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NOTE SUL PENSIERO DEL CHE
di
Roberto Sarti
Il Che è l’emblema stesso, con Fidel
Castro, della rivoluzione cubana e più in generale della lotta degli
oppressi in tutto il mondo. Il suo spirito di sacrificio e il suo rigore
ed onestà intellettuale sono una fonte d’ispirazione per tutti noi.
Non è un caso se la sua figura e le sue
opere ritornino periodicamente al centro del dibattito.
Alcuni mesi fa abbiamo assistito in Italia
ad una discussione piuttosto vivace che, partendo dalla questione dei
diritti delle opere del rivoluzionario argentino, è passata ad
affrontare l’evoluzione del suo pensiero politico, soprattutto negli
ultimi anni di vita. Ad agosto 2005 scoppia il caso: i diritti di
pubblicazione di 19 manoscritti del Che sono stati venduti a Mondadori
per la cifra di un milione e mezzo di dollari da una casa editrice
australiana, la Ocean press. Aleida March, vedova di Guevara, e i
quattro figli hanno deciso già alcuni anni orsono di affidare a questa
impresa commerciale il compito di far circolare gli scritti del Che.
Sullo specifico non abbiamo dubbi. Ogni
comunista dovrebbe rispettare le volontà di Guevara, secondo cui il
proprio pensiero doveva essere messo a disposizione di tutta l’umanità,
senza alcuna limitazione. Una posizione comune ad altri grandi
rivoluzionari, da Marx a Lenin. Non è una questione astratta di
“purezza”, ma la semplice constatazione che concedere i diritti
esclusivi a un’impresa capitalista significa lasciare ad essa carta
bianca su cosa può o non può essere pubblicato, sulla base di una mera
logica commerciale. L’errore sta quindi nella privatizzazione delle
opere del Che, e poco importa che a pubblicarle sia Mondadori o
Feltrinelli.
La famiglia ci informa che tutti i
proventi saranno reinvestiti per migliorare i servizi sociali a Cuba, ma
ciò non affronta la questione politica. Molti di questi scritti
rimangono inaccessibili alla stragrande maggioranza dei cubani, fatto di
cui giustamente si indigna Celia Hart (figlia di due esponenti di
primissimo piano della rivoluzione cubana come Armando Hart e Haydee
Santamaria), quando esclama “chi può riservarsi i diritti dell’arrivo
della primavera?” nel suo Canto intimo pubblicato anche su Liberazione.
Tale censura non può non avere a che fare con le crescenti critiche che
il Che aveva cominciato a formulare verso le esperienze di “socialismo
reale” dei paesi dell’Est europeo, con cui era entrato in contatto dopo
la vittoria della rivoluzione cubana. Questa nostra opinione
scandalizzerà tanti epigoni dello stalinismo presenti anche in Italia,
che pensano che la difesa della rivoluzione cubana può passare solo
attraverso la raffigurazione di un paese senza difetti, dove un partito
d’acciaio, monolitico, guida dal 1959 la popolazione verso le gioie del
socialismo. La verità è un’altra e i comunisti non devono avere paura
della realtà, né nasconderla. Sarebbe un pessimo servizio che renderemmo
alle classi oppresse.
Gli inizi
Ernesto Guevara de La Serna nasce a
Rosario, in Argentina, nel 1928. Trasferitosi nella capitale Buenos
Aires, intraprende gli studi di medicina. Con il suo amico Alberto
Granado inizia nel 1951 un viaggio per l’America Latina in motocicletta.
In questo periodo comincia a formarsi una propria coscienza politica.
Particolarmente importante a riguardo sarà il suo soggiorno in Guatemala
dove partecipa alla resistenza contro il colpo di Stato promosso dagli
Usa nei confronti del presidente Arbenz. Quest’ultimo stava promovendo
una riforma agraria che cozzava con gli interessi della potente
multinazionale americana United Fruit.
In Guatemala incontra Hilda Gadea, sua
futura moglie, che lo introduce al marxismo.
A quale marxismo attinge tuttavia il Che,
muovendo i suoi primi passi da rivoluzionario? Non poteva che essere un
sistema di pensiero influenzato dallo stalinismo, che godeva di
un’influenza enorme dopo la vittoria dell’Unione sovietica nella Seconda
guerra mondiale e la rivoluzione cinese del 1949.
