificato una prima volta da Gaafar Nimeiry grazie alla concessione di una larga autonomia a tre provincie meridionali con capitale Juba) è la poderosa confraternita dei Padri Comboniani, missionari apripista sotto la dominazione britannica, nostalgici della  loro manomissione su istruzione e sanità di epoca coloniale, ansiosi di rivincita nei confronti di uno Stato che si era appropriato di quelle istituzioni nel segno della rivoluzione nazionale laica e sociale araba innescata da Gamal Abdel Nasser.

Eroe dei comboniani e dei destabilizzatori neocolonialisti diventa John Garang, generale fellone dell’esercito sudanese, che i suoi padrini istigano a costituire l’SPLA (Sudanese People’s Liberation Army). La rivolta contro il governo centrale e la strategia di secessione assume rinnovato vigore negli anni’80, caduto Nimeiry e succedutegli leadership meno laiche e più intonate a un Islam di Stato. Secessione sostenuta dalle solite potenze interessate alla frantumazione della nazione araba, oltrechè del Sudan, a partire sempre dalle basi  logistiche e dai santuari sahariani e subsahariani. Degenera però presto, non appena inizia lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi su vasta scala, in sanguinosi scontri tribali per barili di oro nero, nei quali le forze regolari giocano un ruolo del tutto secondario, ma che vede le stragi di persone e bestiame, la distruzione di villaggi, la fuga di quasi tre milioni di profughi verso Nord (!), poi tutti accampati intorno a Khartum, trasformati da comboniani, media filoimperialisti e le solite ONG che annusano affari, in “genocidio dei neri animisti e cristiani del Sud”. E il peso del sostegno a questi milioni di fuggiaschi neri dalle guerre di secessione che appesantisce – altro elemento della strategia colonialista - in misura sempre più grave il bilancio dello Stato e ne impedisce il decollo sociale ed economico, al di là dei giudizi che si possono dare sulla maggiore o minore bontà dei vari governi di Khartum, che non sono qui in questione e non competono né a me, né a tutti coloro che sputano sentenze da lontano senza aver mai dato uno sguardo da vicino alla realtà sudanese.

Negli anni ’90 entrano apertamente in gioco gli USA sotto l’amministrazione Clinton. Il Sudan, messo in difficoltà più dalle sanzioni allora decise al nuovo “Stato canaglia” e dal conseguente isolamento internazionale che non dai rivoltosi eminentemente in lotta fra loro, corre ai ripari intavolando negoziati con Garang e altri gruppi secessionisti. Nel 1998 Clinton fa bombardare l’unica grande industria farmaceutica, Al Shifa a Khartum, fingendo di credere che li si stavano producendo le solite “armi biologiche e chimiche”, cosa poi provata priva di ogni fondamento da varie inchieste indipendenti. Ma Khartum, dove governa Omar el Bashir, riesce a concludere un accordo di pace con i secessionisti del Sud sul finire del 2002, poi ufficializzato nel 2004, anche se a costo di pesantissimi sacrifici sul piano della sovranità: un referendum sulla secessione dopo 6 anni, la divisione in parti uguali della torta petrolifera, un sostanziale autogoverno. Con sospetta coincidenza, al momento della stretta finale nei negoziati in Kenia, sotto l’egida degli onnipresenti segretari di Stato Madeleine Albright, prima, e Colin Powell, dopo, scoppia, nel gennaio 2003, il bubbone Darfur, regione centro-occidentale al confine con il Ciad, anch’essa petrolifera, esattamente lungo le linee della destabilizzazione meridionale e con gli stessi protagonisti esterni.

Compaiono due movimenti di “liberazione”, Il Fronte di Liberazione del Sudan (mica del Darfur!), e il Movimento per l’Uguaglianza e la Giustizia, ampiamente riforniti da John Garang, anche con i propri veterani della secessione, e finanziati e armati attraverso il Ciad da USA, Israele, Gran Bretagna e, ora anche, Francia e Germania. I comboniani, punta di diamante dello schieramento “umanitario” e della “società civile”, che colpevolmente include anche la stampa della sinistra istituzionale italiana, fanno da trombettieri dell’intervento umanitario. Immancabilmente l’ONU fornisce l’avallo e impone nuove sanzioni su suggerimento USA, entrano in ballo diecimila “pacificatori” di un’”Unione Africana” (UA, già OUA), titubante ma subalterna, la Nato affila le armi, arrivano i “consiglieri” in uniforme del Pentagono, si prepara la scena per l’invasione e per un nuovo Iraq. Intanto i ripetuti negoziati tra Khartum e secessionisti vengono mandati sistematicamente a monte da questi ultimi, l’ultimo a maggio, e le orecchie del mondo vengono assordate e istupidite dalle solite alluvioni di orrori: stupri, villaggi incendiati, morti ammazzati e profughi a gogò. La verità resta desertificata come tutto il Sahel. E nel maggio del 2005 arrivano i “nostri”: 220 del 183° reggimento paracadutisti della “Folgore”, quelli con alle spalle le torture somale e le stragi della “battaglia dei ponti” a Nassiriya.

