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Tra guerre civili e resistenze. A 200 anni
dall’indipendenza e a 100 dalla Rivoluzione
di
Claudio Albertani
All’alba del 16 settembre 1810, Miguel Hidalgo e
Costilla, parroco del paese di Dolores, lanciò
l’appello che diede inizio al movimento per
l’indipendenza del Messico. Duecento anni dopo,
quel traguardo è ancora da raggiungere. Le
fastose cerimonie di commemorazione - un
dispendioso pasticcio senza contenuto storico e
privo di sapore popolare - non hanno potuto
nascondere la realtà di un paese assoggettato a
varie dipendenze, scannato dalla violenza e
immerso nella peggior crisi economica degli
ultimi decenni. Un paese dove un gruppo di
potere, rapace e irresponsabile, impone un
modello di spoliazione sociale che ha precedenti
solo nel Porfiriato. Ordine e progresso Nel
corso del 1910, a ridosso del primo centenario
dell’indipendenza, il giornalista nordamericano
John Kenneth Turner pubblicò una serie di
cronache pubblicate poi in un libro alla fine di
quello stesso anno: “México bárbaro”.
Inizialmente pubblicato in Inghilterra e poco
dopo negli Stati Uniti. Turner non era un
reporter qualunque, ma uno stretto collaboratore
dei fratelli Flores Magón che lavoravano per una
rivoluzione socialista e libertaria dall’esilio,
negli USA. Fingendosi un rispettabile uomo
d’affari Turner era riuscito a documentare la
spaventosa situazione in cui si trovavano i
lavoratori sotto il regime del dittatore
Porfirio Díaz. Il risultato è una delle opere
più devastanti mai scritte su di un paese, e
nonostante che in Messico la pubblicazione sia
avvenuta molto più tardi, provocò un grosso
scandalo. Come i governanti di oggi, Díaz
era molto attento alla propria immagine
all’estero. Il primo luglio era stato eletto
presidente per l’ottava volta grazie a brogli
elettorali, e cercava di convincere gli
investitori che con il suo partito “Ordine e
progresso” - non molto diverso da quello di
Felipe Calderon che si chiama “Ordine e
legalità” - il Messico si sarebbe trasformato in
un prospero paese dove regnavano pace e
stabilità sociale. Il tiranno aveva sperperato
un’autentica fortuna nei festeggiamenti del
Centenario dell’Indipendenza, culminati il 16
settembre con parate militari e cerimonie
patriottiche. Voleva mostrare i suoi progressi
modernizzatori. Più di venti chilometri di
ferrovie, un’ampia rete telegrafica, linee
telefoniche, luce elettrica e grandiose opere
pubbliche come i fiammanti porti di Veracruz,
Coatzacoalcos e Salina Cruz. I ricchi cittadini
potevano acquistare costose mercanzie importate
dall’Europa e dagli Stati Uniti nei centri
commerciali “Il Palazzo di Ferro” e “Il Porto di
Liverpool”. Ma Turner rivela l’esistenza di un
altro Messico, un Messico feroce, dove imperava
una disuguaglianza brutale, senza libertà
politica né libertà di parola o di stampa, senza
libere elezioni, senza un sistema giudiziario
degno di questo nome, senza garanzie individuali
e senza libertà per cercare la felicità; un
paese dove il potere esecutivo governava grazie
alla corruzione e un esercito onnipresente, dove
i politici avevano un prezzo e i giudici si
vendevano al miglior offerente. Gran parte della
popolazione viveva in misere condizioni. Vere
macchine divoratrici di vite umane, le fattorie
erano diventate il modello dello sfruttamento in
campagna. Gli schiavi maya dello Yucatan
morivano più rapidamente di quanto nascevano, e
i due terzi degli schiavi maquis importati da
Sonora morivano nel primo anno dal loro arrivo
nella regione. A Valle Nacional (Oaxaca) la
situazione era pure peggiore: gli schiavi,
eccetto pochi - forse il 5% - morivano entro
sette, otto mesi. La situazione non era migliore
nelle miniere e nelle fabbriche dove gli operai
faticano per dodici o più ore, senza alcuna
libertà, men che mai quella di sciopero. Turner
non si limitava a fare l’inventario delle
disgrazie nazionali: opinava che la schiavitù,
il campesinato, la povertà, l’ignoranza e la
generale prostrazione del popolo avevano una
causa con nome cognome, si dovevano
all’organizzazione economica e politica del
paese, una forma di capitalismo particolarmente
perversa e dannosa. Il libro concludeva con una
profezia: il Messico era una polveriera che
stava per scoppiare. La profezia si compì
presto; nel 1917 scoppiò la rivoluzione con una
violenza senza precedenti. Nel 1910 il paese
aveva 15,2 milioni abitanti; nei dieci anni
seguenti ci furono almeno un milione di morti
(alcune fonti stimano due milioni di morti) e un
milione di profughi negli Stati Uniti. Sono
cifre terribili, pur in un secolo così caldo
come il XX. Con quali risultati? “Un trionfo di
carta”, secondo l’espressione di James Cockroft.
