MONDOCANEarchivio

                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

“Alerta que camina la espada de Bolìvar  por America Latina”

(con qualche andarivieni tra Hugo Chavez e Fausto Bertinotti)

 

 

28/12/04

 

 

(Saluti, auguri e bentrovati dopo il lungo silenzio venezuelano. Approfitto del ritorno di “Mondocane” per comunicare che è finalmente terminato il film  “AMERICAS REAPARECIDAS”, un documentario in due parti, per complessive due ore, che presenta in modo esaustivo lo scenario di un’America indio-afro-latino-americana in rivolta contro sottosviluppo e imperialismo lungo l’asse Argentina-Bolivia-Brasile-Venezuela-Cuba. Dall’avanzata della rivoluzione cubana ai piqueteros argentini, dai movimenti indigeni di vari paesi ai Sem Terra del Brasile (con un Lula sempre più ambiguo), dal Venezuela del golpe oligarchico e filo-americano fallito, al “balzo in avanti rivoluzionario” di Hugo Chavez verso un “blocco continentale” della giustizia sociale e della resistenza antimperialista. Per ordinazioni, o presentazioni con l’autore: Tel/fax 06 5896991, email: visionando@virgilio.it)

 

Di ritorno dal Venezuela.

 

Fuori dalla palude

“Con la testa a Cuba e il cuore a Bagdad”, si potrebbe anche intitolare questo racconto di un paio di altissime settimane trascorse in Venezuela in occasione di un grande slancio internazionalista della rivoluzione bolivariana, concretizzatosi in due storici convegni mondiali. Già, perché per uno che sta e opera nell’informazione in questa Europa dei banchieri, biscazzieri e usurai, in questa Italiaccia del congiunto mafia-avanspettacolo-GAD, viaggiare da Roma a Caracas significa uscire dalla fiction e ritrovarsi nella realtà. E sapeste che sollievo a ritrovarsi tra persone, giornali, programmi radio e tv (quelli rivoluzionari, non quelli, ancora egemonici, che ruminano nelle stalle sudamericane dell’impero), ministri, capi di Stato, tassisti, giornalai, comunisti, leader di grandi movimenti di massa, tra i quali tutti, finalmente, non ti senti più una delle tre o quattro voci clamantium in deserto, soffocate dalle tempeste di bugiarda sabbia scaturite da tutt’intero l’arco costituzionale, ma ti ritrovi come in una piazza svuotata di Padri Pii e spacciatori di stupefacenti, come davanti a uno schermo ripulito dai virus, con le cose, parole, immagini, belle in ordine, trasparenti, vere.

E così, per cominciare dalla vicenda che mi sta, che dovrebbe stare a tutti, più a cuore, a proposito di Iraq non si parla di “terroristi”, se non di quelli che su Falluja tirano fosforo e napalm, seminano di morti ammazzati le strade, seppelliscono sotto le case disintegrate intere cittadinanze, fanno delle città gulag e campi di concentramento; e non si parla bertinottianamente di “spirale guerra-terrorismo”, ma di guerra e terrorismo scatenati dai nazisti installati con la frode a Washington e di perversione fondamentalista a Gerusalemme. E ben lo sanno quei venti milioni di venezuelani su 22 che, riscattati dall’esclusione, dall’ignoranza e dalla miseria come destino naturale, il 14 aprile del 2002 si sono riportati a casa il loro presidente liberamente eletto, quello che gli altri, con il terrorismo stragista pianificato a Miami e supervisionato dalla Cia, avevano sequestrato, per fargli fare una fine alla maniera del decapitatore Mossad-Cia Al Zarkawi (personaggio virtuale dai comunicati reali).

