Amarcord:
17 marzo 2003, cinque anni fa oggi, sull’autostrada
Amman-Baghdad
IL MONDO,
LA SINISTRA, L’ASSASSINIO DELL’IRAQ, I PARTIGIANI
17/3/2008
Uno scossone, il pulmino che
precipita sul lato, s’inarca, si blocca nel fosso a due
centimetri dal palo della luce. Bozzo sulla fronte da incontro
con il parabrezza. Io arrivavo da Roma e stavo in braccio a
Morfeo. L’autista, spossato dal terzo
millechilometri in 24 ore tra
Amman e Baghdad, era riuscito a frenare nel dormiveglia. Non
avevamo potuto rimpimparci con il
caffè turco di prammatica nell’unico posto di ristoro tra il
confine e la capitale irachena. Giuntivi stremati, ci
eravammo infilati tra mucchi di
macerie ancora fumanti, là dove c’erano l’ambita taverna del
kebab, negozietti di pistacchi e souvenir, giardinetti stenti
strappati all’immenso deserto grigio della Mesopotamia
occidentale. Gli erano piombati addosso due
missili non più di un quarto d’ora prima. I primi due missili
per la “soluzione finale”. Era la notte tra il 17 e il 18 marzo
e “l’Alleanza dei volenterosi” a comando Usa aveva iniziato a
radere al suolo il più grande, progredito, civile, coraggioso
popolo del Medio Oriente. Non ho mai capito perché tutti datano
l’inizio dell’aggressione all’antimperialismo laico e socialista
e ai pozzi di petrolio iracheni al 20 marzo. Risparmiarsi due
giorni di crimini?
Con gli occhi e i pensieri a
mezz’asta proseguimmo verso la città martire. E sotto le
palpebre mi scorreva il film di tanti e tanti anni di
frequentazione e amicizia con questo paese, culla di ogni
civiltà, faro della rinascita araba, bastione contro il
colonialismo occidentale di ritorno e il feroce espansionismo
israeliano. La prima volta mi ci mandò da Londra, nel 1977,
The Middle East,
giornale anglo-arabo di cose mediorientale. Era una specie di
Cuba, con le palme di datteri al posto di quelle chiamate
“reali”, ma con lo stesso fervore creativo che fioriva
dall’universale consapevolezza di star facendo qualcosa di
nuovo, di grande, di degno. Di lavorare sulla rottura con la
frana reazionaria e restauratrice che schiacciava nel pensiero
unico e sotto lo stivale della dittatura capitalista quello che
nella seconda metà del secolo era stata la liberazione di tanti
popoli e la rivolta di un universo giovanile, allora dotato di
audacia e di idee chiare. Era un
paese dallo sfolgorìo intellettuale,
artistico, internazionalista, con incontro che rincorreva
incontro con le forze delle lotte
sociali e nazionali in visita da tutto il mondo.
Vi si accorreva per partecipare a
un sistema scolastico che, dalla scuola materna all’università,
regalava studi, alloggi, testi e mense agli iracheni e agli
ospiti del Terzo Mondo. Per vedere,
finalmente in un paese musulmano, donne senza velo, in
minigonna, assise sugli scranni del governo, della magistratura,
dell’accademia, delle professioni. Per compiacersi dalla
fraterna intesa, sotto l’ombrello
statale del rispetto per i diritti di tutti, celebrato anche dal
maggior numero di matrimoni misti di qualsiasi paese pluralista,
tra musulmani sciti e sunniti, cattolici, evangelici, arabi,
curdi, turcomanni. Soprattutto tra classi, dove la distribuzione
della ricchezza aveva colmato l’abisso, vertiginoso in tutta la
regione, tra poveri e poverissimi e ricchi e ricchissimi. Era il
paese del Fronte del Rifiuto, quello che risollevò la bandiera
araba e palestinese che Sadat e Begin,
con gli accordi di Camp David,
avevano lacerato e buttato ai piedi dei sionisti.