L’articolo 1 della Costituzione proibiva la
schiavitù; il 3 istituiva la scuola primaria
pubblica, laica e gratuita; il 27 consacrava il
diritto alla terra e permetteva le
espropriazioni “per causa di pubblica utilità”
aprendo la possibilità legale della restituzione
delle comunità indigene; il 123 istituiva la
giornata lavorativa di otto ore, il diritto di
associazione, di sciopero e la proibizione del
lavoro infantile. I costituenti sanzionavano la
liquidazione del porfiriato e, timorosi di un
altro incendio, facevano importanti concessioni
ai movimenti popolari. Il sogno magonista di
saldare le lotte comunitarie dei contadini
indigeni - quegli uomini che “non volevano
cambiare e per questo hanno fatto una
rivoluzione” - con le lotte degli operai
industriali ed entrambe col movimento libertario
internazionale è rimasta lettera morta. Presto
la rivoluzione si è trasformata nella dittatura
di un partito - la più lunga del XX secolo -
finendo col ingrossare la lista delle
rivoluzioni sconfitte. Il popolo non ha mai
dimenticato del tutto i suoi sogni di
emancipazione, ecco perché le numerose
ribellioni armate che hanno insanguinato il
Messico dopo la rivoluzione: il movimento
cristero, l’insorgenza jaramillista, il
Movimento 23 di settembre, il Partito dei
Poveri, l’Unione Popolare, il Fronte Cívico
Guerrerense, solo per nominare le più note. Le
ultime espressioni di quella che si potrebbe
definire la storia del Messico sotterraneo -
l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
EZLN, in Chiapas, l’Esercito Popolare
Rivoluzionario, EPR, e l’Esercito Rivoluzionario
del Popolo Insorgente, ERPI, in quattro o cinque
stati della Repubblica - sono una dimostrazione
della persistenza di quadri guerriglieri attivi
per generazioni e che si collegano alle lotte
del presente. Montagne di denaro Come spiegare
questa situazione in un paese che dal 1994 fa
parte della OCDE, l’esclusivo club delle nazioni
ricche? La risposta è semplice: il Messico
feroce che Turner rivelò con tanta crudezza non
ha mai smesso di esistere. La differenza è che
ora, insieme ai poveri di sempre, troviamo degli
individui straordinariamente potenti e
influenti. In un’epoca caratterizzata da
disuguaglianze laceranti, ci sono economie così
polarizzate come quella messicana. Secondo i
dati della Banca Mondiale, la decima parte dei
messicani che sta al vertice della piramide
sociale, monopolizza 430.597.200 miliardi di
dollari, cioè il 41.3 % delle entrate nazionali,
mentre la popolazione più povera riceve l’1,2%.
Il Messico è la tredicesima economia del mondo,
ma la numero 75 su 186 paesi rispetto alla
capacità di acquisto dei suoi abitanti. Se
immaginiamo il panorama sociale come una catena
montuosa, sulla montagna più alta troviamo il
magnate delle telecomunicazioni, Carlos Slim,
che la rivista Forbes classifica come l’uomo più
ricco del mondo. Vale 53 miliardi di dollari e
vende il servizio di Internet più lento del
pianeta. Molte migliaia di milioni più in basso,
ma sempre nella lista, troviamo anche i re del
duopolio televisivo, Emilio Azcárraga Jean, di
TELEVISA, Ricardo Salinas Pliego, di TV Azteca,
che si contendono il dubbio onore di
addormentare il popolo e avvelenare il dibattito
politico. La donna più ricca è María Asunción
Aramburuzabala, padrona della Cervecería Modelo,
la fabbrica della mondialmente nota (e
transgenica) birra Corona. Lorenzo Zambrano,
monarca del cemento (CEMEX), ha costruito la sua
fortuna vendendo caro nel mercato messicano -
dove gode quasi del monopolio - e a poco
all’estero, dove deve lottare con la
concorrenza. Jerónimo Arango, signore dei
supermercati, è socio di Wal-Mart, il più grande
leader mondiale nel taglio dei salari. Ha
inventato un ingegnoso sistema d pagamento degli
stipendi con buoni del supermercato che restaura
i centri commerciali di lusso aboliti dalla
rivoluzione. Il milionario più cercato è un
narcotrafficante. Joaquín Guzmán Loera, capo del
tristemente celebre cartello di Sinaloa, che con
una fortuna calcolata sui 100 milioni di
dollari, occupa un modesto 937 nella lista dei
più ricchi, ma un vistoso 38 in quella dei
potenti. Evaso da una prigione nel 2001 e
segnalato come il narcotrafficante favorito dal
Partito di Azione Nazionale (PAN) attualmente al
potere. Originario della sierra di Badiraguato,
Sinaloa, Guzmán Loera, di 54 anni, non ha finito
le scuole elementari, ma è il protagonista di un
mito nazionale: le canzoni scritte in suo onore,
note come “narcocorridos”. Le banche sono quasi
tutte consorzi transnazionali. Prendono
interessi inauditi, pagano molto poco il
risparmio e vendono carissimo i servizi
procurandosi guadagni impensabili in altri
paesi. L’agroindustria (Monsanto), l’acqua
(VIVENDI) e l’energia (FENOSA, Iberdrola e
Repsol) quest’ultima concessionaria della Cuenca
de Burgos, uno dei maggiori giacimenti di gas
naturale dell’America Latina, sono pure in mani
straniere. Il bottino più iniquo è quello
dell’industria petrolifera (PEMEX), legalmente
proprietà della nazione, ma da un paio di
decenni concessa all’iniziativa privata grazie
ad inganni legali. C’é una novità: mentre in
passato l’investimento estero proveniva da un
solo paese, gli Stati Uniti, ora c’è anche la
presenza - non meno vorace - del capitale
europeo, in particolare spagnolo, il che dà un
tono grottesco alla retorica bicentenario del
governo e spiega perché il “socialista”
Rodríguez Zapatero è stato uno dei primi a
complimentarsi col “liberale” Felipe Calderón
quando si è impadronito della presidenza con la
frode, nel 2006. Le miniere meritano un discorso
a parte. Si trova in gran parte accaparrata da
