MIRADA CUBANA
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Baia di Guantanamo
di Gaia
Passerini
La Baia
di Guantanamo
è una insenatura di 116 km² situata nella provincia di
Guantánamo, nella punta sud-est dell'isola di
Cuba, a oltre a 21 km a sud della città omonima.
Il
territorio della baia venne affittato nel
1903 come punto di rifornimento per il
carbone che alimentava le navi
americane ed attualmente ospita una base navale degli
Stati Uniti. La legittimità della presenza della
base militare è contestata dal
governo cubano che considera la baia come un'area occupata da
forze straniere.
La baia prende il nome dal popolo indigeno precolombiano dei
Taìno.
Cristoforo Colombo giunse nella baia nel
1494, sbarcando alla Punta del Pescatore.
Occupata dai
britannici nel
XVIII secolo, fu da questi rinominata Cumberland durante
il conflitto con la
Spagna a margine della
guerra di successione austriaca. Nel
1790 un'intera guarnigione britannica vi fu decimata da febbri
malariche poco prima di condurre un attacco a
Santiago.
Durante la
guerra ispano-americana Guantanamo divenne base per la
flotta statunitense che vi si riparò nel
1898 a causa di una stagione di eccezionalmente severe
condizioni meteorologiche. Le truppe imbarcate furono inviate a
terra per espugnare, insieme agli scout cubani le postazioni
spagnole. Ottenuto il controllo dell'area, vi si costruì la base,
che tuttora vi è ospitata ed il cui nome convenzionale militare è
GTMO o "Gitmo".
Finita la guerra, gli Stati Uniti, che avevano conquistato alla
Spagna tutta l'isola cubana, siglarono con la neonata repubblica (a
capo della quale era il primo presidente
Tomás Estrada Palma,
cittadino americano) il Cuban-American Treaty del
23 febbraio
1903, con il quale si stabiliva una
concessione perpetua sulla baia, che sarebbe restata di
demanio cubano, ma assegnata in gestione "uti
dominus" agli stranieri. In realtà alla completezza e
soprattutto alla perennità del diritto americano si giunse con un
accordo di ratifica sottoscritto nel
1934.
Dopo la guerra in
Afghanistan, il governo degli Stati Uniti ha aperto un
campo di concentramento all'interno della base. Vi sarebbero
detenute, secondo stime non ufficiali, oltre 500 persone che il
governo americano riterrebbe collegate ad
attività terroristiche. Solo per 10 di queste è stato
formalizzato un capo d'imputazione con conseguente rinvio a
giudizio.
Circa le modalità di funzionamento della parte carceraria della
base, si sono levate polemiche circa le condizioni di reclusione e
l'effettivo status giuridico-fattuale dei reclusi. Da parte
di alcuni osservatori si sostiene infatti che i reclusi non
sarebbero classificati dal governo USA come
prigionieri di guerra, né come
imputati di
reati ordinari (il ché potrebbe garantire loro processi e
garanzie ordinarie), ma sarebbero invece ristretti come detainees
(detenuti) senza dichiarato titolo.
Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha diffuso alcune
fotografie dei detenuti nella base militare. Il segretario alla
Difesa
Donald Rumsfeld ha dichiarato che questi prigionieri sarebbero
"combattenti irregolari" cui non si applica "alcuno dei diritti
della
convenzione di Ginevra". Essi "non saranno considerati come
prigionieri di guerra, perché non lo sono", ha precisato.
L'Alto Commissario per i
Diritti dell'Uomo dell'ONU,
Mary Robinson, ha protestato contro l'atteggiamento degli Stati
Uniti. L'ex-presidente della
Repubblica d'Irlanda ha insistito sugli "obblighi
internazionali, che vanno rispettati". Rispondendo il
21 gennaio alle critiche mosse da altri paesi (alcuni dei quali
alleati) contro il trattamento inflitto ai prigionieri, Rumsfeld ha
infine affermato che esso sarebbe conforme "nelle parti essenziali"
alla Convenzione di Ginevra.
Il
29 giugno
2006, in occasione dell'appello di un detenuto, Salim Ahmed
Hamdan, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti ha
stabilito la violazione della Convenzione di Ginevra e il Codice di
Giustizia Militare statunitense dovuta:
alle modalità di detenzione dei prigionieri all'interno della base
di Guantanamo e ai tribunali militari speciali istituiti per
giudicarne i detenuti.
La legislazione approvata a dicembre 2005 (legge sul trattamento dei
detenuti del 2005) ha revocato il diritto dei detenuti di Guantánamo
di presentare istanze di
habeas corpus presso corti federali statunitensi contro la
loro detenzione o trattamento, permettendo soltanto limitati appelli
contro le decisioni dei Tribunali di revisione dello status di
"combattente" e delle commissioni militari. È così stato messo in
discussione il futuro di circa 200 casi in corso in cui i detenuti
avevano presentato ricorso contro la loro detenzione in seguito a
una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2004 che
aveva decretato il loro diritto a presentare tali ricorsi.