A metà degli anni cinquanta così Guevara
giudica Stalin: “(Fidel e il Che) dormivano accanto. Studiavano un libro
del Che, I fondamenti del leninismo di Stalin. Noi tre abbiamo avuto una
discussione molto seria. Il Che lo difendeva e io l’attaccavo.
L’opinione di Fidel fu lapidaria:’Una rivoluzione, per non dividersi ed
essere sopraffatta, ha bisogno di un capo. Vale di più un cattivo capo,
che venti capi buoni’.” (C. Franqui, Diario della rivoluzione cubana,
1977. pag. 159)
Le origini della rivoluzione
cubana
Allo stesso tempo Castro e Guevara non
potevano simpatizzare per la politica dei partiti comunisti latino
americani, estremamente degenerati, tantomeno per il Pc cubano, dei cui
pesanti errori parliamo in un altro articolo di questa rivista.
Lanciano così un nuovo movimento
guerrigliero, il Movimento 26 luglio.
L’obiettivo della guerriglia, quando
cominciava la lotta contro la dittatura di Batista, non era la
rivoluzione socialista, bensì l’introduzione di riforme radicali tese
all’indipendenza nazionale, restando all’interno del sistema
capitalista, come si evince leggendo “La storia mi assolverà”, il famoso
discorso tenuto da Castro durante il processo successivo all’assalto
alla Caserma Moncada. Fidel rivendicava “la partecipazione agli utili da
parte degli operai e degli impiegati”, “l’instaurazione della giustizia
sociale, fondata sul progresso economico ed industriale”.
Nei primi mesi del 1959, immediatamente
dopo la presa del potere, anche il Che nutre illusioni riguardo ad un
possibile sviluppo democratico tutto interno al capitalismo, come spiega
in un’intervista:
“Noi siamo democratici, il nostro
movimento è democratico, di coscienza liberale e interessato alla
cooperazione di tutta l’America. È un vecchio sotterfugio dei dittatori
di chiamare comunisti quelli che si rifiutano di sottomettersi a loro.
Entro un anno e mezzo sarà organizzata un forza politica con l’ideologia
del Movimento 26 luglio. Allora ci saranno elezioni e il nuovo partito
entrerà in competizione con gli altri partiti democratici.” (H. Thomas,
Storia di Cuba, pag. 831)
A Cuba tuttavia uno stadio “democratico”
del capitalismo non poteva esistere e si doveva scontrare con il dominio
totale da parte dell’imperialismo statunitense su ogni aspetto della
vita economica e politica di Cuba, tanto che le multinazionali Usa
possedevano il novanta per cento dell’industria dell’isola!
Dal minuto successivo all’entrata del
Movimento 26 Luglio a L’Avana, gli Usa cominciano ad ostacolare e
sabotare il nuovo governo rivoluzionario. Non c’era quindi possibilità
di sviluppo sotto il capitalismo e in quello stesso periodo Unione
Sovietica, Cina ed il resto dei paesi dell’Est rappresentavano un
importante punto di riferimento. Quando il governo nordamericano si
rifiuta di comprare lo zucchero da Cuba, Mosca si offre di acquistarlo
al suo posto.
Sulla base dell’impetuosa spinta
rivoluzionaria il capitalismo è stato eliminato a Cuba, ma per costruire
il nuovo sistema non si è seguito l’esempio della repubblica dei soviet
dei tempi di Lenin, bensì l’Unione Sovietica di Stalin e di Krusciov. Un
sistema dove una burocrazia, a causa dell’arretratezza e dell’isolamento
dell’Urss, aveva espropriato del potere politico la classe lavoratrice.
Tutti gli organismi propri della democrazia operaia, i soviet, i
consigli, ecc. erano ridotti a mere cinghie di trasmissione delle
decisioni dell’apparato statale. A Cuba in quei primi anni esiste una
grande voglia di partecipazione da parte dei lavoratori e delle classi
oppresse, ma nessuna struttura dove potere esprimerla. Nessuna
possibilità di elezione e revoca in qualsiasi momento dei funzionari e
degli amministratori era contemplata.
