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Pellegrini
della rivoluzione tra Caimito, La
Higuera e…
Prodinotti, con addosso pacchetti
sicurezza
L’ASSE DEL BENE
E LO STATO CHIAVICA
08/11/2007
Il
rivoluzionario, motore ideologico della rivoluzione in seno al
partito, si consuma in questa attività
ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno che il
processo non si estenda su scala mondiale. Se il suo impegno
rivoluzionario si affievolisce quando i
compiti più urgenti vengono realizzati su scala locale e
l’internazionalismo proletario viene dimenticato, la rivoluzione
che egli stesso dirige cessa di essere una forza propulsiva e
affonda in tranquillo letargo, di cui approfitta il nostro
inconciliabile nemico, l’imperialismo, per riguadagnare terreno.
L’internazionalismo proletario è un dovere, ma
anche una necessità rivoluzionaria”.
(Ernesto “Che” Guevara)
Tremo per il
mio paese se penso che Dio è giusto
(Thomas Jefferson)
A proposito delle due citazioni:
Cuba sì, Iraq no
La prima citazione, quella del
Che, è dedicata a coloro che frequentano
le ambasciate e gerarchie di paesi comodi, promettenti, poco
compremettenti e remunerativi e che
gli dedicano onorati volumi di saggi e apologie, ma che quando
all’angolo della strada compaiono i taliban,
la guerriglia irachena, Hamas, cioè i non-nonviolenti,
politicamente scorretti, ma resistenti ai carnefici dei popoli e
delle classi irriducibili, fugacemente si scappellano, si voltano
dall’altra parte e passano sul marciapiede opposto. Quando non
fanno finta di non vederli. Quando non arricciano le delicate
froge e, nettandosi le mani con le pagine de
il manifesto,
sospirano che questi non hanno un chiaro progetto politico, laico
e socialista, e che tutto sommato, dal
nostro imperfettibile punto di vista
europeo, sono un grande e intrattabile casino. Le dame chic de
il manifesto arrivano
a propalare le voce di coloro che
sostengono la permanenza, nei paesi occupati e straziati, dei
nostri killer seriali di massa, cioè di coloro che hanno innescato
tutto l’ambaradan, perché “altrimenti
è il caos”. Dunque tocca a chi ci sa
fare, è bianco, civilizzato, cristiano. Come i missionari di
Cortez, o i comboniani in Sudan. Se
sull’Iraq e Afghanistan la vincente demonizzazione degli
ex-governanti è stata vincente per
coprire sotto un telo di repulsione sia la più orrenda carneficina
imperialista dai tempi di Pizzarro e
del Generale Custer, sia l’eroismo e l’efficacia di una
resistenza alimentata da popoli interi, in Palestina la logora
demonizzazione degli ”integralisti islamici” si è accompagnata a
una riuscita corruzione dell’élites
dirigenti. Il loro tradimento ha chiuso la bocca e fatto
incrociare le braccia a tanti solidali con la Resistenza
palestinese dalla facile puzza al naso. Incredibile che resti
quasi solo a denunciare la nazificazione
di Israele il gruppetto di onesti ebrei capeggiati dai
Canarutta, dagli Astrologo, dai Forti,
Damascelli, Treves,
Terracini…
La seconda citazione mi è un po’
estranea solo per il riferimento all’entità di dubbia esistenza
brandendo la quale hanno fatto del
mondo un no
limits per lupi mannari e
beoti. Ma va bene per quel paese che si è
fatto chiavica: un multisale-pozzo
di S.Patrizio, con spazi, sotto la
cupola mafiosa, adibiti a macelleria sociale, a bordello, a parco
delinquenti parlamentare, a cerebrolesione
scolastica, a pedofilia e pedoprostituzione
(soprattutto pubblicitaria televisiva: complimenti a Fiona May e a
Licia Colò per il loro prossenetismo
Kinder), arti marziali preventive, globali e senza regole,
laboratorio del falso e della patacca, atelier della paura,
bottega Ku-Klux-Klan, museo delle
mummie operaie, giovani o pensionate,
peep-show con
ologrammi di sinistra (Bertinotti, Vendola,
Ferrero, Menaguerra, Ingrao,
Sansonetti…). Con
ai piani nobili, in palchi stuccati d’oro, serviti da
afghani in guanti bianchi col papavero all’occhiello, i
Geronzi, i Draghi, gli euro banchieri
e, via via, i padrini delle grandi
organizzazioni degli amici degli amici. All’ingresso, a guardia
del filo spinato, in modo che tutto proceda nella luce del
sole che sorge libero e giocondo,
manipoli, coorti e legioni. Ora senza camicia nera, i capi vestono
come Dini e Amato, la truppa a cranio
rasato nudo, o con basco.
Se quel dio del buon Jefferson
ci fosse e fosse giusto e non quel mazzabubù
con cui i preti di ogni colore, nero, bianco, arancione, ci
lisciano il pelo e ci spaccano la testa, bè
non da tremare per il nostro paese ci sarebbe, ma da far salti di
giubilo. In mancanza di tale divinità, accontentiamoci delle
nostre forze. Che, alla faccia degli ignavi di cui alla prima
citazione, hanno per avanguardia i partigiani iracheni,
taliban e
palestinesi. E domani, vedrete, anche quelli sudanesi, siriani e a
seguire. E quando ai venezuelani, boliviani, cubani ed ecuadoriani
toccherà rispondere a busse e briscole
agli invasori Usa, con i loro Osama, Maliki
e Karzai, e quando ai culi di piombo
che fin lì gli davano pacche sulle spalle e ne ricevevano medaglie
e prebende verrà la sindrome degli ”estremisti, violenti,
terroristi”, di avanguardie ne avremo un vero
fottìo e sarà a quel
multisale-chiavica che toccherà tremare.
