DALL'ECUADOR, PER COLOMBIA, HONDURAS E MESSICO LA ROTTA DELLA
DROGA E DEL PETROLIO USA
Signori, se volete ammazzare il presidente, eccolo qua: uccidetemi
se ne avete il coraggio, anzichè stare lì vigliaccamente nascosti
nell'ombra.
(Rafael Correa quando, volendo dialogare con i poliziotti, si vede
bersagliato dai gas e picchiato)
Volete occupare le caserme, volete abbattere i cittadini indifesi,
volete tradire la vostra missione di poliziotti, il vostro
giuramento, ma questo presidente e questo governo continueranno a
fare quello che ritengono di fare.
(Correa ai suoi carcerieri mentre era sequestrato nell'ospedale
della polizia)
Se intendete distruggere la patria, distruggetela, però questo
presidente non farà un passo indietro. Viva la patria.
(Correa ai suoi carcerieri)
Il presidente sta governando la nazione da questo ospedale, da
sequestrato. Da qui io esco o come presidente, o come cadavere, ma
non mi farete perdere la mia dignità.
(Correa a un'emittente presente al sequestro)
Il coraggio di Correa, la mobilitazione di popolo e la fedeltà dei
militari sventano l'ennesimo golpe della Cia in Latinoamerica. (Tra
parentesi, uno sghignazzo su Belpietro)
Gli è andata male stavolta. Avessero fatto in Honduras come le masse
ecuadoriane, anzichè affidarsi a sindacalisti concertativi, forse a
Tegucigalpa ci sarebbe ancora Mel Zelaya. Dunque, come tutti
apprendiamo con grande sollievo e commozione, la gente di Quito e
militari che si sentono esercito del popolo, memori di decenni di
regimi rapinatori, vendipatria, oligarchici e filoimperialisti
conclusisi con l'arrivo, nel 2007, di una presidente democratico,
progressista e difensore della sovranità nazionale, hanno liquidato
golpe e golpisti. Per ora. Gli Usa e i loro fantocci ladroni interni
non demorderanno. Siamo al terzo colpo di Stato in otto anni
allestito da Washington nel suo tentativo di tornare a sottomettere
e depredare l'America Latina sfuggita al suo controllo: aprile 2002,
golpe durato 48 ore contro Chavez, sconfitto dalle masse e dai
militari fedeli; giugno 2009, colpo di Stato di militari, Cia,
Chiesa e oligarchi in Honduras, deposto e cacciato il presidente
Manuel Zelaya, golpe poi legittimato da illegittime elezioni; 30
settembre 2010, tentativo di golpe in Ecuador.
Correa al momento del sequestro da parte dei golpisti
Il golpista honduregno Micheletti, un soggettone. I poliziotti
golpisti, lavoratori defraudati.
La solita canea venduta e, a sinistra, velinara (leggi l'indecente
cronaca "equidistante" e con fatti falsi dettati dalla
disinformazione, sul "manifesto") ha voluto far passare il tentativo
di eliminare il presidente Rafael Correa come una specie di modesta
jacquerie di pochi poliziotti scontenti della sacrosanta abolizione
(dopo un aumento del 100% dei salari) di privilegi e decorazioni
riservati alle sole forze dell'ordine. I tg addirittura
s'inventavano, per dar credibilità alla misera motivazione dei
"premi di produzione e delle medaglie perduti", che Correa aveva
ridotto i salari delle forze dell'ordine. Tutti i dati pervenuti in
gran flusso dall'Ecuador ci parlano, invece, di un'operazione
analoga a quelle contro Chavez o Zelaya, di cui i principali
operativi erano i mille poliziotti della Caserma del I Battaglione a
Quito, ma che ha avuto un altamente coordinato sviluppo in tutto il
paese con occupazione del parlamento, delle principali testate
televisive e di stampa non legati all'opposizione di destra, degli