 

Embedded a sinistra

Non sono molti i posti al mondo – ben lo sa l’embedded Bertinotti  con i suoi terminali a “Liberazione” – dove si possa dire vino al vino e colpo di Stato USA agli arancioni di Kiev, istruiti da quegli altri collaudati golpisti-teppisti, foderati di dollari, che annientarono la Jugoslavia e produssero mafiosi alla Allawi a Belgrado e in Georgia. E che lezione da un paese come il Venezuela – cui perciò dovremmo ben altra attenzione e ben altro rispetto – alle gattemorte della nostra sinistra sedicente “radicale” che, perfino dopo il tonfo epocale del 2000 in Serbia, quando diede a una banda di mercenari degli USA, chiamati “Otpor”, la patente di “primavera democratica” (come del resto i Disobbedienti), ha di nuovo caricato le molle dei suoi anticomunisti alla Astrid Dakli (“Manifesto”) e Salvatore Cannavò (“Liberazione”) per farsi entusiasta “arancione” tra i prezzolati della Cia a Kiev! Qui non s’infila la testa in una sabbia di bugie per sbaciucchiarsi – neanche tanto al buio – con Prodi e il criminogeno D’Alema (famoso a Caracas per il sinistro sostegno ai fascisti del golpe e della serrata ammazza-Venezuela); qui non si sparano scorregge dense di apprezzamenti per i gangster stragisti di Basajev in Cecenia, o per gli infiltrati, al profumo di violetta, della “società civile” irachena, ospitati a Roma con quei loro banchetti in cui si vende, avvolta in confezione-regalo, la sovranità e la dignità irachena, “verità” sfuse su Saddam, capovolgimenti su chi ha gassato i kurdi, su trent’anni di emancipazione sociale senza pari nel Terzo Mondo al di fuori di Cuba, di un sostegno ai palestinesi che ha almeno posticipato la sionistica “soluzione finale”, di resistenza nel nome di tutti i popoli arabi all’imperialismo squartatore.

 

Il Bertinotti del “quasi”

Qui nessuno assegna arrogantemente, come quel tale, dal basso del suo compromesso storico nonviolento e del suo borborigmo sui “martiri delle foibe” e sulla “resistenza angelizzata”, una “r” minuscola alla Resistenza irachena. Qui si parla – Hugo Chavez, con riconoscenza, in ogni suo discorso – di “eroica resistenza irachena”, di un debito dell’umanità intera nei confronti dei partigiani di Falluja, di un dono storico fatto dagli iracheni ai popoli risorti dell’America Latina e agli oppressi del pianeta, con il blocco del mostro neonazi nella sua catastrofe militare, politica, culturale, etica, tra i Due Fiumi della più solida e antica civiltà del mondo. Qui – Chavez lo ha urlato a diecimila studenti riuniti contro la serrata anti-istruzione pubblica della Chiesa e degli oligarchi – “la rivoluzione non si negozia”, “i principi non sono negoziabili”, altro che “accettare il principio di maggioranza”, magari per la guerra più infame e orrenda dai tempi dell’olocausto armeno, o dell’irruzione in Arabia di Goffredo da Buglione, altro che i “quasi principi” di Bertinotti, come denuncia Antonio Tabucchi: quasi ritiro dall’Iraq, quasi riconoscimento della conferenza internazionale per scambiare petrolio con più assassini di quelli fin qui mercenarizzati tra Bassora, Nassiriya e Kirkuk, quasi difendiamo Cuba, ma meglio i dissidenti…quasi tutto.

 

Poi quasi mica tanto. Poiché sulle categorie fondamentali dell’imperialismo, non c’è dissenso, né divergenza: terrorismo islamico? Come no! Al Zarkawi, arrivato in zona Cesarini, ma subito stupefacentemene comandante di tutti i 100.000 combattenti iracheni preparati alla guerriglia da almeno dieci anni? Certamente! I brogli elettorali attribuiti a quei residui di socialismo reale in Jugoslavia, Georgia e Ucraina? Non ci sono dubbi, viva la democrazia! I videodecapitatori sono l’autentica espressione dell’integralismo islamico in Iraq? Un’ovvietà! L’11 settembre? Ma Bin Laden, vi pare! In Palestina chi  rovina la pace sono kamikaze e combattenti? Israele ha il diritto di difendersi, perbacco! Potete immaginare un migliore lubrificante per le penetrazioni imperialiste? E pensare che, quando ho citato solo qualcuno di questi cedimenti, chiedendomi se non fosse giunta l’ora di utilizzare il bel termine di “rinnegato” per chi identifica il comunismo nel suo contrario (come chiamare spremuta d’arancia una Coca Cola), un segretario di circolo di RC, sedicentesi “di opposizione” a Bertinotti, mi ha tolto la parola, ha inveito e voleva buttarmi fuori nel nome della sacralità del segretario di quello che, nel suo inconscio, non era mica questo scarcassone di corriera con alcuni comunisti nel fondo e un’accolita di rampanti di terza categoria alla guida, bensì ancora il “Grande Partito Comunista”! Guasti del togliattismo senza neanche Togliatti che, almeno, una Platinette della politica non era, finta donna quella, finto comunista questo, giuggioloni di tutti i salotti entrambi. E poi leggete qua, il Cortellazzo-Zolli dell’etimologia: “rinnegato, chi rinnega una fede, un’idea, una dottrina”. Il pensiero non corre subito a quel tale che dichiarò orribile il novecento e “morti non solo fisicamente Marx e Lenin” e il “comunismo da reinventare”?  Il guaio in questo paese è che a molti basta una misera greca da caporale sulla manica, per stare sull’attenti davanti a qualsiasi Saragat che incomba.