Dal Che a Mastella
Ragazzi, tornare da un
itinerario centro-sudamericano, tra le casematte delle brigate di
lavoro per Cuba e i picchi della cordigliera dove hanno trafitto
il Che e dove, dopo quarant’anni di dittatori, macellai yankee,
vampiri multinazionali, oligarchie mignatte, ora si apre sul
continente desertificato l’ombra amplissima della pianta seminata
dal “guerrigliero eroico”… tornare da lì a
Mastella-De Magistris,
Prodi-rumeni, sinistre-accordo sul
welfare, corteo del
20 ottobre-pacchetto sicurezza,
femministe che, depistando a beneficio di Bush e Prodi, vedono una
macelleria mondiale capitalimperialista
solo sub specie del
maschio che stermina femmine, bè vi
giuro che è dura, quasi raccapricciante. E’ come passare da una
serpentina di Maradona a una telefonata di Moggi.
Brigate di lavoro volontario: chi
c’è e chi ci fa
A Caimito,
brulicante villaggione tra gli aranci
a una quarantina di km dall’Avana, c’è da decenni un
acquartieramento per quelle brigate di lavoro volontario che,
create dal Che, sono diventate una
delle sfaccettature della solidarietà da e per Cuba, da e per la
sua scelta di percorrere altre strade rispetto al paradigma
universale dello sfruttamento del forte sul debole, dell’ingiusto
sul giusto, del cannibale sull’uomo. Altre strade che, come tutti
possono vedere, per quante cortine fumogene e specchi deformanti
l’accoppiata Bush-D’Alema (il tè lo
serve Bertinotti) le mettano davanti,
si stanno allargando e divaricando in mille direzioni, creando una
nuova e fitta viabilità su tutto il continente. Una viabilità su
cui procedono centinaia di milioni di persone, bianche, brune,
nere, gialle, rosse, tutte quelle che, prima, erano ciò che da noi
sono sempre più i rumeni, rom, marocchini, albanesi:
Untermenschen, dicevano i nazisti, sottouomini.
Untermenschen,
dicono oggi in ebraico, ammazzando palestinesi, gli israeliani.
Grazie al bushiano 11 settembre gli
Untermenschen
hanno fatto la cortesia di centuplicarsi.
A Caimito
la brigata europea era composta da
nazioni e lingue come la maltese e l’olandese, la spagnola e
l’irlandese, la kazaka e la ceca, l’italiana e la tedesca e se ci
fosse stata quella rumena sarebbe stata accolta e celebrata come
tutte le altre. Nei lavori dei campi ci si dava una mano e, se si
competeva, si competeva per Cuba.
C’era, è vero, qualche rimasuglio di protervi
fuorifase che vedevano le cose in verticale, con loro in
cima. C’era qualcuno che, non preoccupato di sapere un fischio di
Cuba e della sua lingua, aveva preso la brigata per “Avventure nel
mondo” o, peggio, per il Club Mediteranée
e dava il meglio di sé toccando il culo
alle compagne delle pulizie e passando le serate cazzeggiando
addosso a fiumi di rum. Devo però dire che ai meno stronzi
capitava che si strappassero dalle
orecchie l’ipod e mollassero l’ottima
birra
Bucanero
per venire ad ascoltare chi gli spiegava come a
un’isoletta di undici milioni di volenterosi era riuscito a
dribblare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, con questo,
l’ignoranza, la miseria, la cattiva salute, lo sbraco ambientale,
il precariato, Padoa
Schioppa, il razzismo e Veltroni.
In ogni caso il 90% dei 130 brigatisti passava
dall’incontro con il prestigioso
economista marxista allo scambio con l’esperto di politica
internazionale, dal Museo della Rivoluzione all’Associazione delle
donne o dei giovani comunisti, dall’ospedale senza ticket e liste
d’attesa di Pinar del Rio, alla sua
università, gratuita come tutte, alle meraviglie tropicali del
Parco Nazionale di Vinales e alla
bioagricoltura degli “orti urbani” dell’Avana che contribuiscono a
dare a Cuba la sovranità alimentare. Di sera, poi,
si imparava la salsa per mano a
provetti ballerini, si cantava e qualcuno amoreggiava. Nel teatro
scolastico di Guayabal, o sul
palcoscenico della Casa dell’Icap
(Istituto Cubano per l’Amicizia dei Popoli) bambini o artisti di
rango ti facevano vedere come si fa. Il
pensiero correva alla scuola aziendalista di
Berlinguer-Moratti-Fioroni e
alle elargizioni di costoro alle scuole per
montezemolini e ratzinghini. Il
pensiero correva anche alle nostre campagne desertificate dalla
chimica e dalla migrazione forzata degli espulsi nelle periferie
di Veltroni.
Amici
o idolatri?
