Questa è una riflessione dedicata a chi non conosce Cuba, oppure a chi
la conosce solo superficialmente e ne associa la musica a quello
straordinario fenomeno “danzereccio” esploso nelle nostre sale da ballo
in questi ultimi anni: Salsa y Merengue. Innanzitutto chiariamo
definitivamente il fatto che il Merengue ha veramente ben poco a che
fare con Cuba essendo stato generato a Santo Domingo, e poi parlare di
musica cubana equivale a descrivere una ricetta di un piatto
incredibilmente saporito e ricco di ingredienti di cui la Salsa è
probabilmente l’ultimo, ovviamente solo in senso cronologico, dei
componenti. Procediamo con ordine e cerchiamo di illustrare questo
grande minestrone sonoro al fine di chiarirci le idee.
Ipotizziamo una divisione del cubanismo musicale, tagliandolo in due
tronconi diversi, in due filoni separati però comunicanti, come due
fiumi di lava sotterranei paralleli ma imbrigliati da un nugolo di
canali secondari che apportano in continuazione i contenuti dell’uno
nell’altro e viceversa: la musica Popular e la musica del Folclor.
Ora
verrebbe da dire: qual’ è nata prima? (Al bando la battuta sull’uovo e
la gallina) O meglio, partiamo ancora da più lontano: qual’è lo
strumento che ha prodotto la prima nota sul suolo cubano? Il violino del
colonizzatore ispanico che per sollazzare il novello conquistador dalle
fatiche dei massacri della popolazione indigena (che magari aveva pure
la sua di musica, ma questa è una nozione che non ci è dato sapere vista
l’estrema accuratezza dello sterminio) si librava in arie del settecento
europeo? Oppure il canto e la percussione dello schiavo africano il
quale, per sollazzarsi dai massacri riservati anche per lui dai novelli
conquistadores, si aggrappava all’unica cosa che gli era rimasta
intatta, ovvero la sua cultura? Mah! Chissà? L’unica certezza è che il
fondamento della musica cubana si basa proprio su questo intreccio
basico: da una parte la cultura europea e dall’altra la tradizione
musicale africana, e più precisamente dell’allora Costa degli Schiavi,
territorio oggi compreso tra gli stati della Costa d’Avorio e del Congo,
musica fatta di percussioni, voci e ritmi trascinanti. C’è da dire che,
nella tragedia della deportazione, gli africani “gestiti” dagli spagnoli
e dai portoghesi - ed in misura minore dai francesi e dagli olandesi -
sono stati più “fortunati” (se mi si passa il termine) dei loro fratelli
caduti in mano agli inglesi: questi hanno fatto si che della cultura
originaria dei “loro” schiavi non restasse più nulla, hanno azzerato un
infinito di conoscenza, un olocausto culturale nell’olocausto umano.
Abbiamo fatto la distinzione fra due componenti del minestrone caraibico,
quindi: da un lato la musica popolare, espressione tipicamente cubana,
nata in loco e derivata dall’innesto di due culture principali, e
dall’altro la musica del folklore, meno compromessa con la cultura
europea e più visceralmente legata alla terra d’origine, l’Africa.
Sul
versante Popular, verso la fine dell’ottocento, avvengono le prime
contaminazioni tra danze e controdanze di derivazione francese e i ritmi
forsennati dei neri, nascono la Tumba Francesa, la Orquesta Tipica
Francesa e soprattutto il Danzòn, sorta di musica da camera
particolarmente ben coniugata con le percussioni e ballabile con movenze
così sensuali da suscitare scandalo nella puritana società dell’epoca.
E’ un momento particolarmente fervido questo a cavallo fra i due secoli
appena passati: dagli africanissimi Tambores Yuka si arriva alle
cubanissime Congas, strumento simbolo di tutta la musica dell’isola; dai
canti Abakuà – società di mutuo soccorso composta (a quei tempi)
esclusivamente da neri e assolutamente segreta – e da altri innesti
africani si arriva a definire la perla musicale della cubania: la Rumba,
la regina del folclor cubano, il vero trait d’union tra i due filoni
suelencati, talmente importante forse da meritare una definizione di
filone musicale tutta per sé; dai timpani sinfonici, usati nelle
orchestre di musica classica, troppo onerosi per le finanze dei
musicisti locali, si passa alla povera ma gloriosa Pailateria Cubana,
ovvero i Timbales, che, partendo dalle “sacre” partiture europee,
diverrà uno strumento tanto “profano” quanto ritmicamente indispensabile
per tutta la musica popolare latina moderna; con l’introduzione degli
strumenti a corda ci si inventa il Tres, sorta di chitarra a tre corde
doppie, e da qui ci si imbarca nella grande avventura del Son, che forse
è il vero padre della Salsa e di quello che oggi si identifica come
musica latina. Tutto questo avviene naturalmente a tempo di Clave, i
famosi “legnetti”, che, percossi l’uno contro l’altro, determinano
l’andamento tipico della musica cubana, danno il giusto “sabor”,
comandano quegli incastri ritmici tipici fra il canto e tutti gli altri
strumenti che rendono irresistibile l’ascolto di qualsiasi brano. La
musica suonata in Clave sortisce sempre lo stesso effetto: fa “muovere
la cintura”, fa dimenare i fianchi, fa ballare, sudare e divertire.