Amnesty International, nel
Rapporto 2006 riporta che:
I Tribunali di revisione dello status di combattente (CSRT)
istituiti dal governo nel 2004, hanno reso noto, nel marzo 2004, che
il 93% dei 554 detenuti esaminati erano da considerarsi a tutti gli
effetti “combattenti nemici”. I detenuti non avevano un
rappresentante legale e molti di loro hanno rinunciato a partecipare
alle udienze dei CSRT, che potevano avvalersi di prove segrete e di
testimonianze estorte sotto tortura.
nell'agosto
2005, un imprecisato numero di reclusi ha ripreso lo sciopero della
fame già iniziato a giugno per protestare contro la perdurante
mancanza di accesso a una corte indipendente e contro le dure
condizioni di detenzione, che sarebbero state caratterizzate anche
da violenze e pestaggi. Più di 200 detenuti (cifra contestata dal
Dipartimento della Difesa) avrebbero partecipato almeno a una fase
della protesta. Diversi detenuti hanno denunciato di essere stati
vittime di aggressioni fisiche e verbali e venivano alimentati a
forza: alcuni hanno riportato lesioni causate dall'inserimento
brutale di cannule e tubi nel naso. Il governo ha negato qualsiasi
maltrattamento. A fine anno lo sciopero della fame era ancora in
corso.
a novembre 2005 tre esperti in diritti umani delle
Nazioni Unite hanno declinato l'offerta di visitare la base di
Guantánamo presentata dal governo degli Stati Uniti, poiché
quest’ultimo aveva posto restrizioni contrastanti con quanto
normalmente stabilito dagli standard internazionali sulle ispezioni
di questo tipo.
Per quanto desti scandalo la prigione, i detenuti sembrano
preferirla a quelle dei propri paesi. Due ex-detenuti tunisini hanno
chiesto aiuto a Human Rights Watch per le torture ricevuti in
patria. Un prigioniero algerino ha fatto ricorso alla Corte Suprema
degli Stati Uniti invocando il suo diritto a non essere scarcerato,
temendo torture nel suo paese d'origine[1]
.
I prigionieri incappucciati nelle gabbie di Guantanamo
Centosessanta celle, quattro torri fari accesi tutta la notte
per sorveglianza
di RUI FERREIRA
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GUANTANAMO
- Nelle loro celle che assomigliano pericolosamente a gabbie per
animali, i prigionieri della guerra dell'Afghanistan confinati a
Guantanamo si trovano letteralmente alla mercé dei venti. "Se
arriva un uragano questa gente si bagnerà, si bagnerà molto",
dice senza nascondere un sorriso tra le labbra il tenente
colonnello Bill Costello, portavoce del centro di detenzione
XRay, situato a mezzo miglio appena dalla frontiera con Cuba.
Il nome dell'accampamento che ospita già 158 prigionieri è in sé
già un'ironia. Le celle misurano due metri per due e si trovano
praticamente all'aria aperta. Hanno un tetto di compensato e
pavimento di cemento, ma invece di pareti sono avvolte da due
file di fil di ferro che le danno l'aspetto di una gabbia.
Siccome non ci sono pareti, le guardie hanno una visione
completa di ciò che fanno i detenuti, come se si trattasse, per
l'appunto, di una macchina a raggi X. "È una collocazione
provvisoria finché non sarà terminata la prigione che dobbiamo
costruire", spiega Costello. Il problema è che non c'è una data
in vista per il completamento di questa costruzione, che
d'altronde non è stata nemmeno iniziata. Una volta cominciati i
lavori, le prime 300 unità non sarebbero pronti prima di 55
giorni.
La Base Navale di Guantanamo, sulla costa sud-occidentale di
Cuba, è sotto amministrazione statunitense dal 1903. Quando
arrivò al potere nel 1959, Fidel Castro denunciò l'accordo,
bloccò l'accesso alla base, tagliò la fornitura di acqua
potabile e la circondò di mine e di una recinzione rafforzata.
Da allora, il recupero della base è diventata nel discorso
ufficiale cubano una questione di sovranità.
I militari non potrebbero aver scelto un posto migliore per
costruire il campo XRay. Vicino alla frontiera con Cuba si trova
la zona più arida e asciutta di tutta la base. Lì la temperatura
a metà della mattina raggiunge facilmente i 40 gradi centigradi.
La brezza c'è appena.
Ci sono 160 celle, una baracca per la polizia militare che li
guarda, quattro torri di controllo, una piccola infermeria da
campo, circa 30 latrine portatili e due recinzioni attorno a
tutto il perimetro. La sera, vengono accese 16 potenti fasci di
luce che non sono spenti per tutta la notte. Sono tanto forti
che danno l'idea che il sole non tramonti mai nell'accampamento
XRay.