I rivoluzionari cubani, non avendo altro
modello a cui ispirarsi, applicano quello suggerito dai consiglieri
sovietici. In quei primi anni Che Guevara è sinceramente convinto che
quella sia la strada da perseguire ed esistono numerose testimonianze al
riguardo. Prendiamo l’esempio del “Regolamento de la Empresa consolidada”
elaborato dal Che quando era ministro dell’Industria. Si può leggere che
al direttore, nominato dal Ministero, spetta “di conoscere e
amministrare in tutte le sue fasi di pianificazione, organizzazione,
realizzazione e controllo, tutte le funzioni e i compiti dell’impresa
consolidata, come di amministrare i suoi mezzi e i suoi impianti e tutto
ciò che le concerne, e rappresentarla in ogni circostanza.” (E. Guevara,
op. cit., pag 509).
L’Unione Sovietica, nonostante tutte le
deformazioni, che avrebbero alla fine degli anni ottanta portato al
crollo del sistema, a quel tempo poteva vantare grandi successi nel
campo dell’economia, della scienza, della cultura. Questo accadeva
malgrado il controllo burocratico, grazie all’abolizione del sistema di
mercato ed alla pianificazione delle risorse economiche. Ecco la prima
impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione
Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è
l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme
libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il
proprio temperamento.” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di
guerriglia, Einaudi 1969, pag. 946) Queste parole furono pronunciate nel
1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia
ungherese da parte delle truppe di Mosca.
E sulla strategia di sviluppo del
socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione
era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene,
ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase
inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento
capitalista.” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970,
pag.53)
Lo stalinismo qui viene trattato come una
malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di
controrivoluzione politica portato avanti da una casta, la burocrazia di
cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con
la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la
vecchia guardia bolscevica, quella della rivoluzione d’Ottobre. Il filo
della tradizione rivoluzionaria fu interrotto in numerosi paesi. Per
questo le posizioni antistaliniste nel movimento comunista, come quella
di Trotskij, erano debolissime in paesi come Cuba, e spesso venivano
esposte in maniera del tutto caricaturale. Di tutto questo Guevara se ne
sarà reso probabilmente conto negli ultimi anni della sua vita.
Il problema per Cuba in quegli anni non
era opporsi alla cooperazione con l’Unione Sovietica che non era solo
inevitabile, ma necessaria. Il problema nasceva dalla trasposizione
integrale del modello sovietico nell’isola, pensare che un modello
burocratico come quello potesse mantenersi all’infinito ed all’interno
del quale Cuba potesse ritagliarsi un ruolo, immutabile e garantito, di
fornitore di materie prime e generi alimentari (zucchero e nickel) senza
curarsi più di tanto di uno sviluppo armonico dell’economia.
Il dibattito sull’economia
Guevara comincia a porsi i primi
interrogativi osservando i problemi che affliggevano la gestione
dell’industria, settore di cui era ministro. Nel dibattito sul “sistema
di calcolo di bilancio” in cui il Che viene accusato di introdurre
misure capitaliste, egli spiega: “Ci sono molte analogie con il sistema
di calcolo dei monopoli, ma nessuno può negare che i monopoli hanno un
sistema di calcolo molto efficiente” e critica il sistema utilizzato
dall’Urss che produce disuguaglianze, prevedendo come asse centrale gli
incentivi individuali (soprattutto agli amministratori). Sicuramente
Guevara coglie uno degli aspetti centrali del pensiero di Lenin, quando
introdusse la Nep, vale a dire utilizzare dei metodi capitalisti in una
situazione di grande arretratezza ed isolamento, aspettando la svolta
decisiva che sarebbe arrivata con la rivoluzione in altri paesi. A
differenza del marxista russo, tuttavia, il Che non vede nella
democrazia operaia la chiave di volta per lo sviluppo dell’economia
pianificata. In ogni sistema economico ci deve essere una parte della
società interessata a che esso funzioni. Nell’economia capitalista
questo ruolo è svolto dai padroni, in un’economia pianificata
protagonista non può che essere la classe operaia.
Inoltre Lenin considerava la Nep come un
espediente: era necessario introdurre misure capitaliste per “tirare il
fiato” fintanto che non avesse avuto successo la rivoluzione nel resto
dell’Europa, unica soluzione ai problemi dello Stato sovietico. Un
approccio internazionale alla risoluzione delle problematiche economiche
è del tutto assente da parte di Castro e Guevara in quel periodo.
Nella discussione sugli incentivi che si
sviluppa in quel periodo Guevara critica il ricorso esclusivo agli
incentivi materiali ed economici puntando sugli incentivi morali senza
però legarli mai al controllo operaio sui mezzi di produzione.