I veri amici di Cuba non si
spellano le mani di applausi per la
capra cubana che, essendo rivoluzionaria, è una star rispetto al
misero ovino borghese. I veri amici di Cuba quando una capra
cubana è stortignaccola, glielo dicono
ai cubani. E si intenda cosa intendo
per capra. I veri amici di Cuba si fanno il
culo per la rivoluzione cubana ovunque sia aggredita o
diffamata, ma evitano di fare i sicofanti, perennemente in
ginocchio davanti a icone cubane, che, da adoranti, al primo
inconveniente si trasformano in Angela
Nocioni (quella che su
Liberazione sparava contro Cuba cazzate fornite
dall’arsenale di Miami). Dunque, che
gli vada o no, parlerò di qualche ombra, tra le note luci
sfolgoranti. Sono rivoluzionari, questi cubani, e la rivoluzione
la stanno diffondendo in mezza Sudamerica, ma
mica sono cherubini! E a volte, pur essendo lo
spirito fortissimo, la carne, dopo tanti anni di tener duro,
prolassa un pochino. E così te
la devi vedere con il dirigente dei giovani comunisti che, anziché
darti risposte sul perchè le sette
evangeliche, tentacoli dell’imperialismo, dilaghino nell’isola,
ti da formule memorizzate sul rispetto
di tutte le religioni. Bella cosa, ma non una risposta. Diceva il
Che: attenti a burocrazie e gerarchie, rischiano di mangiarsi le
più belle rivoluzioni! E così hai l’uomo del Ministero della
Cultura che sfotte un po’ troppo l’Unione Sovietica, tanto per non
farsi dare dello stalinista (che poi nessuno a Cuba è mai stato)
dai grilli parlanti europei, dimenticando che quel paese ha fatto
navigare il rosso vascello cubano, soffiandogli nelle vele, per
una trentina d’anni. Farà piacere a
Prodinotti, noi non ne abbiamo bisogno. Su altre ombre
piomba la torcia Fidel con le sue
campagne contro burocrazia e corruzione. C’è burocrazia? Sì, ma
sta alla nostra come la ragnatela della mia dispensa sta a una
rete a strascico. C’è corruzione? Sì, ma sta come un
Kleenex al rotolone italiota che si
dipana da Fiorani a Fassino, dalle
banche alle telefoniche, dai pregiudicati in parlamento ai ras
degli enti locali e ai boss della criminalità organizzata. Sempre
che si possa ancora parlare di una criminalità organizzata
separata dal resto delle istituzioni. E ogni giorno i fatti urlano
che non lo è.
E, annegando
nelle fiumana rossa che lungo il
Malecon, armata solo di volontà e sovranità, promette
resistenza o morte allo psicolabile che minaccia lapilli e ceneri
dalla Casa Bianca, corre il pensiero anche ai Fori Imperiali,
imbrattati invece di missili e carri armati, nonché di
ambasciatori Usa e Nato e ruffiani di Stato vari, con la
benedizione di un Bertinotti con la
spilletta della pace infilzata nell’ennesima casacca nuova
griffata Potere. E
non si poteva non pensare ai cento e cento vessilli del terrorismo
imperiale infilati nel corpo prostituito del nostro paese,
vedi Vicenza, quando nella Tribuna
Antimperialista dell’Avana alte sulle nostre teste crepitavano nel
vento – e sul muso degli assassini - le cento e cento bandiere
nere delle vittime di cinquant’anni di
aggresione USA, degli innocenti pugnalati alle spalle da
chi nel covo di fronte, l’Ufficio d’Affari degli Stati Uniti,
insiste a cospirare per rimettere i ceppi a questo popolo. Quel
palazzo dei brindisi e banchetti per i “dissidenti”, cari a
D’Alema e Bertisconi, che lì vanno a
raccattare mensilmente l’onorario del tradimento e del sabotaggio.
E’ lì che si fanno un
pippone giurando di riprendersi ville,
bordelli e tenute, consegnare tutto il resto al
santolo a stelle e
striscie, corredato di mafia, azzardo
e droga, e tornare a farsi lucidare le scarpe da un popolo di
sciuscià.
Democrazia? Democrazia!
Siamo il paese che da Bush
ha imparato come si fanno – rubano - le
elezioni. Con un bonus in più: chi
arriva primo, ma con appena il 25%, viene gratificato con il 60%
dei seggi. S’è visto anche recentemente, in
primarie dove il re era già incoronato, in un referendum
sindacale dove chi giudicava che il vertice della Trimurti stava
al governo come il “premier” Al Maliki
sta a Bush, restava fuori dalle assemblee, chi era precario
restava fuori e precario, chi valutava l’accordo sul
welfare (in italiano
“benessere”, pensate che faccia!) un’autentica chiavica da far
rosicchiare d’invidia Berlusconi e Adam
Smith, lo si criminalizzava dicendo che stava minando l’unità
sindacale e, peggio, il governo di “centrosinistra”. E a chi non
gradiva liste elettorali blindate, con candidati –
utilizzabili solo se pieni di quattrini
per spot e bagarini di voti – nominati dai rispettivi monarchi
nella misura in cui si dichiarano sodomizzabili, si diceva che, se
non gli stava bene, andasse in Birmania. A questo riflettevo in
quella stradina di Guayabal,
villaggetto fuori l’Avana precipitato
nell’oscurità dal ciclone del pomeriggio, dove un
centinaio di persone, donne, uomini, vecchietti, bimbetti,
stavano radunati, nella fioca luce di una torcia, ad ascoltare la
segretaria del
Poder
Popular che gli chiedeva di
indicare i propri candidati a delegati del Consiglio Municipale.
Erano in atto le elezioni amministrative in tutto il paese. E a
Cuba si fa così. Si formano capannelli, la gente discute, poi uno
alza la mano e dice “Pedro”, vuole candidare Pedro. La segretaria:
perché Pedro? Lui: perché è in gamba, mia ha dato una mano a
riparare il tetto, ha difeso i miei interessi al Consiglio
Comunale dopo l’ultimo uragano. La segretaria: chi è d’accordo per
Pedro? Si alzano un’ottantina di mani.
Pedro è il candidato delegato di quella strada. Se ne fanno altri
due allo stesso modo. Costoro e Pedro si presenteranno poi
candidati di quartiere e, se eletti, con quelli degli altri
quartieri, candidati al Consiglio Municipale. Se Pedro entra nel
Consiglio, può andare avanti, nelle elezioni politiche, con lo
stesso meccanismo fino al Parlamento Nazionale.
Ma se dopo un po’ l’assemblea popolare
giudica che non ha lavorato bene, lo revoca e Pedro torna a
riparare tetti. Il Partito non c’entra, non candida, non
suggerisce, non interferisce. Si candidano anche i dissidenti. Che
dici, Bertisconi, che a Cuba non c’è
democrazia perchè non c’è un tuo
omologo titolato a scegliere i suoi prosseneti? A me pare che
l’unico che possa correggere qualcosa qui sia il mio bassotto
Nando: vorrebbe far votare anche i cani cubani. Forse il più
antico amico e collaboratore dell’uomo uscirebbe finalmente da
condizioni peggio dei Rom in Italia.