 

Ciò che ti si spalanca davanti agli occhi a Caracas, in particolare nei grandi eventi che hanno riunito in questo cuore della controffensiva anticapitalista e antimperialista senza se e senza ma, una volta l’intellighenzia marxista e antagonista internazionale (“Incontro mondiale degli intellettuali e artisti in difesa dell’umanità”) e, l’altra, i movimenti di massa e d’avanguardia sudamericani e caraibici (“Congresso bolivariano dei popoli”), è una realtà politica, sociale e culturale che rifiuta l’assimilazione al portato e alla forma antropologica della società capitalistica, come, invece, sono stati assunti da noi. Hugo Chavez, e la squadra formatasi con lui con il “Movimento Bolivariano Rivoluzionario 200”, attivo clandestinamente nell’esercito durante gli anni ’80, fino all’insurrezione fallita del ’92, in soli sei anni di governo è riuscito in un’impresa inedita nell’esperienza delle rivoluzioni discese, volenti o nolenti, consapevoli o meno, da Marx: la proletarizzazione del sottoproletariato, la trasformazione dei lumpen, iniquamente e incongruamente lasciati in un limbo di sottovalutazione e anche di disprezzo da molti “ortodossi” del movimento operaio, almeno fino a Lotta Continua, con la parentesi contadina di Mao, in avanguardia di massa per la sovranità nazionale anticolonialista, la trasformazione dei rapporti di proprietà e di produzione, la redistribuzione della ricchezza (in Venezuela, fino al ladrone Carlos Andres Perez, e all’ultimo presidente della IV Repubblica, Rafael Caldera, 500 famiglie creole, bianchissime, detenevano l’’80% della ricchezza nazionale, l’80% della popolazione si spartiva l’1% e viveva tutt’intero sotto il livello di povertà nei ranchos e nelle campagne, e il resto andava a un piccolo ceto medio). Il miracolo è che in avanguardia rivoluzionaria si è trasformata gran parte del popolo ed è così che l’operazione Jugoslavia-Georgia-Ucraina, della sedizione golpista “in nome della democrazia”, denunciando inesistenti brogli al referendum d’agosto che ha riconfermato Chavez alla grande, qui non ha avuto buon esito, nonostante il sostegno al limite dell’isteria dei maggiori mezzi d’informazione legati all’oligarchia e agli USA. Contro un popolo a cui la militanza nelle “misiones”, le campagne per il riscatto sociale (alfabetizzazione, riforma agraria, sanità ovunque, istruzione, casa, centri di alimentazione, cooperativismo e autogestione), aveva dato una maturità politica senza confronti in America Latina, fuori da Cuba, tutta la strumentazione Otpor, cara al “Manifesto” e a “Liberazione”, non ha avuto la minima chance.  E pensare che, oltre ad Aznar, solo il compagno di Bertinotti in GAD, il diessino Ignazio Vacca e quel postribolo che è l’Internazionale Socialista si sono precipitati nel referendum cosiddetto “revocatorio” a sostenere le sragioni della vandea venezuelana, vale a dire del colonialismo, del fascismo e dei loro terrorismi sociali.