"Le guardie devono avere una visione totale e assoluta di quello
che fanno i detenuti", dice il colonnello Terry Caricco, capo
dell'accampamento. I militari autorizzano la stampa ad
avvicinarsi a circa 200 metri dal posto e controllano
costantemente i loro movimenti all'interno della base, l'uso di
binocoli è indispensabile per vederli. Le regole per i
giornalisti sono così severe che ai fotografi è vietato usare
obiettivi che superino i 200 millimetri. È perché non si possa
identificarli, secondo la spiegazione dei portavoce militari. Lo
stesso succede con l'arrivo alla base da Kandahar. La stampa può
assistere allo sbarco da una collina adiacente alla pista
principale dell'aeroporto, ma non si può fotografare in maniera
assoluta. Di fatto, le uniche fotografie dei prigionieri che
scendono dagli aerei è possibile scattarle grazie a Fidel
Castro, che ha dato accesso alla stampa internazionale a un
osservatorio dalla parte cubana in una collina adiacente alla
pista. I portavoce dei militari ammettono in privato che è una
situazione ridicola, ma spiegano che il comandante della base,
il generale Michael Lehnert, ha deciso che non si possono
fotografare gli arrivi. E gli ordini sono ordini.
Sabato scorso, il C141 della forza aerea ha toccato terra
nell'aeroporto della base alle 2.09 del pomeriggio. Cinque
minuti più tardi si è fermato davanti a un gruppo di ufficiali
della base e di personale di terra all'inizio di una delle
piste. Con i motori ancora accesi, quattro camionette con a
bordo fanti di marina armati di mitragliette di grosso calibro
hanno circondato il velivolo, mentre attorno si spiegavano circa
30 agenti antisommossa, armati da caschi con la visiera di
plastica, scudi e manganelli elettrici.
Una immensa struttura metallica di colore blu, con tazze e
lavelli rudimentali, è stato ciò che è sceso per primo
dall'enorme pancia dell'aereo. "Sono bagni portatili", ha detto
Costello. "Nei voli normali hanno le porte, ma le hanno tolte
per questo viaggio".
I prigionieri sono scesi 25 minuti più tardi, uno a uno,
scortati da due uomini della polizia militare con casco e guanti
di gomma gialli. Ma hanno potuto appena vedere, sentire o
annusare l'ambiente nel quale si trovavano, giacché sono
arrivati con occhi bendati, con tappi nelle orecchie, una
maschera che copriva loro il naso e la bocca e quello che sembra
essere un pesante cappotto di colore blu sopra la solita tuta
arancione dei prigionieri negli Stati Uniti. Inoltre calzavano
pesanti guanti e semplici scarpe di tela con suola di plastica,
anche queste di colore arancione, e calze blu. Erano tutti
ammanettati piedi e mani alla cintura.
Quando arrivano all'accampamento, i prigionieri sono sottomessi
a un controllo che dura circa due ore, durante le quali restano
rannicchiati come sono arrivati, vale a dire ammanettati, con
gli occhi bendati e le orecchie tappate. Passano un controllo
medico, gli si scatta una foto, si prendono le impronte digitali
e li si consegna gli unici oggetti personali che hanno il
permesso di tenere con sé.
Se sono arrivati con la tuta arancione, made in Messico, gli
consegnano anche un paio di ciabatte fabbricate nella Repubblica
Popolare Cinese, due secchi americani, tre asciugamani di
provenienza sconosciuta, un dentifricio, una spazzola senza
manico per evitare che questo possa servire da arma offensiva,
una saponetta e uno shampoo.
Questo ultimo articolo richiama l'attenzione. Prima di lasciare
l'Afghanistan, i militari hanno tagliato loro la barba e rapato
la testa, il che rende lo shampoo un articolo superfluo
all'interno delle piccole celle. Ma il generale non si è
scomposto quando gli si è fatto notare l'incongruenza. "Stiamo
valutando se permettere loro di lasciarsi crescere la barba e i
capelli", dice. Il taglio dei capelli è stata fatto soltanto per
motivi igienici, ma una volta nella base potrebbe non essere
motivato, ha aggiunto. "Per noi la barba non è un problema.
Nelle forze armate abbiamo molti bravi soldati musulmani per i
quali abbiamo stabilito delle norme per l'uso della barba che la
loro religione esige e non abbiamo avuto problemi", ha tenuto a
precisare Lehnert. Tuttavia, non hanno ancora deciso come
procedere quanto ai riti religiosi. Per il momento, su una delle
torri è stato collocato un cartello che indica ai reclusi la
direzione verso cui devono girarsi per pregare cinque volte al
giorno verso la Mecca.