aeroporti di Quito e Guayaquil, di una vera rivolta di settori di
destra a Guayaquil, seconda città del paese e feudo di una destra
fascistoide, che hanno seminato saccheggi e panico in combutta con i
media che ne avrebbero fatto l'incipit di una guerra civile. Anche
rispetto alla presa di posizione anti-golpe di tutti i governi
latinoamericani, compresi quelli di destra, convenuti in fretta per
un vertice a Buenos Aires per condannare il colpo di Stato e
pretendere l'immediato ritorno di Correa alle sue funzioni, le
minimizzazioni della grande stampa di regime costituiscono un non
sequitur da far impallidire le farneticazioni di Berlusconi rispetto
alla spazzatura di Napoli. Come in altri paesi dell'America Latina,
il lavoro costante degli Usa attraverso Cia e organismi affiliati è
l'infiltrazione tra agli alti quadri della polizia e delle forze
armate. A Israele, invece, sono affidate "intelligence" e
"sicurezza". Non per nulla nella capitale della destra oligarchica e
narcotrafficante, Guayaquil, la sicurezza era affidata al solito
ex-ufficiale del Mossad. Come in Honduras. Già nel 2008, il governo
dell'Ecuador aveva mostrato documenti che provavano il costante
lavoro di corruzione finanziaria di ufficiali, allo scopo di
garantirsene l'obbedienza e la collaborazione per la nuova strategia
di destabilizzazione Usa, emula della nixoniana "Operazione Condor"
degli anni '60 e '70. E fu la Cia a collaborare in quella
provocazione all'Ecuador che consistette nell'assalto combinato
Usa-Colombia contro un accampamento di alcuni dirgenti delle FARC.
Informazioni relative a questo attacco dall'aria e da terra, che
risultò nella morte del capo guerrigliero Raul Reyes, furono
occultate dal comandante fellone dell'Intelligence militare, Mario
Pazmino, successivamente destituito.
Come prima, più di prima
Ero a Caracas durante la serrata padronale che avrebbe dovuto, dopo
il fallimento del colpo di Stato contro Chavez, paralizzare il
paese, provocare rivolte di masse esasperate e farla finita con la
via bolivariana al socialismo e all'antimperialismo. Anche allora
dalle nostre parti, spapagallando appresso alla CNN (che ci ha messo
24 ore prima di riferire a denti stretti di un "golpe"), si parlava
di "scioperi", come si trattasse delle iniziative della FIOM contro
gli ukase del neopadrone delle ferriere, e di catastrofe della
politica economica del "caudillo" Chavez. Invece, foraggiata da
milioni della Cia e delle varie ONG Usa e occidentali, tutta la
produzione e distribuzione, ancora in mano alla élite spodestata
dalla rivoluzione bolivariana, erano state bloccate e la popolazione
ridotta alla mancanza di cibo, combustibile e farmaci. Ma questa
gente non mollò. Ero con Chavez, a San Carlos, nel centro agricolo
del paese, mentre, in risposta al sabotaggio, iniziava a distribuire
ai contadini milioni di ettari sottratti ai terratenientes
improduttivi e redditieri. Poi entrò nella modestissima casa di una
campesina e la scoperse senza mobili. La poveretta, costretta dal
blocco economico, si era dovuta ridurre a bruciare il suo
arredamento per cucinare e scaldare la famiglia. Ma, irriducibile,
ribadì al presidente la sua identità di chiavista. Oggi, sette anni
e mezzo dopo, pur in mezzo alle mene di USAID, Cia, Dea, Ned, al
terrorismo dei compari di Posada Carriles e ai milioni di dollari
rifilati da Washington all'opposizione clericofascista,
ringalluzitasi all'ombra della crisi, Chavez vince la sua