Delitti ambientali e primati
ecologici
Sento che in Italia oltre tre
milioni di persone si sono espresse
contro gli OGM, quella robaccia con cui
Big Farma,
i farabutti della farmaceutica tipo Monsanto, vogliono
espropriare i contadini di tutto il mondo e, sconvolgendo nel giro
di due provette quello su cui la natura ha lavorato per decine di
millenni, offrono alla criminalità politica organizzata un
ulteriore strumento, dopo fame, sete, uranio e bombe, per la
strategia maltusiana dei popoli di troppo. Non ha dichiarato un
esponente della cosca di Washington che il mondo si può mandare
avanti con solo il 20% della forza-lavoro attuale? Riduzione alla
quale lavorano alacremente anche gli zombie
del nucleare, tornati vispi grazie ai catastrofismi del tutto
strumentali dell’ammazza-serbi Al
Gore, che a Kyoto ridusse a scherzetto un tentativo di porre un
serio alt all’intossicazione planetaria. Mezzo milione
di intelligenti cittadini italiani,
poi, hanno depositato le firme per una legge popolare che lasci la
gente padrona dell’acqua e la tolga dalle grinfie delle
multinazionali degli avvelenatori e speculatori. Come successo in
Bolivia, con barricate, candelotti di dinamite, assalti di popolo
e anche con una serie di ammazzati dagli sbirri di
Bechtel e Suez. Mentre oggi a
Cochabamba sono comitati di quartiere
e di villaggio che gestiscono l’acqua dall’origine al rubinetto,
da noi il “centrosinistra” se ne fotte
altamente e, col culo parato dall’UE, accelera sull’autostrada
della morte: nucleare, OGM, acqua a chi paga e se la beve
manomessa da qualche SpA bersaniana.
Pensavo a questo mentre, nella Brigata di lavoro, segavamo i rami
secchi di frutteti a distesa d’occhio che non avevano mai visto un
grammo di fertilizzante chimico o anticrittogamico, condizione per
cui Cuba (che ha chiuso con il nucleare) ha il primato
dell’agricoltura ecologica dell’intero continente e, prima nel
continente, trae il 38% della sua
energia da fonti rinnovabili. L’acqua che non gli
scagliano addosso i cicloni caraibici è
tutta dello Stato, anche se sulla potabilizzazione e sulla guerra
alle bottiglie di plastica c’è ancora un po’ da lavorare.
Dove impara i suoi pogrom
Veltroni?
A Santa Cruz de la Sierra,
Bolivia della piana sud-est, stronzetti
e stronzoni in
tonitruanti SUV, carognette
vestite Prada, lardosi cafoni
criollos
in BMV, danno agli abitanti degli altopiani andini, ai
minatori di Potosì, ai contadini
aymara e quechua di dappertutto, del
kollas,
che sarebbe come Calderoli chiama rom e musulmani. Loro
invece sono la
Nacion
Camba, quelli delle
pianure, quelli bianchi, quelli evoluti. Quelli con la grana,
soprattutto. Ottusi e volgari quanto vuoi, ma con la grana e un
bonus in dollari e, fino a ieri, con il potere di fare quel cazzo
che gli pareva. Nel paese più povero del mondo. E più schiavo
degli Usa. Oggi producono pustole di collera alla vista che un
miserabile
kolla, perlopiù
aymara puro, perlopiù
cocalero,,
perlopiù amico di Fidel e di Chavez,
ha fatto della maggioranza
kolla, india,
il piatto della bilancia giustamente più pesante.
Dopo mezzo millennio di esclusione, silenzio,
dittature, stragi e ruberie creole, all’ombra del grande padrino,
iberico prima, a stelle e striscie
poi. Sconvolgente. Nella piazza della cattedrale si avvicendano -
attorno all’ambasciatore Usa Philip Goldberg
(collaudato nella distruzione della Jugoslavia) e ai suoi
paramilitari colombiani importati come consiglieri, traffichini,
pizzaioli, guardie del corpo - crocchi confindustriali ed
ecclesiastici. Sono inviperiti dall’arretramento alla posizione di
riccastri ladroni e basta. Studiano per vedere come allestire una
secessione, con asporto delle ricchezze del paese, gas, petrolio e
foglia di coca tornata cocaina, come in Colombia, che lascerebbe
quell’indio impudente e le sue nazionalizzazioni con le pive nel
sacco e farebbe della
Nacion
Camba un nuovo, splendido
Kosovo, un altro glorioso Kurdistan dei
narcocontrabbandieri Talabani e
Barzani. In bella controtendenza con
quanto sta succedendo, ai danni delle oligarchie e degli yankee, a
Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Argentina e, appunto,
Bolivia, e sta germogliando in molti altri paesi.
Verso il gemellaggio Santa
Cruz-Roma
E così, nella maestosa piazza di
stile coloniale, ecco che si festeggia, accanto a quella con la
piovra nordamericana, anche l’irrobustita intesa con il Vaticano
che, rasa al suolo la teologia della liberazione, banchettato con
i generali argentini dei
desaparecidos, affacciatosi su balcone sottobraccio a
Pinochet, oggi beatifica, dopo ciarlatani e sanguisughe come Madre
Teresa e Padre Pio, ben 500 santi martiri fascisti della Spagna
ansiosa di tirannia clerico-fascista.
Ma Evo è ancora là e va dritto per la sua strada, anzi a Valle
Grande, nella grande cerimonia finale per il 40° dell’assassinio
del Che, ha pure promesso di fare il socialismo del XXI secolo e
di riprendere il cammino aperto da quel “criminale e sanguinario
invasore della patria” di Ernesto Guevara (così la stampa di Santa
Cruz sul prigionieri ferito,
assassinato dagli sgherri del dittatore
Barrientos su ordine Cia). E dunque, per ora, i fetori
viscerali dei cruceni si devono
sublimare in mera invidia.