Ma contrariamente a quanto promesso non è stato ancora
consegnato loro il Corano. Secondo una fonte che conosce bene il
problema, sembra che nessuno a Washington abbia deciso ancora
quale delle cinque versioni conosciute del Corano è adatta ai
prigionieri della base navale di Guantanamo. Martedì è arrivato
qui un cappellano musulmano della marina, ma in principio
aiuterà soltanto le guardie a gestire i prigionieri. Non è
chiaro se avrà un contatto diretto con loro.
I prigionieri ricevono tre pasti al giorno, almeno uno di questi
caldo, confezionati secondo i precetti religiosi musulmani.
Passano la giornata quasi sempre sdraiati, quando vogliono
recarsi alle latrine o alle docce devono chiedere permesso e
sono scortati da due soldati. Il portavoce della base non ha
voluto confermare se restano ammanettati anche quando fanno la
doccia. "Questo riguarda la sicurezza e non posso fare commenti
in proposito", ha detto. La proporzione tra le donne e gli
uomini soldato che stanno a guardia dei prigionieri è di uno a
dieci. I soldati tentano di evitare il contato visivo con il
prigioniero. Anche quando gli parlano non lo guardano negli
occhi. Ma alcune volte è impossibile evitarlo. E quello che
incontrano fa raggelare il sangue. "Fa spavento. Soltanto
pensare che vogliono uscire dalle celle e sgozzarci, è veramente
terribile", dice la soldatessa Jodi Smith di 22 anni.
Le donne non hanno avuto alcun addestramento particolare a causa
della loro condizione, ma una fonte militare ha detto che devono
riferire ogni incidente con i prigionieri di natura sessuale.
"Chiaramente, in casi d'insulti o aggressioni riceveranno una
risposta adeguata, la stessa che se lo facessero a un uomo", ha
riferito la fonte.
Una delle soldatesse ha detto durante un incontro con i
giornalisti che questa settimana uno dei prigionieri ha fatto un
gesto di resistenza quando lei ha dovuto condurlo alle latrine.
"Non ha ottenuto molto. Il mio collega lo ha afferrato con più
fermezza e mi ha detto di fare loro stesso. Lo abbiamo portato
in due. Se non gli è piaciuto, a me non importa", ha spiegato.
In generale, le guardie e i prigionieri hanno un rapporto molto
freddo e distante. È un comunicare in tono di comando, con un
linguaggio che non ammette discussioni, spiega il tenente Angel
Lugo, responsabile dell'unità medica del campo.
"Non possono scambiare alcuna parola, né dire loro dove si
trovano", ha aggiunto l'ufficiale, originario di Porto Rico.
Tuttavia, i prigionieri non lo ignorano del tutto. Quando sono
arrivati a Guantanamo, le autorità hanno permesso loro di
spedire una cartolina ai familiari, indicando che si trovavano
in una base navale degli Stati Uniti nella baia di Guantanamo.
"Se sanno o no dove si trova Cuba, non lo so, né m'importa",
dice Costello.
Rui Ferreira, giornalista del Miami Herald, ha scritto questo
reportage in esclusiva per Repubblica - Traduzione di Guiomar
Parada
(25 gennaio 2002) |
Il rapporto
dell'organizzazione umanitaria fa luce sull'impatto della detenzione
illimitata sui prigionieri e sulle loro famiglie
"Nel carcere Usa diritti violati" Guantanamo vista da Amnesty
di VITTORIO
MARTONE
NEL 2006 la prigione di Guantanamo compie cinque anni. Il carcere
speciale a giurisdizione americana sull'isola di Cuba, in cui sono
detenuti senza legittimo processo i sospettati di terrorismo
internazionale, è noto al mondo per le violenze che quotidianamente
vengono compiute nei confronti dei prigionieri. Nel rapporto
"Guantanamo: vite fatte a pezzi", Amnesty International contribuisce
a fare luce sulla condizione dei prigionieri analizzandola da più
punti di vista. Lo studio valuta anche le conseguenze della
detenzione illimitata sulla salute psicologica dei prigionieri e
delle loro famiglie. Inoltre viene messa in evidenza una realtà in
cui si ripetono con grande frequenza i tentativi di suicidio e gli
scioperi della fame portati avanti quasi fino alla morte. E Amnesty
sottolinea la condizione assurda di nove persone che, pur non
essendo più ritenute "combattenti nemici", continuano a essere
trattenute nel carcere di massima sicurezza.
Nello studio vengono raccolte le testimonianze di diversi ex
prigionieri, che affermano di aver subito diverse forme di torture e
di maltrattamenti. Secondo Amnesty le vessazioni sui detenuti
andrebbero dall'isolamento prolungato all'esposizione al freddo fino
alle violenze fisiche.