Questo è quello che accade quando si instaura un rapporto di empatia fra
ascoltatore e musica cubana, a qualsiasi genere o sottogenere essa
appartenga: fa provare l’incommensurabile sensazione della gioia di
vivere.
Abbiamo dato una rapida occhiata a quello che accadde tra la fine del
XIX e l’inizio del XX sec., ma il minestrone sonoro è tutt’altro che
compiuto, anzi, si continuano a mescolare ingredienti anno dopo anno ,
decennio dopo decennio. E’ l’epoca di Caruso e si diffondono le arie
d’opera italiane, le melodie delle canzoni e delle romanze francesi, i
classici della tradizione napoletana, e tutto questo darà un robusto
contributo alla nascita dei “trovatori” cubani, la loro Canciòn assumerà
diverse forme, tra le quali l’intramontabile strappalacrime Bolero, la
Guajira, la Nueva Trova, fino all’attuale Nueva Canciòn.
Nel
frattempo il Son, dalle sue umili origini di “musica campesina”, diventa
sempre più il manifesto della cultura musicale dell’isola grazie allo
straordinario successo di artisti e gruppi come il Trio Matamoros o il
Septeto Nacional di Ignacio Piñeiro, formazione praticamente eterna
vista la sua perdurante attività, così come lo è quella del Sexteto
Habanero. Con gli anni cresce anche il numero di componenti delle
formazioni Sonere: ai classici Tres, Marimbula, Clave, Maracas y Bongò
si aggiungono via via altri strumentisti fino ad arrivare alla massima
evoluzione di quel ritmo che sta per trasformarsi in Salsa ma che ancora
può definirsi orgogliosamente Musica Cubana Tradicional: il Son
Conjunto, che vede i Son 14 e i Rumbavana come esponenti di punta.
Il
Jazz fa il suo ingresso nell’isola negli anni venti, ma solo intorno
agli anni quaranta esplode in maniera irresistibile il fenomeno del
Latin Jazz, grazie alle esibizioni nei club newyorkesi delle orchestre
di Machito e di Mario Bauza, che attraggono come mosche al miele la
presenza (e relativa collaborazione) di alcuni dei mostri sacri della
“musica classica dei neri d’america”: Dizzie Gillespie, Charlie Parker,
Cannonball Adderley ed altri ancora. La straordinaria abilità di
musicisti come Frank Emilio, Peruchìn, Chano Pozo, Tata Guines, Cachao,
e più tardi degli Irakere di Chucho Valdés, e l’ennesima fusione
musicale, stavolta tra la cultura afroamericana del nord e quella
dell’isola, daranno vita a performance bollenti, dal virtuosismo
esasperato ma mai fine a se stesso. Verrà inaugurato anche un nuovo
genere strettamente imparentato con i canoni del Jazz classico: la
Descarga, basata sulla continua improvvisazione a turno, su un tema
prestabilito, al ritmo forsennato delle percussioni.
Il
decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale è il periodo
in cui gli sviluppi musicali del Danzòn e della Charanga Tipica danno
vita ad altri due straordinari ritmi che cattureranno l’attenzione degli
appassionati del ballo di tutto il mondo: il Mambo e il Cha Cha Cha. Chi
non ricorda la Mangano nel film “Mambo” del ’54? Chi non ha mai sentito
parlare del Tropicana, culla di questa nuova febbre? E il pappagallino
“bailador de mambo” vestito di coloratissime balze che in un vecchio
lungometraggio Disney ancheggiava sapiente al ritmo latino? E chi non
riconoscerebbe le melodie di famosi Cha Cha Cha come “La Engañadora” o
de “El Bodeguero”? Anche il più disattento ai vari cubanismi non può non
sentirle familiari tanto grande è la loro universalità. Parlare di Mambo
significa parlare di Pérz Prado e Beny Morè, mentre l’orchestra di Cha
Cha Cha più rappresentativa è senz’altro l’Orquesta Aragòn, la
formazione di Charanga Moderna che può tranquillamente definirsi come
ambasciatrice della musica cubana, tanto perfetti sono i suoi
meccanismi, belli i suoi suoni e fascinosamente tradizionale la sua
musica.