Uno dei meccanismi più importanti nel suo
modello di organizzazione della società era costituito dall’emulazione
socialista, vale a dire lo stakhanovismo, considerata come “un’arma per
aumentare la produzione ed uno strumento per elevare la coscienza delle
masse.” (citato nel libro di Carlos Tablada Perez, Economia, etica e
politica nel pensiero di Ernesto Che Guevara, pag. 209) Un metodo
competitivo tuttavia, pure se “socialista”, impiantato su un’economia
ben lontana da quella dell’abbondanza del vero socialismo, non può che
portare a favoritismi e disuguaglianze, tanto più in un’economia
arretrata.
Il dibattito sull’economia in quegli anni
a Cuba è quindi del tutto falsato. Si può discutere, certo, su quanto
siano importanti gli incentivi materiali rispetto a quelli morali, o
viceversa.
Ambedue tuttavia, inseriti in un contesto
di assenza di ogni forma di controllo operaio, possono produrre gravi
distorsioni all’interno dell’economia pianificata. Si ritorna sempre al
problema evidenziato da Trotskij: “L’economia pianificata ha bisogno
della democrazia come il corpo umano ha bisogno dell’ossigeno.”
Guevara invece darà sempre più importanza
al volontarismo, allo sviluppo dell’uomo nuovo, come si può notare in
uno dei suoi scritti più famosi: Il Socialismo e l’uomo a Cuba. Cercare
di costruire “l’uomo nuovo”, libero da alienazione ed egoismo deve
essere certamente una delle priorità di un comunista quando si pone
l’obiettivo di sviluppare una società socialista, ma questo processo
deve avere delle precise basi materiali nella società e prevedere il
ruolo decisivo della classe lavoratrice nel nuovo sistema.
Sul rapporto tra i vertici e le masse
nello stato socialista cubano, è interessante l’illustrazione fornita
dal Che stesso ne Il socialismo e l’uomo a Cuba: “L’iniziativa parte
generalmente da Fidel o dai massimi dirigenti della rivoluzione, e viene
spiegata al popolo che la fa sua. Altre volte il partito ed il governo
realizzano esperienze locali per poi generalizzarle, seguendo lo stesso
procedimento.” (E. Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, pag. 700).
E ancora: “Nelle grandi adunate pubbliche
si osserva qualcosa di simile al dialogo di due diapason in cui le
vibrazioni di uno producono nuove vibrazioni nell’altro. Fidel e le
masse cominciano a vibrare in un dialogo di intensità crescente fino a
raggiungere l’unisono in un finale improvviso, coronato dal nostro grido
di lotta e vittoria.” (E. Guevara, op. cit. pag. 701).
Tutto molto lontano dai principi di Lenin,
illustrati in Stato e rivoluzione e già citati in questa rivista: da
“tutto il potere ai consigli”, alla rotazione delle cariche elettive, e
cosi via.
Più avanti il Che si pone il problema
della partecipazione delle masse ai processi decisionali quanto spiega
che “è necessario accentuare la sua partecipazione cosciente,
individuale e collettiva, in tutti i meccanismi direttivi e
produttivi.” (op. cit., pag. 704). Si mette alla ricerca di “nuove
istituzioni rivoluzionarie”: “Questa istituzionalizzazione della
rivoluzione non si è ancora attuata. Stiamo cercando qualcosa di nuovo
che permetta l’identificazione perfetta tra il governo e la comunità nel
suo insieme”. (op. cit.,pag. 704). Tuttavia non ne sa indicare i mezzi
per farlo. Ciò fornisce la misura di quanto profonda sia stata la
frattura operata dalla burocrazia rispetto alle idee del vero
bolscevismo e dell’ottobre sovietico, tanto che sinceri rivoluzionari
come il Che faticano enormemente per elaborare un’alternativa
complessiva allo stalinismo.
Su questo ultimo aspetto, sintomatica la
posizione estrema che egli sviluppò sulla questione dei sindacati: “Di
una cosa sono sicuro, ed è che il sindacato è un freno che va distrutto,
ma non con il sistema di esaurirlo: bisogna distruggerlo come si
dovrebbe distruggere lo Stato in un momento.” (questa e tutte le altre
citazioni degli inediti del Che sono riprese dagli articoli di Antonio
Moscato apparsi su Liberazione, tra settembre ed ottobre 2005).