Quando nel 1971 per “Giorni-Vie Nuove” intervistai il presidente Nimeiry a Khartum e poi visitai le province meridionali, suppostamene in rivolta contro il governo centrale nel nome di Cristo e di un  certo odorino di petrolio che iniziava a spargersi da quelle parti, toccai con mano quanto fossero esagerate e malintenzionate le periodiche ondate di diffamazioni che si scaricavano, dai comboniani in testa, sul Sudan, sulla sua unità nazionale, sulla sua politica antimperialista e sulla sua struttura vagamente socialista, tutte cose strappate a prezzo di spaventosi versamenti di sangue dai patrioti sudanesi all’Inghilterra. I vari responsabili delle tribù africano-animiste incontrati, con i Dinka, presuntamente protagonisti della rivolta, in testa, mi parlavano con disprezzo e risentimento dei “banditi” che, provenienti dall’Uganda e prezzolati dai colonialisti battuti, cercavano di convincere le popolazioni, a forza di violenze e ricatti, ad alzarsi in armi contro il proprio grande paese. Quando, alla fine degli anni ’90, col TG3, percorsi il Darfur insieme a un competente ambasciatore italiano e a un esperto del PAM (Programma Alimentare Mondiale), in occasione di una siccità che stava diventando catastrofica e che vedeva fuggire, proprio come oggi, proprio verso la capitale, ora detta sede dei persecutori, decine di migliaia di profughi della carestia, il deserto dell’informazione su questa tragedia umanitaria, autentica, era pari all’estensione dell’intero Sahara. Il silenzio mondiale durò fino a quando il Darfur si aggiunse al Sud Sudan e ad altre zone destabilizzate del continente a formare la prossima seconda fonte di petrolio e di gas naturale degli Stati Uniti. Una scoperta di idrocarburi fatta intorno al volgere del millennio e che ha poi provocato un succedersi di emissari, perlopiù provocatori e disinformatori di professione, prima solo USA e poi anche ONU ed europei, francesi e tedeschi in testa, interessati a quell’oleodotto in fieri che dovrebbe collegare i giacimenti del Darfur al Ciad e poi al Camerun, sottraendo il flusso al controllo statale e al percorso verso Port Sudan, interamente in territorio nazionale.

Spuntano all’inizio del 2003, in rivelatrice simultaneità con lo spegnimento, a costo di pesantissimi sacrifici per un Sudan isolato e assediato, del focolaio cinquantennale nel Sud, i secessionisti del Fronte di Liberazione del Sudan e del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza. Il disastro umanitario vero, determinato da una siccità annosa e dalla trascuratezza delle agenzie di soccorso internazionali e che ha provocato l’esodo della stragrande maggioranza di agricoltori e nomadi, poi attribuito ai Janjaweed,  milizie di autodifesa contro i secessionisti, falsamente dichiarate agli ordini di Khartum, diventa disastro umanitario determinato dal terrorismo del governo centrale e delle sue “milizie” Si trascura volutamente, se non in una sparuta corrispondenza di Le Monde Diplomatique, la natura vera di un conflitto suscitato dalla mancanza d’acqua e dalla carestia tra sedentari del Sud Darfur e allevatori alla ricerca di risorse  provenienti dal Nord desertificato. Ma l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, nonostante gli sforzi dei comboniani e delle altre agenzie di propaganda anti-araba e antinazionale, soprattutto israeliane e statunitensi, resta distratta. Ci vuole il botto. E il botto arriva via mare e porta in testa un elmetto di foggia tedesca.

Il 29 giugno 2004, a poche miglia da Porto Empedocle, la nave tedesca Cap Anamur chiede il permesso di entrare nelle nostre acque territoriali con 37 disperati “sudanesi del Darfur”, salvati dal naufragio nove giorni prima, nei pressi di Malta. Il governo italiano si oppone, per una volta a ragione giuridica, prolungando, forse non innocentemente,  per parecchi giorni una presunta tragedia che poi risulterà una cinica commedia. La Cap Anamur avrebbe dovuto far sbarcare i naufraghi là dove li aveva pescati, a Malta. Non si capisce perché ne abbia prolungato le peripezie. Sulla nave si avventano tutti, pare un buffet a Palazzo Chigi. Giornalisti di ogni specializzazione, inviati di guerra, inviati di cronaca, inviati di nera, inviati di rosa, inviati spie, inviati provocatori, dame di carità, femministe dell’anti-islamismo duro. Arrivano anche i giornali, i telegiornali, gli speciali, e ONG come fossero cavallette su un campo da spolpare. Non manca davvero  nessuno e non mancano ovviamente, a distribuire pietas cristiana, i comboniani che si tirano dietro, infervorati come nemmeno quando sputano su Cuba, i Medici  e i Reporter Senza Frontiere (e senza pudore). Nessuno si preoccupa di andare a frugare nelle pieghe di una storia assai oscura, quella della Cap Anamur, dell’omonima organizzazione umanitaria con sede a Colonia e della