quindicesima elezione. Mi è anche capitato di trovarmi in Ecuador
(vedi il documentario "L'asse del bene"), poco dopo che
l'insurrezione di massa dei famosi forajitos ("Fuori tutti!"),
analoga a quelle che in America Latina hanno travolto i vecchi
proconsoli coloniali di USA e UE, aveva cacciato il quarto
presidente cialtrone di seguito, Lucio Guiterrez. C'era l'interregno
del pallido Palacio e, poi, nel 2007, la vittoria trionfale di
Correa. Dimessosi da ministro dell'economia, in contrasto con un
presidente devoto all'iperliberismo e alle multinazionali del
petrolio che stavano devastando e depredando l'Ecuador amazzonico,
Correa mi anticipò quello che sarebbe diventato il suo
rivoluzionario programma di governo: riforma agraria, unghie
tagliate alle multinazionali, petrolio da farsi pagare per lasciarlo
in seno alla pachamama, in mano pubblica tutti i servizi e le
produzioni strategiche, diritti delle popolazioni native, chiusura
della base yankee di Manta, la più grande della regione,
redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei ceti da sempre
esclusi, integrazione latinoamericano nel segno dell'ALBA, fronte
dei paesi progressisti. Tutto da quasi 4 anni avviato alla
realizzazione. Un'azione politica, economica, sociale, che a Correa
assicura in questo momento circa il 70% dei consensi, ma che non
poteva non provocare orticarie purulente in un establishment
obamiano votato alla riconquista di quel cortile di casa che i due
Bush avevano in grande misura perso, costi quello che costi, anche
con un ritorno ai fasti cileni e argentini celebrati da Kissinger su
un tappeto rosso liquido: sangue latinoamericano.
Con due colpi di Stato fascisti meticolosamente preparati alla luce
della lunga tradizione imperialista, da Mossadeq ad Allende e a
Zelaya, ma sventati in poche ore da masse venezuelane ed ecuadoriane
rese coscienti dal loro nuovo destino di soggetti della politica e
della storia, e con un solo golpe riuscito in Honduras, grazie al
controllo delle masse incazzate da parte di dirigenti "non violenti"
votati al negoziato con il boia, è ovvio che i revanscisti Usa non
hanno messo tutte le loro uova nel paniere di militari e poliziotti
addestrati al golpismo e al killeraggio dalla Scuole delle Americhe.
Obama, che si è trovato in mano le patate bollenti di due guerre,
Iraq e Afghanistan-Pakistan, irresolvibili e sempre più laceranti
sul piano dell'immagine e dei costi economici, pur senza rinunciare
allo strumento forza, anzi estendendolo in forma di terrorismo
militare ad altri scacchieri come Yemen e Somalia, per l'America
latina ha ritirato dalla naftalina vecchie forme britanniche di
demolizione di popoli e nazioni. Dividere, frantumare quando non si
può annichilire. E con il debito Usa a livelli himalaiani, il costo
dello spostamento di ricchezza a Wall Street e al Pentagono pagato
da milioni di disoccupati, senzacasa e senzasalute, quattro quinti
del mondo inferociti contro il moloch USraeliano, meglio fondare la
controffensiva imperialista anche sull'altra gamba, quella della
destabilizzazione e lacerazione della coesione sociale, facendo leva
su infiltrati, manipolatori, burattini e anche su identità e
bisogni, veri o indotti, insoddisfatti. Vedi il Tibet e il Myanmar
dei monaci, l'Iran dell'"onda verde" e di Neda Soltan (logorata,
quella, da verità emerse, si sono inventati Sakineh che con l'amante
ha ammazzato il marito e che mai è stata condannata alla
lapidazione, pratica scomparsa dai tempi dello Shah!).