Ci ho parlato, con questi, sotto
le colonne e le vetrate dipinte di un
elegante circolo con camerieri in guanti bianchi (della stessa
etnia delle donne con tre bambini al collo stese sotto i portici a
chiedere soldi per il latte). Rigurgitavano ammirazione e gelosia
per il modello italiano, dove un ministro può liquidare un
magistrato che indaga su di lui, dove un “sindaco d’Italia”,
comunista dalla nascita e “mai stato comunista”,
può trascinare un governo, altri sindaci, prefetti e forcaioli
mediatici, a un pogrom da Notte dei cristalli e annunciarci
implicitamente “Boni, arriva il
castigamatti, senza camicia nera, ma arriva”. Dove un governo
brinda con l’eccellente Consiglio di Sicurezza Onu e con
l’eminente Unione Europea per essere riusciti a inserire, in
segreto, in liste nere, da acchiappo immediato, chi gli
risulta “sospetto”.
Niente più
habeas
corpus, obbligo di accusa, diritti di difesa,
magistratura, tutto più facile, più rapido, più efficace. Scherzavano,
i miei interlocutori cruceni: “Un
pacchetto sicurezza al giorno toglie i rompicoglioni di torno”. E
rosicavano per aver noi fatto “pacchetti sicurezza”,
a partire da quello Reale di trent’anni
fa, uno almeno per legislatura, con quest’ultima, che ha a bordo i
comunisti, addirittura al primato assoluto. Via
via a riprendersi quello che un
decennio “guevariano” ’68-’77, aveva
tolto ai padroni. Pare che Gabriel Dabdoub,
il Montezemolo di Santa Cruz, abbia
chiesto per Veltroni, D’Alema e Amato, al rettore del’università
la laurea honoris causa. Mentre il locale vescovo non vede l’ora
di abbracciare Ratzinger, il panzerpapa
che ha appena tolto alla ‘ndrangheta la seccatura di un vescovo
antimafia come Giancarlo Maria Brigantini. Beati voi, sospirano i
due, che avete politici e preti uniti nella lotta.
Con in calce al pacchetto “guerra ai
poveri” anche la simpatia di Nichi
Vendola, governatore PRC di Puglia che
qualcuno minaccia debba essere il futuro ras della Cosa Rossa.
Tra La
Higuera e Santa Cruz. Un uovo di gallina.
Da La
Higuera e poi, poco più sotto, da Valle Grande, aquilotti
urbani incastonati nella cordigliera, letteralmente si
precipita verso Santa Cruz. Sono sette
ore lungo cigli che ti guardano
beffardi da sopra abissi inenarrabili, voluttuosamente costeggiati
da pulmini con le ruote lisce come bocce da bowling, lungo
sterrate di polvere o di fango, a seconda degli umori degli dei.
Siamo quaranta, quanti occorrono per gonfiare l’abitacolo fino a
far gemere le giunture. Sto incastrato su trenta cm quadrati, le
ginocchia in bocca e, accanto,
un’ampia e ciarliera signora con nel cestino una gallina dalla
testa chiocciante che esce da sotto il panno. Sull’altro lato un
metticcio colto che affabula,
ininterrotto e sussurrando, sulle infamie dei secessionisti e sui
meriti di Evo Morales due argentini
che annuiscono in solenzio: stanno
a fianco dell’autista che sul cruscotto
ha madonnine, santi e i gagliardetti della
fascistoide
Union
Juvenil
Crucenista, alla quale si fanno risalire gli
ordigni esplosi a Santa Cruz davanti al consolato venezuelano e
alla sede dei medici cubani. Quei medici che risanano gratis una
popolazione che non aveva mai visto altro che il farmacista del
paese. Un’ilare ovazione accoglie l’annuncio della signora che
leva alto l’uovo appena fatto dalla sua compagna di viaggio e di
vita.
Ed è l’ovetto della gallina
“Marta” che mi fa riandare, in risalita, verso quel crocchio di
casupole in vetta a picchi rocciosi e brulli, senz’acqua, senza
alberi e senza storia, dove il Che scrisse le prime pagine di un
libro di storia che oggi si sta riempiendo di nuovi capitoli,
vergati da mani che usano gli stessi caratteri di allora. A La
Higuera ci si
arriva da Valle Grande in tre ore di macchina, fino a
Pocarà, cento case con presidio medico
cubano, e poi inerpicandos per altre
tre ore a piedi, facendo precipitare sguardi esitanti in baratri
senza fondo. Lassù, tra murales antichi e nuovi e grandi monumenti
al “guerrigliero eroico”, qui trucidato per ordine Cia da un
soldato renitente, ma alla fine ubriacato a
forza per la bisogna (e al quale ora medici cubani hanno
ridato la vista chiusa dalla cataratta), avevo chiesto a una
botteguccia dai due scaffali qualcosa
da mettere sotto i denti. M’avevano
dato un uovo. Non avevano voluto un centesimo.
Il piccolo sacrario del Che è
nella
scuelita rifatta, finta. Quella vera, di fango,
sta lì appiccicata, abbandonata. Ma il
sacrario vero è quell’armata ostile di rocce negate a ogni
solidarietà, di pendìì senza copertura
e senza sostentamento, dove il tradimento del PC boliviano aveva
fatto rifugiare gli irriducibili dell’amore per i diseredati di un
paese al fondo dell’abiezione sociale e in vetta alla speranza di
riscatto. Dove i Guevara, i Peredo,
gli altri, avevano collocato l’ultimo granello di una semina
destinata inesorabilmente a fiorire nel tempo. Le lacrime, più che
le immagini stinte sulle pareti dell’escuelita,
te le tiravano fuori quei venti tormentosi di vetta, quella natura
impietosa e feroce nella quale si concludeva,
stremata e disperata, la sorte dei mai arresi, dei soli contro
tutto, oggi vittoriosi senza poterlo sapere mai.