Gesellschaft fuer bedrohte Voelker  (Società per i popoli minacciati) che in Germania la fiancheggia dall’estrema destra, con particolari e collaudate mire sull’Europa orientale, sul Tibet, sulle minoranze in Laos e Vietnam, sui terroristi filo-USA di Al Qaida in Cecenia, sui curdi iracheni  e altri agenti dell’offensiva neocolonialista e imperialista. E se qualcuno lo fa (“Liberazione”, appunto), ne trae spunto per esaltarne i “comprovati valori umanitari”: che si tratti della megaprovocazione antivietnamita di una Washington assetata di vendetta, con i famigerati “Boat people” attratti verso il paradiso capitalista dopo la viet-vittoria del 1975, o delle operazioni ancora più sporche al largo del Kosovo a favore della mistificazione della “pulizia etnica” di Milosevic, o ancora di interventi di fiancheggiamento alla propaganda imperialista e guerresca dei vari Clinton e Bush in Africa, Etiopia, Angola, Somalia, in  Afghanistan, naturalmente in Cecenia, a Baghdad e ad Haiti. Insomma ovunque ci fosse necessità di contribuire all’irruzione del terrorismo imperialista e alla frantumazione degli ostacoli alla sua espansione.

 

Non sorprendentemente i 37 profughi, che sugli schermi risultano tutti omaccioni ben nutriti e forzuti tra i venti e i trent’anni, non sono affatto del Darfur e nemmeno sudanesi, anche se qualcuno del Manifesto e di Liberazione, oltrechè della ciurmaglia giornalistica di cui non fa conto elencare le nequizie, aveva letto “nei  loro occhi ancora il riflesso degli orrori visti in Darfur, villaggi inceneriti, donne stuprate, bambini macellati…” Sono tutti nigeriani o ghanensi, prestatisi all’immonda sceneggiata sulla pelle delle autentiche vittime del Darfur, pescati chissà dove, rispediti a casa e, per quella volta, all’espulsore cronico Pisanu non si potevano dare tutti i torti. Elias Bierdel, provocatore trentennale e capitano delle nave, se la cava con poco, un brevissimo fermo, poi via a casa, a pianificare altri servizi alle multinazionali del suo paese e al capoterrorista mondiale di Washington. La rivelazione della truffa, però, non scoraggia nessuno degli utili idioti della stampa democratica, o di sinistra, o radicalsinistra (quanto pesa ormai più la prima parte del termine!), anche se i toni si attenuano, forse un minimo di imbarazzo. Passivamente, comunque, si riprendono le agenzie dell’impero franco-britannico-germanico-israelo-statunitense e si sparano notizie, reportage e trafiletti sul continuato “genocidio” inflitto da Khartum al Darfur. Le cifre sono tanto altalenanti quanto iperboliche: 70.000 morti, no 150.000, addirittura 400.000 per Human Rights Watch, l’agenzia “umanitaria” del destabilizzatore di professione e bandito della speculazione internazionale George Soros; centomila profughi che nel giro di pochi mesi diventano due, tre milioni (stranamente, di nuovo, quasi tutti attorno alla capitale del governo assassino, Khartum. In Ciad, riserva di inviati embedded, solo qualche migliaio, ma utilissimi, come i profughi kosovari di “Arcobaleno”, a raccontare balle che gli ingrazino di donatori e, intanto, le telecamere. 