 

Finti bolivariani

Qui, sia nel referendum d’agosto, sia nei due eventi internazionalisti, s’è visto aggirarsi anche tale Marco Consolo, il vice di uno, Gennaro Migliore, che, in conflitto ontologico col suo cognome, dirige quel dipartimento esteri del PCR che inneggia alla “rivoluzione arancione” in Ucraina e dileggia i militanti del’Intifada. Ebbene, qui il Consolo è venuto sapendo bene a chi si rivolgeva e che se avesse esibito le vergogne del suo partito a proposito di Cuba, Iraq, Cecenia, Ucraina, imperialismo negato, gentili come sono i venezuelani, gli avrebbero consigliato il primo volo Caracas-Roma. Di conseguenza qui i dirigenti del PRC si presentano con il volto e i pensieri mimetici. E’ molto utile accreditarsi come amici italiani di Chavez, anche se poi le litanie su pace, “diritti umani”, democrazia, “terrorismo” e nonviolenza che gli rigurgitano inarrestabili negli interventi (come quello di Consolo al Congresso Bolivariano), non lasciano molti dubbi sull’intima estraneità di questa categoria di revisionisti con chi un altro mondo, totalmente altro, lo sta, non sbandierando insieme a Otpor sulle necropoli dei diritti umani veri, ma costruendo giorno per giorno. Ed è divertente come i compagni venezuelani ti vengano sempre a riferire puntualmente i vituperi che questi ospiti vanno spargendo su me, su tutti, pur di fagocitare da soli i rapporti Italia-Venezuela. Proprio come D’Alema, lui riuscendoci, ha provato a fregare Rutelli, Mastella e perfino Fini e Berlusconi, nello stabilire rapporti di sangue privilegiati con la canea reazionaria di Plaza Altamira (il quartier generale, nella Caracas ricco-cafona, dei golpisti).

 

I cani di Falluja

Mi tornano in mente i cani di Falluja, quelli che vengono criminalizzati, loro sì’, per cibarsi di donne e bambini che cecchini sadicizzati trasformano in pupazzi di videogioco e ricolpiscono moribondi e  fanno dissanguare alla vista di ambulanze bloccate dai check-point. E mi permetto di inserire nel mio carnet dei balli macabri anche questi cani, ridotti, come quei tali precipitati sulle Ande, a cibarsi di coloro che amavano, o avrebbero voluto amare, come solo i cani sanno amare; travolti da esplosioni laceranti e, quando sopravvissuti, traumatizzati dal terrore (so bene cosa prova il bassotto Nando allo scoppio dei funesti mortaretti di Capodanno) e annichiliti dall’incapacità di comprendere, di assegnare il male e il bene e, dunque, di farsene almeno quella misera ragione che gli umani sanno per restare sui binari della logica, sfuggire alla pazzia e ristabilire un ordine quando i mostri saranno stati, inevitabilmente, sconfitti. E penso agli 80.000 cani spazzati via a fucilate da un sindaco delinquente a Bucarest - “Sono stato votato dai cittadini, non dai cani” – dopodiché la Romania ha ovviamente visto sorgere la capitale più linda, efficiente, ecologica del mondo, meglio di Disneyland.

E penso a cosa ci siamo lasciati sottrarre in questi ultimi trent’anni di graduale sottomissione ai meccanismi, alla logica che hanno presieduto allo sviluppo italiano, ai suoi pseudovalori, alle abitudini che andava creando, a come forze di sedicente sinistra ci abbiano zittito con il loro formidabile anestetico sociale del finto-riformismo, chiamato “democrazia” (“borghese”, “capitalista”, veniva sottaciuto), con i loro anni di caduta del conflitto e di perdita di solidarietà, fino alla volgarità metafascista della cosca Berlusconi, fino a Bertinotti e alla sua GAD confindustriale, bancaria, militarista ed europea, al suo Livio Togni, seviziatore di fiere nei circhi, stupratore di coscienze infantili, fatto senatore nel nome dell’ecologia,  e fino alla cartina di tornasole di quel  Partito “Comunista” Iracheno gemellato al PRC, sebbene sia collaborazionista dei rinnegati installati dagli invasori(o forse proprio per questa assonanza governativa?) e  sebbene viaggi in  carrozza a cingoli, insieme al terrorista Alawi, su un tappeto rosso, arrossato da chi è stato fatto a pezzi dal massacratore straniero.