Il rapporto dell'organizzazione per i diritti umani sottolinea la
frequenza con cui si ripetono gli scioperi della fame, con cui
spesso i prigionieri uniscono alla protesta il tentativo di
uccidersi. In molti casi il personale del carcere interviene
interrompendo gli scioperi con l'alimentazione forzata. All'inizio
del dicembre 2005 i casi di sciopero della fame sono stati 33 e sono
aumentati fino a 46 entro la fine dell'anno. La protesta civile dei
detenuti viene genericamente sminuita dalle autorità carcerarie. "E'
in linea con le abitudini di Al Qaeda - afferma il tenente Jeremy
Martin - e riflette il tentativo dei detenuti di attirare
l'attenzione dei media ed esercitare pressione sul governo
americano".
Amnesty mette in evidenza anche la frequenza dei tentativi
di suicidio. Su tutti il caso emblematico del pachistano Jamal Al
Dossari, che fino ad oggi ha effettuato nove tentativi di togliersi
la vita. Nell'ultimo di questi Dossari ha riportato gravi
conseguenze per la sua salute che gli impediranno in futuro di avere
una vita normale. Molto spesso le varie testimonianze dei casi di
violenza o di grave disagio fisico e mentale riescono a uscire dal
carcere solo tramite il racconto degli avvocati dei detenuti.
Nel rapporto Amnesty viene reso noto il caso di nove detenuti non
più accusati di essere dei "combattenti nemici" eppure ancora
trattenuti a Guantanamo. Per sei di questi, provenienti dalla Cina e
dall'Arabia Saudita, si prospetta il rischio di subire gravi
violazioni dei diritti umani una volta tornati nei propri paesi. Il
governo statunitense al momento ha adottato come unica soluzione del
loro caso il prolungamento ingiustificato della detenzione.
Oltre a fornire le testimonianze della vita nel carcere, lo studio
dell'organizzazione fa poi luce sulla condizione psicologica dei
prigionieri, spostati da un luogo di detenzione all'altro senza un
processo e senza alcuna idea del proprio destino. Per molti di loro,
una volta ottenuta la libertà, la condizione di alienazione è tale
da portarli spesso a finire nuovamente in carcere per piccoli
crimini. Molto spesso la loro salute è del tutto compromessa assieme
anche alla loro reputazione, sulla quale pesa a vita, come
sottolinea la madre dell'ex detenuto Rasul Kudaev, "il marchio di
terrorista internazionale".
Per le famiglie dei detenuti si parla poi di una condizione mentale
terribile. Quasi sempre privi di notizie sulla sorte dei loro
familiari "spariti", i parenti dei prigionieri sono sempre in bilico
nel seguire le notizie, spesso contraddittorie, diffuse dai media.
Una situazione che, secondo gli esperti, può causare gravi disturbi
psicologici. Particolare è il caso del bambino inglese Anas Al Banna,
che per avere notizie sul padre rinchiuso a Guantanamo ha scritto al
premier britannico Tony Blair, senza mai ricevere risposta.
Per molti dei prigionieri di Guantanamo si protrae dunque una
situazione di detenzione illegittima, in una zona esclusa dalla
tutela del diritto internazionale e senza alcun contatto con il
mondo esterno. Il rapporto Amnesty si conclude con la speranza che
la "disgrazia morale" e "l'abisso emotivo" in cui vivono i detenuti
si possa concludere quanto prima e che Guantanamo non abbia un altro
anno di vita.
(8
febbraio 2006)
CAMP 6, UNA
PRIGIONE DI VELLUTO E CATENACCI |
Il primo colpo d'occhio lascia disorientati: un elegante
tavolino da caffé, un tappeto persiano, una confortevole
poltrona di velluto azzurro che ricorda
la First Class di un volo intercontinentale. Visioni
insolite, che spuntano all'improvviso in un mondo per il resto
fatto di cemento e sbarre. Ma basta un secondo sguardo per
notare la cavigliera incatenata al pavimento, la telecamera
alla parete, il bottone d'allarme. E la stanza ovattata torna
a essere quello che è: il luogo usato per gli interrogatori,
un angolo della 'nuova' Guantanamo. Sembra preistoria l'epoca
di Camp X-Ray e delle celle all' aperto che, all'inizio del
2002, accolsero i primi prigionieri arrivati dall'Afghanistan
nella base navale a Cuba. Il vecchio campo di detenzione è ora
un luogo fantasma invaso dalle erbacce. Le baracche di legno
marcio dove avvenivano i primi interrogatori sono silenziose e
cariche di inquietanti memorie di un passato che ha solo 5
anni.
La Guantanamo
di oggi non è quella dei detenuti in tuta arancione circondati
dal filo spinato, ma è rappresentata da due blocchi di cemento
con aria condizionata e poltrone di velluto per gli
interrogatori, battezzati Camp 5 e 6 e realizzati da Kellogg,
Brown and Root, il colosso delle costruzioni del gruppo
Halliburton. La trasformazione di Guantanamo da prigione
provvisoria a centro di detenzione dall'aspetto permanente, è
stata completata lo scorso dicembre con l'apertura di Camp 6,
un carcere da 160 posti costato 37 milioni di dollari. A poche
settimane dall'inaugurazione, il Pentagono ha concesso
all'Ansa una vista alla nuova struttura e al resto del
villaggio di catenacci costruito dagli Usa a Cuba, dove oggi
sono detenuti 395 presunti esponenti di Al Qaida e dei taleban.