Questa presunta inutilità del ruolo dei
sindacati nell’economia pianificata non tiene conto che anche il
migliore sistema di democrazia operaia non sarà mai un sistema perfetto,
perché rifletterà gli antagonismi delle varie classi, non ancora
scomparse. Potrà capitare che i lavoratori dovranno organizzarsi per
difendersi da possibili soprusi che il loro Stato, lo Stato operaio,
potrà commettere. Di qui la necessità di una struttura sindacale
nell’epoca di transizione. Questa era la posizione difesa da Lenin nel
dibattito sui sindacati nella Russia sovietica del 1920. In quel
dibattito Lenin si scontrò con Trotskij, che in seguito ammise di aver
avuto torto.
Internazionalismo o sciovinismo?
Il principale punto di scontro portato
avanti da Guevara (e, almeno nel periodo iniziale della rivoluzione,
anche da Fidel) rispetto all’Unione Sovietica è soprattutto
sull’internazionalismo. Negli anni sessanta Cuba lancia numerosi appelli
alla rivoluzione socialista in America Latina, contenuti nel messaggio
alla Tricontinentale e nella Seconda dichiarazione dell’Avana, ambedue
scritti dal Che. La necessità di estendere la rivoluzione è una delle
principali intuizioni del Che, che mal si concilia con la “coesistenza
pacifica”, propugnata da Krusciov. Per Guevara il socialismo in un solo
paese era semplicemente impossibile.
Gli inediti rivelano una posizione
durissima di Guevara: “L’internazionalismo è rimpiazzato dallo
sciovinismo (da poca potenza o da piccolo paese), o dalla sottomissione
all’Urss, mantenendo le discrepanze tra altre democrazie popolari (Comecon).”
(Comecon: Consiglio di Mutua Assistenza Economica, organo per la
pianificazione economica comunitaria dei Paesi socialisti dell’Est
europeo, costituito nel 1949, ndr)
Gli ultimi anni del Che sono
caratterizzati da una crescente sfiducia sul ruolo dei paesi del
“socialismo reale”, e gli inediti inseriscono in un contesto ancora più
chiaro il suo discorso al Secondo Seminario Economico Afroasiatico,
svoltosi ad Algeri nel Febbraio 1965: “Come si può parlare di “reciproca
utilità” quando si vendono ai prezzi del mercato mondiale le materie
prime che costano sudore e sangue e patimenti ai paesi arretrati, e si
comprano ai prezzi del mercato mondiale le macchine prodotte dalle
grandi fabbriche automatizzate di adesso?
Se stabiliamo questo tipo di relazione tra
i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono,
in un certo modo, complici dello sfruttamento imperialista. (...) I
paesi socialisti hanno il dovere morale di farla finita con la loro
tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori.” (Guevara, op.
cit., pag. 1422)
Insieme a questi ragionamenti troviamo una
critica pungente alla burocrazia, definita “un freno per l’azione
rivoluzionaria”, ma anche “un acido corrosivo che snatura (...)
l’economia, l’educazione, la cultura e i servizi pubblici”, al punto che
“ci danneggia più dell’imperialismo stesso”.
Il Che ed il trotskismo
La ricerca di una diversa via al
socialismo fu senz’altro uno delle principali preoccupazioni del Che
nell’ultimo periodo. La sua tragica fine ha interrotto questo percorso,
per cui è difficile oggi stabilire quale sarebbe stato l’approdo. Di
sicuro Guevara aveva rotto con lo stalinismo.
Per il Che “l’internazionalismo
proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria.”,
scontrandosi così con il nazionalismo dei partiti comunisti ufficiali e
con una visione strettamente “cubana” di tanti rivoluzionari nell’isola.
Fino alla fine della sua vita la bussola della sua attività politica
sarà l’estensione della rivoluzione in tutta l’America Latina. Non aveva
nessuna fiducia sulla presunta natura progressista delle varie borghesie
nazionali, difesa da Mosca e Pechino: “Le borghesie nazionali hanno
perso ogni capacità di opporsi all’imperialismo (se mai l’ebbero sul
serio) e ne costituiscono, anzi, il vagone di coda. Non c’è alternativa
ormai: o rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione.” (Guevara,
op. cit., pag. 666)
Entra in conflitto, come abbiamo visto,
con la burocrazia sovietica su questi e su diversi altri temi. Ma
pensare che fosse diventato “trotskista”, come alcuni storici
“alternativi” pretendono, non corrisponde alla realtà. Significa
commettere un torto alla stessa figura di Ernesto Guevara, che aveva
elevato l’onestà e il rigore intellettuale a (giusti) principi. Guevara
era un rivoluzionario che stava riflettendo profondamente sulla sue
esperienze politiche e sulle prospettive per la rivoluzione. Nell’ultimo
periodo della sua vita legge Trotskij, come rivelano i suoi quaderni
ritrovati a La Paz, concentrandosi su libri come La rivoluzione tradita
e Storia della Rivoluzione russa, di cui ricopia pagine intere. Ma la
sua riflessione rimarrà incompleta.