Il sostegno iracheno, anche
materiale, ai palestinesi, il più cospicuo e costante di tutti,
sarebbe continuato, incredibilmente, fino al 9 aprile 2003,
giorno dell’ arrivo dei barbari a
Baghdad. Ripartito per Amman, mi trovai a fianco, nella stessa
direzione, una vettura con due funzionari iracheni del Ministero
per la Palestina che portavano ai palestinesi gli ultimi 20mila
dollari per ogni famiglia di martiri.
Glielo fecero
pagare, quel Fronte del Rifiuto che aveva sottratto alla
cospirazione oltre metà dei paesi arabi. Glielo fecero pagare
usando la mannaia Khomeini, appena insediato in Iran, dove era
giunto su un aereo Usa, e già
impegnato in una bisogna analoga con lo sterminio delle sinistre
laiche e islamiche che avevano fatto la rivoluzione, poi rubata
dai preti. Era l’estate 1989, qualche settimana prima
dell’invasione iraniana, quella poi mediaticamente rovesciata
nel suo contrario quando si trattò di sostenere i teocrati
capitalfeudalisti contro il cuore
del laicismo progressista della regione. Un tenente curdo della
Guardia Nazionale ci aveva accompagnato su per le montagne del
Curdistan iracheno fino al confine
con l’Iran, dove le vette nevose erano costellate da villaggi
antichi e nuovi insediamenti turistici. Da
25 anni il Curdistan aveva
avuto l’autonomia, l’autogoverno – unico tra i curdi sparsi in
quattro paesi - con parlamento a Irbil,
l’università, la parificazione della lingua con quella araba.
Nel governo centrale il Partito Democratico Curdo reggeva da
anni le sorti del paese insieme a Baath
e Partito Comunista. Su ordine degli Usa, il primo, e su quello
dell’Urss il terzo, si schierarono
poi con il nemico persiano e rimasero fuori dal governo. La base
dei comunisti entrò nel Baath, la
gerarchia andò in esilio in Iran e in Siria.
Ci arrampicammo tra
villaggetti rurali parzialmente
inceneriti e, arrivati alle casette in stile alpino del centro
turistico abbarbicato sulla montagna che separava persiani da
arabi, fummo accolti da qualche salva di artiglieria pesante.
I botti, i crateri, quei paesi
bombardati, ci confermavano l’elenco
che il giovane tenente ci aveva fatto dell’ininterrotta serie di
provocazioni armate e politiche subite (“Iracheni, impiccate
Saddam”, tuonavano gli ayatollah da Tehran), delle infiltrazioni
a creare quinte colonne curde e scite, delle rivendicazioni
sullo Shatt el
Arab, unico sbocco iracheno sul
Golfo, dell’occupazione iraniana di isole arabe, e degli
infiniti ricorsi che Baghdad aveva invano rivolto all’ONU, alla
Lega Araba, alla Conferenza Islamica, alla Comunità Europea.
Seguirono otto anni di bagno di sangue che, nelle intensioni del
sionimperialismo, avrebbero dovuto
sfiancare e ridurre a miti consigli (così Henry Kissinger) i due
grandi concorrenti regionali. L’Iran non gliela fece, il Kuwait,
microburattino degli Usa, prese a
sabotare l’economia e il petrolio iracheni, gli Usa finsero di
acconsentire acchè l’Iraq si
riprendesse quella 17ma provincia che gli inglesi gli avevano
sottratto, Saddam fece l’errore strategico di
far rientrare il Kuwait nella
madrepatria.
Non gliela fece l’Iran, ma ci
provarono gli occidentali, insofferenti di quel paese riottoso
alla “globalizzazione” e ingordi di energia. Fu la prima guerra
del Golfo. Non gliela fecero neanche loro. Allora provarono con
un embargo più criminale di tutti gli
embarghi. Neanche uno spillo, neanche un’aspirina,
neanche un cuscinetto a sfera. Gli iracheni sarebbero morti per
fame, cancri da uranio, diarrea da acqua contaminata, crollo
di industria e agricoltura,
import-export cancellati. I sopravvissuti si sarebbero liberati
di Saddam. Zeppi di dollari, a Londra e Washington i mercenari
iracheni fuorusciti stavano facendo le valigie.