Il 66% dei prigionieri - due su tre - adesso sono rinchiusi a
Camp 5 e
6, in
strutture che ricordano le prigioni federali americane (non a
caso sono ispirate rispettivamente a un carcere dell'Iowa e
alla prigione di Lenawee, in Michigan). Un altro piccolo
contingente si trova ancora nei più vecchi campi 1 e 4, mentre
i 2 e 3 sono ormai vuoti. Degli 800 detenuti arrivati a
Guantanamo in 5 anni, metà sono stati trasferiti nei loro
paesi o rilasciati e altri 85 sono già stati dichiarati pronti
a lasciare la base. Per i 300 che resteranno, si profila un
futuro da sepolti vivi.
"Camp 6 era stato pensato come prigione di media sicurezza -
spiega l'ufficiale che comanda la prigione, che non vuol
vedere il proprio nome sui giornali -, ma dopo una rivolta lo
scorso maggio e tre suicidi coordinati a giugno, ci siamo resi
conto che non esistono terroristi di media sicurezza". Il
carcere è stato rafforzato in fretta e ora anche i 160
detenuti di Camp 6, come gli 80 dell'adiacente numero 5,
vivono in regime da 'supermax', le strutture di massima
sicurezza americane. Da qualche parte nelle due prigioni, del
resto, ci sono personaggi che fino al settembre 2006 erano
chiusi in celle della Cia di cui l'America negava anche
l'esistenza: lo stratega dell'11 settembre Khalid Sheikh
Mohammed, il suo braccio destro Ramzi Binalshibh, il
terrorista asiatico Hambali e altri 11 presunti leader di Al
Qaida, che presto compariranno per la prima volta di fronte a
una corte a Guantanamo per valutare il loro status di
'combattenti nemici'. "Contiamo che avvenga entro un paio di
mesi", spiega all'Ansa il capitano di Marina Gary Haben, che
coordina i tribunali di revisione, mentre il numero uno a
Guantanamo, l'ammiraglio Henry Harris, racconta che i 14
terroristi "si comportano bene e rispettano tutti le regole".
Visto il loro comportamento, a Mohammed e agli altri del
gruppo toccano i vantaggi previsti per chi obbedisce alla
disciplina decisa dal Pentagono, a partire dalla possibilità
di indossare comodi indumenti bianchi o color canapa, invece
che le tute arancioni dei 'disobbedienti'. Biancheria di
ricambio, preziosi rotoli extra di carta igienica, tappeto e
copricapo da preghiera, carte da gioco e pacchi di sale sono
altri premi, insieme alla possibilità di accedere ai 5.000
libri in 19 lingue di cui dispone la biblioteca di Guantanamo.
Anche sul piano dell'alimentazione, la vita di Mohammed e
degli altri deve essere migliorata non poco da quando erano
chiusi nelle celle segrete della Cia. "La qualità del cibo che
ricevono è la stessa che hanno i militari", spiega orgogliosa
e sorridente Sam Scott, una coreana che comande le enormi
cucine di Camp America, da dove escono sia i pasti per i
soldati, sia le cinque varianti previste dal menu offerto ai
detenuti. Tutti cibi cucinati in stile halal, per rispettare
le tradizioni musulmane. Ma in cambio il Pentagono,
la Cia, l'Fbi e i servizi segreti di mezzo mondo
continuano a 'spremere' i detenuti. "Stiamo ancora
raccogliendo informazioni importanti qui a Guantanamo, anche
da chi si trova qui già da cinque anni", spiega l'ammiraglio
Harris. Resta difficile stabilire se nella stanza con la
poltrona vellutata si usino sempre e solo guanti, altrettanto
di velluto. |
DA DETENUTI UN VOLTO A NUOVI LEADER AL QAIDA |
Sono figure con un nome ma senza volto, nuovi leader che hanno
scalato i ranghi dei taleban e di Al Qaida e sono ora alla
guida dei guerriglieri che preparano l'offensiva di primavera
in Afghanistan contro le forze della Nato e il governo di
Kabul. Ma il vantaggio di essere invisibili sta forse per
finire: nelle celle di Guantanamo, alcuni loro vecchi compagni
d'addestramento hanno accettato di mettersi al lavoro con i
disegnatori dell'Fbi per realizzare gli identikit dei nuovi
capi.