 

Le discese…

Tutte perse le conquiste, non da poco,consolidate negli anni ’60 e ’70  contro tutte le cautele, compatibilità di blocco, revisionismi: il rapporto tra salari e prezzi liberato dal furto di un plusvalore senza limiti, un posto di lavoro che permetta di progettare la vita almeno fino a figli grandi, la salute per tutti, la donna che dà il suo contributo alla rivolta (non la ginocrate attuale, specialista del mobbing, che lo dà al potere), i bambini riscattati dalla dittatura famigliare e scolastica, l’ambiente entrato nella comunità come un cittadino di prima classe, il sesso liberato dalla muffa castrante dei cattolici, gli animali assurti a persone e a pari dignità, la pace inviolabile e il diritto alla forza,  l’abbraccio con Cuba, con l’Algeria, col Vietnam, con vietnamiti in tutto e per tutto uguali agli iracheni in armi, checchè distinguano i tossici della governodipendenza; i nuovi arrivi di colore bruno e di religione musulmana accolti e parificati, i diversi della sessualità emersi e riconosciuti, non ancora restituiti ai fetidi lazzi dei comici di Rai Uno; chi combatte dalla parte giusta onorato di “patriota” e “partigiano”, non ancora degradato a “terrorista”, un paese solidale tra fortunati e sfigati – quanto meno nelle intenzioni -  non ancora spappolato tra burini fascistoidi del Nord e “africani” del Sud; e, a esemplificare il tutto, una Grande Anima, dalla faccia scoperta anche sulla Sierra, nella giungla boliviana, nella savana africana, la cui battaglia ha per campo il mondo, e non ancora una specie di uomo mascherato, da una favola all’anno, che ignora perfino cosa succede tra i campesinos uno Stato più in là, o nella maquilas del Rio Bravo, Himalaja della spietatezza capitalista; il militante rivoluzionario,  non ancora il volontario ONG, tappabuchi del sistema S’è perso tutto e chi doveva arginare, costruire trincee, lanciare contrattacchi, ha dormito, a volte borbottato e infine s’è fatto tappare vista e muso da un cartellino col proprio nome davanti al posto a tavola.

 

…e le risalite

Restano le voci, non irrilevanti per fortuna, di chi continua a sbattersi, di chi ha rifiutato il narcotico che finge paesi dei balocchi e ti lascia sotto un cartone all’angolo della strada, di chi, per esempio, accoglie questi miei improperi. E sorge e avanza un Venezuela rivoluzionario che diventa luce di speranza per tutti i traditi, schiacciati, ingannati, spremuti, falcidiati, nel continente e oltre. Un Venezuela che cammina sottobraccio a Cuba e con la spada di Bolìvar nella  mano libera. Come ha detto Fidel, innumerevolmente e amorevolmente citato da Chavez e non solo per dire grazie ai 15.000 tra medici e insegnanti cubani che in Venezuela riscattano ogni angolo del paese dall’ignoranza e dalla malattia, ma soprattutto per ribadire un cammino e una meta comuni. Come ha detto Fidel Castro: “Noi la giustizia sociale, l’uguaglianza e l’indipendenza le chiamiamo socialismo, voi laggiù le chiamate bolivarismo. Va benissimo così”. Qui la moneta buona ha scacciato quella cattiva: quella bruna ha scacciato quella livida. Un meticcio è presidente e meticci e indios governano una rivoluzione di meticci e indios. Una rivincita dopo 500 anni, pensate! Qui quello che Lula ha promesso, e davanti al FMI s’è rimangiato, non lo ferma nessun organismo internazionale, nessuna congiura imperialista, nessun sicario bombarolo (come quello che ha ucciso il 18 novembre Danilo Anderson, giudice incorruttibile che aveva assemblato tutti i fili del golpe del 2002, compresi quelli che partirono da Washington) spedito dalla Colombia a seminare terrorismo quando ogni altra forma di sabotaggio della rivoluzione era fallito. Qui la riforma agraria significa che in due anni tre milioni di ettari sono stati tolti ai latifondisti assenteisti e improduttivi e dati in comodato ai piccoli contadini, almeno per cent’anni; in due anni è stato alfabetizzato un popolo che al 70% non sapeva né leggere, né scrivere e quindi doveva per forza credere ai partiti-canaglia, Copei e Azione Democratica; qui un bel giorno ho visto distribuire gratis  a file di centinaia di metri tre milioni di libri, in raccolte di dieci volumi che parlano di igiene, ambiente, diritti, prevenzione, lavoro, poesia, arte, geopolitica, storia…; l’habitat degli indios è diventato inviolabile, se non per scuole,  cliniche e piccoli mercati; la foresta non viene appaltata a nessun coltivatore di hamburger o tagliatore di legna; l’anziano, il bambino, la donna, l’operaio, il contadino, il pescatore, l’insegnante, l’indigeno, hanno ognuno una legge tutta per sé, oltre alla Costituzione più avanzata dal tempo di Lenin; il monopolio dei vampiri della distribuzione si è infranto sugli scogli dello sviluppo endogeno, dell’autosufficienza alimentare, della cooperativa agevolata dal microcredito. E perfino ai cani, rarità nel “Terzo Mondo”, si incomincia a portare rispetto e a curarne il benessere.