Ma
non gliela fece neanche l’embargo. L’Iraq restò in piedi,
ricostruì tutto e meglio. Con un sistema annonario, che l’ONU
definì il più efficiente e onesto del mondo, il governo riuscì a
garantire a tutti i 25 milioni di
cittadini il fabbisogno alimentare. Milioni di militanti del
Baath e comunisti non fedifraghi si
addestravano alla guerra di popolo contro l’inevitabile invasore
alla ricerca del colpo risolutivo. Da tutti i pizzi accorrevano
compagni – io venni con gli statunitensi di
Ramsey Clark - attivisti politici, pacifisti, sostenitori
dei diritti umani, in primis della sovranità e della giustizia
sociale, più ad animarsi all’esempio di resistenza e coraggio
modellato da tutta la società irachena, che
a
contribuire solidarietà. Le sinistre ufficiali, eleganti,
riconosciute nel resto del mondo, stavano
appollaiate su trespoli più o meno di velluto rosso e
gracchiavano contro la guerra all’insegna, però, delle
rassicuranti diffamazioni della propaganda
Cia-Mossad. Ne andava della partecipazione, certo
elemosinale ma che fa, ai pranzi di gala colonialisti, imbanditi
di pietanze irachene: “Questo è il mio corpo, questo è il mio
sangue, nutritevene nel segno della nuova alleanza…”
E fu la soluzione finale, marca
Auschwitz. Tanto gli iracheni avrebbero gettato fiori sui carri
invasori. Niente fiori, ma quei
soldati, quei militanti, quei guerriglieri, quel popolo rimane
in piedi e tiene per la strozza un nemico che, pur sottraendo
alla salute, al benessere, al portafoglio, al futuro dei propri
cittadini tre trilioni di dollari (tre milioni di milioni), non
riesce a metterli sotto, nemmeno dopo cinque anni. Anzi, va di
sconfitta in sconfitta, qualunque trucco
tenti, che siano i capitribù comprati, le squadracce
tagliagole scite sguinzagliate nella più orrenda caccia all’uomo
mai vista, le bombe piazzate nei mercati dagli specialisti del
terrorismo di Stato, le muraglie che separano e rinchiudono i
quartieri, lo sterminio bombarolo degli F-16, la tortura
sistemica, l’incarcerazione di 60mila persone qualunque, la
stretta collaborazione tra Usa e il finto avversario iraniano
nel congiunto, seppure concorrenziale, squartamento dell’Iraq.
A oggi, partendo dalla prima
guerra del Golfo e dall’embargo, sono morti ammazzati tre
milioni di iracheni, un milione e
mezzo per le sanzioni, altrettanti, secondo i più qualificati
istituti di ricerca occidentali, dal 17 marzo 2003. Quattro
milioni hanno perso tutto e sono fuggiti dalle bombe, dal
terrorismo dei rastrellamenti, dai trapanatori di teste al
servizio di Tehran: due sono profughi in Siria e Giordania, gli
altri vagolano nel paese tra tende e coperture di fortuna.
Il più ricco e antico patrimonio
storico ed archeologico dell’umanità,
quello al quale tutti dovremmo dire “mamma”, è stato devastato
dalle granate, dai cingoli dei carri, dai ladri su commissione
privata occidentale, dai morti di fame. Squadre di scuola
sionista hanno liquidato, uno a uno,
gli esponenti dell’intelletto e delle capacità: professori
universitari, medici, giuristi, artisti, letterati. Mai con
Saddam c’era stato il colera, l’Aids, la dissenteria da totale
mancanza di acqua potabile e da Eufrate e Tigri straripanti di
rifiuti e cadaveri. Ora dilagano e decimano un popolo la cui
ostinazione e dignità meritano di essere strappati alla vista e
alla coscienza di tutti. Come il Kosovo, un paese ormai
tripartito sotto il tallone di sicari venduti ai boss dei boss è
diventato, negli spazi ancora sotto controllo dei portatori di
democrazia, una latrina dove la fame e interessi neanche tanto
occulti coltivano per il circuito
finanziario occidentale l’oppio al posto del grano, un
supermercato degli organi, spesso rapinati ai feriti e
moribondi, un lupanare dove madri, sorelle e figlie, per nutrire
i loro cari, devono vendersi nelle varie forme richieste.