In Bolivia, dopo la vittoria di Evo Morales, poi consolidata alla
grande dalle politiche sociali, dalla riduzione a termini
accettabili delle multinazionali e dalla cacciata dalla DEA, custode
del business Usa della droga (grazie anche a noti emissari nostrani
come Arlacchi e Costa, distratti, a dire poco, gestori Onu di quella
strategia), ho ascoltato i Bossi e Calderoli di Santa Cruz e degli
Stati che facevano la ricchezza e il dominio dell'oligarchia,
illustrarmi i loro piani secessionisti, istruiti dalla Cia e da
neofascisti italiani e facenti leva anche su comunità indigene
arretrate e intossicate da menzogne e promesse. Altre realtà
indigene, nel nord stavolta, contrastavano il governo in nome di
un'autonomia indigena, pur sotto Morales in corso d'opera, ma che da
quelle parti si prefigurava come sopraffazione della questione di
classe con motivazioni etniche, in vista dichiarata di una rottura
degli stati-nazione esistenti e di una ricomposizione dell'unità
indigena addirittura di dimensioni inca. Fenomeni analoghi si
verificavano curiosamente in altri paesi dell'ALBA con forti
presenze indigene, Venezela, Nicaragua, Honduras e, appunto Ecuador
(mentre di tutt'altro segno è la rivolta degli indigeni contro il
regime semidittatoriale e filo-Usa del Perù, o delle grandi
organizzazioni honduregne raccolte nell'organizzazione dei Lenca,
Copinh, in lotta contro golpisti, loro successori e imperialismo
yankee).
Questi indigeni
Quando lo intervistai, l'allora presidente della CONAIE, federazione
delle comunità indigene, Luis Macas, non fece affatto velo alle sue
intenzioni di unificare i popoli ex-inca di Bolivia, Ecuador, Perù e
Colombia, come precedenza assoluta rispetto ad altre questioni, di
rilievo sociale o geopolitico. E di nuovo oggi, il partito
ecuadoriano dei nativi in parlamento, Pachakutik, ha sostenuto i
poliziotti golpisti, mentre la CONAIE si è spaccata, con per fortuna
una maggioranza accorsa con altre moltitudini a manifestare contro
il golpe e ad assediare caserma di polizia e parlamento. In tal modo
a preparare il terreno delle forze speciali che, a colpi di
mitraglia (tre morti, 70 feriti), hanno strappato Correa alle
grinfie dei golpisti. L'immane folla che ha poi salutato il
presidente riapparso sul balcone del parlamento annoverava una forte
componente indigena. Esemplare dell'attrito tra Correa e parte degli
indigeni, la loro rivendicazione di affidare l'acqua padanamente
alle rispettive comunità, nel momento in cui il governo aveva
pubblicizzato le acque del paese inserendole in un unico ente
pubblico, in grado di sopperire a zone carenti di risorse idriche
con il contributo di quelle ricche.
L'ambiguità delle organizzazioni delle comunità native si era
affacciata una prima volta nel sostegno all"indio" Lucio Guiterrez,
che poi aveva venduto il paese agli Usa con tutti gli indigeni
dentro, e nella successiva imbarazzata loro assenza dal moto di
popolo che aveva cacciato questo guitto di stampo berlusconiano.
Racconto questo anche in risposta a certi "indigenisti" nostrani
che, magari dimenticando orrori storici come quelli, sì subiti dai
conquistatori, ma anche inflitti dagli imperi che ne furono
cancellati, praticano la filosofia del "buon selvaggio", appena
corretta dalla giusta considerazione per il suo protagonismo
ecologico. Un paternalismo riveduto all'insegna dei valori indigeni
assoluti, presentati come preminenti su multinazionalità e unità di
classe. Per fortuna questi innamoramenti, acritici come lo è sempre
quella psicopatologia (ricordiamoci l'infatuazione per Marcos, poi
scomparso dalla scena), sono ampiamente sovrastati da una davvero
impressionante rinascita indigena che corre per tutto il continente,
dai Mapuche cileno-argentini ai Lenca del Honduras, ai Triqui del