imprese canadesi come la Minera San Xavier a San
Luís Potosí, la Black Fire en Chicomuselo,
Chiapas, e la Continuum, a San José del Progreso,
Oaxaca. Tutte ostentano una nera storia di
repressione dei lavoratori e contaminazione
ambientale, ma la situazione non è migliore nel
Grupo México, terzo produttore mondiale di rame,
il cui presidente e azionista maggioritario è il
messicano Germán Larrea. Tant’è che 65
lavoratori sono morti nel febbraio del 2006 per
un’esplosione nata dalla negligenza dell’impresa
nella miniera Pasta de Concho, Coahuila. Il
tragico incidente ha scatenato una lotta per il
recupero dei corpi e il miglioramento delle
condizioni, lotta fallita. Nel giugno del 2010
c’è stato uno sciopero culminato in uno scontro
aperto fino a quando, tra il 6 e il 7 la polizia
ha sgomberato i lavoratori a Pasta de Concho e a
Cananea, Sonora, quasi ad evocare i fatti di
sangue del 1906 proprio a Cananea, considerati
uno degli antecedenti della rivoluzione
messicana. Lo scenario attuale è diverso, e
qualcuno sta già pensando che l’industria
mineraria stia attuando un esperimento
d’ingegneria sociale. Gli apparati del potere
fabbricano conflitti per favorire le miniere e
mantenere il controllo sulla forza lavoro. “Il
metodo è noto: fare in modo che le autorità
assumano il comando della corporazione; spingere
la divisione della comunità; cercare il miglior
momento per montare una provocazione e stare
pronti ad assassinare qualcuno perché la
comunità resti indebolita, carica di accuse e
con gente in carcere”. Se continuiamo con la
nostra altimetria sociale, molto più in basso
troviamo una classe media spremuta, sfinita e
sempre pronta alla servitù volontaria. Al fondo
dell’abisso, aggrappati ai margini delle
metropoli, sui fianchi dei monti o nelle lande
desertiche, giacciono i messicani che stanno
male. Sono la maggioranza. Secondo i dati
ufficiali, appena il 18% della popolazione
totale (circa 105 milioni di abitanti) ha il
reddito sufficiente per soddisfare i diritti
sociali di base (alimentazione, abitazione,
educazione e sanità). In cambio, 47.2 milioni di
messicani vivono in povertà estrema e 35 milioni
sono prossimi a questa condizione di carenze.
Carenze che possono essere letali, come nel caso
dell’incendio della Guardería ABC, capitato il 9
giugno 2009 a Hermosillo, Sonora, che ha fatto
49 bambini morti e 76 feriti. La causa?
L’Istituto Messicano di Assistenza Sociale
appalta ad aziende private l’amministrazione
degli asili, e queste, in combutta con le
autorità non fanno il dovuto per garantire le
condizioni minime di sicurezza. Chi ne patisce?
Di certo non i figli dei ricchi. La Commissione
Economica per l’America Latina (Cepal), segnala
che il Messico concentra il 18% di tutta la
popolazione infantile dell’America Latina: 15.8
milioni di cui 4 milioni in povertà estrema.
Eterna alleata del potere, la gerarchia
cattolica benedice ce l’ingiustizia. Rincara le
sue battaglie antiumane coprendo le infamie
abominevoli dei suoi preti pederasti, denigrando
gli omosessuali e conducendo un’appassionata
crociata contro la depenalizzazione dell’aborto.
Recentemente, il governo clericale di Guanajuato
ha condannato a 15 anni di prigione 7 donne per
“delitto di omicidio parentale”, cioè aborto.
Fortunatamente, sono uscite tutte lo scorso 7
settembre grazia a una lunga lotta per la
riforma del Codice Penale statale, che adesso
impone “solo” pene da tre a otto anni per lo
stesso delitto. Una delle donne liberate,Yolanda
Martínez Montoya, è stata dietro le sbarre sette
anni. “Non ci diamo per vinte. C’è molto da fare
e da cambiare”, ha dichiarato uscendo dal
carcere col pugno alzato. Alla Chiesa e ai
suoi speculatori bisogna urlargli in faccia le
parole del prete Hidalgo: “Aprite gli occhi,
americani, non lasciatevi sedurre dai nostri
nemici, loro non sono cattolici, il loro dio è
il denaro..” Carente di legittimità, preso
il trono nel 2006 grazie a uno sporco gioco
mediatico e a una sfacciata manipolazione dei
voti, il presidente Felipe Calderón (del PAN),
ha rapidamente inventato una strana guerra
contro il crimine organizzato ben sapendo che
“la sicurezza del potere si fonda
sull’insicurezza dei cittadini” (Leonardo
Sciascia). Questa guerra, che nell’attualità
attira l’attenzione mondiale, si svolge fra
cartelli della droga che si disputano il
controllo del territorio e tra qualcuno di
questi e lo Stato. Non ha ideologie ed eroi, ma
secondo le cifre ufficiali, tra dicembre 2006 e
oggi ha già fatto 28 mila morti. Quanti di loro
sono innocenti? Senza alcun legame coi narcos?
Non ci sono dati al riguardo ma sappiamo che
l’esercito ha ucciso “accidentalmente” un bimbo
monello, una famiglia disgraziata,
un’automobilista imprudente. Dal 2000 a oggi
sessanta giornalisti sono stati eliminati,
undici dei quali solo quest’anno, e altri undici
sono scomparsi. L’ultimo tragico incidente è la
morte di Luis Carlos Santiago, un fotografo di
21 anni, ucciso da sicari il 19 settembre a
Ciudad Juárez, Chihuahua. Lavorava per El Diario
di Juárez che nel 2008 aveva già avuto
l’assassinio di un impiegato, Armando Rodríguez
Carrión, mentre il suo collega Jorge Luis
Aguirre, ha chiesto e ottenuto asilo politico
negli Stati uniti dopo aver ricevuto minacce.
Secondo l’Istituto Internazionale della Stampa,
con sede in Austria, il Messico è il paese più
pericoloso del mondo per il mestiere di
giornalista. Usando il linguaggio orwelliano che
Bush usò in Iraq e che continua a usare Obama in
Afganistan, Calderón parla di “danni
collaterali”. Oggi, 96.000 militari pattugliano
le strade del Messico con la scusa della guerra
ai cartelli della droga. Serve a qualcosa? No.