E’ la più grande catastrofe
umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Ogni giorno
viene ammazzata una media di
cinquanta civili, i feriti sono il doppio. Con il rinvigorirsi
della Resistenza nei primi mesi del 2008, sono riprese, a
rilanciare odi e conflitti confessionali, le stragi, teleguidate
dalla “zona verde”, alle moschee e nei mercati. E’ stato
inaugurato un millennio che i padroni vogliono rendere quello
della vittoria finale su un pianeta spopolato e su tutte le
risorse, ma di cui nessuno vedrà la fine. A tutto questo si
oppone una Resistenza cui gli stessi analisti Usa hanno
attribuito 200mila combattenti e il consenso del 92% della
popolazione. Una Resistenza che si conferma lucida,
articolata ma compatta. La possono
chiamare, con piena adesione di pavide e stolte sinistre, alla
fin fine conniventi, Al Qaida quanto
vogliono, sfidando il ridicolo di una
guerriglia che, di colpo, a cavallo tra 2007 e 2008, si vorrebbe
trasmutata nell’organizzazione dell’agente Cia Osama. Bin
Laden. E’ Al Qaida che punisce i
capitribù collaborazionisti (ma già scontenti e renitenti) dei
“Consigli del risveglio”. E’ a dirigenti di Al
Qaida che i
topgun mirano quando massacrano i dieci membri di una
famiglia a Kut, o mezzo villaggio a
Hilla. Sono di Al
Qaida i cecchini e gli ordigni che
fanno scoppiare come popcorn marines e loro mezzi. Sostituita da
Al Qaida l’armata
brancaleone del prete di ventura
Moqtada al Sadr,
propagandisticamente avverso agli
occupanti Usa e sostanzialmente apripista dell’espansionismo
territoriale e clericale persiano. E’ Al
Qaida per Giuliana Sgrena, la
santina del “manifesto” che da un
Fabio Fazio, come sempre commosso e ammirato, con voce
stridula sciorina leterna tiritera
sul velo e mezz’ora di viscerale ripulsa contro l’Islam e tutto
quello che ci ha a che fare.
Mi sono fatto i bombardamenti
rispondendo al fuoco con la videocamera dal terrazzo
del Hotel Mansur.
Lì accanto c’era il ministero
dell’informazione, bersaglio privilegiato. Zitti devono stare,
zitti. Come i giornalisti della Tv di
Belgrado. Ogni mattina, negli ospedali di medici incrollabili,
impegnati 24 ore su 24, ci facevamo ferire gli occhi e tracimare
la bile dalla vista di bimbetti sminuzzati, di donne lacerate,
di uomini mutilati, arrivandoci per strade fiancheggiate da
macerie come dal ghiaccio le piste di bob. Tra roghi che nessuno
riusciva più a spegnere, esplosioni che penetravano nei più
abissali dei rifugi, uranio come se piovesse,
stupefacentemente la macchina dello
Stato continuava a funzionare, manco fossimo in Prussia:
servizi, assegnazione di buoni pasto
e distribuzione di viveri, telefono, internet, trasporti,
l’attività commerciale, le scuole, moschee e chiese, ospedali.
Ma soprattutto continuava a
funzionare la volontà di vita e una pervicace “normalità” di
tutta la popolazione, a scorno dell’aggressore assassino. Una
domenica dopo una notte marasmatica
di bombe, dalle parti di Piazza della Rivoluzione,
strabuzzai gli occhi su un formicolante mercatino degli animali,
strapieno di gente, bambini, venditori di uccellini, cuccioli,
gattini, pesci rossi, conigli. Una domenica di festa e di
allegria. Bastava vedere il viso di quella bambina che, legato a
un filo, si portava via un botolo di dalmata. Fu su quel
mercatino da giorno di festa che si avventarono i mostriciattoli
appesi ai fili del puparo
USraeliano. Due mesi fa, due
bombe in successione disintegrarono la festa e tanti corpi come
quello della bimba col dalmatino.