 

Rivoluzione pacifica ma non disarmata. Luisa Morgantini e Antonio Sierra

“Siamo una rivoluzione pacifica, ma non disarmata”, ha risposto a una mia domanda su guerra, nonviolenza e cosiddetto terrorismo Hugo Chavez., in una di quelle avvincenti tavole rotonde che allestisce con ospiti, con gente qualsiasi, con quartieri e villaggi. E del terrorismo ha indicato il vero mandante, altro che l’”integralismo islamico”, caro ai nostri subalterni di sinistra. M’è tornato in mente quel momento nella Sierra Maestra, quando il generale Pancho, Francisco Gonzales, compagno del Che, promossosi biocoltivatore a energia solare, sulle minacce yankee rispose: “Noi siamo vivi perché siamo armati”. Fatelo sapere a Luisa Morgantini, europarlamentare del PRC, che predica la nonviolenza in Palestina e predicava la lotta al “fascismo serbo” insieme a Otpor. Chiedetele se conosce una formula migliore per salvare l’isola dai naziguerrieri. E visto che ci siete, chiedetele come fa a inneggiare a Abu Mazen e negare (“Liberazione”, 23.12.04) che il prossimo presidente dell’ANP sia gradito a Israele e USA, quando tutti gli altri candidati vengono arrestati, picchiati, sabotati e Arafat sia stato avvelenato per far finalmente posto a un qualche  collaudato capoccia della più corrotta e servile sezione della società palestinese.  Sulla questione mi è stato preciso Antonio Sierra, dirigente della PDVSA, la compagnia petrolifera sottratta alla privatizzazione di fatto di manager rapinatori e restituita alla collettività e che oggi finanzia la maggior parte delle campagne di riscatto sociale: “ Sarebbe suicida, irresponsabile nei confronti del paese e della rivoluzione,0 non prepararsi alla difesa. Le nostre forze armate sono state bonificate, ma non basta. Sappiamo che verremmo aggrediti, sia per la nostra ricchezza petrolifera, sia per il ruolo che svolgiamo in America Latina e nel mondo. Per ora stiamo rafforzando la Riserva. Ma il risultato finale, strategico, deve essere l’esercito per la guerra di popolo, come a Cuba, in cui ogni cittadino diventa un difensore del suo paese”. C’è la consapevolezza che l’imperialismo, di fronte a una miccia come quella bolivariana, accesa nell’intero continente, i cui bagliori già si riverberano in Bolivia, Brasile, Ecuador, Perù, Panama, Argentina, Uruguay, non se ne resterà con le mani in mano e, o direttamente, o tramite il vicino narcostato colombiano (già attivo in decine di provocazioni di confine e di infiltrazioni di terroristi con il mandato di rovesciare, di uccidere, Chavez; un centinaio ne furono scoperti prima del referendum), si avventerà sul Venezuela, quinto produttore di petrolio, e, soprattutto, capofila di un fronte antimperialista che i viaggi e la politica di Chavez vanno costruendo mattone dopo mattone.