Siamo arrivati agli anni ’70, la continua mescolanza dei sapori e
l’aggiunta di nuovi odori sta per germinare quello che è tuttora il
fenomeno di massa più travolgente: la Salsa. La cottura a fuoco lento
delle spezie eurocaraibicoafricane durata più di quattro secoli sta per
bollire al punto giusto e nel luogo adatto: il barrio nuyorchino. La
paternità del Son cubano è indubbia, lo zampino del Latin Jazz pure, ma
forse la Salsa non sarebbe giunta a noi così “sabrosa” come la
conosciamo se a complicare ulteriormente la ricetta non fosse
intervenuta l’influenza culturale dei latinos di tutto il continente
centrosudamericano ritrovatisi negli Stati Uniti, e nella fattispecie a
New York, in cerca di fortuna. Il minestrone è compiuto (fino ad ora,
ovviamente), dalla metà degli anni settanta in poi non è successo nulla
di numericamente più importante della Salsa, essa è patrimonio de todos
los latinos, gruppi e artisti significativi sono indifferentemente
colombiani o dominicani, venezuelani o portoricani, ma, per rimanere
fedeli a Cuba, citeremo solo quelli provenienti da essa: NG La Banda di
Josè Luìs Cortez e Los Van Van, oppure i cubani esuli come Willy Chirino
e Celia Cruz, per non parlare di Gloria Estefan, la quale,
furbescamente, visto il clamoroso successo mondiale del progetto Buena
Vista Social Club, ha ricominciato a fare musica Salsa dopo anni di
melenso pop in stile anglosassone.
Riguardo al fenomeno degli anziani soneros di Buena Vista Social Club
c’è da dire che avendo venduto milioni di dischi in tutto il mondo, essi
hanno raccontato una favola bellissima di vecchietti arrivati al
crepuscolo della vita ma baciati in extremis dalla fortuna e dal
successo, assurti ad un punto di fama tale da oscurare il resto della
produzione musicale cubana. Chi è arrivato a leggere fin qui sa ormai
che il microcosmo musicale de la Isla Grande è ben più ampio di quello
svelato dagli arzilli e comunque benemeriti musicisti tutelati da Ry
Cooder. Il pubblico occidentale, appartenente al cosiddetto mondo
civilizzato, dovrebbe scrollarsi di dosso quella superficialità che lo
fa accontentare di ciò che offre il mercante che strilla più forte:
andando più a fondo nella conoscenza delle cose si possono scoprire
universi di bellezza inimmaginabili, culture “altre” che non possono che
arricchire qualitativamente la nostra cosiddetta “cultura dominante”.
Sto
parlando del Folclor Afrocubano, finora citato en passant nel panegirico
di rimescolamenti del filone Popular. Abbiamo raccontato un pò di storia
dell’afrocubanismo popolare fendendo i decenni a sciabolate, cercando di
essere più concisi possibile e usando impropriamente termini come
“genere” e “sottogenere” per parlare di un universo sonoro che in realtà
in se stesso non ha confini, ma le definizioni sono servite come paletti
per cercare di capire meglio l’evoluzione di questo mondo fatto di note
e ritmo, evoluzione che, nel Folclor, non ha avuto le stesse conseguenze
“rivoluzionarie” della musica popolare. Il Folclor è rimasto più o meno
fedele a se stesso, semmai è servito come immenso serbatoio di nozioni
per arricchire il più fruibile e malleabile filone “commerciale”.
La
musica degli schiavi neri deportati a Cuba ha origini nella notte dei
tempi. Ogni etnia delle regioni africane dell’ovest aveva i suoi riti
religiosi: gli Yoruba del sudovest nigeriano, gli Ararà del Benin e
Dahomey, i Carabalì nigeriani anch’essi, i Bantù del Congo. Non solo,
ogni singola tribù di ciascuna etnia aveva il suo peculiare Dio da
venerare. La forzata convivenza in una terra relativamente piccola come
Cuba, assieme alla tolleranza dei colonialisti europei ed alla ferrea
volontà di perpetrare le proprie tradizioni come unica ancora di
salvezza dai soprusi quotidiani hanno fatto si che ogni etnia riunisse
in un solo credo tutte le divinità relative ad ogni singola tribù. La
tolleranza degli spagnoli, però, era subordinata alla forzata
conversione dei neri al cattolicesimo. Nacquero così le religioni
sincretiche cubane in cui convivevano riti africani e Santi cattolici:
la Regla de Palo, la Regla Kimbisa e la Regla de Ocha (per maggiori
informazioni sul sincretismo vi consiglio di cliccare alla voce
“Santeria” sulla home page di questo sito).