La guerra di Calderón non è credibile perché i
cartelli della droga contano sulla complicità
della polizia, di ufficiali dell’esercito,
uomini dei corpi speciali, non più in servizio e
ancora attivi. L’Intelligence rivela che il 62%
degli agenti di polizia sono controllati dal
narcotraffico e che ogni mese ricevono 70 mila
pesos (circa 3.500 Euro). La rivista Contralínea
segnala che tra dicembre 2006 e febbraio 2010,
sono state emesse 735 sentenze per delinquenza
organizzata. Si tratta dello 0.6 % delle 121.199
persone detenute nello stesso periodo per
presunti vincoli col crimine organizzato. E gli
altri? Sono innocenti o possono far intervenire
la complicità di qualche autorità per essere
liberati. Il delitto più grave è essere poveri,
e il castigo prevede il carcere, la tortura, la
scomparsa e l’assassinio. Dietro la guerra al
narcotraffico si nasconde un’altra guerra, la
guerra dello Stato contro la società che ritorna
dagli anni settanta, quando centinaia di
messicani furono eliminati dai corpi di polizia.
Una recente indagine giornalistica segnala che
tra dicembre 2006 e oggi ci sono stati circa
3.000 persone scomparse per motivi politici,
tratta di persone e lotta al narcotraffico. La
data che segna il ritorno della guerra sporca è
il 25 maggio 2007, quando due dirigenti del EPR,
Raymundo Rivera Bravo e Edmundo Reyes Amaya,
sono stati arrestati a Oaxaca e da allora sono
scomparsi. Qual è la base sociale del crimine
organizzato? In Messico ci sono sette milioni e
mezzo di giovani che non lavorano e non
studiano. Hanno un sogno: uscire dalla miseria.
Alcuni mettono le loro speranze in entità
sovrannaturali come la Santa Muerte, uno
scheletro che distribuisce miracoli a Tepito, il
peggior quartiere di Città del Messico. D’altra
parte, il narcotraffico produce introiti
equivalenti a 40 miliardi di dollari l’anno (di
cui circa il 70% ritorna nell’economia formale),
quasi pari alle rimesse degli emigrati, più il
totale delle esportazioni petrolifere. E’
l’unico settore in cui il lavoro abbonda, perché
il Messico non è solo un paese di transito della
droga ma pure un grosso centro di consumo
(cocaina al primo posto, ma anche oppiacei,
anfetamine, estasi e le nuove droghe
sintetiche). Il recente film “Infierno” capta
benissimo l’orrenda fascinazione che il mondo
del narcotraffico esercita sulla gioventù. Un
emigrante, Benjamín García, ritorna al suo paese
dopo essere stato deportato negli Stati Uniti.
Arriva con tante illusioni, ma di fronte ad un
panorama desolante entra in una banda di
narcotrafficante e ottiene, per la prima volta,
una raggiante, per quanto effimera, prosperità.
Il finale è tragico e il messaggio chiarissimo:
il crimine organizzato è sempre esistito, ma ora
si sovrappone a una classe politica cinica e a
una crisi economica devastante, creando un clima
apocalittico. L’altra possibilità è emigrare.
Quanti disgraziati muoiono provando a forzare la
frontiera al nord? Le fonti sono discordanti, di
certo si sa solo che sono migliaia ogni anno.
Pur così, le politiche migratorie statunitensi -
la malfamata legge SB1070 dell’Arizona che
criminalizza gli immigrati senza documenti e la
costruzione del muro della vergogna lungo la
frontiera - non riescono a impedire il flusso
migratorio, perché la pressione è enorme. Quello
che ottengono è che i migranti cerchino forme
sempre più rischiose per varcare la linea,
cadendo nelle mani di mafie sempre più
assassine. Negli ultimi anni si è assistito alla
moltiplicazione degli assassini di migranti,
specialmente donne, non solo negli Stati Uniti,
ma anche in Messico. Molti non sono messicani,
sono giovani di centro e Sudamerica in cerca
dello stesso sogno. A Ciudad Juárez, posto di
transito verso gli USA, sono stati registrati
7.649 omicidi di donne dal 1993. A chi
appartengono le mani assassine che hanno
troncato le loro vite? Nessuno lo sa con
certezza, anche se la complicità delle autorità
locali, statali e federali non è certo un
segreto. Il più recente e obbrobrioso crimine
contro i migranti si è verificato il 24 agosto
scorso, quando 72 persone (58 uomini e 14 donne;
il peggior massacro in Messico dal 1968) che
stavano andando verso gli Stati Uniti sono stati
brutalmente assassinati a San Fernando,
Tamaulipas, da pistoleri appartenenti agli Zeta,
un cartello particolarmente truculento che si
occupa di narcotraffico e tratta di persone. Il
motivo? Non avevano pagato il riscatto. Il
sequestro - bisogna ricordarlo - è un affare
prospero nel Messico del bicentenario. Secondo
il presidente della Commissione Nazionale per i
Diritti Umani (CNDH), Raúl Plascencia Villanueva,
nel primo semestre del 2010 ci sono stati 10
mila casi solo fra i migranti. Mentre capita
tutto ciò, è curioso notare che l’agenzia
internazionale d’investimento Morgan Stanley
eleva la sua considerazione per il Messico da
“interessante” a “molto interessante”. Cioè, il
paese è in rovina, ma gli affari vanno bene.