A Valle Grande, primo sepolcro
del Che, Fioroni non passa. Da La Higuera
a Baghdad.
Da noi, una scuola trasformata
in lupanare da suburra nel quale il capitale alleva
peripatetiche lobotomizzate e senza futuro, o in pollaio
confessionale lastricato d’oro per chicchirichì da coro, cantati
da pennuti senz’ali. A Valle Grande, geometrica e ondulata
cittadina inerpicata con leggerezza sugli irti colli
preandini, dove il corpo del Che fu
mutilato e, insieme ai compagni, seppellito in una fossa comune,
si dipana tra entusiasmi e rimpianti la
tre giorni di convegni del ricordo per convenuti da tutto il
mondo. Allestita da Chato
Peredo, fratello sopravvissuto ai
guerriglieri caduti, si svolge tra teatri, istituti superiori e
piazze. Dal palco dell’antico teatro spagnolo, odoroso di legno
buono, un’anziana contadina ci legge con faticosa e meticolosa
precisione una sua lettera di ringraziamento di fine scuola.
L’ascoltiamo in mille, militanti,
alternativi, qualche sopravvissuto dei fiori convertito a cose più
robuste, reduci del MIR cileno (ricordate “Armi al MIR” contro
Pinochet, di noialtri di Lotta Continua?), dell’ERP argentino, dei
Tupamaros uruguagi, compagni cubani
della Sierra Maestra, dell’Angola e della Bolivia. Tutti, tranne i
cubani, sono stati sterminati, sconfitti. Ma i loro fucili, la
loro guerra asimmetrica, si sono trasferiti al
di là degli oceani, oliano oggi le armi e la perizia dei
resistenti in Iraq, Afghanistan, Palestina. Già solo per averci
provato, hanno ispirato una lotta che sta mettendo in ginocchio il
mostro del terrorismo planetario. La
campesina di
Valle Grande arriva in fondo alla lettera e alza un viso
illuminato da applausi, sorrisi, cori. Un gruppo di venezuelani,
in tutte le occasioni di questa festa della vittoria i più
scatenati nel fervore bolivariano per
la Patria Grande,
canta la rivoluzione. Abbracciano la
neo-diplomata Chato
Peredo, “Urbano”, “Pombo”,
i compagni cubani del Che nell’ultima impresa, il ministro
boliviano dell’istruzione che è una piccola india rugosa
sgargiante di colori, l’ambasciatore del Venezuela. Non è
un’allieva scorticata dai nostri ministri dell’istruzione, da
Berlingue-Moratti-Fioroni.
E’ la milionesima alfabetizzata di un popolo che inizia la strada
della conoscenza di sé e del mondo. La lettera l’ha scritta lei.
E’ il ringraziamento ai suoi maestri cubani. In tutta l’America
Latina questi volontari cubani, con il famoso metodo
Yo
sì puedo, spalancano e
attivano intelligenze alla critica dell’esistente. Da noi l’alternativa
è tra sottomissione e paraculaggine.
Bella Italia, amate sponde.
Puntuali come i video di Osama dopo ogni barbarie statunitense
Torno in Italia in
pieno pogrom anti-disgraziati,
antigiovani (tutti “bamboccioni”
perdigiorno e sbevazzoni al volante,
tifosi licantropi, fumatori di spinelli e, dunque, assassini
potenziali), anti-diversi, con la panza di Borghezio assurta ad
Altare della Patria. Che colpo quell’assassinio di
Tor di Quinto a Roma, che puntualità!
Meglio delle epifanie del socio Osama
bin Laden, pronte a oscurare qualche
particolare efferatezza dello Stato Canaglia per eccellenza.
Un Rom rumeno programmato alla perfezione. Dal caso? Nell’orgia di
pogrom razzisti e di classe contro popolazioni di paesi che il
nostro capitalismo ha disintegrato, chi parla più di ragazzi in
strada verso la partita fulminati dalla polizia (attenti a non
alzare la voce con il vostro coniuge all’autogrill: vi giustiziano
seduta stante), o di bravi padri di famiglia, coltivatori di sei
piantine di marijuana, massacrati in cella. In compenso c’è ampio
e tonitruante spazio per la cattura
dell’ “erede di Provenzano”, messa in
calendario per quando fosse congruo. Magari per farci passare
sopra sindaci e prefetti organizzatori dei nuovi carri blindati
per gentaglia che non trova né lavoro, né
sghei, o s’è vista nascere islamica o nomade.
O anche per disperdere l’odore da polvere da
sparo rimasta ad aleggiare dopo l’uccisione di un ragazzo in
viaggio. Contemporaneamente va rovesciato l’assunto e va
calcata la mano quando si tratta di quegli sgherri di
Chavez che a Caracas hanno tirato
due candelotti su una decorosa marcia di fighetti dei
quartieri bene che, appesi a un mazzo di carote a stelle e
striscie, inneggiavano
all’eliminazione del “despota” e ululavano contro la modifica
costituzionale che riduce l’orario lavorativo a sei ore
giornaliere. Da noi la Costituzione che garantisce lavoro e
sicurezza (sociale!) viene emendata in
quattro assassinati sul lavoro al giorno e sette milioni di
precari tanto per cominciare.
Ah, se Carlo Giuliani fosse
emigrato in Venezuela! Dopo la satanizzazione
dei rumeni e il trionfo di Stato su Lo Piccolo e, d’altra parte,
dopo i vandalismi dei teppisti da stadio,
chi si ricorda più della megafrode di regime
Why
not, nonché dei
procuratori liquidati dalla lupara bianca di governanti da loro
inquisiti per ladrocinio e truffa al paese. Tanto più che, con il
ministro trafficone che rincorre l’esempio del dittatore
Musharraf, decapitatore di una corte
suprema non obbediente, noialtri siamo
ancora dilettanti rispetto al nuovo ministro della giustizia Usa,
Michael Mukasev (ovviamente della
lobby ebraica, più onnipresente e onnipotente di
Javé), che, quanto a passione
dichiarata per la tortura, rincorre
Torquemada. Chi pensa più agli sbirri incriminati per la
Genova cilena del G8, ma promossi a più alti onori per aver
anticipato i tempi? Chi va più a
sfrucugliare il sistema nazionale
mafia-banche-classe politica - “abbiamo una banca!” -
visto che con brillante operazione
hanno preso il “boss dei boss”, mero
racketero da estorsione di botteghe e appalti di quartiere?