La
religione la cui musica rituale ha influenzato maggiormente lo sviluppo
della musica cubana è senza dubbio la Regla de Ocha, meglio conosciuta
come Santeria. L’orchestra dei tamburi sacri è formata da tre strumenti
a clessidra a doppia pelle denominati Tambores Batà, i cui suoni, oltre
all’ovvia valentia musicale, hanno funzione di preghiera. Gli incastri
poliritmici tra i suoni indeterminati dei Cha Cha (pelli delle aperture
piccole) e i suoni determinati degli Enù (pelli delle aperture grandi,
ovvero le “bocche” dei tamburi) formano parole onomatopeiche che,
associate ai canti, determinano i Rezos, ossia le invocazioni ai Santi a
cui il rito è dedicato, con la speranza che dal cielo Essi ascoltino le
suppliche e conseguentemente che gli Orisha stessi si manifestino in
forma di possessione attraverso una persona scelta fra gli astanti. I
Tocques Batà, al di fuori della loro funzione rituale, sono stati spesso
inseriti nell’ambito Popular, sia nel Son (Grupo Sierra Maestra, Compay
Segundo), sia nella Nueva Canciòn (Sintesis), sia nel Latin Jazz (Irakere).
Il maggior interprete dei canti sacri è Làzaro Ros, Apkuòn (cantante
solista) depositario della più profonda tradizione Lucumì.
I
canti agli Orisha del Pantheon Yoruba sono spesso eseguiti anche in
forme diverse, con diversi canoni percussivi: il profano e “campesino”
Bembè, di cui esistono centinaia di versioni (praticamente una ogni
esecutore, ed il bello è che ognuno di essi si proclama unico
depositario della verità ritmica, tutto il resto es mierda!) ed il sacro
e “cittadino” Toque Guiro, caratterizzato dalla massiva presenza degli
Acherè, le famose “zucche con le perline”.
Particolarmente affascinanti sono anche i canti Palo e Ararà, meno
frequenti nella fusione con altri generi musicali probabilmente a causa
della loro estrema difficoltà interpretativa (soprattutto il secondo,
anche se ogni tanto spuntano fuori nei dischi di gente come Chucho
Valdes, Alfredo Rodìguez, Sìntesis ecc.). Altri ritmi del Folclor meno
conosciuto sono la Yuka, la Makuta, il Brìkamo ed il Garabate. Il ritmo
di Makuta è incredibilmente coinvolgente e festaiolo, mentre El Baile de
Yuka ha sicuramente influenzato la corrispondente danza al ritmo di
Rumba Guaguancò: gli ancestrali ballerini africani presero spunto, come
in tante altre occasioni, dallo spettacolo della natura, ammirando e
copiando quello che gallo e gallina combinavano insieme ai fini della
procreazione…
Abbiamo toccato un nervo, abbiamo parlato della Rumba, ovvero della più
tipica espressione della cubania: è il tipo di musica che più
probabilmente si ascolta nell’aria appena scesi dall’aereo, è l’essenza
di Cuba stessa. Scrive Besito De Coco nel suo consigliabilissimo libro –
Corazòn, il cuore della musica cubana, ed. Minimun Fax - : “(la
Rumba)…necessità vitale per i cubani come è il Blues per gli
afroamericani (più precisamente gli afrostatunitensi, n.d.r.) o il Samba
per gli afrobrasiliani”. La Rumba nasce probabilmente dalla “spinta
dell’Obi Apà”, il tamburo grave che accompagna i canti Abakuà nei riti
Ñàñigos dei neri Carabalì: una sorta di colpo di cannone sul quarto
movimento di ogni battuta, potente come un calcione sul deretano a cui
consegue obbligatoriamente, per legge fisica, il relativo passo di
danza. In lingua “rumbese” questa figurazione ritmica cambia appena le
accentazioni minori e assume il nome di Salidor, ed è la base
fondamentale del ritmo, l’essenza del “sabor de Rumba” (assieme a canto
e clave, ovviamente). Sono distinguibili tre tipi di Rumba: il lento e
pacioso Yambù, il veloce e sensuale Guaguancò, e la frenetica - e per
soli ballerini maschi – Columbia. Gruppi famosi di Rumba più o meno
tradizionale sono Los Munequitos De Matanzas, Los Papines, Yoruba Andabo
y Pancho Quinto e i Clave y Guaguancò. Anche in questo caso le
contaminazioni con il Popular si sprecano: Son-Guaguancò, Guaguancò-Cha,
Guaguancò-Afro e via mescolando a più non posso, sembra quasi che si
ricerchi una continua rigenerazione, una caleidoscopica rifondazione
perpetua al fine di evitare la consunzione, l’annullamento nella
banalità.