Anni fa - da quel memorabile 1° gennaio 1994 -
giorno della ribellione indigena del Chiapas,
fino alla meno gloriosa insurrezione guidata
dall’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca,
APPO (2006) - il Messico non è stato solo un
paese di laceranti ingiustizie, ma anche un
laboratorio sociale e politico d’importanza
internazionale. Oggi, i movimenti sociali si
trovano malconci, ma non sottomessi. Prima del
naufragio dell’altra Campagna - che nel 2006 ha
cercato senza successo un’alternativa elettorale
ai grandi problemi nazionali - le comunità
raggruppate nell’EZLN sono ripiegate nei loro
territori montagnosi del sudovest e lì
continuano, nonostante la guerra sporca che il
governo non ha mai smesso di condurre contro di
loro. Organizzate nei Caracoles o Giunte del
buon governo, rafforzano la loro autonomia,
applicano progetti produttivi e migliorano i
sistemi alternativi di educazione e sanità. Il
prolungato silenzio del subcomandante Marcos non
deve ingannare; evidentemente è finito il suo
ruolo di portavoce dell’EZLN e le comunità
ribelli hanno assunto un controllo più diretto
dei loro problemi interni. E’ una giusta
decisione nella situazione attuale. E’ vero che
la sua presenza nazionale e internazionale è
minore, ma ciò che fanno è un esempio di lotta
libertaria, specie per quei 15 milioni
d’indigeni che, in posti diversi, rimangono
esposti al pericolo di etnocidio silenzioso,
quando non direttamente allo sterminio fisico.
San Juan Copala, una comunità triqui di Oaxaca,
si è trasformata nella succursale
latinoamericana della Striscia di Gaza. Perché?
Perché i suoi abitanti hanno commesso il doppio
crimine di lottare contro i caciques affiliati
all’Unione del Benessere Sociale della Regione
Triqui (UBISORT), -dipendenza locale del Partido
Revolucionario Institucional, il partito che
monopolizza il potere federale fino al 2000 e ha
perso le elezioni statali - e di proclamarsi
autonomo. La risposta del governatore Ulises
Ruiz, il malfamato autore della repressione del
movimento del 2006, è stato efficace: promuovere
e sostenere gruppi di paramilitari armati fino
ai denti che mantengono accerchiato il paese,
tagliano l’energia elettrica, chiudono scuole e
i servizi sanitari in totale impunità. Non
soddisfatti, uccidono vilmente 15 persone nel
corso di quest’anno (tra loro due attivisti
umanitari Beatriz Cariño e Jyri Jaakkola) e
violentano un numero imprecisato d donne. Adesso
impediscono l’entrata di viveri e acqua e la
circolazione delle persone. Il 13 settembre,
mentre i riflettori si concentravano sulla festa
nazionale, si sono impadroniti del palazzo
municipale minacciando di massacrare tutti gli
autonomisti se non avessero abbandonato la
regione a breve. Il giorno 18 hanno ucciso due
comunardi, Paulino Ramírez y David García
Ramírez, e fatto sparire Eugenio Martínez López.
Questa situazione non è esclusiva di Oaxaca.
Scenari simili si riproducono anche nel Chiapas,
Veracruz, Puebla, Nayarit, Jalisco, Guerrero e
Michoacán, Stati governati dal Partido de la
Revolución Democrática (PRD) che si definisce di
sinistra. A Xochistlahuaca, Guerrero, il popolo
amuzgo lotta contro caciques protetti dal
governatore perredista Zeferino Torreblanca e
Radio Ñomndaa (la voce dell’acqua), un’emittente
che da voce ai popoli indigeni della regione,
vive in stato d’assedio permanente. A Santa
María Ostula, popolo nahua della costa
michoacana, i comunardi hanno pubblicato nel
giugno 2009 un manifesto di portata storica che
rivendica il diritto dei popoli indios a
difendere la propria vita, la libertà, la
cultura e la terra. Azione seguente, hanno
ricuperato più di 700 ettari di proprietà
comunale illegalmente occupata da caciques
meticci. Da allora, vivono braccati da esercito,
polizia e gruppi d’assalto. Ci sono già stati
otto comunardi assassinati e altri tre
scomparsi. A Città del Messico, che la sinistra
governa dal 1997, la repressione si dirige
principalmente contro giovani dei collettivi
libertari e anarcopunks, che negli ultimi anni
si sono moltiplicati e sono percepiti come un
pericolo per l’attuale capo del governo, Marcelo
Ebrard. Con la collaborazione dell’ex sindaco di
New York, Rudolph Giuliani, applica il piano
“Tolleranza Zero”, il che implica che adesso i
giovani sono considerati colpevoli fino a quando
non dimostrano la loro innocenza.
L’irresponsabilità poliziesca è notevole. Nel
giugno 2008 un agente di polizia di servizio
nella discoteca News Divine, ha fatto 11 morti,
tre poliziotti e nove ragazzi minorenni. Molti
attivisti che protestano sono arrestati per
l’unico delitto di trovarsi nel posto sbagliato
e nel momento sbagliato, e per non avere il
denaro per comprare la giustizia. Oggi ci sono 5
giovani anarchici detenuti nelle carceri del
Distretto Federale. Sono: Abraham López Martínez,
Fermín Gómez Trejo e Carlos de Silva Orozco,
incarcerati dal 15 dicembre del 2009 per aver
lanciato delle molotov su automobili; Adrián
Magdaleno, accusato fabbricazione di esplosivi
artigianali all’interno di un vagone della
metropolitana; Víctor Herrera Govea, studente
incarcerato per aver esercitato il suo diritto a
protestare contro la repressione nella marcia
del 2 ottobre del 2009. La spoliazione
sociale viaggia alla pari della catastrofe
ambientale. Da molto tempo, la deforestazione fa
stragi nel mondo intero, ma in particolare del
mondo, dove alimenta un ciclo infernale di
calamità “naturali” dove le siccità si alternano
alle inondazioni. Da un alto avanza la
desertificazione, dall’altro ogni volta che
piove più del normale, franano monti, esondano
torrenti e sommergono città intere (l’ultimo
nubifragio ha fatto un milione di danni solo
nello stato di Veracruz). Per colmo, il governo
federale fomenta un Programma di Riduzione
dell’Emissione per Deforestazione e Degrado dei
Boschi (REDD) in cui aziende altamente nocive
comprano e vendono legalmente il diritto a
contaminare col sotterfugio che s’impegnano a
rimboschire in altre zone del mondo.