I padrini veri nelle banche, saettanti tra Roma e New York con una
batteria di cellulari alle orecchie, si sganasciano di risate a
vedere questurini sventolare pizzini.
Chi si scandalizza più, visto che c’è sempre un Berlusconi che,
imbattibile per impudicizia e rozzezza, celebra in pompa magna i
pregiudicati Previti, Dell’Utri e i
suoi Circoli. Al prossimo giro candidiamo al Quirinale
direttamente Al Capone.
Dal ghetto di Varsavia al ghetto
di Gaza, passando per i ghetti di Pisa e della
Magliana
Svaporate
anche le misure dell’ultimo dispositivo Gestapo, intitolato
“pacchetto sicurezza” e “decreto espulsioni”, con tanto di voto
rifondarolo, di prammatica sotto ogni
porcheria prodiana (tanto, dopo
l’assenso al genocidio in Afghanistan…), ci si allena sulle
baracche rom e rumene di Pisa, Roma, ovunque, seguendo il manuale
“Ghetto di Varsavia”, aggiornato in Ghetto di Gaza. Per ora tocca
ai migranti, domani a tutti i poveri appena sollevano il
cucchiaio, o, addirittura, un terroristico coltello.
Violenza sulle donne. In Iraq
no? Donne dell’ Ecuador.
Le donne che a Roma manifestano
contro la violenza al loro genere, manifestazione in cui tutti
dovremmo esserci, in molti battendoci il petto e facendocelo
battere, partecipano dell’avanguardia
mondiale della liberazione. E conto che questo
le faccia mettere al primissimo posto della denuncia
l’indicibile olocausto di donne dei popoli in corso di
obliterazione imperialista. Tra i quali qualche uomo anche c’è.
Ma c’è chi di questo movimento
rivendica l’esclusiva o il primato. Le ultrà
femministe – momentaneamente prese in contropiede da una polacca
che ha fatto ammazzare il marito italiano che voleva vedere la
figlia e da una donna che avrebbe aiutato a stuprare e ammazzare
un’altra donna a Perugia – non possono ignorare, all’ombra della
lapide “gli uomini uccidono le donne”, una vicenda millenaria di
madri che reprimono e sopprimono i propri figli, in senso proprio
e figurato e, soprattutto, una totalità di madri, spose, figlie,
sorelle, bombardate, torturate, massacrate, stuprate, buttate
fuori dal mondo in Iraq, Palestina, Afghanistan. Per il cui
ginecocidio le più
prestigiose del movimento hanno addirittura votato in
parlamento. I marines ne hanno appena stuprate e torturate altre
sette nel carcere di Diwaniyah,
sbattute dentro per ricattare mariti, figli, o padri,
forse
partigiani. L’Ufficio dei Diritti Umani a Baghdad dice che è la
prassi. Pensate che nella piattaforma della manifestazione
nazionale delle donne contro la violenza non ci debba essere una
riga, uno slogan, un vessillo anche per queste? Cercate, cercate.
Per certune, quando le donne non appartengono alla razza bianca
cristiana “civilizzata”, l’unica cosa che interessa e che le
altre, poverette, non portino il burka.
E qui mi viene da ricordare una ripida scalinata a Quito, in vetta
alla quale uno scuola accoglieva
un’assemblea nazionale delle donne quechua della Federazione
capeggiata da Blanca Chancoso, figura
di punta del movimento delle donne indie del continente A molte
ponemmo domande circa il conflitto di genere in Ecuador, come
veniva vissuto in un paese in preda a convulsioni laceranti, tra
rivolte sociali e repressione dell’oligarchia fascistizzante. Con
leggerezza queste donne superavano la tradizionale riservatezza e
introversione della loro etnia, abituate dalla lotta a prendersi
la parola su temi non più delegati a nessuno.
“Siamo protagoniste di un movimento che è in procinto di
rovesciare l’ordine esistente, un protagonismo guadagnato contro
molte resistenze maschili. Quello che per noi è prioritario
oggi e farci sentire e valere a fianco degli uomini nello scontro
decisivo con il vecchio potere. O ci si va uniti, o si perde. Quei
conti tra i generi che ancora non siamo riusciti a regolare, li
abbiamo imparato a conoscere, ma
verranno tempi e condizioni migliori per occuparcene. Oggi la
scelta è tra fascismo e rivoluzione e, dunque, ci basta fare in
modo che le contraddizioni non intralcino la lotta.
Questo non può non porre le basi per il
confronto e l’intesa futuri”. Hanno detto bene, hanno detto
male, le donne di Quito? Lo dicano le
donne.