I
ritmi Abakuà potrebbero anche essere stati progenitori di un altro
grande fenomeno musicale cubano: le Comparsas del carnevale, che hanno
avuto sviluppi diversi tra Santiago e La Habana. La cosiddetta Conga
Habanera consiste in uno spaventoso (si fa per dire) muro di suoni
percussivi caratterizzati da ritmi sincopati e accenti in levare, mentre
la Conga Santiaguera è un’ipnotica e ossessiva marcia con fortissimi
accenti in battere caratterizzata dallo straziante suono della trompeta
china, sorta di piccola cornetta che pare emetta sberleffi invece che
suoni. Ovviamente nemmeno questi ritmi scappano alla regola del
rimescolio di carte: Pello El Afrokan ne inventò uno nuovo negli anni
‘50, il Mozambique, fondendo in una sola anima la Conga Habanera e la
Rumba Guaguancò.
Ora, a ben guardare, nell’esplicare le varie fasi del mondo musicale
cubano, sembra esistere una contraddizione tra la teoria
dell’immutabilità del folklore rispetto alla vivacità intellettuale
della musica popolare: abbiamo visto che contaminazioni ed evoluzioni
varie non hanno certo risparmiato neppure il Folclor, in barba alle
premesse fatte. C’è da sottolineare, però, come il Popular si sia
rinnovato costantemente formando nuove e distinte proposte ritmiche,
dotate di vita e carattere peculiari, creando delle vere e proprie mode
e quindi assumendo espressioni diverse, mentre il Folclor, pur
raffinandosi incredibilmente nei vari stili esecutivi, sia rimasto
comunque sempre fedele ai suoi canoni. Un Guaguancò può chiamarsi
Guarapachangueo, o Batarrumba, o Flamenguambatà, o Catumba, o
chissacosaltro, ma rimarrà sempre una Rumba; un Toque Batà potrà
presentare mille varianti diverse o diecimila nuove risposte incrociate
fra le sei pelli dei tre tamburi, ma rimarrà sempre una preghiera ad un
Santo (sempre che le nuove varianti siano gradite o vengano comprese
dall’Orisha a cui il Toque è dedicato: è come se un cattolico cambiasse
costantemente le parole del Pater Noster o del Salve Regina…); non
parliamo poi delle tradizioni meno diffuse o più ostiche e chiuse alle
contaminazioni come l’Ararà: la morte di un vecchio di questa etnia
rappresenta un vero e proprio disastro culturale, paragonabile
all’incendio di una grande biblioteca. Ed è grazie a questa granitica
conservazione che la musica popolare cubana si è sviluppata in tante
sfaccettature diverse: dal Danzòn al Son, alla Tonada, alla Trova, al
Mambo, alla Canciòn, al Cha Cha Cha, al Latin Jazz, alla Salsa, alla
Pachanga, alla Guaracha, alla Charanga (nel presentare questo tipo di
orchestre mi sono dimenticato di citare La Ritmo Oriental: gravissimo
errore!), alla Guajira, al Bolero, all’Habanera, alla Descarga, alla
Nueva Trova, alla Criolla, alla Nueva Canciòn, e via sudando, ballando e
divertendosi, pescando in continuazione da un genere all’altro,
rimescolando continuamente gli ingredienti del minestrone e guardandosi
sempre alle spalle per rassicurarsi che il buon vecchio Folclor dia
sempre la certezza di esistere per continuare a dare le giuste
coordinate all’evoluzione. Come un vecchio padre che vede crescere il
proprio figlio dandogli completa libertà di scambiare con gente di tutte
le razze e di tutte le culture, avendo la certezza che i suoi
insegnamenti gli garantiscano un sicuro cammino di crescita rimanendo
ben saldamente legato alle proprie radici.
Hasta luego a toda mi gente.
CarminePongelli.