Le scelte di sviluppare una lotta di
guerriglia in Congo prima e in Bolivia poi lo denotano, rafforzate da
alcuni stralci degli inediti oggi accessibili. Quando Guevara si domanda
se il proletariato rappresenti ancora la forza trainante del processo
rivoluzionario, la risposta è categorica: “I casi della Cina, del
Vietnam e di Cuba dimostrano la scorrettezza di questa tesi. Nei primi
due casi la partecipazione del proletariato è stata nulla o scarsa, a
Cuba la lotta non è stata diretta dal partito della classe operaia, ma
da un movimento policlassista radicalizzatosi dopo la presa del potere
politico.” In realtà a Cuba lo sciopero generale, che paralizzò il paese
per una settimana, fu decisivo per la presa del potere. La classe
lavoratrice era entrata con prepotenza sulla scena della rivoluzione, ma
senza alcun organismo di rappresentanza, paragonabile a quello che erano
stati i soviet nel 1917 in Russia, e ripose la sua fiducia nella
guerriglia di origine contadina. Questo facilitò enormemente l’ascesa di
una burocrazia che si pose alla testa dell’apparato dello Stato. In Cina
o in Vietnam la lotta di guerriglia portò sì alla vittoria contro
l’imperialismo e all’abbattimento del capitalismo ma il regime che si
impose fu fin dall’inizio quello di uno Stato operaio deformato a
immagine e somiglianza dell’Urss.
Una delle lezioni della rivoluzione russa
del 1917 è stata proprio che anche in un paese arretrato il proletariato
gioca un ruolo decisivo, non importa quanto sia minoritario dal punto di
vista numerico.
Il marxismo non sottovaluta l’importanza
del movimento contadino. Senza l’appoggio delle masse dei contadini
poveri, milioni dei quali impegnati al fronte, la rivoluzione d’ottobre
non sarebbe mai stata possibile. Ma fu la classe operaia industriale,
pur rappresentando una minoranza della società russa (poco più del 10%),
a guidare il movimento rivoluzionario. È nell’industria che, in ogni
paese dove si siano instaurati rapporti capitalistici di produzione, si
gioca lo scontro decisivo. Il ruolo dirigente nella lotta per il
socialismo è assegnato alla classe operaia non per diritto divino ma per
il ruolo che occupa nella produzione.
L’esperienza delle lotte anticoloniali in
tutti quegli anni è chiara: nei paesi dove il capitalismo è stato
abbattuto e dove la guerriglia contadina ha avuto un ruolo guida in
questo processo, non si è instaurato uno Stato operaio sano, ma uno di
natura burocratica costruito ad immagine e somiglianza dei regimi di
Mosca e di Pechino.
Troviamo del tutto comprensibile il fatto
che Che Guevara, formatosi politicamente negli anni cinquanta e
sessanta, non considerasse il proletariato dei paesi occidentali come
decisivo, visto il lungo silenzio del movimento operaio in quei paesi,
favorito dal boom economico del dopoguerra. Ma fu sbagliato elevare una
fase di riflusso delle lotte operaie a teoria generale. Purtroppo il
Maggio francese e l’Autunno caldo italiano arrivarono in ritardo per
permettere al Che di rettificare le sue analisi. Nel tentativo di creare
“due, tre, cento Vietnam” Guevara generalizzò i metodi sperimentati
nella rivoluzione cubana. La lotta si doveva sviluppare fuori dalle
città, il partito non doveva strutturarsi come avanguardia della classe
operaia. Queste teorie portarono in molti paesi dell’America Latina a
strappare dalle fabbriche e dalle città i militanti delle organizzazioni
rivoluzionarie al fine di concentrarli nelle campagne, persino in paesi
ad alto tasso di industrializzazione come Uruguay od Argentina! Era il “fochismo”,
teoria così riassunta nelle parole del Che: “Non è sempre necessario
aspettare che si diano tutte le condizioni per la rivoluzione; il
focolaio insurrezionale può crearle.” (E. Guevara, op. cit., pag. 284).