Messico e che lavora in unità e sintonia con tutte le realtà
antimperialiste, rivoluzionarie, progressiste, qualunque sia la
forza impiegata. Con il valore aggiunto di una coscienza umana e
biologica, forse ignota ai lontani antenati, ma maturata in cinque
secoli di stragi, emarginazione, autodifesa, salvaguardia ecologica,
conoscenza del nemico. Ci vogliono due mani per elencare gli
incidenti, solo negli ultimi cinque anni, di velivoli delle
compagnie legate alla Cia precipitati nei paesi centroamericani o
nei Caraibi e scoperti zeppi di cocaina. Basta il fiuto del bassotto
Nando per scoprire che la mattanza di migranti ai due lati delle
frontiere con Guatemala e Usa non impedisce per niente il transito
del prodotto droga e del suo corredo di capitali (si ragiona su un
trilione all'anno) e neanche il confortevole usbergo dei grandi boss
nei Cinquestelle di El Paso, o la libera vendita di armi da guerra e
corredo da sicario negli spacci di quella città dal lato buono della
frontiera. Basta un passaggio per i tribunali di Dallas per capire
quanto volentieri i boss catturati in Messico amino farsi estradare
negli Usa: pluriassassini, sadici stupratori, trafficanti di donne,
torturatori acclarati, spacciatori di tonnellate di morte ai giovani
statunitensi, che passano dai vent'anni comminati da qualche
residuale giudice onesto in Messico, ai due anni, o giù di lì,
grazie al "Sogno americano".</
Ecuador, Perù, Colombia, Centroamerica e Caraibi, Messico: e per
queste terre che deve correrere il narcodotto - parallelo a oleo-e
gasdotti e agli armidotti - che alimenta il consumo della maggiore
piazza del mondo, gli Usa, i relativi profitti destinati alle banche
e ai ceti, più o meno criminali, sostenitori della cupola
economico-militare, con in sovrappiù il pretesto della "Guerra al
Narcotraffico" funzionale, come le parallele "guerre al terrorismo",
all'espansione imperialista e alla decimazione di classe interna. Un
percorso che, nell'altro emisfero, va dall'Afghanistan-Pakistan
all'Iraq e al centro asiatico, ai Balcani (il Kosovo l'hanno
inventato apposta), all'Europa. Munifici condotti che, in
sincronismo con armi, petrolio, agrobusiness, puntellano la
bancarotta finanziaria Usa e depredano il mondo lungo le linee di
controllo Usa-Ue. Con i golpisti in Honduras e Calderon in
Messico, si è saldata la rotta degli stupefacenti, si è consolidata
e rafforzata la presenza militare Usa in funzione "antidroga", si è
riusciti a criminalizzare e quindi a rendere ricattabili o
obbedienti le classi dirigenti. Il golpe in Ecuador doveva creare il
terminale sud del percorso, ai piedi di un Perù che sta minacciando
il primato colombiano della produzione, e in vista della
perfettamente riuscita costituzione del terminale nord messicano.
Insegnando a Calderon il "Metodo elettorale Bush-Karzai-Maliki", i
maestri gringos erano riusciti a spostare un milione di voti e la
vittoria dal "sinistro" Lopez Obrador al destrissimo capo del PAN (Partido
Accion Nacional) Felipe Calderon, oggi conclamato padrino del più
grosso cartello di narcotrafficanti del paese, Sinaloa. Quattro anni
di Calderon, dopo i sei solo di poco meno catastrofici e
delinquenziali di Vicente Fox, hanno significato il crollo nella
miseria di oltre metà dei messicani, il dilagare dei cartelli e
delle bande di sicari, la corruzione universale, la repressione
delle lotte sociali, il 47% di disoccupati, 7 milioni di giovani
senza istruzione e senza lavoro, ambiti dal narcotraffico, 30mila
morti dal giorno dell'insediamento dicembre 2006, 600 donne
ammazzate solo a Ciudad Juarez. Ma di questo vi parlerò
prossimamente nel dettaglio. Ebbene, a Correa e al popolo
dell'Ecuador è riuscito di evitare lo stesso destino. Teniamo alta
la guardia: i gringos ci riproveranno.