Nel corso di tutta questa storia, sostenuta sul piano militare dai reduci della secessione meridionale di John Garang e dai tagliagole ex-golpisti di un Ciad del tutto asservito ai padroni occidentali, gli USA si muovono con grande impegno e continuità, in concorrenza-alleanza con francesi e tedeschi: si tratta di sottrarre alla Cina sia l’85% del flusso petrolifero sudanese (il resto è del Canada e di pochi altri paesi), sia un rapporto di affari e di amicizia con il Sudan che ne ha fatto un motore del riscatto economico e un argine all’isolamento e alla persecuzione politico-mediatico-diplomatica. Sputtanata l’amministrazione Clinton dalla rivelazione che la fabbrica farmaceutica bombardata a Khartum nel 1998, Al Shifa, non produceva armi chimiche, ma aspirine e medicine anti-Aids, il 19 novembre 2001 il governo USA torna alla carica:”Siamo preoccupati del crescente interesse del Sudan per lo sviluppo di un programma di armi biologiche”. La spara grossa così nientemeno che il noto protagonista del terrorismo diplomatico John Bolton, poi controverso candidato alla  carica di ambasciatore USA all’ONU. Che i neonazi di Bush jr. abbiano messo la quarta lo conferma la rinnovata accusa statunitense che il Sudan alimenterebbe il terrorismo internazionale e albergherebbe 600 missili Scud di Saddam (dignitosamente e coraggiosamente, il Sudan si era schierato con l’Iraq in entrambe le aggressioni). L’ Intelligence statunitense, un impagabile ossimoro, fornisce elementi di sostegno a ritmo di tsunami: rifiuta ripetuti inviti del governo sudanese a inviare ispettori per verificare sia “l’appoggio al terrorismo”, sia “il programma biologico”, sia il sostegno a presunte milizie assassine in Darfur (anzi, Khartum processa ripetutamente responsabili di milizie nomadi catturati), mentre si stende il silenzio sull’incredibile e terribilmente rivelatrice circostanza che, nel 1996 (vedi il settimanale inglese The Observer), catturato Osama bin Laden in territorio sudanese, Khartum lo offrì agli statunitensi e si vide opporre un rifiuto con l’invito, altrettanto sbalorditivo per chi crede ancora alla versione ufficiale dell’11/9, di rimandare questo insostituibile agente Cia in Afghanistan, magari via Bosnia e Kosovo, a fianco della Nato, come poi risultò. Comunque, una spedizione di investigatori Cia, FBI e del Dipartimento di Stato alla fine indaga per 18 mesi su tutto il territorio sudanese e, ovviamente non trova nulla, neanche quegli eccidi in Darfur di cui continuano a parlare Powell, l’ONU, i capi italiani di una commissione ONU – Antonio Cassese, già presidente del famigerato tribunale-fantoccio sulla Jugoslavia all’Aja, e Barbara Contini, già governatrice sovrintendente all’occupazione italiana di Nassiriya – e, pervicacemente le ONG e la stampa di sinistra. A un certo punto si accredita addirittura la notizia, atta a drammatizzare la necessità di un intervento militare, che nel ’99 Khartum avrebbe utilizzato armi chimiche contro i secessionisti del Sud. Una balla sesquipedale, come quelle su  Saddam gassatore dei curdi (i servizi USA dimostrarono che erano stati gli iraniani), che avvicina la prospettiva sudanese tragicamente alla vicenda irachena, per quanto perentoriamente smentita da investigatori ONU che raccattano campioni di suolo del tutto puliti da mezzo Sudan.

Siamo ai giorni nostri e ci possiamo scommettere che, non fosse per l’eroica e vincente Resistenza irachena, che tiene i mercenari USA incastrati tra il Tigri e l’Eufrate, al Sudan, ma anche al Venezuela di Hugo Chavez, sarebbero già toccati interventi umanitari, o operazioni terroristiche al di là della limitata sfera geografica del Darfur. Michael Jackson, capo delle forze armate britanniche, aiutante di campo sotto i miei occhi nella strage della “Domenica di Sangue” a Derry,  ha dichiarato lo stato di pronto intervento nel Sudan delle sue truppe, l’Unione Africana, a corto di uomini e mezzi, invoca, su suggerimento non innocente di varie potenze imperialiste, l’arrivo della Nato. Un arrivo definito il 24 maggio a cena, a Bruxelles, tra due cannonieri di rango: Condoleezza Rice e Jaap De Hoop Scheffer, segretario della Nato e collaudato pulitore etnico in Kosovo. Poco meno di 300 militari italiani sono stati già spediti nel Sud, a guardia della pace, ma moltiplicati e a disposizione del  Darfur domani, l’ONU ha fatto capire che non si opporrebbe a un intervento finalizzato a salvare le popolazioni del Darfur, gazzette imperialiste già guardano oltre, e opportunamente imbeccate parlano della “tragedia del popolo Nuba” nel Kordofan, contiguo al Darfur, i becchini umanitari delle Ong e i collateralisti della sinistra sedicente radicale e no-global sono schierati ai confini, arma vocale nella strozza. L’ombra del Condor, di orripilante memoria latinoamericana, tornato a volare anche lì,  si sta allargando dal Congo alla Costa d’Avorio, dal Togo alla Guinea, dall’Angola al Sudan, a tutta l’Africa, e gli avvoltoi europei gli volano in coda. Chi li abbatterà?     

Ultimissima: le organizzazioni separatiste del Darfur hanno interrotto per la sesta volta i negoziati di pace avviati con il governo sudanese in Nigeria.

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