A rivelare l'esistenza di un'operazione d'intelligence, che
sembra uscire da un film poliziesco piu' che da un ambiente
militare, e' l'ammiraglio Harry B. Harris, l'ufficiale al
quale il Pentagono da un anno ha affidato il comando di
Guantanamo. ''Anche se molti detenuti si trovano qui da 5
anni, e in alcuni casi proprio perche' sono qui da cinque anni
e solo ora stanno cominciando a parlare, stiamo raccogliendo
informazioni importanti da loro'', spiega Harris in
un'intervista all'Ansa nella base navale americana a Cuba,
nell'ambito di una visita concessa dal Pentagono nella
prigione piu' contestata del mondo.
La 'freschezza' delle rivelazioni che possono offrire uomini
isolati dal mondo in molti casi dall'inizio del 2002, e'
oggetto di legittime perplessita'. Secondo l'ammiraglio,
Guantanamo resta pero' un serbatoio di informazioni
strategiche per la lotta al terrorismo, non solo in
Afghanistan. ''So che ci sono differenze di giudizio - afferma
Harris - sul valore del materiale d'intelligence che
raccogliamo oggi, dopo cosi' tanto tempo. Ma posso garantire
che stiamo ottenendo informazioni utili e interessanti anche
per i nostri alleati in Europa''.
Altre fonti militari di Guantanamo si spingono oltre e
aggiungono che dalla prigione sono partite ''informazioni
importanti per ricostruire la presenza di membri di Al Qaida
in Europa''. E tra i servizi d'intelligence che sono venuti
ripetutamente ad attingere a questo serbatoio, sottolineano le
stesse fonti, ''ci sono anche quelli italiani''. Gli esponenti
che oggi comandano le unita' dei taleban che continuano a
imperversare in Afghanistan, o i nuovi capi di Al Qaida emersi
dalla decimazione della leadership storica dell'
organizzazione di Osama bin Laden, anni fa erano in molti casi
compagni d'armi nei campi di addestramento afghani di vari
detenuti ora chiusi a Guantanamo.
E' per questo, racconta l'ammiraglio Harris, che gli uomini
dell'intelligence Usa e dei paesi della forza Isaf, sempre
piu' spesso scoprono nei villaggi afghani nuovi nomi di capi
della guerriglia e chiedono se tra i 395 detenuti nella base a
Cuba ci sia chi li conosce. ''Non ci sono fotografie che li
ritraggono - spiega Harris -, ma molto spesso sono personaggi
che hanno conosciuto quelli che sono a Guantanamo. Per questo
i disegnatori delle forze dell'ordine stanno lavorando con i
detenuti che collaborano e presto avremo immagini da mandare
ai nostri militari in Afghanistan, utili per catturare o
uccidere questi individui''.
Il capitano di Marina Gary Haben, che comanda i tribunali per
la revisione dei casi dei prigionieri, rafforza il concetto:
''Anche dopo 5 anni, i detenuti qui possono rivelarsi d'un
tratto di grande importanza per l'intelligence, per effetto di
eventi che accadono nel mondo su cui possono avere
conoscenze'' Ma l'ammiraglio Harris e i suoi ufficiali sanno
che non basteranno gli identikit, per placare l'impazienza che
buona parte del mondo ha ormai per Guantanamo.
''Sono d'accordo con chi dice che prima si chiude questo
posto, meglio e' - afferma Harris -, ma questo deve avvenire
quando Guantanamo non e' piu' necessaria. Oggi sfortunatamente
a mio avviso lo e', perche' abbiamo qui circa 300 detenuti, su
un totale di meno di 400, che sono seriamente dediti alla loro
causa, sono troppo pericolosi per essere rilasciati o non
hanno detto quello che sanno. Non possiamo assumerci la
responsabilita' di lasciarli andare''. Il Pentagono,
sottolinea l'ammiraglio, ha gia' ''corso i propri rischi'',
facendo partire da Guantanamo in questi anni circa meta' dei
detenuti che vi sono arrivati (377 su meno di 800). Una
ventina di loro, pari al 10%, sono ricomparsi sul campo di
battaglia, specie in Afghanistan.
''Voglio enfatizzare - dice Harris - come sia senza precedenti
nella storia militare moderna che una Nazione in guerra
rimetta in liberta' individui designati come combattenti
nemici''. Nello stesso tempo, buona parte di quelli rimasti -
tra cui i presunti strateghi dell'11 settembre - non possono
tornare a piede libero. ''Nell'immediato futuro - afferma
l'ammiraglio - c'e' la necessita' assoluta di avere Guantanamo
o un posto come Guantanamo da qualche parte. Dove possa essere
questo 'da qualche parte', non lo so dire. Ma se chiudessimo
domani, dovremmo decidere dopodomani cosa fare con i detenuti
che sono qui''. Ai critici, specie in Europa, Harris risponde
con una richiesta: ''Che siate d'accordo o meno con
l'esistenza di questo luogo o con la legittimita' di tenere
combattenti nemici detenuti per un lungo tempo senza processo,
quantomeno riconoscete il fatto che lo stiamo facendo in modo
umano. Io la notte dormo bene, da questo punto di vista,
perche' ritengo che stiamo facendo bene il nostro lavoro''.