Tornai a novembre, quando già nel
mondo si parlava di sconfitta americana
(come se i compagni di merende degli stupratori, compresi
i nostri professionisti di Nassiriya, se la fossero cavata
meglio), quando già la Resistenza aveva messo in opera quello a
cui il popolo iracheno da parecchi anni si era preparato. E,
sgusciando tra gli sgherri mercenari dell’occupazione e
collaborazione, addestrati a
chiudere occhi e bocca a qualunque giornalista non
embedded, percorsi per l’ultima volta la città
che tante volte mi aveva accolto con quel sorriso e
quell’ospitalità che, così autentica e diffusa, nella mia
esperienza solo tra gli arabi ho trovato. Ci salutammo con tanti
amici di passione politica, di grigliate di pesce sul
lungo-Tigri sotto i lampioni, con coloro che mi avevano mostrato
morte, speranza, lotta, ricordi, raccontandoli su tele a colori,
in versi, a voce.
Mente e cuore si fanno accarezzare
e graffiare da queste memorie. Ma una
collera innaffia e annega tutto. La collera per l’ignavia, la
bassa complicità, la compiaciuta ignoranza con cui di questi
tempi i buoni e equi e solidali si
stracciano i veli d’ipocrisia, ieri, sul disastro umanitario del
Darfur, di un Sudan e della sua
dignità e delle sue risorse strappate a forza di diffamazioni e
di bande mercenarie secessioniste per conto dell’Impero. Oggi,
su quel Tibet, cinese da un millennio, che la Cina – bella o
brutta che sia - ha sollevato dall’ignoranza, dalla
superstizione, dalla tirannia di una casta di monaci
integralisti, sanguinari e pedofili, padroni di tutto, comprese
le vite di contadini che non avevano mai visto una scuola, un
ospedale, una libreria, se non selezionati ed eletti alla
dittatura monastica. Traditori dell’informazione, neanche capaci
di mettere in dubbio, alla luce dei mille inganni e complotti
per distruggere paesi e la loro sovranità operati dal
colonialismo di sempre, le grottesche turlupinature diffuse
dalle centrali della disinformazione, si tratti di Gaza o Iraq,
di Afghanistan o Somalia, di Belgrado o Sudan. O di Genova del
G8. Ci alluvionano di lacrime e
anatemi su dieci morti a Lhasa, su presunti profughi del
Darfur, tanti quanto i granelli del
deserto, sui poveri bersagli di quattro “Kassam”
a Sderot, e tacciono, occultano il
più orrendo olocausto in atto. Forse la sanno la verità,
conoscono il terrorismo autentico ma, suicidi, tremano al
richiamo morale di doversene far scudo contro le accuse di
complicità col “terrorismo islamico”. Basta chiamare Al
Qaida la Resistenza,
pur sostenuta eroicamente anche per loro, per tutti, e
ci si sente a posto. C’un genocidio
iracheno, preludio all’etnocidio arabo. Basta una gita
a Auschwitz e tutto questo svapora.
La vicenda dell’Iraq, popolo più amato, mi accompagna senza
tregua. Vive anche della rabbia più dolorosa e del dolore più
rabbioso che in tanti anni di stupri della verità abbia provato.
Rabbia per come la menzogna degli assassini abbia potuto
rovesciare il mondo nel suo contrario ed escludere dalla
solidarietà degli uomini, almeno dalla compassione, chi per la
verità e per il futuro dell’umanità sostiene un sacrificio tanto
terribile da polverizzare le parole. E dolore come se mi fosse
morto un figlio.
Baghdad, 9 aprile 2003
Parto
con la morte nel cuore, come si dice,
tanti pezzetti di morte raccolti in due settimane di
apocalisse, aggrovigliati nel cono di un vulcano in eruzione.