Questi gravissimi problemi ambientali si
acutizzano di fronte a megaprogetti turistici
che divorano risorse naturali e rinverdisono la
schiavitù di porfiriana memoria: privatizzazioni
dei servizi idrici in intere bioregioni;
costruzioni di canalizzazioni che deviano fiumi
e distruggono microclimi (La Parota, Guerrero;
Paso de la Reyna, Oaxaca; El Zapotillo e
Arcediano, Jalisco; El Cajón, Nayari); parchi
eolici che fanno tabula rasa della fauna e
divorano terre comunali (La Ventosa, Oaxaca);
discariche cielo aperto che inquinano
coltivazioni e falde acquifere (Tlaquiltenango,
Morelos Tulum, Quintana Roo, Guadalcazar, San
Luis Potosí e Tlaxcala); piantagioni
transgeniche che avvelenano la madre terra. Sono
tutti affari succulenti, ma possono trasformarsi
in fattori di rivolta come dimostra il
moltiplicarsi di movimenti in difesa dell’acqua,
della terra, dell’aria, la biodiversità, gli
alimenti e la sanità. Alcuni si accorpano
nell’Assemblea Nazionale delle Vittime
Ambientale che coordina e da visibilità alle
loro lotte. La risposta del governo è quella di
sempre: incarcerare o assassinare militanti
ambientalisti, e col pretesto di combattere il
crimine organizzato, militarizzare regioni
intere. Anche le fabbriche non sono in pace.
L’offensiva antilavorativa del governo panista è
tremenda tutti i giorni viene a mancare una
fonte di lavoro, un sindacato o un contatto.
Lotta eroica – e in buona parte solitaria – dei
lavoratori del Sindacato Messicano degli
Elettricisti – uno di quelli più antichi del
paese, che vuole difendere il posto di lavoro in
Luz y Fuerza del Centro, industria pubblica,
chiusa illegalmente dal governo federale. Oggi
il Messico presenta un concentrato di tutte le
avversità che gravano sul pianeta: totalitarismo
economico, devastazione ambientale, una
polarizzazione sociale oscena, partiti
“canaglia” che si contendono il potere per
arricchirsi, televisioni che mettono e tolgono
dal potere, mafie sanguinarie che corrompono il
tessuto sociale. Sarebbe avventato, pertanto,
concludere rinnovando la profezia di John
Kenneth Turner sull’imminenza di una rivoluzione
redentrice o scommettendo sul rinnovamento
centenario del metabolismo politico: 1810, 1910,
2010. La nostra storia, comunque, non
finisce qui. “L stadio supremo della produzione
mercantile e il progetto della sua totale
negazione, altrettanto ricco di contraddizioni,
stanno crescendo insieme”, ha scritto Guy Debord.
Il Messico ha uno zoccolo duro e una dialettica
vitale, anche se per molti incomprensibile,
proprio quello che ci vuole per affrontare
l’occhio del ciclone. Ricordiamoci le parole di
B. Traven: “Siamo l’aurora. Il nostro continente
deciderà il segno del prossimo millennio; qui si
prepara la culla di una nuova cultura. E nascerà
un Messico, perché è qui che si sperimentano i
dolori del parto”. E quest’aurora non smette di
albeggiare. Rimane poco tempo.
Il sangue
dei narcos. Messico: la “guerra della droga” ha già provocato 30mila
morti in quattro anni.
di ANDREA NECCIAI
Nel 2001, il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, a proposito della
lotta al narcotraffico in America latina dovette riconoscere che il
problema della droga, che da decenni affligge la regione, non è
endemico, bensì “dipende da ciò che succede nelle strade di New York e
nelle vie di tutte le nostre grandi città”. In altre parole, il
narcotraffico nell’area latinoamericana cresce e si alimenta grazie alla
domanda di stupefacenti che proviene, prevalentemente, dagli Stati
Uniti.
In Messico dopo l’adozione del Plan Mérida, che prevede aiuti economici
per 350 milioni di dollari all’anno, il governo panista di Felipe
Calderón aveva cominciato una vera e propria guerra contro i cartelli
della droga, mobilitando migliaia di soldati tra effettivi
dell’esercito, della marina militare e della polizia federale. A
distanza di qualche anno, i “risultati” raggiunti sono ora sotto gli
occhi di tutti: i massacri all’ordine del giorno, le operazioni di
polizia anticrimine degenerate in guerra civile e il Paese trasformato
in un gigantesco, orrendo, mattatoio.
In teoria, e secondo gli accordi presi con i vicini nordamericani, la
guerra ai narcotrafficanti avrebbe dovuto impedire alla droga
proveniente dal Sudamerica di fare il suo ingresso in Messico,
attraverso la frontiera con Guatemala e Belize, per poi essere smistata
verso gli Stati Uniti. Ma nei fatti, l’offensiva poliziesco-militare non
ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, nel sud del Messico regna
incontrastata la famigerata banda dei “Los Zetas” che si arricchisce,
oltre che con la droga, anche con il traffico dei migranti
centroamericani, in cerca di fortuna al nord, sfruttando questo enorme
serbatoio di mano d’opera a buon mercato nella prostituzione e nella
schiavitù del lavoro nei campi.
Secondo molti analisti, i fautori di questa guerra inutile, il
presidente Calderón e i suoi mèntori nordamericani, continuano ad
ignorare - o forse fanno finta di non sapere - che per affrontare
opportunamente la questione narcotraffico si dovrebbe tener conto,
anzitutto, di tre fattori fondamentali. E tutti e tre riconducibili alla
medesima matrice.
