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Menaguerra e co.:
dalla nonviolenza
alla sindrome sofriana
IL B-52
DI BERTINOTTI
Gli apostati del
pacifismo
all’assalto di chi li svergogna
25/01/2007
La madre di chi “ci
ripensa” è sempre incinta in questo paese di rinnegati
costituzionali. E se c’è qualcosa che gli fa perdere
le staffe – l’equilibrio, lo stile, l’eleganza, la
decenza – è trovarsi faccia a faccia con chi,
mantenendosi sul binario della coerenza, li denuda
strappandogli fin la foglia di fico dell’ormai
strutturale “meno peggio”. La nostra storia recente è
costellata da personaggi mediocri, forti eminentemente
di scaltrezza, il cui opportunismo voltagabbana da
loro e sodali viene mimetizzato sotto la sgargiante
fuffa della spocchia (se n’è parlato nel Mondocane
precedente). E’ un vero
parterre de rois
con antenati come De Petris, Bombacci, lo
stesso Mussolini, ma che oggi, premendo maggiormente
circostanze che dividono tra onori e quattrini, da un
lato, e duro sfangamento in controtendenza dall’altro,
ha subito un’accelerazione degna della corsa alla
catastrofe climatica e capitalista planetaria.
La storia di questa
sedicente Seconda Repubblica era già abbastanza
impataccata da sicofanti di mattanze di popoli e
classi, ex-maestri del pensiero e della militanza
rivoluzionaria, o perlomeno socialdemocratica, come
Sofri, Liguori, Ferrara, D’Alema, Veltroni, Bondi,
Mieli, Lerner, Ingrao… fauna di un paese che, fin dai
tempi di Bruto e Costantino, viene tenuto in scarsa
considerazione in virtù di questo suo cattolicissimo
pulcinellismo.
Man mano che i
vessilliferi del trasformismo inesorabilmente
annegano, tirati giù da eccessi isterici di
sfrontatezza, nella melma delle loro deiezioni etiche,
se ne ergono di nuovi, che ripartono con lo stesso
cipiglio spocchioso, rumoroso quanto necessita per
stordire la memoria di chi li ricorda in ben altra
trincea. Una di queste è Lidia Menapace, neosenatrice
alla tavola di Bertiprodi, trasformatasi, appena
sfiorata la pelle delle poltrone dell’eletta assise,
in Lidia Menaguerra, come ormai la chiamano certi
maschilisti non-nonviolenti. Era il nonplusultra della
nonviolenza, una che si è riscattata dalla nomea
demodé di “staffetta partigiana” sottolineando al
volgo e all’inclita di esserlo stato per pura passione
di bicicletta e di non aver mai tenuto in mano nulla
di ferro che non fosse un manubrio. Era la capofila
delle femministe nonviolente che sterminano uomini –
quegli assassini di donne – meglio di quanto Moqtada
al Sadr non faccia con i sunniti. In metafora,
s’intende, che a lungo andare è anche peggio. Per lei
uno spinoso agrifoglio era già un eccesso di
militarismo e la valutazione che ne discendeva di un
palestinese che si attacca a una trave nell’oceano di
sangue, o di un iracheno che manifesta alzando un po’
la voce contro la rasatura al fosforo della sua città,
era in perfetta sintonia con quella di Bush:
terroristi! Poi venne la nemesi. Deus ex machina uno
che se n’intende: Re Fausto Primo. E Ultimo. A tutto
c’è un limite, le suggerì il taumaturgo di lotta per
il governo. Una lotta col coltello nella schiena dei
minus habentes
e col profumo di bergamotto verso chi taglia gole
indigene, territori nazionali, salari e pensioni. Le
agitò sul naso un odoroso passi di pelle plebea per il
Senato e Lidia istantaneamente si convertì da ciclista
partigiana in ciclista tout court, di quelli che
piegano la schiena verso l’alto e pestano con i piedi
verso il basso. Il primo effetto della conversione
alla nonviolenza di stampo bertinottista fu la corsa a
vele e battaglioni spiegati in Afghanistan, a “ridurre
il danno”. La ragazza ha 82 anni, ma dovreste vedere
con quale elàn, sorpassando gli arrancanti
“dissidenti” del PRC (Partito della Restaurazione
Coloniale), volò di ostacolo in ostacolo, dal leggero
fastidio per il brusìo delle Frecce Tricolori, alla
spedizione ammazza-afghani, all’invocazione di
“interventi umanitari” nel Darfur da strappare a uno
Stato pervicacemente sovrano, arabo e antimperialista,
alla “missione di pace” in Libano per sistemare una
volta per tutte quei machacci di Hezbollah.