Chi ha Fidel e chi ha Amato e De
Gennaro e un sacco di
bertisconi
Quelli hanno Evo
Morales, il gas nazionalizzato e gli
indios risorti nel nome del Che, Hugo Chavez
e i suoi proletari e sottoproletari alla conquista del socialismo
del XXI secolo, Fidel e la sua democrazia partecipativa, Rafael
Correa in Ecuador che butta a mare la base Usa di Manta,
Kirchner e signora in Argentina che,
perlomeno, sbattono porte in faccia alla banda Bush, e Daniel
Ortega e i Sem
Terra e Le Farc e il movimento
indigeno in Perù e i Mapuche cileni
che denudano la signora presidente, cara a Washington e alle
femministe tanto integraliste quanto di bocca buona. Da noi
un Bertinotti da Zelig si esalta perché
l’’Italia
ha guadagnato un protagonismo nel multilateralismo… Prodi è stato
più autonomo dagli Stati Uniti… Le
spilline della pace nelle orecchie
gli risparmiavano il frastuono delle ruspe per l’allestimento
della base necrogena di Vicenza, della
fabbrica dei serial killer
aerei F-35 a Novara, del rombo dei voli Cia con sequestrati a caso
nello spazio aereo sovrano nostro, il
clap-clap-clap di Condoleezza per essere entrata l’Italia,
di soppiatto, nello Scudo d’assalto
reaganian-bushiano. Mentre un certo rispetto per
l’intimità altrui gli imponeva di non
vedere i servizietti fatti da Prodi al
sodale israeliano Olmert. Quelli, di
là dal’Atlantico, hanno eserciti e
polizie del popolo che bloccano colpi di Stato fascisti e
imperialisti e, di contro, manifestanti in mocassini
Todd’s e tacchi a spillo che marciano
per il caviale e il latifondo. Da noi eserciti e polizie fanno
altre cose a Bolzaneto,
nella Diaz, o in autostrada.
Noi abbiamo un
arruffapopolo ex-comunista alla
Stalin, oggi fascista di pongo, che,
cementificata in partito un’armata di bulimici, si muove come per
aprire la strada ai fascisti all’uranio impoverito. Abbiamo
un dinastia di papi che questi
fascisti, oggi di Spagna ieri di Croazia, li santificano postumi e
li incoraggiano attuali, un presidente della Repubblica che perde
ogni immaginabile occasione per risparmiarci il suo ampolloso
veteroinciucismo patriottardo e
destrorso. Abbiamo anche Ingrao, che sostiene la missione in
Afghanistan e Flavio Lotti e Lidia Menaguerra
e la Tavola non più della pace (quella tanto è andata), ma per i
“diritti umani”. E abbiamo forze dell’ordine costituito e da
costituire, che menano come kickboxers
con egualitaria indifferenza per le diversità di genere ed età, o
motivazione. Sono validi discepoli della scuola
Mors
tua vita mea di
Berlinguer-Moratti-Fioroni, con corsi integrativi
sui celebrati manuali “Guantanamo e dintorni” e sulle tavole “Come
fare pulizia etnica” di Sharon-Olmert.
Di fronte hanno cancerosi da amianto, inceneritori o discariche,
cittadini antiguerra, pensionati
inscheletriti, giovani vite
desertificate e senz’oasi in vista. Ma a volte anche tifoserie,
quelle che un tempo se la prendevano tra di loro e oggi, chissà
com’è, quando gli sparano addosso e ne
fanno la lebbra della società, tirano unite bocce a una polizia
percepita come servizio d’ordine del nemico. E non è la
“percezione” che conta, come ci dicono, quando si parla di caldo?
Epigoni o prodromi di combattività sociale? Peccato per le teste
rasate, le rune e i cori razzisti. Per quelli si
ringraziano
Berlinguer-Moratti-Fioroni-Rutelli-Fini-Veltroni-Amato. E,
di rincalzo, Bertissino e D’Alemotti
che la strada e chi ci si sbatte l’hanno regalata alla destra. Ma
forse questi esclusi e bastonati incominciano a capire che chi li
spoglia e sbatte nel fosso della strada che porta al domani non
sono né Omar, né
Lupescu, ma qualcuno molto più elegante e molto più pulito.
Agli scempi, dalle sue finestre con drappo arcobaleno,
sorseggiando il tè, assiste sbigottita la giovane sinistra,
rigorosamente nonviolenta e
politically
correct. E ti pare strano
dopo quarant’anni di cura
Pecchioli-Berlinguer-Occhetto-Bertinotti?
Fa da rumore di sottofondo Bruno Vespa e tutto il suo
cucuzzaro da avanspettacolo che
blaterano sulla prova provata che se si
fuma uno spinello nel pomeriggio, di sera si esce per tagliare la
gola a qualcuno.
Amici, non c’è che da
concludere che, davanti a tutto questo,
hai voglia di solleticarti con progetti di correzione
dell’esistente, un tempo chiamati col termine, poi rubato dai
reazionari, di “riformismo”. Cito, visto che è tempo di
ricorrenze, Mario Tronti, testa non da
poco (su “il manifesto” accanto, pensate, all’albanese
Astrit Dakli
che, pur omaggiato per il suo libretto
“I rifugi di Lenin” dai sepolcri imbiancati Rossanda e Parlato,
esercita la sua viscerale slavofobia –
nuova denominazione doc per anticomunisti – in un racconto di
viaggio attraverso la Russia, vista attraverso fessure
minimaliste, che, oltreché per fredda superficialità, si distingue
per l’irrefrenabile voglia di sfottere sia l’Ottobre, sia quanto
ne vive ancora in cuori, speranze, progetti).
L’Ottobre
sarà pure irrepetibile, ma serve per aprire l’immaginario e
l’intelligenza a pensare cosa potrebbe accadere se si aprisse un
processo di crisi dell’ordine costituito, La rivoluzione è
impensabile, oggi, se non ritorna un passaggio di crisi del
sistema che rimetta in moto la critica di tutto ciò che
è. Non una crisi economica, non le file
davanti alle borse o alle banche che vediamo ogni tanto in tv, ma
una crisi politica, un conflitto tra grandi potenze per la
ridefinizione degli spazi politici sui due oceani. E’ la
geopolitica forse oggi il luogo di una crisi possibile, di un
conflitto tra finanza-mondo e politica-mondo sulla
riorganizzazione del Nomos della
Terra.
E’ successo appena novant’anni
fa. Volete che non possa risuccedere? Al di là
dell’Oceano e di questo mare, con una bella mano dalla
Mesopotamia, hanno già incominciato. Il sol dell’avvenire ora pare
sorgere a occidente. E se non è una rivoluzione questa!
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