In primo luogo, la maggiore richiesta di stupefacenti proviene dalla
stessa nazione che più si impegna a combattere la proliferazione del
narcotraffico in tutta l’America latina. Negli Stati Uniti, infatti,
vivono milioni di consumatori di droga che si servono di un terzo di
tutta la cocaina prodotta nel mondo: un giro d’affari gigantesco che fa
gola un po’ a tutti, coinvolgendo anche le banche statunitensi. Dalla
XII Conferenza Internazionale sul Riciclaggio è emerso che gli istituti
di credito Usa, solo nell’ultimo decennio, avrebbero accolto nei loro
caveaux tra i 2,5 ed i 5 trilioni di dollari, frutto di attività
illecite come - appunto - il narcotraffico.
Dunque, meglio farebbero le autorità statunitensi a concentrarsi di più
sugli aspetti legati alla prevenzione del fenomeno (magari investendo
più risorse in programmi sociali per limitare il consumo di droghe nella
popolazione), anziché insistere unicamente sul versante della
repressione manu militari.
In secondo luogo, dagli Stati Uniti arrivano anche le armi per i
cartelli messicani, grazie ad una fitta rete di “collaboratori”, tra
funzionari di frontiera compiacenti e poliziotti corrotti, e alle
protezioni a livello politico-imprenditoriale di cui godono gli stessi
narcos.
Ed infine, andrebbero esaminate più a fondo alcune tra le più disastrose
conseguenze del NAFTA, lo sciagurato accordo di libero commercio tra
Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore a fine anni ’90. Il
NAFTA, oltre a provocare l’impoverimento progressivo di intere masse di
popolazione, ha costretto milioni di contadini svantaggiati ad
abbandonare per sempre le loro terre, oppure a dedicarsi a coltivazioni
più redditizie, passando dal mais all’oppio (e/o alla marijuana). Ciò
risulta pure da un recente dossier pubblicato dal periodico “La Jornada”,
che denuncia la presenza nel nord del Messico di grandi latifondi
coltivati ad oppiacei, molti dei quali sono addirittura sorvegliati dai
militari. Secondo le stime più ottimistiche, un quarto di tutta
l’economia messicana sarebbe già nelle mani dei
narcos.
Per molti Paesi dell’America latina, decidere di adottare la strategia
nordamericana di contrasto al narcotraffico, con i suoi metodi
repressivi, significa esporsi sempre di più all’ingerenza della Casa
Bianca nei propri affari interni, con il rischio di cadere - o ricadere
- sotto il suo controllo militare, economico e politico. Come nel caso
messicano, in cui la sovranità del Paese è stata consegnata agli Stati
Uniti in cambio dell’adozione di una politica antidroga cinica e
spietata. Ed è ovvio che dietro il paravento della lotta al crimine
organizzato si nascondono soprattutto ingenti interessi economici. Così,
mentre il sangue di tanti messicani scorre a fiotti nelle strade, pochi
privilegiati si ingrassano con i lauti profitti della “narcoguerra”.
I parlamentari messicani e statunitensi condannano gli omicidi alla
frontiera
di
Félix Albisu
PL –
Parlamentari messicani e statunitensi che hanno partecipato alla XLIX
Riunione Interparlamentare binazionale in Messico, hanno condannato gli
omicidi commessi dagli agenti statunitensi della pattuglia di frontiera. I
parlamentari di uno e dell’altro paese hanno chiesto ai rispettivi
governi di non lasciare impuni le morti dei messicani Sergio A.
Hernández e Anastasio Hernández avvenute in territorio statunitense in
prossimità della frontiera. I
membri dell’incontro annuale interparlamentare di Campeche nella
penisola dello Yucatan, hanno osservato un minuto di silenzio nella
sessione di sabato in onore ai caduti di entrambi gli stati, e hanno
chiesto la realizzazione di indagini pertinenti e l’applicazione della
giustizia. Allo
stesso tempo, senatori, deputati e congressisti di entrambe le nazioni
hanno trasmesso un messaggio di condoglianza per le morti tragiche ai
famigliari del giovane Hernández Rojas e di Hernández Güereca in azioni
anti-immigratorie registrate nella parte statunitense della frontiera.
Cristhoper Dodd, co-presidente della delegazione del Congresso degli
Stati Uniti ha detto che simili incidenti, come molti altri che si erano
già verificati al confine, indicano che è necessario che il Messico e
Washington continuino a cooperare per risolvere tutti i problemi
migratori. Ha poi
aggiunto che è necessario conoscere i fatti completi per applicare la
giustizia e salvare vite innocenti, e per evitare tragedie simili nel
futuro. Il
senatore democratico si è impegnato a far consegnare da parte del
governo degli Stati Uniti i risultati delle indagini corrispondenti alle
due morti nei prossimi sei o sette mesi. Mentre
si portavano avanti i lavori nella capitale dello stato nel sud-est
messicano, un gruppo di circa 60 attivisti e militanti del partito
Convergencia hanno realizzato un atto di protesta e hanno cercato di
entrare nel Centro delle Convenzioni secolo XXI, dove aveva luogo
l’appuntamento. Nello
stesso incontro, il presidente della Camera dei Deputati del Messico,
Francisco Ramírez Acuña, del Partito di governo Azione Nazionale, ha
attribuito tali azioni di violenza degli agenti di frontiera degli Stati
Uniti alla pressione causata dalla legge SB 1070 dell’Arizona.
MESSICO: rinasce l'MLN - Movimento di Liberazione
Nazionale
Al via il Congresso Costitutivo del Movimento di
Liberazione Nazionale. -
Dall'elezione del presidente Felipe Calderon, in Messico si accumulano
tensioni sociali e politiche che rischiano di portare a un'esplosione.
Il 1 settembre scorso, un fiume di persone ha affollato le strade del
Messico, per uno sciopero Civile nazionale che è stato un insieme di
azioni di protesta simultanee, pacifiche e massive in tutto il Paese.
Anche se non appartiene ai temi di
attualità scottante scelti dai grandi media per agitare preoccupazioni
o giustificare politiche interventiste, la situazione che vive in
questi ultimi anni il Messico è così grave da configurare secondo
molti un vero e proprio conflitto interno. Dall’elezione di Felipe
Calderòn–per la quale movimenti sociali messicani e osservatori
internazionali hanno gridato alla frode–l’offensiva delle
multinazionali, il conflitto sociale e la repressione feroce delle
opposizioni sono divenuti più aspri e cruenti che mai.