MENAGUERRA CONTRO
BERNOCCHI
Ciò che questo B-52
della pacificazione, però, percepiva a ogni svolta
come una molesta spina nel fianco, erano le zanzare
che incrociava riunite attorno a un seccatore di prima
qualità, Piero Bernocchi, con i suoi Cobas e pochi
altri. Un Bernocchi monotonamente e ripetitivamente,
da una quarantina d’anni, anticapitalista,
antimperialista, antinciucista, antitrasformista,
perfino antiveltronista, del tutto inetto quanto a
italiche virtù di aggiornamento, adeguamento e
corresponsione ai valori del momento. Ostinatamente
refrattario tanto allo scolorire della sua
capigliatura, quanto alle sfilate sulle passerelle
degli eternamente innovativi stilisti della politica e
della morale. Una roccia. E Lidia vi inciampò
ripetutamente. Quando alla riguadagnata Festa Armata
della Repubblica, tra arditi incursori sputafuoco e
rifondaroli con spillette arcobaleno, se lo trovò tra
i piedi che trascinava gli insensibili al fascino del
“governo amico” in direzione opposta a quella dei
carri armati di Prodinotti; Quando in Parlamento,
sciogliendo con leggiadro tocco femminile i vincoli
dei divincolantisi reperti sinistri dell’antimperialismo
d’antan, si pose a baluardo dei massacri di pace in
Afghanistan e Bernocchi le rammentò il suo
fiammeggiante pacifismo al tempo dell’uranio di pace
sulla Jugoslavia. Ancora quando, svettante polena sui
mezzi da sbarco di carabinieri e marò sui lidi di un
Libano infestato di terroristi hezbollah, l’insolente
cobasino le ricordò che chi regala città, cittadinanze
ed ecosistemi ai macellai di popoli e consacra l’ebraicità
della teocrazia più razzista della storia, non può
presentarsi come garante della pace nemmeno tra il mio
bassotto Nando e il gatto Anselmo del vicino.
UN’ ELEGANTE VEGLIARDA
DALLE ZAMPE DI HARRY KRUEGER
Non me ne volete: è
colpa dei tasti. Inalberando un’inusitata capacità di
elaborazione e decisione, si sono rifiutati di
ripetere quanto Lidia, la squisita nonnetta dei tanti
palchi della pace, della nonviolenza e, dunque, delle
buone maniere, ha scritto nella prima pagina della
gazzetta bertiprodiana sul nostro presidio anti-Ederle
2 a Montecitorio del 19 gennaio 2007. Se avete
stomaco, trovatevi “Liberazione” del giorno
successivo. Non avendovi il suo mentore e tutore
convogliato le masse pacifiste del partito, poiché le
aveva immobilizzate nel guado tra Vicenza e Kabul,
“che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altra” dato
che entrambi sono luoghi di pertinenza statunitense,
Lidia ha avuto modo di irridere allo sparuto gruppetto
di cento persone e, nello specifico, a colui la cui
organizzazione ne costituiva il fulcro e la base
numerica, Piero Bernocchi. La lunga attesa sofferta
dall’alibosa (da alibi) dama di compagnia dei nostri
vari corpi di spedizione, la relativa frustrazione per
essere stata spietatamente colta in continue castagne,
le ha fatto dimettere ogni artificiale remora da
rispettabile decana dei rapporti gentili tra le
persone. Si sarà pure sentita una vedette delle
truppe, una specie di Marylin Monroe in Vietnam, ma il
suo linguaggio ha voluto liberarsi di ogni affettato
formalismo per andare al sodo di una comunicazione la
cui raffinatezza Calderoli o Borghezio, ridotti a
scolarette delle Orsoline, ha fatto crepare di
invidia.
IL MANIFESTO TRACCIA IL
SOLCO
Si sono adontati perfino
quelli del “manifesto” che, pure, qualche tempo fa, al
tempo della manifestazione contro il precariato, su
Bernocchi avevano rovesciato, se non le
bunkerbusters
della Menaguerra, una decina di salve di piombo, dove
il termine “imbecille” sarebbe ancora parso un
complimento. Ora hanno di che aggiornarsi quando
capiterà che il demenziale leader coberistico si
azzarderà un’altra volta a denigrare da “amico dei
padroni” un operaista come il ministro Damiano. Dopo
gli elogi che il commissario UE Joaquin Almunia, un
anticapitalista, eroe della rivoluzione proletaria, se
ce n’è uno, ha riservato a tagli e scaloni
ammazzavecchietti propugnati da Damiano, Bernocchi
potrebbe essere tentato di sostituire ad “amico” dei
padroni il più congruo “servo”. Il che potrebbe
indurre certe articolesse del “quotidiano comunista” a
emulare la prosa della pescivendola subtirolese. La
cui pensione, del resto, da Damiano-Almunia non ha
proprio nulla da temere. Intanto il giornale che ha
avuto il pelo di porcospino di ospitare i liquami
antibernocchiani della nonviolenta al polonio, è
passato a vendere col quotidiano un DVD sul sub-indio
Marcos. Insomma su quel clone con la pipa di Batman
che impegna le energie sue e degli inconsapevoli Maja,
oltrechè a scrivere obnubilanti cazzate infantili, a
diffamare Hugo Chavez e a sabotare l’unica luce di
sinistra che era apparsa in Messico, Lopez Obrador. Di
bene in meglio.
Tout se tien.
P.S. Insieme a coloro
che hanno firmato la sacrosanta lettera a
« Liberazione » contro le oscene volgarità di
Menaguerra, caro Piero, vorrei esserci anch’io. Non
rappresento nessuno. E tantissimi.
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