Restare qui è privilegio di grandi testate, capaci di 500
dollari al giorno,embedded,
inquadrate. Andarsene con un autista che sfidi i missili
angloamericani contro chi arriva, costa ormai $1500, domani
2000. Inoltre, non mi sembra né sopportabile, né personalmente
opportuno assistere al dilagare degli antropofagi, degli
specialisti di stragi degli innocenti, di
coloro che marchiano di terrorismo e mandano a Guantanamo
chi non balla per Bush e getta fiori sui tank. Lascio un paese
che amo da un quarto di secolo, di cui ho visto alti e bassi,
verità e calunnie, il bello e il brutto, lotte che a noi
parevano giuste o sbagliate e, soprattutto, le qualità del suo
popolo fiero, forte e gentile. Lascio amici che non so se
rivedrò e quanto gli resta per
raggiungere quegli altri amici che se li è portati via il
delirio di onnipotenza di miserabili omiciattoli ladroni, con
tanta complicità dei loro manutengoli sparsi ovunque. Lascio un
paese di cui ho potuto sfiorare le testimonianze moriture di
civiltà, dallo zigurrat
della Ur di Abramo, macinata dai
carri armati invasori, alla Torre dei califfi in
Samarra, dalla moschea d’oro di Ali
nella Najaf frantumata, all’ Atra
dalle romane vertigini colonnate,
alla Niniveh dei sumeri, alla
Babilonia di Nabuccodonosor, saggio
dei saggi, alla stele di Hammurabi
che per primo fece la legge da noi smarrita, quella uguale per
tutti. Tutto ci ha insegnato questa gente, da 6000 anni, la
ruota, la scrittura, l’irrigazione, la città e le sue
convivenze, la musica, la legge. E tutto
viene ora cancellato da ordigni tecnologici manovrati da
chi è moralmente tornato alla clava e, dal verbo, all’urlo
disarticolato e belluino. Ultima cena con una famiglia di Al
Safina dove, lungo il Tigri, ho
vissuto tavolate di grandi famiglie, tra riso, scambi e
narrazioni, sotto lampioni colorati che gettavano stelle nel
grande fiume. Stanno tutti e dodici nella stanza più protetta,
giorno e notte, lungo l’orario scandito dalle bombe e dalle
incursioni di deliranti zombie come
la lancetta segna i secondi. Sei figli che, per fare un progetto
di vita, devono disegnarlo sulla polvere delle macerie, ma
decisi alla guerra di popolo, fino a quando al gigante
sarà stata recisa anche l’ultima vena, come accaduto agli
inglesi nella prima liberazione. All’ospite
vengono offerte le razioni migliori di una riserva che
già si sta estinguendo. Colpire i depositi e
gli acquedotti, piegarli e poi sterminarli per fame, sete, peste.
Usciamo, percossi incessantemente dalle detonazioni,
ripercorriamo sentieri che nelle primavere della libertà erano
di suoni, luci, vetrine colorate, panche di caffè
e domino, il macellaio roboante di inni di vittoria, il
barbiere dalle battute molto laiche, l’omino-kebab col suo
triciclo fumante e profumato, il rotolìo
dei ragazzini dietro palloni e gelati, il fruscio di ragazze
colorate, in volo su tirannie di genere dissolte, il frastuono
folk o rock dall’affollatissimo taroccatore…
E’ diventato un percorso di rovine, un terzo della via è un
ammasso di ferraglia e cemento, diciotto case spianate, con
dentro tutti quanti. Una bambina, l’icona di un passaggio
danzante verso l’adolescenza, che agitava nel riso il suo
leggero velo e che il mio obiettivo aveva inseguito fino a
perdersi nel buio, è stata sradicata, spenta al suo quartiere,
ai genitori mutilati in ospedale, negata al futuro che
l’attendeva con amore. I suoi
amichetti, da sopra le macerie, mi salutano, sulla dannata
macchina che mi strappa via, con un segno che sta diventando il
vessillo arabo dall’Atlantico al Golfo: le dita a V.