La becera arte della provocazione
Per chiudere non si dovrebbe tralasciare di ricordare - e lo farò,
con altri, all'infinito - cosa si trova nel nido dell'imperialismo,
da quale uovo è sgusciato l'avvoltoio. Per fare all'America Latina
e, prima, all'Iraq, all'Afghanistan, e via via a tutto il mondo,
quello che gli Usa e i loro famigli europei hanno fatto e vanno
facendo, occorreva solo una grande, una formidabile idea. Quasi
quasi pari all'invenzione di dio. Un'idea trasudante tanto sangue e
tanta morte da far ammutolire, paralizzare, robotizzarsi, l'intera
società umana (ma ci sono solo riusciti con noi, i cittadini della
"Comunità internazionale", il 7% dell'umanità, quella con le tv):
gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, Osama Bin Laden,
gli islamici tutti terroristi, Londra, Madrid, Casablanca, Amman,
Bali, fino ai farlocchi sugli aerei cui avevano riempito le scarpe o
le mutande di polvere da mortaretti. E fino, giù giù, a Maurizio
Belpietro, salvato da un'eroica scorta dal tentato assassinio di uno
proveniente dalle file -scommettiamo? - degli islamici, o degli
anarcoinsurrezionalisti dai legami con la Fiom.
Quando le patacche sono vernacolari
Già, Belpietro, sorridente e soddisfatto nella bambagia di un coro
universale (attenzione: unanimità vuol dire "destra") di inorridita
e indignata solidarietà. Belpietro tranquillo e sereno in casa sua,
a meditare per la prossima edizione di "Libero" sulle palle di
veleno da sparare nei coglioni al primo antiberlusconiano tra i
piedi. E fuori, nella tromba delle scale, la mortale minaccia che
incombe sull'ignara preda: il giornalista onesto, trasparente e
libero, impegnato a battere (è il termine) il marciapiedi delle
virtù civili e professionali. Ma la scorta, oh quanto opportuna!,
veglia sulla vittima predestinata. Impedisce il sacrilegio e il
sacrificio. Uno di loro, tutto solo sulle scale, "sente un clic e
spara a"...boh. Spara tre volte, ma da iperaddestrato cecchino delle
forze speciali, manca tre volte il bersaglio. Che svanisce nella
notte. Forse ancora stupefatto che uno sconosciuto gli abbia sparato
sulle scale, mentre andava a trovare un amico. Sempre che questo
spettro abbia corpo. Il caposcorta lo ha visto solo lui, gli è
bastato un "clic" per sparare addosso a una persona che da esperto
tiratore non ha beccato, che gli è sfuggita sotto al naso, che non
ha potuto uscire dal portone perchè vigilato, che avrebbe dovuto
saltare dal 4° piano e poi superare un alto muro fiancheggiato da
una siepe che risulta...neanche sfiorata. Miracoli di un gorilla
venuto alla notorietà per un presunto attentato al giudice
D'Ambrosio, mai esistito e, quindi, promosso e investito della
protezione del combattente per la libertà Belpietro. Un film che
avrebbe fatto sganasciare dalle risate il tristissimo Buster Keaton.
Ma l'arte della provocazione pataccara funzona. Non tanto per il
pataccaro, quanto per l'imperturbabile dabbenaggine di chi gli
crede, o comunque gli va appresso.
Insomma, nel tripudio dei solidaristi, non riesce a farsi largo
neanche il più misurato dei dubbi. Proprio come quando occludono lo
sguardo se si tratta di sprofondarlo nelle voragini della storiella
dell'11/9 e seguenti. Oppure su una storiaccina che fa acqua da
tutte le parti, compresa la logica del cui prodest, da non
trascurare dove i cattivi e i carnefici hanno imparato a farsi
passare per buoni e per vittime, specialmente quando hanno commesso
qualche nefandezza, o si trovano in penuria di consenso. Il
capostipite moderno è Israele. Ma anche Berlusconi, con quella
statuetta del duomo, da buon apprendista stregone, ha imparato. E
anche Maurizio Belpietro. Tramutato da pitbull, addestrato a
terminare nemici, in pecorella sacrificale. I creduloni - e gli
opportunisti - lastricano la strada alle puttanate. Sodomizzati e
contenti.
Tranquilli. Aspettiamoci di peggio. I minchioni dell'anti-complottismo
gli lastricano la strada. Troveranno una cacca del topo di casa
Belpietro a casa vostra, o a casa mia.