Calderòn ha implementato, seguendo le orme del
predecessore Fox, una strategia economica espansiva di costruzione di
mega infrastrutture, favorendo gli investimenti privati e la
penetrazione delle imprese nei territori rurali. La progressiva e
totale liberalizzazione dei mercati – che per Calderòn equivale a
produrre crescita economica e quindi sviluppo sociale – ha causato
però nella realtà un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
Come conseguenza dell’imposizione di politiche
estrattive o produttive, della privatizzazione dei beni di base e dei
servizi sociali, dello sfollamento di intere comunità per fare posto a
stabilimenti industriali e della metodica spoliazione delle risorse
naturali, l’opposizione popolare è cresciuta enormemente, aggravando
il conflitto sociale che caratterizza da decenni il paese.
La dismissione delle fabbriche maquiladoras nella zona
di confine con gli Stati Uniti ha causato una emorragia di migranti
verso gli Stati Uniti. Contemporaneamente, l’abbandono delle campagne
da parte delle comunità rurali, l’affollamento delle città, la
privatizzazione dei servizi di base, dell’acqua, delle case ha portato
ad un sensibile peggioramento delle condizioni di vita di milioni di
persone e ad un aumento delle mobilitazioni popolari in difesa dei
propri diritti.
Come conseguenza di questa fase di rinnovata
conflittualità sociale, le comunità e i movimenti sociali del Messico
stanno denunciando da mesi una escalation di violenza provocata dalle
forze pubbliche.
Il 1 settembre scorso, un fiume di persone ha affollato
le strade del Messico, per uno sciopero Civile nazionale che è stato
un insieme di azioni di protesta simultanee, pacifiche e massive in
tutto il Paese.
Lo scopo è stato quello di sensibilizzare l'opinione
pubblica nazionale ed internazionale sulla scontentezza del popolo
messicano nei confronti degli strumenti neoliberali del regime
capeggiato da Felipe Calderón, tra i cui ci sono la privatizzazione
del petrolio, la riforma della Legge dell'ISSSTE, il Trattato di
Libero Commercio, la Riforma Lavorativa, la Riforma del Codice Penale,
l'innalzamento dei prezzi, la violazione dell'autonomia sindacale, la
mancanza della democrazia e la repressione nei confronti delle giuste
lotte dei lavoratori e del popolo.
Per sedare le manifestazioni di protesta il governo
sceglie da tempo la via della repressione, rifiutando ogni forma di
dialogo. Già da alcuni anni a questa parte molti analisti hanno
parlato di una «colombianizzazione» della situazione messicana,
caratterizzata da un intervento sempre maggiore della presenza
militare nella vita civile utilizzando pretesti come la lotta al
narcotraffico o al terrorismo.
Il Plan México, finanziato dagli Stati Uniti per
combattere teoricamente il narcotraffico, è utilizzato come scusa per
militarizzare ulteriormente il paese soprattutto nelle zone dove il
conflitto sociale è più forte.
Secondo la rete di azione messicana contro il libero
commercio « la criminalizzazione della lotta sociale è una strategia
statale che non implica solo un utilizzo distorto delle leggi al fine
di detenere e condannare con pene esemplari coloro che si oppongono ad
un modello di sfruttamento, ma anche la progressiva identificazione
della lotta sociale come attività delinquenziale, addirittura
terroristica. In tutto il Messico sono moltissimi gli esempi di
resistenza contro le politiche promosse dal governo, e non passa
giorno che non vengano uccise per mano delle forze armate 10-15
persone, la maggior parte delle quali impegnate in azioni di difesa
del territorio e dei diritti della popolazione».
Per unire tutte le vertenze territoriali e le istanze
legittime portate avanti da comunità, sindacati, associazioni,
movimenti sociali e forze politiche, il 13 settembre si celebrerà il
Congresso Costitutivo dall'MLN, un movimento nazionale di liberazione,
di zapatiana memoria, che vuole porsi come progetto unitario verso la
costruzione di un futuro diverso per il popolo messicano.
MLN -
Giunta Organizzativa del Congresso
Organizzazioni Nazionali
Frente Popular Francisco Villa
Movimiento Nacional Organizado “Aquí Estamos”
Frente Popular Revolucionario
Partido Comunista de México Marxista Leninista
Partido Popular Socialista de México
Unión Popular de Vendedores Ambulantes 28 de Octubre
Organizzazioni Locali
Sección XVIII SNTE-CNTE
Alianza de Tranviarios de México
Movimiento Democrático de Zacatecas
Organización Obrero Campesina Emiliano Zapata (Oaxaca)
Organización Campesina Emiliano Zapata (Chiapas)
Organización Proletaria Emiliano Zapata (Chiapas)
12 etnias (Chiapas)
MCD (Chiapas)
UGOCP (Chiapas)
Unión popular Independiente Coahuila
Trabajadores de la educación Morelos
Trabajadores de la educación Sección 36 Valle de México
Trabajadores de la educación DF
Colectivo Sur
Colectivo SUTIN
Comité de Defensa de Colonos de Tultitlán
Consejo Coordinador Obrero Popular-Durango
Colectivo Monterrey
MLN Guerrero
Ediciones del Poder Popular
MLN Morelos
El Pregón DF
El Pregón Morelos
Unión de Juristas de México
Organizzazioni in via di coinvolgimento
Trabajadores de la educación de: Baja California Norte
California Sur, Jalisco, Querétaro, Aguas Calientes, San Luís Potosí,
Guanajuato, Tlaxcala
Calpulli Tlahtoani
Frente de Pueblos en Defensa de
la Tierra
Colectivo
Situam
SNTSS Unidad Sindical
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