 

Il “blocco  continentale” e le insidie

Il cammino non è privo di trabocchetti e ostacoli. Ci sono quelli esterni, con quinte colonne nel paese, orditi da Washington che si vede frantumare il suo piano di ricolonizzazione delle Americhe, l’ALCA, in crisi davanti al controprogetto chavista dell’ALBA, Alternativa Bolivariana per le Americhe,  concretamente fondato su alcuni pilastri continentali: Petroamerica, per forniture energetiche a tutti, garantite nella quantità e nel prezzo, il Banco Latinoamericano per fondi destinati all’emancipazione sociale, un sindacato e una legislazione del lavoro interlatinoamericano, una televisione tipo Al Jazira che nutra di verità un mondo incapsulato nell’inganno cosmico delle multinazionali della comunicazione. E via integrando. Se si guarda al grado di interconnessione a livello doganale, dei trasporti, commerciale, scientifico, tecnologico, degli investimenti, della collaborazione in sanità, istruzione, sport, raggiunto recentemente tra Cuba e Venezuela, si ha un’idea di quale antagonista all’imperialismo di ogni specie, nordamericano o europeo, va sorgendo tra Messico e Terra del Fuoco. Con una volontà di massa che alla lunga sarà irreversibile e che sta già cacciando governi mercenari e costringendone altri nell’angolo

 

Viva i partigiani iracheni

E poi ci sono i rischi connaturati a ogni processo rivoluzionario. Il delicato equilibrio tra il possibile e il desiderato, che scontenta o chi ha fretta e vuole tutto e subito (tipo abolizione della proprietà privata tout court), o chi persegue le virtù della prudenza, del passo lungo quanto la gamba, ma anche i vizi dell’ancoraggio al passato, della burocrazia rinascente, della centralizzazione rispetto alla promessa partecipazione popolare “protagonica” (qualcosa di diverso dalla “democrazia partecipativa” di Porto Alegre, un intervento decisionale diretto dei cittadini a tutti  i livelli e di portata generale, ben oltre la consultazione su frammenti del bilancio).

C’è chi incongruamente e per calcolo personale pensa a un “chavismo senza Chavez”, ignorando a proprio discapito il profondo legame che unisce il leader della rivoluzione, da lui ricondotta alla lezione di Bolivar, Martì, Ezequiel Zamora, combattente contro i terratenientes, Gramsci, Fidel e Mao, a una popolazione per la prima volta nella storia  resa soggetto politico, organismo pensante dotato di coscienza e obiettivi, intellettuale collettivo. Vero è che il Movimento V Repubblica, partito di maggioranza nel Blocco del Cambio, creato da Chavez solo otto anni fa, non è quel partito di massa radicato che si richiederebbe per dare continuità nel tempo e profondità teorica ai continui slanci rivoluzionari impressi  alla società. Sopperiscono quelle strutture di base onnipresenti che sono, nelle fattorie e nelle fabbriche, nelle cooperative e nelle scuole, i Circoli Bolivariani, portatori di contenuti ideologici e di operatività sociale. E ora anche quelle che erano le “unità di battaglia elettorale”, che dopo il secondo trionfo dell’anno, nelle elezioni di governatori, sindaci e giunte negli Stati, qui definiti “regioni” (21 su 23 vinte dal Blocco del Cambio), si sono trasformate in “pattuglie sociali”, gruppi di militanti che portano avanti le famose “misiones”. La crescita di un paese che durante i decenni del dopoguerra, dalla dittatura di Jimenez alle ruberie di Carlos Perez, aveva languito nel sottosviluppo più nero, pure in un oceano di ricchezza fossile, è la più forte del continente, 7-8%, eguaglia quella della Cina, che sta diventando il grande partner alternativo agli USA in tutta l’America Latina. I poveri e poverissimi sono scesi dall’80% della popolazione al 68%. Certamente  non basta, anzi, tocca correre contro il tempo, neutralizzando frustrazioni, lotte intestine e complotti eversivi. Quel tempo che la forza e la coscienza ormai matura di movimenti di massa non più socialdemocratizzabili sta promettendo e che soprattutto viene garantito da quella che Hugo Chavez e tutti i bolivariani del mondo chiamano “l’eroica Resistenza irachena”.          

 

(P.S. Se siete arrivati fin qui, fino in fondo, siete compagni di lunga lena. C’è speranza. Buon anno!)

 

 

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