La storia del movimento operaio dimostra
proprio il contrario: i rivoluzionari intervengono nelle rivoluzioni,
non le creano. E le esperienze del Congo e della Bolivia suffragano
questa nostra ipotesi. Nonostante tutti gli sforzi, ed anche grazie a
causa del carattere corrotto delle leadership nazionaliste della
guerriglia congolese, il periodo passato in Congo diverrà “l’anno in cui
non siamo stati da nessuna parte”, secondo alcuni compagni di avventura
del Che.
I gruppi di studenti congolesi, addestrati
in Cina ed in Bulgaria, come racconta Guevara, “non avevano alcuna
intenzione di rischiare la vita in combattimento”, appena arrivati la
loro preoccupazione era di chiedere 15 giorni di licenza e protestavano
“perché non avevano un posto dove lasciare i bagagli e non c’erano armi
pronte per loro. Una situazione davvero comica, se non fosse stato così
triste vedere l’atteggiamento di quei ragazzi su cui la rivoluzione
aveva riposto le proprie speranze.” (L’anno in cui non siamo stati da
nessuna parte, a cura di P.I. Taibo II, F. Escobar, F. Guerra, 1994,
pag. 233-234)
In Bolivia, il ruolo di boicottaggio
cosciente svolto dalla direzione del Partito comunista boliviano fu
eclatante. Addirittura Fidel Castro in una delle sue prefazioni al
Diario di Bolivia accusa di “tradimento” i dirigenti del Pcb. Ma da solo
ciò non può bastare a spiegare il fallimento delle spedizione cubana in
Bolivia.
Guevara si recò a creare dal nulla un
movimento guerrigliero nella regione attorno a Nancahuazu, una zona
spopolata, inadatta alla guerriglia, senza praticamente alcuna base
d’appoggio nelle città. Qui vediamo tutti i limiti del fochismo. Anche
se ammettiamo che l’intento del Che era quello di creare “una scuola
politico-militare per guerriglieri boliviani” e “non andava a calare una
guerriglia dall’alto”, come argomenta Antonio Moscato in un suo recente
libro, la sostanza della questione non cambia affatto. Formare
un’avanguardia cosciente e disposta ai più grandi sacrifici è uno dei
primi compiti di un rivoluzionario. Ma altrettanto importante è che
questa avanguardia non si separi dalle masse, e soprattutto che operi
fra quei settori delle masse che sono decisivi per un cambiamento
rivoluzionario
In Bolivia esisteva un forte movimento
operaio, la cui avanguardia erano i minatori dello stagno. Dopo qualche
anno il movimento delle masse spazzò via la dittatura, nel 1970, e aprì
la pur breve esperienza della “Comune” di La Paz nel ‘71. Dove si
trovavano le risorse migliori per una lotta rivoluzionaria veramente
efficace?
Che Guevara ha pagato con la vita i suoi
errori. Discutere oggi il suo lascito politico e teorico è un compito
indispensabile. Ma non può essere svolto col metodo scolastico di chi
pensa di selezionare le “giuste” citazioni per accreditare alla propria
corrente politica una maggiore vicinanza con la figura del Che. Il Che
era un sincero rivoluzionario, e lo studio del suo pensiero assume
significato attuale in primo luogo in relazione alle vicende passate,
presenti e future della rivoluzione cubana e latinoamericana.
Per questo pensiamo che tra gli
insegnamenti del Che, ce ne sia uno più che mai attuale: la lotta per la
rivoluzione socialista in tutto il continente latinoamericano,
l’internazionalismo non come parola astratta, ma come via maestra del
movimento rivoluzionario (e non a caso proprio su questo il Che e la
rivoluzione cubana dei primi anni si trovarono in aspro conflitto con i
partiti comunisti di osservanza sovietica). Qui risiede l’unica salvezza
per la rivoluzione cubana. Una lotta più che mai attuale oggi, quando
rivoluzioni e mobilitazioni di massa si susseguono, dal Venezuela alla
Bolivia, dall’Ecuador all’Argentina, che ci vede impegnati nel sostenere
politicamente e materialmente le forze del marxismo che operano in quei
paesi.
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