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I 14 SUPERTERRORISTI CHIUSI A CAMP 5 E 6 |
Camp 5 e il nuovissimo Camp 6, le strutture di massima
sicurezza dove sono stati trasferiti due terzi di tutti i
detenuti di Guantanamo, ospitano tra gli altri anche 14
cosiddetti 'detenuti di alto valore', trasferiti nella base a
Cuba lo scorso settembre da prigioni segrete della Cia sparse
nel mondo. Ecco chi sono:
1 - KHALID SHEIKH MOHAMMED: Definito dall'amministrazione Bush
"uno dei più famigerati terroristi della Storia", è reo
confesso di essere stato lo stratega dell'attacco all'America
dell'11 settembre 2001. Si è laureato negli Usa nel 1986 ed è
stato la mente di molteplici progetti, compreso il cosiddetto
'Bojinka' del 1994, che prevedeva di far esplodere in volo 10
aerei americani sul Pacifico: un piano a cui si sarebbero
ispirati i presunti terroristi arrestati lo scorso agosto a
Londra, accusati di aver pensato stragi con esplosivi liquidi.
2 - RAMZI BINALSHIBH (o Bin al-Shibh): Uno yemenita che
guidava la cosiddetta 'cellula di Amburgo', che realizzò le
stragi di cinque anni fa. Fu catturato nel 2003 con Mohammed.
Con lo stratega dell'attacco, secondo gli Usa aveva messo a
punto dopo l'11 settembre anche un progetto di attentato che
prevedeva di dirottare un aereo e lanciarlo contro l'aeroporto
londinese di Heathrow. Al momento della cattura, secondo
l'accusa aveva reclutato quattro sauditi per la nuova strage.
3 - ABU ZUBAYDAH: Uno dei principali leader di Al Qaida fino
alla cattura e il responsabile del reclutamento e dei campi di
addestramento in Afghanistan. Nel novembre 2001, secondo gli
Usa, fu lui a far fuggire dal paese 70 combattenti dell'
organizzazione, tra cui Abu Musab al Zarqawi.
4 - HAMBALI (vero nome: Riduan bin Isamuddin): Indonesiano,
era il capo nel sudest asiatico di Jemaah Islamiya, ritenuta
strettamente legata ad Al Qaida. Tra le accuse contro di lui,
quella di aver organizzato l'attentato di Bali del 2002 (oltre
200 vittime).
5 - AMMAR AL-BALUCHI: operativo di Al Qaida in Pakistan, è
nipote di Mohammed e cugino di Ramzi Yousef, l'autore del
primo attacco al World Trade Center del 1993. Ha addestrato
terroristi inviati negli Usa.
6 - WALID BIN ATTASH (o Khallad Bin Attash): Membro di una
famiglia saudita molto legata a Osama bin Laden, è stato tra i
responsabili di Al Qaida in Arabia Saudita.
7 - ABD AL-RAHIM AL NASHIRI: E' stato il capo operativo di Al
Qaida nella penisola Arabica fino alla sua cattura, nel 2002.
E' ritenuto l'artefice dell'attentato alla nave da guerra
americana 'Cole' nello Yemen, nel 2000 (17 morti).
8 - MUSTAFA AHMAD AL-HAWSAWI: Uno dei due 'cassieri' dell'11
settembre, inviò i soldi ai dirottatori dagli Emirati Arabi
Uniti e gestì tutti gli aspetti finanziari dell'operazione.
9 - AHMED KHALFAN GHAILANI: E' accusato di essere stato il
'falsario capo' di Al Qaida, che procurava passaporti e visti
falsi ai membri dell'organizzazione.
10 - ZUBAIR (vero nome Mohd Farik bin Amin): Uno dei
collaboratori di Hambali, doveva compiere un attentato suicida
a Los Angeles. Catturato nel 2003.
11 - LILLIE (vero nome Mihammed Nazir Bin Lep): Un altro dei
luogotenenti di Hambali, a lui spettava l'organizzazione della
presunta 'seconda ondata' di attacchi aerei suicidi contro gli
Usa, che aveva Los Angeles nel mirino.
12 - MAJID KHAN: Pachistano cresciuto negli Usa, ha lavorato
per Mohammed per compiere sopralluoghi per attentati. Nel 2003
avrebbe ordinato a un pachistano residente degli Usa, Uzair
Paracha, di impersonarlo per potersi dileguare. Paracha è
stato condannato a 30 anni di carcere.
13 - ABU FARAJ AL LIBI: Ex comandante militare di Al Qaida in
Afghanistan. Rispondeva direttamente a bin Laden e ad Ayman al
Zawahri ed è ritenuto il pianificatore di attentati contro il
presidente pachistano Pervez Musharraf.
14 - GOULED HASSAN DOURAD: Capo della al-Ittihad al-Islami,
un' organizzazione somala legata ad Al Qaida. |
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